L’antifascismo di Piero Chiara e il racconto del "povero Turati”

L’Italia, alla metà degli anni ‘30, era ormai sotto la dittatura fascista e il narratore luinese, da tempo, per il suo spirito aperto e liberale, aveva fama di antifascista e , accusato di essere un “mormoratore”, subì intimidazioni e vessazioni , al punto da essere deferito alla commissione per il confinoed espulso dal Partito, cui era stato iscritto d’autorità in quanto dipendente statale, con grave pregiudizio per la sua carriera

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Piero Chiara fu un atipico antifascista. Un “liberale storico”, in campo ideologico come in quello politico, con una spiccata vena anticlericale. Nei suoi racconti, spesso ambientati negli anni del ventennio, a cavallo tra le due guerre mondiali, Chiara narra un antifascismo pigro e colto; anche in questo rappresenta un mondo a parte all’interno della letteratura italiana che, spesso, ha privilegiato l’antifascismo militante. Prima di approdare alla narrativa, diventando un maestro “della misura breve”, Chiara aveva lavorato nell’amministrazione della Giustizia , come aiutante di cancelleria, assegnato nel 1932 alla pretura di Pontebba e successivamente ad Aidùssina, al confine iugoslavo, a Cividale del Friuli e infine alla pretura di Varese. L’Italia, alla metà degli anni ‘30, era ormai sotto la dittatura fascista e il narratore luinese, da tempo, per il suo spirito aperto e liberale, aveva fama di antifascista e , accusato di essere un chiara1“mormoratore”, subì intimidazioni e vessazioni , al punto da essere deferito alla commissione per il confinoed espulso dal Partito, cui era stato iscritto d’autorità in quanto dipendente statale, con grave pregiudizio per la sua carriera. Venne infatti “congelato nel grado e nello stipendio”. Si prese però la sua rivincita il 26 luglio 1943, alla caduta del fascismo, quando staccò dai muri del tribunale di Varese i ritratti del duce e li radunò nella gabbia degli imputati, esponendoli al ludibrio. Dopo l’8 settembre a trattenerlo dall’espatrio fu il timore di lasciare soli gli anziani genitori. Così descrisse quei giorni: “ L8 settembre ha sorpreso me come tutti i varesini di allora, in una giornata bellissima di autunno. Ero seduto al caffè e vedevo arrivare degli autocarri militari: chiedevano a noi la strada per la Svizzera. Era una fuga: l’esercito italiano si stava dissolvendo. Venivano mandati a Ponte Tresa, Laveno, Gaggiolo e molti di questi militari trovarono rifugio sul monte San Martino.Mi toccò vedere da Luino le bombe che cadevano sulla vetta del San Martino e polverizzavano l’antica, millenaria chiesetta e snidavano quegli eroici soldati che si erano lasciati assediare sulla cima del monte. Una buona parte riuscì a penetrare in Svizzera: fu la prima colonna che si inoltrò nella nazione neutrale, seguiti da borghesi, in gran parte israeliti, politici, antifascisti e militari sbandati”. Qualche mese dopo, il 23 gennaio 1944, per sottrarsi a un ordine di arresto emesso tre giorni prima dal Tribunale speciale provinciale di Varese “per atti di ostilità verso il Partito Fascista Repubblicano”, è costretto ad attraversare clandestinamente il confine e cercare riparo in Svizzera. Quel giorno si presentò alle autorità di Lugano, che avviarono le pratiche per riconoscergli lo stato di rifugiato politico. Dal verbale di interrogatorio, redatto in francese, risultaronochiara2 quelle le “colpe” di cui si era macchiato. Nel verbale, infatti, Piero Chiara, dopo aver dichiarato di avere sempre nutrito sentimenti antifascisti, affermava, tra le altre cose, che dopo la caduta del fascismo si era impegnato, in quanto cancelliere, a “far sparire dal Tribunale di Giustizia di Varese tutti i ritratti di Mussolini” e di aver preso posizione contro “il giudice Michele Poddighe, membro del Tribunale fascista provinciale”. Pochi giorni dopo, grazie all’intervento