Pianeta Cinema a cura di Elio Rabbione
A dieci anni dall’assai più interessate e pressoché “completo” “Anche libero va bene”, Kim Rossi Stuart torna dietro la macchina da presa a tratteggiarci la silhouette (come quella freudiana della locandina) di un libertino incallito, uno che ha dei precedenti illustri e che vedresti bene tra il Lelouch dell’”Uomo che amava le donne” e il Fellini della “Città delle donne” (e altro del riminese), ma che ha il fiato troppo esile, a dispetto di una improponibile spavalderia, per potersi allineare a quegli esempi. “Tommaso” prende le fila dal film precedente, quel bambino diviso tra la figura del padre con la sua vita quotidiana tutta reale e quella della madre sfuggente s’è fatto uomo, si porta appresso i propri fantasmi, le scelte affrettate e sbagliate, costruisce alla giornata, tra inseguite relazioni sessuali e pedinamenti e occhiate, un’esistenza che non sai bene (che non sa bene, lui) se portarla più sul versante doloroso o su quello comico. Instabile, iroso, vittime delle proprie inquietudini, portato a sbraitare oltre misura – insopportabile in un paio di scene, la caduta dell’attore quando non ha alle spalle qualcuno (un altro ben diverso da lui) che lo sorregga e lo guida -, finto e piagnucoloso, sempre lontano dalla sincerità confusamente intrisa di sberleffi, sempre alla ricerca del corpo femminile o a tentare di rabberciare un rapporto con una madre spendacciona, tutto un inseguire sedute con lo psicanalista che lo vorrebbe veder rintracciare quel fanciullino che deve essere rimasto in lui, tutto un accondiscendere ad una agente che gli fa firmare contratti cinematografici perché la sua vita abbia un giusto ruolo. Perché il nostro Tommaso è anche attore e regista, che vorrebbe fare un film sui sogni, che fugge, cui non va bene niente, che preferisce rifugiarsi in campagna, tra il verde di una natura malata, deficitaria anch’essa, anch’essa con i suoi bubboni. E in tutto quel fuggire, non sa creare emozioni.
Perché Tommaso insegue e non fa altro: fa di tutto per essere lasciato da Chiara, felice di poter ritrovare una perduta libertà; intreccia una parentesi romantica con Federica ma una semplice quanto impercettibile imperfezione di un suo labbro lo spinge a cercare una via di fuga; impensabile portare avanti una relazione con Sonia, una camerierina di trattoria che cerca maniere spicce quanto piuttosto rudi negli amplessi che l’interessato vorrebbe tentare con lei. Tutto è un disastro. In una sceneggiatura disordinata e via via ripetitiva (scritta con Federico Starnone), il bel Kim, sbarbato o no per la scelta delle fan, vira in un finale che sa di appiccicaticcio e che spera di dare una botta di vita allo spettatore con lo svelamento delle ombre fanciullesche e no del protagonista, non ultimi l’imbozzolamento paterno e la fuga della madre. Il riminese corre ancora una volta in aiuto: pensate al Marcello della “Dolce vita” che uscito nel finale dalla grande villa incontra lungo la riva del mare il sorriso innocente della Ciangottini: Tommaso, oggi, a cinquantasei anni di distanza, scivola lungo una grossa apertura del terreno per ritrovarsi di fronte al mare, baciato da sette ragazzini (il desiderio di paternità avverato?) e avvicinato da una donna – che ha il viso di Ilaria Spada, la compagna di Kim nella vita reale e madre di suo figlio -: forse l’occasione per un nuovo approdo, duraturo? Non autobiografia, si affrettava a dire a Venezia il regista, ma introspezione, un voler mettersi a nudo: sia, ma almeno, come qualcuno ha fatto, i punti di contatto con Moretti o Allen lasciamoli perdere.
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