Mario Martone e la giustizia nella Napoli di oggi

Chissà se Eduardo avrebbe immaginato ad aprire le immagini del suo “sindaco” la voce di un rapper, cui noi pubblico di oggi ci affidiamo nel suono ma non nella completa comprensione (e chissà come si sarebbe comportato nel ’60 il pubblico romano del Quirino di fronte alla “chiusura” di un simile linguaggio). Chissà se avrebbe immaginato il suo Antonio Barracano, colui che amministra le vicende del rione, che distingue tra “gente per bene e gente carogna”, che sa comprendere quelli che tengono “santi in paradiso e chi non li ha”, dai suoi dati anagrafici che denunciano d’aver passato ormai la settantina con abbondanza, dai modi signorili, da quella sua aria

patriarcale, dalla voce e dai modi lenti e pacati – che solo di recente, un paio di stagioni fa più o meno, ha nuovamente rivelato Eros Pagni – passato nelle vesti di un aitante uomo che ancora non ha raggiunto i quaranta, in ottima forma fisica, che trova il tempo per mostrarsi a far ginnastica, che ha abbandonato il vecchio abito gessato per delle mise certo più attuali, che ha modernizzato nel plexiglas l’arredamento di casa sua con quel tanto di kitch che Gomorra e le cronache televisive, scavando nei bunker, oggi ci mostrano. Anche quel mondo affidato alla camorra più crudele e sbrigativa è cambiato, tutto è fast si direbbe oggi, anche la sala operatoria che viene allestita sul tavolo della sala da pranzo, tra stilizzate ed emblematiche porte di ferro che chiudono e proteggono, ancor prima che il boss si risvegli al mattino, ancor prima che la rissa abbia luogo con tanto di proiettile nel vicolo accanto. Quando si dice la routine. E sono fatti che dobbiamo vedere, non ci farà né caldo freddo, ci hanno ormai abituati. Ad ogni ora del giorno. E Mario Martone, in questo modernissimo, concreto, ben saldo (macché intervallo abituale, tutto corre velocemente verso la rovina, due ore filate di rappresentazione) “Sindaco di rione Sanità” prodotto dallo Stabile torinese con il NEST Napoli Est Teatro e Elledieffe, in scena al Gobetti sino a domenica, ce li mostra questi atti di sangue, anche la coltellata che deciderà dell’esistenza di don Antonio, che s’è fatto mediatore tra un povero ragazzo iroso che ha deciso di dover far fuori il padre, fornaio arricchito. Ha visto negli occhi del ragazzo la sua stessa determinazione ad uccidere che lui aveva in gioventù: ma sarà la fine e sembrerà davvero un’”ultima cena” quella che occuperà il finale del dramma.

Con la crudezza e la violenza quotidiana che si porta dentro, private di quella cifra “romanzata” che Eduardo poteva avervi immerso all’interno, “Il sindaco” di Martone che “affascina” per quanto possa affascinare il male, ti prende, merito del ritmo ossessivo di una regia serrata, intelligente e materialmente bella, della verità con cui la compagnia costruisce i maggiori come anche i piccoli personaggi, dei tanti oggetti che circolano cosicché anche tutto quel denaro invisibile tirato fuori dal cassetto con tanto di cigolio ti sembra più vero del vero. Si respira, mentre la si respinge, tutta la modernità delle azioni che passano tra le mani di don Antonio, cruente, abituate a svolgere il proprio lavoro come se si fosse in un ufficio (la figlia più piccola non ha ha ancora l’età per il lavoro sporco, per adesso s’accontenta di archiviare e scartabellare i fascicoli delle differenti “imprese”, insostituibile segretaria), alle prese con il suo esercito di “ignoranti”, si rende tutto anche più tragico forzando quella lingua addolcita dall’autore per farla scivolare in una scrittura chiusa, difficile, a tratti intraducibile. Gli attori stanno nella prima linea del successo della serata, tutti quanti, a cominciare dal protagonista Francesco Di Leva, sfrontato, efficace, paterno, Massimiliano Gallo asserragliato nella propria roccaforte di padre che ha tagliato definitivamente i ponti con la prole, personaggio forte e duro, Giovanni Ludeno, il “consigliori” che da sempre vive in quella casa in un misto di deferenza e rivolta, contrario a quella “piaga” che stazione nell’anticamera nell’attesa di ottenere (una) giustizia. Il primo Eduardo per Martone, una scommessa stravinta.

 

Elio Rabbione

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