FOCUS di Filippo Re
Nonostante si avvicini la fine del “Califfato” in Siria e in Iraq, il Daesh, con o senza Al Baghdadi, forse ucciso in un raid aereo russo attorno alla città siriana di Raqqa, continua a seminare terrore e morte in altre parti dell’Asia, dall’Iran all’Afghanistan. Il duplice attacco al Parlamento e al Mausoleo di Khomeini fa crescere il livello dello scontro tra Iran e Arabia Saudita per l’egemonia nel Golfo. Sono sotto choc gli iraniani colpiti a casa loro da una cellula terroristica locale, originaria del Baluchistan e affiliata all’Isis. Pensavano che l’Iran fosse l’unico Paese sicuro in quella regione del mondo sempre più esplosiva e invece la mattina del 7 giugno hanno conosciuto la dura realtà del terrorismo all’attacco di alcuni dei luoghi simboli del potere iraniano, il Parlamento e il mausoleo dove è sepolto l’Ayatollah Khomeini, il padre fondatore della Repubblica islamica dell’Iran.
Erano tornati di recente dalla Siria dove avevano combattuto per il Califfato i cinque terroristi iraniani che hanno gettato nel caos e nel terrore la capitale iraniana uccidendo 17 persone e ferendone una cinquantina. Non era mai accaduto a Teheran. Negli anni scorsi americani e israeliani volevano addirittura colpire l’Iran con i loro bombardieri per mettere fuori causa gli impianti nucleari ma non se ne fece nulla. Ora ci ha pensato l’Isis con appena cinque attentatori perchè mancava Teheran nell’elenco delle città prese di mira dai jihadisti. Dopo ripetute minacce i miliziani di Al Baghdadi sono passati all’azione per colpire il cuore del mondo sciita e persiano. L’Iran è ritenuto il nemico numero uno dei gruppi estremisti sunniti, da combattere senza tregua. Per l’ideologia salafita jihadista il culto delle tombe di imam e capi religiosi è considerato un rito pagano da distruggere con qualsiasi mezzo. In Libia, Siria e Iraq monumenti funebri e santuari sciiti e sufi sono stati rasi al suolo. Ma per il regime iraniano dietro l’assalto al centro del potere c’è la mano degli americani e dei sauditi che dopo aver rotto i rapporti diplomatici con il Qatar perchè sostiene il terrorismo ed è troppo vicino agli ayatollah, rivoluzionano le alleanze nel Golfo e puntano a destabilizzare la massima potenza sciita. Gli attentati a Teheran giungono in un momento di grande tensione nella regione cresciuta dopo il viaggio del presidente Trump a Riad dove accusò l’Iran di essere la base del terrorismo nel mondo. Secondo alcuni analisti una guerra frontale tra l’Iran e l’Arabia Saudita, che già si combattono per procura, con l’appoggio di eserciti locali e milizie fedeli, in Siria, Iraq e nello Yemen è oggi molto più vicina. Lo scontro tra sciiti e sunniti e gli attriti all’interno dell’islam sunnita (wahhabiti sauditi e Fratelli musulmani qatarini) può produrre conseguenze nefaste in tutta l’area. Dall’Intifada in Europa alla conquista dell’Asia: è una guerra a tutto campo, sanguinosa sul terreno e martellante sul web, quella lanciata dal Califfo, dall’ Iraq alla Siria, dalla Libia allo Yemen, dal Golfo all’Iran.
