Pena di morte, il caso Arabia Saudita

FOCUS  / di Filippo Re

Nonostante il record di esecuzioni l’Arabia Saudita è al vertice del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Come prescritto dalla sharia (la legge religiosa) la pena di morte in Arabia Saudita è prevista per vari reati tra i quali, omicidio, stupro, rapina a mano armata, traffico di droga, stregoneria, sodomia, omosessualità, sabotaggio, gioco d’azzardo, ateismo, apostasia e adulterio. Benvenuti in Arabia Saudita, tra i primi tre Paesi al mondo che applicano la pena di morte, dove giustiziare le persone è una prassi quotidiana. E tutto questo è un elenco incompleto dei reati per i quali nel regno wahhabita si possono subire 1000 frustate, affrontare 20 anni di prigione o essere decapitati in piazza. Secondo l’interpretazione wahhabita, in Arabia Saudita, la legge coranica viene applicata in modo severo e rigoroso, unico Paese islamico a considerare il Corano come una sorta di Costituzione. Il venerdì, dopo la preghiera di mezzogiorno, cominciano a saltare le teste. Davanti a un folto pubblico eccitato ed entusiasta si procede al taglio della mano per i ladri, la decapitazione per gli assassini e la lapidazione per gli adulteri. Più di 150 persone sono state giustiziate nel 2016 in Arabia Saudita, secondo Amnesty International, e 158 condanne a morte erano state eseguite nel 2015, il numero più alto negli ultimi due decenni.

Si tratta in gran parte di teste mozzate davanti alla gente, “alla mongola” si potrebbe dire e nonostante quel che accade nel Paese arabico, l’ambasciatore saudita Faisal bin Hassan Trad, presiede il comitato consultivo del Consiglio per i diritti umani dell’Onu. Con stupore e turbamento, ma tocca proprio a Riad vigilare sul rispetto dei diritti umani nel mondo. Una decisione che è stata molto criticata a livello internazionale, anche perchè è giunta dopo la sentenza di condanna a morte del ventenne Ali Mohammed Al Nimr, arrestato a 17 anni per aver partecipato a una manifestazione contro l’offensiva militare saudita nello Yemen che provoca migliaia di vittime civili. Condannato alla decapitazione e successiva crocifissione fino alla putrefazione del cadavere. Il soggiorno in Arabia Saudita continua. Il caso di Ali ha scosso l’opinione pubblica nel mondo mentre le organizzazioni umanitarie per i diritti umani hanno chiesto l’annullamento della condanna e si sono appellate alle grandi potenze affinchè intervengano sul regime di Riad. Un’altra vicenda che ha fatto il giro del pianeta è quella di Raif Badawi, blogger saudita accusato di apostasia per i suoi articoli sul rapporto tra religione e politica nel Paese.

Le pubblicazioni, divulgate su internet, gli hanno causato una condanna a 10 anni di reclusione e 1000 frustate. La cosa peggiore è proprio il crimine religioso come l’apostasia e l’ateismo. Circa il 7% della popolazione saudita non è di religione islamica e la professione del Cristianesimo è vietata nel regno così come è vietato tenere in casa la Bibbia, crocifissi e le immagini dei santini. Cristiani e credenti di altre religioni possono pregare solo chiusi in casa. Per far osservare la legge è stata creata la polizia religiosa, un corpo di polizia speciale attivo giorno e notte. La scimitarra segue come un’ombra i cittadini sauditi. Anche l’omosessualità è severamente punita in Arabia Saudita e si rischia la decapitazione come per la stregoneria e le arti magiche. Per l’adulterio la legge saudita opta invece per la lapidazione. Sono migliaia gli uomini e le donne provenienti dalla Sri Lanka che lavorano in Arabia Saudita come domestici o autisti. É recente il caso di una domestica dello Sri Lanka assunta in una famiglia di Riad. La donna, 45 anni, sposata, è stata arrestata per adulterio e condannata alla lapidazione. Secondo i giudici sauditi, la donna, madre di due figli, avrebbe confessato la sua colpa. Avrebbe avuto una relazione con un uomo non sposato il quale è stato condannato a una pena più lieve, 100 frustate. Autorità governative e leader religiosi hanno chiesto al governo saudita di sospendere la sentenza di morte. Negli anni scorsi un’altra donna srilankese era stata condannata a morte sulla base della sua confessione estorta con la minaccia e senza il sostegno di un interprete. L’esecuzione fu attuata nel 2013 dopo cinque anni di battaglie legali e appelli alla clemenza.

Filippo Re

(dalla rivista “Il Dialogo – al Hiwar” del Centro Federico Peirone)

 

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