Di Alessia Savoini
Ogni ruolo ha una divisa e strumenti propri, un grembiule per non potersi macchiare, nero se il sapere devi assorbire, provocante per sedurre, di blu per proteggere, ma mimetico se non vuoi morire. Giubbotto anti-proiettile, un insieme di torce, a zittire il timore di andarsene, a passi lenti nel buio, ove talvolta l’unica luce è il bianco bagliore della cieca paura dopo un’esplosione. Non ci si può permettere il lusso di, ogni cosa esistente ha il valore della necessità in sua assenza, strumenti speciali filtrano l’acqua fino al 99% e una pozzanghera diventa fonte di vita.
La luce soffusa placa l’animo dall’euforia del dover fare, all’esterno di quelle mura, e ogni scatto assorbe una parte di te, che lo osservi. Si copriva il capo con una giacca nera mentre gli occhi scrutavano l’invisibile ricordo di qualcuno che non ti vuole. Sguardo vigile, che nuota fuori dalle orbite per non annegare nella paura. E dopo la fuga il ritorno, come un boomerang l’angoscia esplode all’indietro, in rabbia, e acceca due occhi che hanno visto quello che c’era da vedere. Da perseguitato a persecutore. Mi hanno insegnato a rispondere con la compassione a un torto subìto, perché “occhio per occhio e il mondo diventa cieco”. Qualche passo e sembra ora di accedere a quell’istante di esalazione, di un uomo su un letto di ospedale, ritratto nella medesima posa di colui che sacrificò sé stesso per il popolo, in croce. Nessuna allusione religiosa, quanto piuttosto un messaggio storico intrinseco alla rappresentazione: la sacralità. Morire “in nome di”. E cosa c’è di più sacro dell’esistenza stessa? Cosa accadrebbe a quel bambino che impugna un fucile costruito con canne di bamboo se incrociasse lo sguardo di sé stesso il giorno in cui quel fucile avrà un proiettile in meno, dopo aver sparato? Quei ragazzi sono tutti accomunati dagli stessi occhi spenti e taciti, come se la consapevolezza di aver privato qualcuno della propria vita fosse emersa, ma senza comprendere il perché dell’errore, il perché sia sbagliato, pur avvertendolo forse in petto. Un’incomprensibile disillusione, che non ha sistemi valoriali solidi se non che il dolore sia giustificato e giustificabile.
Ogni parte di mondo ha il suo modo di attaccare e di difendere, di subìre, accettare e concepire la sofferenza, di interpretare l’altro. Ci viene insegnato che la seduzione è un’arma. E quella stessa arma che con provocazione e bramosia attrae a sé lo scopo, uccide quelle donne in fuga, costrette a nascondere interamente il corpo e occultarsi dietro a un velo che nemmeno fa scorgere gli occhi, per timore di essere riconosciute, perseguitate, violentate e massacrate. Qualcosa che va oltre il proprio credo.
Ci si nasconde, un foro nel muro è lo sguardo sul campo di battaglia, mimesi per celarsi all’antitesi, non importa chi e non importa come, a qualcuno verrà sottratta la propria sacralità. Così, camminando sulle rovine storiche sottostanti a Palazzo Madama, come se nulla possa realmente essere distrutto dal tempo e dalla materia, cornici suddivise per autrice offrono un suggestivo scenario bellico, catturando in sintetici e intensi scatti la sofferenza, il prodotto di un’intenzione, la muta rassegnazione dei passi sulle ceneri della propria casa distrutta dai bombardamenti, l’amore per quello che è la propria storia, di chi ancora dorme la notte tra quel che rimane del proprio alloggio, la fede e inevitabilmente “quel che viene dopo”.
***
L’intervista: Andreja Restek
Da cosa nasce l’idea o la necessità di intraprendere questo percorso (di vita e lavorativo)?
Ognuno di noi ha il proprio background. Io arrivo dalla guerra dei Balcani e una cosa che spesso mi suscita rabbia è sentirne parlare da chi nemmeno sa dove siano collocati. Il mestiere del giornalista è un peso enorme, i bambini sono educati dai genitori, dagli insegnanti e dagli educatori del popolo, che sono i giornalisti e tu hai una responsabilità davvero grande. Quindi forse un po’ di rabbia dentro, perché certe notizie dovevano essere riportate come io credevo che dovessero essere riportate.
