Quasi una landa beckettiana, certo un’integrazione con tutte le sue ferite

Ad aprire l’ultima stagione pensata e preparata da Mario Martone per la sempre maggior gloria dello Stabile torinese – poi, dal primo gennaio prossimo, si metterà a tavolino Valerio Binasco, che nel maggio scorso ci aveva promesso un bel “ci divertiremo!”: stiamo a vedere – provvede domani sera nella sala sfavillosa del Carignano (questa sera l’anteprima) Disgraced, ripensato qui con il titolo Dis-crimini, un testo (“necessario” lo definisce qualcuno) quanto mai attuale che sta sopravanzando ogni altra truppa teatrale, grande successo negli States, con all’attivo già in scena o in piena preparazione circa 25 edizioni in lunga tedesca, oltre a quella di casa nostra una messinscena di Jacopo Gassmann per il genovese Teatro della Tosse, forse un qualcosa di meno altisonante, pure lei con il suo bel debutto domani sera e con un augurabile interscambio possibile con l’amico/nemico che sta a nemmeno due ore di macchina, per quelle incomprensibili leggi teatrali che rarissimamente e felicemente capitano sui palcoscenici italiani, cui noi non siamo davvero abituati. Una “lotta” che ha in sé un più che ben augurante confronto. L’autore è un già premiatissimo scrittore di teatro pachistano/statunitense, è nato nel ’70 oltre oceano e dopo la laurea se ne è venuto in Toscana a lavorare con Grotowski, già da molti considerato il più grande nome della scrittura teatrale di oggi, di nome fa Ayad Akhtar, per noi sconosciuto del tutto ma già carico di un Pulitzer nel 2013, di un Obie Award per la Drammaturgia nello stesso anno e l’anno precedente di un Joseph Jefferson Award per il miglior nuovo testo. Il regista è Martin Kušej, austriaco, innamorato della cultura italiana, grande frequentatore di teatri d’opera, abituato ad approfondire Mamet come Albee, Ibsen come Goethe, oggi direttore del Residenztheater di Monaco di Baviera e, passando attraverso una sua versione del Don Carlos di Schiller, pronto ad approdare nella stagione 2019/2020 all’incarico di direttore presso il prestigioso Burgtheater viennese, un punto fermo delle stagioni europee, “tecnici e budget da far impallidire qualsiasi altro teatro”, sottolinea con un pizzico d’invidia Filippo Fonsatti, direttore dello Stabile di Torino, che è più che abituato a far di conto.

Il nome di Kušej non è nuovo da noi, a lui dobbiamo quell’edizione delle Lacrime amare di Petra von Kant che ancora Fonsatti definisce come “lo spettacolo più bello passato da noi negli ultimi dieci anni”, decisamente diretto verso un teatro molto materico, capace di stravolgere e di sconvolgere, nemico di ogni naturalismo. Qui non avrete a sbranarsi quattro personaggi ben definiti (“ ho voluto anche asciugare quei riferimenti che ricollegassero il testo ai riferimenti della upperclass newyorkese”), nel salotto bene di chi ha fatto un invito per una cena, ma quattro individui, molto universalizzati, quasi simboli, pronti ad agire in quello che è divenuto un ring (vedremo qualcosa che s’avvicina parecchio al Carnage cinematografico di Polanski?), una grande quanto immacolata cornice che a poco a poco si mescola e si sporca con un nero tappeto di carbone. Non è più un angolo di mondo, bensì uno “spazio mentale”. Il tutto per dar vita alla battaglia che coinvolge Amir, un avvocato finanziario cresciuto in terra americana ma di origini pakistane, la moglie Emily, pittrice di successo, i loro amici (?) Isaac che è un noto curatore d’arte e Jory: un incontro che è un’amichevole conversazione pronta a scivolare in un’attualità distruttiva, nelle questioni più aspre che coinvolgono il dibattito politico e religioso. Testo necessario, si diceva, lo specchio su di una integrazione che si dava per assodata ma che al contrario si troverà a mettere a nudo tutti i propri lati scoperti e le sue ferite. Testo che potrebbe apparire come un classico testo di conversazione, capace a sviluppare una situazione esistenziale, quasi fosse una landa sconfinata in cui incontrare le parole scarne e i silenzi di Beckett. Gli attori parlano con le nuove parole di Monica Capuani, la drammaturgia è di Milena Massalongo.

Ad impersonare i ruoli principali (con accanto il giovanissimo Elia Tapognani, “un testo fondamentale per il lavoro d’attore, ogni cosa non è mai stata lasciata in superficie, ma estremamente approfondita: ti pare di essere davanti a una partitura musicale”, dice con il tono di chi s’avvicina al mostro sacro per la prima volta) Paolo Pierobon e Fausto Russo Alessi, entrambi di scuola ronconiana (“è stata una passeggiata di salute, con un regista come Martin non si può barare, il suo sguardo ti restituisce autenticità al 100 per 100: tutto si chiarisce e s’approfondisce, luci ombre rapporti sotterranei, dà vita ad un viaggio appassionante”, dice il primo; e l’altro chiosa con un termine inatteso, “destabilizzante”), Anna Della Rosa e Astrid Meloni, in conferenza stampa nerovestita, chiusa nella bellezza del suo collo modiglianesco. A dire tutto il discorso che questa partitura saprà sviluppare, salta fuori in ultimo la notizia che la messinscena torinese sarà ospite a fine stagione del Residenztheater: e Fonsatti allunga il passo, facendo intendere a Kušej future, probabili collaborazioni.

 

Elio Rabbione

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