La propaganda dello “Stato islamico” si è fatta più intensa e da alcuni mesi contagia anche l’Iran lanciando appelli alla minoranza sunnita con messaggi in lingua farsi, pubblicati sul magazine del Califfato “Rumiya”, esortandola a insorgere contro il dominio sciita. Già a marzo in un video l’Isis dichiarava di voler “conquistare l’Iran e ripristinare la nazione musulmana sunnita che c’era prima”. L’incendio si allarga ora alla nazione persiana con l’obiettivo strategico di indebolire e spezzare l’asse sciita che unisce Teheran a Baghdad e Damasco a Beirut. È la prima volta che il sedicente Califfato riesce a colpire la capitale iraniana con un attacco clamoroso e senza precedenti. Vi sono stati spesso scontri armati con formazioni jihadiste al confine con l’Iraq e l’Afghanistan ma senza mai arrivare nelle città. Teheran si scopre improvvisamente più vulnerabile. Sembrava impossibile per chiunque avvicinarsi così tanto ai punti nevralgici delle istituzioni facendo tremare i palazzi del potere politico e i simboli religiosi. Dov’erano i temuti Guardiani della Rivoluzione, i pasdaran che sorvegliano ogni movimento dei cittadini, i Basij (le milizie del popolo) e gli apparati che guidano la repressione? Tutti scavalcati da un manipolo di attentatori che si fanno beffe della sicurezza interna con invidiabili capacità tecniche e organizzative raggiungendo l’obiettivo di colpire gli odiati sciiti dentro le loro mura. Un attacco ai centri politici e simbolici della Repubblica islamica in perfetto stile militare e con le tecniche del terrore che ricorda quelle degli attentati compiuti in Europa dai gruppi jihadisti. Certamente qualcosa di molto più grave di un “problema di poco conto” come lo ha definito Ali Larijani, presidente del Majlis, il Parlamento iraniano. Un evento eccezionale che potrebbe avere serie ripercussioni in tutta la regione e nello stesso Iran. Sono le prime crepe che affiorano in un sistema impenetrabile da quasi 40 anni? Scricchiola la rigida impalcatura militare e teocratica del regno degli ayatollah? Si è trattato certamente di un attacco pianificato da settimane e forse da mesi e che ha potuto contare probabilmente sul sostegno di minoranze sunnite attive in alcune province meridionali del Paese.
C’è da chiedersi se l’attacco del 7 giugno non sia anche il segnale che un certo entusiasmo controrivoluzionario, incoraggiato dall’esterno, cominci a serpeggiare in seno alla società iraniana dove sono presenti movimenti sciiti e sunniti che osteggiano e combattono il governo. Tra questi spiccano i Mojaheddin-e Khalq (i Combattenti del popolo), la più importante formazione dell’opposizione armata iraniana, accusati dal regime di numerosi attentati e di aver assassinato, dagli anni Ottanta in avanti, leader politici e religiosi, tra cui stretti collaboratori di Khomeini e alti ufficiali delle Forze Armate. I sunniti iraniani (il 5-10% della popolazione) vivono soprattutto nelle zone curde e nel Balucistan. Nel mirino delle forze di sicurezza ci sono anche i curdi che lottano per l’autonomia della loro regione, il gruppo terroristico sunnita dei Jundullah (i soldati di Dio) nella provincia sud-orientale del Baluchistan, autore di diversi attentati, e la minoranza araba ribelle nel Khuzestan a sud-ovest, al confine con l’Iraq. Gli attentati a Teheran avvengono dopo settimane in cui la campagna anti-iraniana degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita è salita di tono e ha investito anche il piccolo Qatar sunnita che ha stretti legami economici e commerciali con l’Iran compreso lo sfruttamento comune di vasti giacimenti sottomarini di gas scoperti nel Golfo. Ma proprio la vicinanza del Qatar agli ayatollah iraniani, nonostante l’odio religioso che li divide, e il sostegno finanziario fornito dall’emiro Al Thani ai Fratelli Musulmani e ad altri gruppi jihadisti ha portato all’improvvisa rottura dei rapporti diplomatici tra l’Arabia, appoggiata dalle monarchie del Golfo e dall’Egitto, e il Qatar che ospita, ad Al Udeid, una delle più grandi basi militari americane in Medio Oriente con oltre 10.000 soldati e un centinaio di cacciabombardieri. La strategia di Trump è quella di sostenere e difendere la visione saudita della regione con l’obiettivo di isolare il Qatar, rivale di Riad, per l’egemonia nel Golfo Persico. La crisi che spacca il Consiglio di Cooperazione dei Paesi arabi del Golfo e l’isolamento del Qatar, che punta già a nuove intese con Cina e Russia, rimescolano le alleanze nella regione: l’Iran offre a Doha il proprio spazio aereo e marittimo, invia aiuti alimentari a bordo di navi e velivoli da trasporto con tonnellate di merci mentre la Turchia prepara l’invio di truppe nell’emirato “sotto assedio” in base a un accordo di mutua difesa. A questo punto la presenza militare degli Stati Uniti nell’Emirato diventa fonte di preoccupazione per la stessa diplomazia statunitense.
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Dal settimanale “La Voce e il Tempo”
Filippo Re
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