Guttuso e la bella società

Di Enzo Biffi Gentili

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Alla Galleria d’Arte Moderna di Torino è programmata dal 23 febbraio al 24 giugno 2018 un’importante antologica dedicata a Renato Guttuso. Si tratta di un evento obbiettivamente rilevante, anche perché a partire dalla sua morte la sua opera è stata sempre meno considerata della critica e del mercato dell’arte. Sul tema di questa svalutazione del pittore rosso di Bagheria era intervenuta alla fine dell’anno scorso Alessandra Mammì (Perché abbiamo dimenticato Renato Guttuso, uomo simbolo dell’arte comunista, in “L’Espresso”, 22 dicembre 2017), preannunciando la mostra della GAM, e citando tra virgolette una dichiarazione d’intenti del suo curatore, Pier Giovanni Castagnoli, secondo cui l’esposizione torinese “nella ricorrenza della Rivoluzione d’Ottobre”, che ebbe come si sa il suo climax nell’ottobre 1917, “vuole riconsiderare il rapporto fra politica e cultura attraverso l’esperienza politica di Guttuso e le sue opere civili dagli anni Trenta ai Funerali di Togliatti del 1972”. Senonché il titolo della mostra ora è divenuto Renato Guttuso. L’arte rivoluzionaria nel cinquantenario del ’68. Non è evidentemente la stessa cosa: possiamo capire che siamo nel 2018, e quindi i conti di un anniversario tornano meglio, ma ci sembra che considerare la pittura di Guttuso, come del resto la politica e la cultura del PCI di cui fu un gran bonzo, strettamente connessa al 68, sia una forzatura. Certo, qualche quadro fu dal nostro dedicato al maggio francese, anche perché almeno agli inizi i comunisti vedevano nel movimento degli studenti un’opportunità di messa in crisi del capitalismo occidentale. Ma il 1968 fu anche l’anno della Primavera di Praga, della quale Guttuso non sembrò accorgersi molto.

 

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E pure nel 1972, nel celebre quadro Funerali di Togliatti, come ha notato Paolo Mieli l’anno passato in un suo racconto-lezione tenuto a Spoleto in occasione della ricorrenza della Rivoluzione comunista, sono raffigurati “Lenin, Stalin, Dolores Ibarruri” ma non “Trotzky, Krusciov, Mao, Fidel Castro, Che Guevara, Solgenitsin, Dubcek”. Guttuso fu quindi perfetto esponente della sostanziale ambiguità dei comunisti italiani nei confronti dell’URSS , e della strumentalità nei riguardi del 1968, non subito completamente avvertita da quel movimento studentesco (ma da quelli successivi per fortuna sì, e basti pensare alla “cacciata di Lama” dall’Università di Roma nel 1977). Insomma, più che al libertario 68, vien da associare Guttuso, soprattutto alla fine del suo percorso, tra prelati ed eredi e amanti e Andreotti, a certa bella società, chiamiamola così, italiana e romana. E sulla qualità della sua figura e della sua pittura occorrerebbe anche rammentare ai visitatori torinesi le fulminanti battute di due suoi colleghi davvero liberi: Marino Mazzacurati definì sarcasticamente un primo periodo della pittura del nostro come una “picassata alla siciliana”; mentre Bruno Munari -lui sì artista e designer di altissimo valore internazionale- scrisse di un suo “grandissimo quadro di protesta sociale dove si vedono miserabili contadini massacrati a pedate dai capitalisti (quadro carissimo acquistabile solo da capitalisti per il salotto della villa a Varese)”.

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