Il dramma della povertà continua a colpire nella più totale indifferenza. Le cronache, di tanto in tanto, raccontano storie di miseria e di solitudine. Perdere il lavoro, la casa, gli affetti. Trovarsi soli, spaesati. Diventando, non di rado, protagonisti di due scarne righe in cronaca perché la solitudine può uccidere e uccide. Uno dei temi delle nostre società più preoccupanti è il crescere delle solitudini che sono spesso figlie di ingiustizie e drammi sociali. Storie come quella di Eleanor Rigby ,protagonista dell’omonima canzone dei Beatles, pubblicata nell’agosto del 1966 nell’album “Revolver”. Il testo scritto da Paul McCartney comincia con una richiesta: “Look at all the lonely people” (“Guarda tutte le persone sole“), dove la solitudine è intesa come una condizione esistenziale. Eleanor Rigby “vive in un sogno“, aspettando alla finestra che qualcuno arrivi a salvarla ( e non verrà). Ed è solo anche padre McKenzie, il parroco che “scrive le parole di un sermone che nessuno ascolterà” nella stessa chiesa frequentata da Eleanor: rimangono soli pur essendo vicini, pur avendo bisogno dell’affetto reciproco. L’epilogo è tragico: Eleanor Rigby muore in quella chiesa, e avrà un funerale “al quale nessuno verrà”. Le ultime parole della canzone sottolineano che “nessuno fu salvato“, aggiungendo una nota decisamente pessimistica. Questa canzone, che chissà quanti di noi hanno ascoltato e fischiettato, è una delle più “sociali” dei quattro ragazzi di Liverpool. E quel nome – Eleanor Rigby – non è frutto della fantasia di McCartney: nel cimitero della chiesa di St. Peter, nella zona di Woolton (Liverpool), esiste la tomba della famiglia Rigby ed Eleanor (nata nel 1895 e morta nel 1939) lavorava come lavapiatti e donna delle pulizie nella cucina del City Hospital di Parkhill. Chissà se, da oggi in poi, la vita di questa donna che ispirò una delle più popolari canzoni dei Beatles, aiuterà a prestare ascolto al dramma della solitudine.
Marco Travaglini
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