Erano gli anni ’80, gli anni in cui tutto era lecito. Gli anni in cui il crimine passava spesso inosservato. Era una vita piena: c’era chi sguazzava nell’agio degli anni d’oro, chi tirava a campare arrangiandosi con quel che poteva. Ma erano anche gli anni in cui il boom delle droghe cominciava a mietere vittime. Tutto aveva il suo posto negli anni Ottanta. Ma nessuno, né negli anni ’80 né in qualsiasi altra epoca, meriterebbe che il suo posto sia a terra, mangiato dai i vermi, qualsiasi scelta di vita abbia mai attuato. Nove prostitute, nove donne uccise brutalmente. Un unico colpevole: Giancarlo Giudice. In libertà da otto anni. Classe 1952 e una storia di abbandono alle spalle. Spesso l’infanzia infelice, marchiata da una serie di traumi, è il background che accumuna gli adulti che decidono di uccidere. Non che questo li giustifichi, ma è giusto precisare che si diventa sempre ciò che ci hanno insegnato o privato di essere. Il piccolo Giancarlo Giudice fu spedito in collegio in tenera età, seppe della morte di sua madre solo dopo che i funerali ebbero atto. Aveva 13 anni e dopo aver ricevuto questa brutta notizia, in modo quasi naturale, decise di uccidersi. Il tentativo di suicidio, però, fallì. Il padre, alcolista, già assente per tutta l’infanzia, lo abbandonò nuovamente trasferendosi in Calabria con una nuova compagna, con la quale si sposò solo dopo due anni dalla morte della moglie.
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Giancarlo era rimasto solo. Lo era sempre stato in realtà. Abbandonato in più occasioni. Abbandonato dalla madre, la prima volta quando lo spedì in collegio, la seconda quando “decise” di morire. Abbandonato dal padre, che continuava a vivere la sua vita fregandosene dei bisogni del figlio. È con questi sentimenti negativi che logorano dall’interno che il nostro futuro serial killer comincia la sua vita da adulto. Una vita fatta di microcriminalità e di eccessi. Lui che ama le droghe e, non a caso quelle eccitanti, come cocaina e allucinogeni. Lui che ama la velocità, ama correre senza freni. Come ogni assassino seriale, Giancarlo è un narcisista. Il narcisista innalza il proprio ego, idealizza se stesso, nel tentativo di nascondere i sentimenti di vergogna che riserva dentro di sé. Una patologia che si sposa bene con l’atto di uccidere, di prendere la vita dell’altro. Perché il narcisista nasconde un grande vuoto e il modo migliore per colmarlo e “prendere”, “possedere” qualcosa che viene dall’esterno. È tutto un gioco di proiezioni e identificazioni. Io mi sento marcio, vuoto, proietto all’esterno questo mio malessere e quindi sarà l’altro a diventare marcio e vuoto. Ma allo stesso tempo ho bisogno di colmarlo quel vuoto, quindi decido di appropriarmi di ciò che credo possa essere in grado di farlo e mentre me ne approprio, per giustificare il mio gesto, lo accuso di essere malvagio, meritevole di qualsiasi azione io decida di compiere. Così funziona la psiche di un narcisista patologico. Ora cerchiamo di capire, nello specifico, come ha funzionato quella di Giancarlo. Il nostro assassino faceva il camionista. Tante ore da solo, lungo strade più o meno conosciute. I suoi compagni di viaggio erano le sue droghe.
