L’arte africana alla Casa Museo del Conte Verde di Rivoli

Bruno Albertino, con Anna Alberghina collezionista e studioso di arte africana, ci parla di questo mondo misterioso e affascinante

 

Come già scriveva un secolo fa (nel 1915) lo storico dell’arte Carl Einstein, ancora oggi è valida l’osservazione secondo cui “a nessuna arte l’uomo europeo s’accosta con altrettanta diffidenza come all’arte africana. La sua prima reazione è di negare che si tratti d’arte.

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Tale distanza e i pregiudizi che ne derivano rendono difficile ogni giudizio estetico, anzi lo rendono impossibile, in quanto un tale giudizio presuppone in primo luogo un processo di avvicinamento”. E’ proprio grazie al collezionismo se, soprattutto in questi ultimi decenni, a partire dalle antiche sculture, si sono creati degli oggetti rivestiti di un nuovo significato. Una strada, quello del collezionismo appunto, provato e autentico, portatore di profonda quanto significativa conoscenza, percorsa sino a oggi da Bruno Albertino e Anna Alberghina, medici entrambi e viaggiatori, genuinamente appassionati, legato lui in principale modo alla scultura dell’antico continente, alla ricerca lei, attraverso il mezzo fotografico, di fissare ambienti e volti, costumi e tradizioni che siano in grado di consolidare una cultura che per   molti versi non già si stia spegnendo ma vada poco a poco perdendo quella genuinità che dovrebbe essere al contrario la propria maggiore essenza e intimità. Conoscenza e passione che ancora una volta, tra viaggi e volumi editi, tra esposizioni e conferenze, li portano a proporre, da domani 19 novembre fino al 29 gennaio nelle sale della Casa Museo del Conte Verde a Rivoli, con il patrocinio e l’organizzazione della città e dell’Associazione Culturale “Arte per voi”, l’offerta dei loro più preziosi “reperti” nella mostra che ha per titolo “Africa, dove vive lo spirito dell’arte”.

afri-2Dottor Albertino, come è nata in voi la passione che ha portato allo sviluppo della vostra importante collezione di sculture africane?

Con mia moglie Anna, da circa trent’anni compio viaggi attraverso l’Africa, andando dall’Angola al Sudan alla Costa d’Avorio, dal Mozambico alla Nabibia al Ghana, dal Mali al Burkina Faso al Togo. Se spostiamo per un attimo l’attenzione dal solo continente africano, credo che abbiamo toccato complessivamente una sessantina di paesi nel mondo. Una delle nostre prime acquisizioni avvenne proprio in Mali, sulla falesia di Bandiagara, suggestiva roccia sedimentaria che si estende da sud verso nordest per circa 200 km e che termina con il picco dell’Hombori Tondo, il più alto del paese. Proprio lì abbiamo trovato una piccola statuetta Dogon, che conserviamo con affetto.

La statuetta Dogon ha segnato l’inizio ma non soltanto i viaggi vi hanno permesso di raccogliere questo prezioso materiale.

Diciamo che il 30% della collezione è il frutto delle acquisizioni fatte sul terreno da collezionisti e mercanti africani o europei abitanti in Africa, con cui abbiamo costruito un rapporto di rispetto e collaborazione, il restante lo abbiamo ritrovato in altre collezioni europee, come in aste o gallerie d’arte in Italia, Francia, Belgio e Stati Uniti. Ne è nata una raccolta di oggetti d’uso, terrecotte, maschere, figure, bronzi, oggetti dal grande senso plastico riconducibili al vasto panorama di tutto quanto ha incuriosito i primi viaggiatori e esploratori e poi influenzato artisti e avanguardie artistiche del primo Novecento. Potremmo parlare del Cubismo o del Fauvismo, potremmo citare, per il grande interesse all’Art nègre, Matisse, Emil Nolde, André Derain e ancora Picasso che venne folgorato dall’arte dei Grebo e dei Mahongwe vista al Trocadero di Parigi. Una collezione eclettica la nostra, sia per tipologia (essenzialmente maschere, statue e oggetti d’uso) delle sculture che per riferimento territoriale, per cui andiamo dall’Africa sub-sahariana a quella occidentale e centro-equatoriale.

Qual è il significato intrinseco di un oggetto d’arte africana?

Gli artisti del primo Novecento si limitarono ad una analisi plastica delle sculture, traendone grande ispirazione. Tuttavia, è necessario ricordare che, nell’oggetto africano, la funzione è essenziale, è la ragione prima del suo esistere. Si tratta di oggetti, maschere e feticci, figure di maternità e di afri-bimboantenati, carichi di potenza soprannaturale, strumenti di culto, simulacri del divino in grado di proteggere chi li possiede da influssi maligni, in grado di assicurare l’ordine sociale e la giustizia. Addentrandoci con gli anni nella ricerca, abbiamo sempre cercato di approfondire la storia dell’oggetto, sia per quanto riguarda il suo significato rituale che il suo percorso. In Africa non esiste l’arte per l’arte, la pura componente estetica, vi è una stretta, forte connessione tra forma, funzione pragmatica degli oggetti, uso rituale, politico e sociale, è ben viva quella componente magico-religiosa dentro la quale l’artista è il semplice esecutore votato all’anonimato e non certo il creatore da ricordare e celebrare.

