“Me lo ricordo, il Meo. Veniva da Carpugnino in bicicletta e portava a tracolla una sacca di tela in cui teneva gli attrezzi da lavoro e il materiale: aghi e filo per il rammendo, manici e stecche di ricambio, puntali di legno. Urlava a squarciagola “Umbrelàt, umbrelàt!”, annunciando il suo arrivo nei paesi attorno al Mottarone”
“Ricordi quando girava per le strade l’umbrelàt? Eh, altri tempi! Ora gli ombrellai sono spariti. Non servono più; sono diventati inutili. A parte il Bortola, quello di Domo dove talvolta si serve il Faustino, non ne conosco altri. Chi vuoi che faccia riparare l’ombrello,oggi? Basta un sfriis, un piccolo segno nel telo o una bacchetta storta e l’ombrello va dritto nella spazzatura, sostituito con uno nuovo”. Dino Denti, mi parla e scuote la testa. “ Un tempo, che ti piacesse o no, eri costretto a risparmiare. Si stava attenti alla roba e, quando l’ombrello si rompeva, si aspettava il passaggio dell’ombrellaio. Me lo ricordo, il Meo. Veniva da Carpugnino in bicicletta e portava a tracolla una sacca di tela in cui teneva gli attrezzi da lavoro e il materiale: aghi e filo per il rammendo, manici e stecche di ricambio, puntali di legno. Urlava a squarciagola “Umbrelàt, umbrelàt!”, annunciando il suo arrivo nei paesi attorno al Mottarone”. Mi sembra di capire che stasera, qui all’osteria, c’è aria di ricordi. Infatti, zittitosi Dino ecco partire in quarta l’Evaristo. “Io rammento quando girava per le vie e i cortili il magnan, lo stagnino. Ero piccolo e quando tornavo a casa sporco dopo un pomeriggio di giochi alla Madonna del Popolo mia madre mi gridava “Vunciòn d’un vunciòn, ti s’è cunscià ‘mé ‘l Belgio, négar cumpàgn d’un magnan”. In effetti ero nero come poteva esserlo solo uno stagnino che aveva a che fare tutto il giorno con paioli di rame, pentole di ferro, tegami d’alluminio”.
L’arrivo del magnano non passava inosservato. Gridava forte, annunciandosi, il Mario Colombo tradendo, con la sua inconfondibile pronuncia, le origini lombarde: “Tosann, gh’è chi el magnan ch’el gh’ha voeuja de laurà” (“Ragazze, c’è qui lo stagnino che ha voglia di lavorare”). “E del cadrigàt, del riparatore di sedie, non diciamo niente?”, interviene Bartolo, accompagnando le parole con una gran manata sul tavolo. “ Quando una cadréga si rovinava non c’era che lui in grado di risistemarla, soprattutto quelle impagliate.Era uno delle Quarne, testardo e risoluto come tutti i montanari. Viaggiava anche lui in bici, con un sacco che conteneva martello, seghetto, trapano e pialla. Si sedeva sui gradini e, con la paglia della segale, intrecciava sedili quando non doveva piallare gambe e rinforzare schienali”. Mansueto conferma che ormai c’è una gara in corso a chi ricorda i mestieri di un tempo. “L’Ubaldo di Coiromonte, chi di voi l’ha più visto? Dev’essere morto e sepolto perché quand’ero ragazzo era già in là con gli anni. Vendeva ai mercati o davanti al sagrato delle chiese i filoni di castagne cotte al forno, copiando la moda della bassa. Girava tutto gobbo, piegato in due, con tutte quelle collane di castagne che portava a tracolla od appese in spalla”. “Mio nonno vendeva al giaz, il ghiaccio”.
La voce è quella del Martino Piana ma non riesco a vederlo. Ah, eccolo: è talmente mingherlino che la botte vuota dove Maria affigge i suoi menù lo nascondeva alla vista. “ Sì, perché negli anni trenta non c’erano in giro i frigoriferi elettrici e per tenere al fresco gli alimenti si usavano i giazaròl, le ghiacciaie, dei mobiletti di legno le cui pareti interne erano rivestite da un’intercapedine di sughero e zinco. Si aprivano dall’alto con uno sportello e vi si infilava il blocco di ghiaccio per creare il fresco. Mio nonno, Gustavo Piana, viaggiava con un carrettino su cui c’erano dei pani di ghiaccio lunghi quasi un metro e di circa venti centimetri di lato. Ognuno ne acquistava la quantità che gli serviva e le signore ricche lo usavamo anche per fare le granite. A volte, proprio loro, facevano storie per pagare ma mio nonno, deciso a farsi valere, diceva che “gnànca ‘l can al fa nà la cùa par nuta” ( neanche il cane dimena la coda per niente) e non mollava l’osso finché non riceveva il giusto compenso. E che sudate nel su e giù per i paesi di montagna!”.
Questi mestieri sono del tutto scomparsi e , poco o tanto, la stessa traccia che hanno lasciato nella memoria di chi li ha potuti conoscere si affievolisce. Tempo qualche anno e chi si rammenterà più che, nei mercati, c’erano i venditori d’acciughe salate, aringhe affumicate (le saracche che davano profumo alla polenta dei più poveri) e il tonno sott’olio. Chi si ricorderà quei barili aperti con questi pesci accomodati a raggiera, in bella vista? E i lattai ambulanti che arrivavano fin dalle prime ore del mattino dalla valle Strona o dai paesi del Mottarone e della valle dell’Agogna, con la brenta del latte fresco in spalla? Per attirare l’attenzione urlavano “Lac’! Lac’! Lac’ pèna mungiù!” (Latte! Latte! Latte appena munto!). C’era chi vendeva il castagnaccio e chi le mele, chi i frutti di bosco e chi i funghi. Uno dei pochissimi che resistono ancora sono i venditori di caldarroste. Pochi ma ne sono ancora in giro. Anche loro hanno dovuto stare al passo con i tempi. Le caldarroste erano vendute in fogli di giornale a forma di imbuto. Ora se non usano il sacchettino con la scritta “per alimenti” finiscono per prendersi multa e denuncia. Forse è il momento, dico io, di farci su una bella bevuta prima che la nostalgia ci faccia venire un groppo alla gola. Intanto, guardando fuori dalla finestra a fianco del bancone della mescita, la luce di una bella luna – tonda e gialla come una polenta – attenua il buio e fa dolce la sera.
Marco Travaglini
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