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I colleghi dicevano di lui che fosse uno stacanovista, ma non erano a conoscenza dell’uso smodato di cocaina che assumeva e che gli permetteva di non sentire la stanchezza. Era un uomo ossessionato dal sesso. Nel suo appartamento, quello che poi si scoprì essere luogo di alcuni dei suoi omicidi, furono ritrovate migliaia di riviste porno. Il degrado in cui riversava la casa, aggiunse ulteriore squallore alla sua figura. Era un uomo ossessionato dal sesso o dall’amore? Non lo conosceva l’amore lui, non era mai stato amato, né da una mamma né da un padre. I suoi impulsi, la sua rabbia incontrollabile erano dettati dalla mancanza, nella sua vita, di persone in grado di accettarlo e amarlo. Il sesso diventava un atto necessario, un atto da cui dipendere, assieme alle altre cose, perché la scarica sessuale gli permetteva di riequilibrare la tensione interiore. Non a caso il giorno che fu arrestato, fu trovato in macchina a compiere atti autoerotici e solo quando la polizia si avvinò per dirgli di smetterla, si accorse che il sedile al fianco del guidatore era colmo di sangue fresco. Vi erano anche due pistole e un asciugamano intriso di sangue, il sangue di quella che fu la sua ultima vittima: Maria Rosa Paoli. Dirà delle sue vittime che le ha uccise perché gli ricordavano la sua matrigna, donna che odiava. Le vittime erano tutte prostitute sulla quarantina. Donne oggettivamente poco attraenti, trasandate. Altra frase detta da lui stesso “erano vecchie, grasse e poco curate”. È probabile che quest’associazione inconscia lo abbia spinto ad uccidere, ma è anche probabile che esse rappresentino il rancore verso sua madre e l’odio che provava nei suoi confronti per averlo abbandonato, ma che era “molto più accettabile” per la sua labile psiche affermare che questi gesti così brutali erano compiuti a causa di una matrigna non benvoluta.
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È comune che gli assassini seriali scelgano, per le loro uccisioni, persone ai margini della società. Questo per evitare di essere scoperti in quanto è più difficile che una persona che vive nell’ombra, nei sobborghi di una città in cui ci si chiude gli occhi e tappa la bocca, venga cercata dalla polizia. Che poi, la paura di essere scoperti in realtà lotta sempre con la voglia di esserlo. Perché solo così possono raccontare la loro storia. Solo così possono essere ascoltati. Un pubblico che resti attonito, un pubblico terrorizzato che non può far a meno di distogliere l’attenzione dai loro racconti. È questo l’applauso che bramano. Inoltre il rapporto con una donna che di mestiere fa la prostituta è spesso marchiato da un pregiudizio che anche le menti non patologiche si portano dietro. Una donna che sceglie di vendersi non merita rispetto. Questo pregiudizio inserito nella mente delirante di un uomo freddo, psicopatico, che non conosce sentimenti e che non è in grado di provarne, rende lecito qualsiasi comportamento. Nove vittime. La prima Anna Pecoraro, il cui riconoscimento è avvenuto solo grazie all’arresto dell’uomo che parlando di lei alla polizia disse “Risulta scomparsa, ma non siete mai riusciti a identificarla perché vi ho fatto trovare il cadavere completamente sfigurato. Doveva essere tolta di torno, portava “un volgare reggiseno a fiori”, per farla rantolare bastava stringerla con le sue stesse calze di nailon. Ho forzato le portiere di una macchina con il tagliaunghie e ho portato il cadavere in un campo. Lì ho deciso di bruciarlo. Un po’ di benzina e poi il fuoco”. Era il 1983 quando cominciò. E il 25 agosto 1986, per puro caso, fu catturato. Tre anni in cui sei donne sono state strangolate, due freddate con colpi di arma da fuoco, una sgozzata. Giancarlo Giudice fu condannato all’ergastolo in primo grado e ritenuto totalmente capace di intendere e volere.
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La pena fu poi ridotta a trenta anni e venne rivista la sua eventuale infermità conferendogli, in aggiunta alla pena, altri tre anni da passare in un ospedale psichiatrico giudiziario che abbandonò definitivamente nel 2008. Da allora Giancarlo è libero e vige di un regime di protezione che ne permette di mantenere preservata la privacy. Il titolo di quest’articolo lancia un quesito: si può smettere di uccidere? Ora che Giancarlo è di nuovo in libertà potrà nuovamente commettere questi reati? La risposta a questa domanda non è facile. È certamente più corretto rispondere di si, perché con le giuste cure, il giusto percorso terapeutico e l’accettazione dei propri limiti e dei desideri più ombrosi, il riuscire a vivere il senso di colpa e trasformarlo in forza per risollevarsi e intraprendere strade di vita più sane, anche chi si è macchiato dei delitti più atroci può salvarsi. Si può smettere di uccidere solo quando si avrà capito che quel vuoto che c’è nell’animo non potrà mai colmarsi, ma lo si accetta e lo si elabora. Che un narcisista smetta di esserlo questo è un po’ più difficile. E che gli anni di galera, seppur tanti, possano portare giovamento alle vittime, resta, però, sempre impossibile.
Teresa De Magistris
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