Che cosa è cambiato, in questi ultimi anni, nel continente africano per quanto riguarda la realtà artistica che voi più seguite?

I nostri studi, i viaggi che compiamo, gli scambi che da sempre sviluppiamo con altri appassionati e studiosi ci dicono la necessità di testimoniare di un’Africa che lentamente si dilegua, travolta dal vortice della globalizzazione, dall’economia di mercato, dalle religioni importate e dal neocolonialismo economico. Abbiamo visto negli anni affievolirsi lo spirito vitale dei popoli, il nyama che animava riti e tradizioni ancestrali. Nella cultura e nella vita di quei popoli in troppo rapida trasformazione vi sono ferite sempre più aperte. Le maschere d’Africa rappresentano il cuore pulsante del continente, sono spiriti che parlano e che evocano la forza interiore degli antenati. Maschere, volti, sculture che parlano per raccontarci l’esistenza di uomini e donne nella quotidianaafri-asie fatica di vivere.

Oltre all’oggetto, potrebbe essere definita la figura dell’artista africano?

Come dicevamo, l’artista africano è per lo più anonimo se non in rare eccezioni. La storia è tramandata oralmente, con notizie spesso incerte e frammentarie, che l’epoca coloniale non ha certo contribuito a tramandare. Ma in quelle rare eccezioni trovano posto grandi maestri, capolavori che primeggiano su opere poco più che artigianali. Solo negli ultimi anni sono stati approfonditi gli studi sulle attribuzioni ad opera di importanti studiosi come Ezio Bassani, individuando molti grandi autori come il Maestro di Buli, il Maestro di Bouaflé, il Maestro delle capigliature a cascata e altri ancora. Inoltre si presenta il problema della datazione, che per gli oggetti in nostro possesso varia dalla fine dell’800 alla prima metà del ‘900, ad eccezione delle antiche terrecotte della cultura di Nok, stimabile in Nigeria tra il sesto e il terzo secolo avanti Cristo.

Quali sono le sensazioni, i sentimenti che riportate dai vostri viaggi?

Ci colpiscono di volta in volta, ad ogni singola occasione, le esperienze vissute sul campo, la difesa delle tradizioni, il piacere di aggiungere una tappa in più, imbatterci in percorsi sino a quel momento non ancora affrontati; senza dimenticare l’accoglienza che vediamo sempre migliore nei luoghi meno turistici. Negli altri, quelli sempre più percorsi da chi s’affida quasi esclusivamente alla curiosità, ti accorgi di vivere il ruolo del turista, hai un filtro storico che si forma in modo inevitabile tra noi e il nativo.

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Se lei dovesse spiegare il fascino dell’arte africana a chi visiterà la mostra, che cosa direbbe?

L’ingresso al Metropolitan Museum of Art di New York e al Pavillon des Sessions del Louvre parigino nel 2000 ha segnato la definitiva consacrazione dell’arte africana nel mondo occidentale. Direi che essa è caratterizzata da visione plastica e percezione immediata dello spazio, in particolare la maschera è l’estasi immobile del volto, una fissità che esprime una estrema e pura espressione liberata da ogni contestualizzazione e condizionamento. E’ proprio tra ricerca di adeguatezza tra trascendente e realtà concreta che prendono vita e si concretizzano le sculture africane. Si sono attribuiti valori artistici a seconda delle epoche e dei gruppi di collezionisti, dal classicismo all’astratto, dalle raffinate maschere ritratto delle popolazioni Baoulé e Dan della Costa d’Avorio alle maschere cubiste dei Sogye e a quelle straordinariamente astratte dei Tèké, rintracciabili entrambe nel Congo. Si mescolano naturalismo e astrattismo, patine di colori minerali e vegetali naturali opposte a patine lucide, volti umani abbinati a figure zoomorfe. Piani diversi di lettura e di esecuzione, soprattutto la sovrapposizione di fattori estetici e magico-religiosi, da questo nasce nel collezionista e nello studioso di ieri e di oggi la passione per l’arte e per le maschere d’Africa.

Elio Rabbione

Immagini, dall’alto:

Villaggio Gabbra, Kenia, foto di Anna Alberghina

Maschera Galoa, Gabon, coll. Albertino-Alberghina

Bimbo Karimojong, Uganda, foto di Anna Alberghina

Figura Asie Uso Baoulé, Costa d’Avorio, coll. Albertino-Alberghina

Bruno Albertino e Anna Alberghina qui nello Zimbabwe, in uno dei loro tanti viaggi

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