Esiste un fattore comune tra tutte le autrici della mostra? La scelta di dare voce a sole fotoreporter donne è significativo?
Siamo tante e tanto diverse tra noi. Io penso che questa mostra, più che una differenza tra uomini e donne, metta in luce differenze più che altro culturali, perché noi proveniamo da tanti paesi diversi ed è ciò che traspare nelle immagini, quasi tutte abbiamo due/tre cittadinanze. E poi la sensibilità personale, ci sono uomini più sensibili di altri e donne più sensibili di altre, ma questa scelta è per far sapere che ci siamo anche noi.
Tutte siamo state in diversi fronti, molte di noi anche sugli stessi. Quando ho lanciato questo richiamo in rete hanno risposto loro, si sono mostrate costanti e inoltre un minimo di curriculum era necessario. In particolare mi interessava riunire donne che coprissero più stati possibili.
Cosa determina la durata di permanenza in un posto?
Io mi stabilisco un budget, terminato il quale devo tornare. Noi tutte siamo freelance.
Oltre a catturare scatti, ti è capitato di intervenire e avere un contatto diretto, fisico con quelle persone?
Sì… I ragazzi in prima linea erano tutti minorenni, l’anno prima studiavano, avevano libri, erano sui banchi di scuola, e l’anno dopo hanno preso il fucile in mano e adesso combattono. Io li fotografavo mentre combattevano e, prima di intraprendere la battaglia, si sistemavano davanti a uno specchio e si mettevano il gel nei capelli, allora chiesi “ vi fate belli?” e loro “eh certo, è possibile che moriremo e noi vogliamo morire belli”… E quando un ragazzino di 14-15 anni ti dice così, ti colpisce molto. Finito il combattimento, mi invitarono in stanza dove loro pregano, mangiano, dormono, vivono e mi chiesero “ci facciamo una partita di scacchi?”. Allora ci siamo seduti, abbiamo giocato una partita e ci siamo salutati. Questa è la loro vita, io ero una distrazione, non so adesso se siano ancora vivi o… Capisci, è terribile.
Morte: accettazione o tabù? C’è consapevolezza della morte? Com’è generalmente vissuta dai soldati e dai civili in guerra?
Sono consapevoli che moriranno davvero. Mi raccontava una dottoressa: ‘il primo mese hai tanta paura, ma poi svanisce, arrivi a un certo punto in cui speri che non sarai tu il prossimo. Non piangi più i cari, lì è quotidianità, è una cosa normale che tutti abbiano perso marito, figli, parenti… L’unica cosa che rimane è la speranza di non essere il prossimo, ma non ci sono più pianti’. Persone con cui hai parlato fino a due minuti prima o con cui hai avuto un rapporto e all’improvviso sono morte. Io sulla mia agenda ho almeno 20 persone morte. E’ una cosa pesante, il giorno prima sei là e poi scopri attraverso un messaggio o video di terroristi che hanno preso persone con cui hai condiviso qualcosa e le hanno uccise, capita che ti mandino una foto di qualcuno di loro morto.
Camille Lepage è una collega, autrice di alcune foto qui alla mostra, che è stata uccisa nella repubblica africana due anni fa, aveva 26 anni. Il nostro lavoro è pericoloso e purtroppo nella nostra mansione si muore. E cosa capita? Che diventi famoso se non ci sei più e questo è sbagliato. Le mie foto devono piacere o non piacere adesso, questa è la nostra società, ti sparano e “ah, diventi famoso”.
Scatto e rispetto. Ci sono state situazioni in cui hai rinunciato a uno scatto per rispetto della persona?
Sì, talvolta preferisco perdere qualche scatto, fermarmi, perché il rispetto è la parola d’ordine.
In una dimensione in cui il rischio è la componente principale, c’è stata una situazione in cui tale fattore sarebbe stato determinante “se non…”?
Volevo andare a visitare delle prigioni; il mio fixer andò a prendere un giornalista americano e al loro ritorno saremmo partiti. Non sono tornati. Arrivò subito la voce che li avevano rapiti. Per tre giorni rimasi in quel posto, aspettando indicazioni e, il quarto giorno, giunse un messaggio di una persona, che io chiamo angelo custode,“scappa hanno la tua foto e ti stanno cercando”. Di solito un giornalista dispone di una guardia del corpo, in quella situazione me ne hanno date tre. Abbiamo impiegato tre ore di macchina per un tragitto di un’ora, pieno di posti di blocco di bandiere nere, dopo di che siamo riusciti ad arrivare alla barriera turca. Poi ho saputo che nel pomeriggio erano nel luogo dove mi trovavo fino a qualche ora prima, per cercarmi.
E non ci sono posti sicuri, a ogni incrocio stradale ci sono i cecchini pronti a far partire il colpo e i soldati sparano attraversando. Tu per attraversare corri e si corre in due, perché in tal modo si ha il 50% di possibilità che uno dei due si salvi.
Devi essere molto preparato, conoscere la storia del paese, la geopolitica. Se tu non sai con chi parli, ti metti a rischio.
Quali contatti occorre avere sul territorio di guerra per assicurarsi un minimo di tutela?
Contatti molto affidabili, infatti è per questo che tra noi ci aiutiamo per averne, ma non c’è mai una vera certezza e sicurezza. Dove non c’è più neanche l’erba da mangiare, tu sei una merce preziosa. Ti prendono e ti vendono a 5000 dollari a quel gruppo che poi ha il potere di trattare con il governo. Questo è l’iter dei gruppi terroristici e speri di non finire mai nelle mani dell’Isis, lì allora sei finito.
Dove dormi in quelle zone di guerra dove ogni secondo potrebbe essere l’ultimo?
Si dorme nei palazzi bombardati, vestiti e con i documenti addosso, perché quando ci sono i bombardamenti e una bomba cade dove ci sei tu, se ti trovano sanno chi sei, puoi essere riconosciuto, o se invece cade nelle vicinanze hai tempo di scappare senza perdere tempo a cercare i documenti. Queste sono regole base di guerra.
A te è capitato di dover scappare per un bombardamento troppo vicino?
A me di scappare non è capitato, perché era a 200m da dove mi trovavo e lì non scappi neanche, perché se sei conscio di dove sei, sai dove sei. E non era lì vicino, così vicino da dover scappare.
Alla mostra è esibita una sequenza di scatti di donne completamente nascoste da teli e vesti, perfino lo sguardo non è lasciato trasparire. È stato facile avvicinarsi a loro e chiedere di prestarsi per un’immagine che non sarebbe stata fine a se stessa?
Sono donne siriane fuggite dal Libano, hanno subito di tutto e di più, vittime di violenza, per cui occorre tanto tempo per conquistare la loro fiducia. Tutto il contesto è importante, di una foto mi piace ad esempio il particolare del pacchetto di sigarette sul tavolo, perché la loro vita sta riprendendo un po’ una normalità, piccole cose che parlano di tutti i giorni.
Ci sono scatti di persone che sono state uccise e lasciate per strada, mentre sullo sfondo la vita, intesa nella normalità del suo contesto, prosegue. Qual è il messaggio?
Questa è la vita di qualcuno. E purtroppo se ci pensi niente è così lontano, poiché al mondo d’oggi tutto è molto vicino: ogni azione fatta influisce su di noi, viviamo nell’epoca della globalizzazione. Noi pensiamo sempre che accade agli altri, ma non è vero. Secondo me dobbiamo proteggere di più la democrazia, la pace e non dare niente per scontato. Io arrivo dalla guerra dei Balcani e vedo come abbiamo dato tutto troppo per scontato. C’è un grosso problema qui in Italia, paese che io amo tanto. Abbiamo fatto una prima mondiale con questa mostra, tutti hanno scritto su di noi, gli italiani si devono vantare delle bellezze, devono amare di più questa bellezza che hanno.
Ognuno di noi può dare qualcosa.
Qualcosa si è mosso con queste fotografie che, oltre a riportare fatti, li denunciano?
Sì, ad esempio questa donna ritratta in un momento del processo per stupro in Congo, da parte dei soldati. Con la sua udienza in tribunale, in dieci giorni sono emersi migliaia di stupri e grazie a lei il mondo ha parlato di questo. È l’inizio di qualcosa di molto importante.
Grazie Andreja per avermi dato l’opportunità di conoscerti,
di avermi fatto indossare uno sguardo diverso dalla normalità cui sono abituata,
di questo costante e indefinibile rimbalzo di emozioni,
per la presenza e per la gioia di vivere.
Alessia Savoini
Leggi qui le ultime notizie: IL TORINESE