del vescovo di Lugano, Chiara venne accettato come rifugiato dalla Confederazione. Ai primi di febbraio fu trasferito a Lugano e, successivamente, nel campo di Büsserach, nella Svizzera tedesca e ancora, a marzo, in quello di Tramelan, nella Svizzera francese: e fu lì che lo raggiunse la notizia della condanna, comminatagli in contumacia dal  Tribunale speciale di Varese, a 15 anni di reclusione, “per aver, in epoca successiva al 26 luglio 1943, messo il ritratto del Duce nella gabbia degli imputati del Tribunale di Varese, esponendolo alla berlina, derisione e furore popolare”. Nell’agosto del ‘44, riconosciuto colpevole di aver promosso uno sciopero dalle attività lavorative tra gli internati, venne assegnato al campo di punizione di Granges-Lens. Nel settembre, scontata la pena, passò nella casa per rifugiati di Loverciano, ma ottenuta la liberazione, nel febbraio 1945, andò a Zug, al Knaben-Institut Montana, a chiara4sostituire l’amico Giancarlo Vigorelli, come insegnante di lettere, fino alla fine dell’estate del 1945, quando fece  ritorno in Italia. Nonostante queste vicissitudini, coerentemente al suo carattere e allo stile della sua narrativa, l’avversione di Piero Chiara al fascismo e a ciò che rappresentò non si espresse mai in un’invettiva forte, diretta, quanto piuttosto in una sottile ironia , dissacratoria e con una vena persino comica. Un esempio illuminante lo si trova nel racconto Il povero Turati , uno dei ventitre racconti che compongono la raccolta “L’uovo al cianuro e altre storie”, scritti da Chiara fra il 1963 e il 1969, apparsi singolarmente in giornali o riviste e successivamente rielaborati come capitoli di un unico romanzo. Una storia in cui si narra di un’adunata nei pressi di Varese per ascoltare il discorso del gerarca AugustoTurati, segretario del Partito Nazionale Fascista in visita nel capoluogo. Una vicenda che ha inizio nel clima solenne dell’evento, con il folto pubblico assiepato lungo il pendio erboso del Monte Màrtica ( “montagna nuda e liscia come un ginocchio, all’inizio della Valganna”) e, in fondo, il palco per le autorità. Cosa accadde?  “Suonò una squilla e si fece silenzio su tutta la montagna. Era arrivato Turati. Il palco si animò e nel mezzo, isolato, con le mani appoggiate a un drappo di velluto nero, apparve il segretario del Partito. Alzò il braccio nel saluto romano e lo tenne in alto un paio di minuti. Subito scoppiarono le acclamazioni ripercosse dai monti circostanti”. Quando Turati era sul punto di iniziare il suo discorso, accadde un sorprendente imprevisto, che la felice penna di Chiara descrive così: “Si udirono improvvisamente delle grida sopra la nostra testa, proprio in vetta alla montagna. Un’anguria era sfuggita di tra le gambe di un camerata e scendeva a grandi balzi in un crescendo di velocità. Qualche coraggioso aveva tentato di fermarla o di deviarla gettandosi sulla sua strada, ma l’anguria era passata come una palla di cannone ed era ormai volata sopra di noi, sfiorando a tratti il terreno e diretta verso il palco. Un urlo la seguiva da tutta la montagna. […] Augusto Turati l’aveva vista. Allontanò il federale che voleva farli scudo col suo petto, e con le mani puntate sul piano dov’era steso il drappo nero, aspettò..Preso l’alzo sull’ultima balza del prato, l’anguria entrò come un tiro di rigore nel palco e andò a colpire nel mezzo la traversa superiore, proprio sopra la testa del segretario del Partito. Crollò un trofeo di bandiere, tremò tutta l’impalcatura, e una doccia di sugo scese sopra il gruppo delle autorità schierate in prima fila. Turati, che stava per riprendere la parola, ne ebbe la maggior parte; e subito si videro i fazzoletti bianchi del federale e del prefetto che lo asciugavano. Fu la prima scossa al regime, il primo colpo andato a segno; benché la stampa non lo registrasse e la storia solo oggi possa metterlo, se non tra i fatti decisivi, almeno tra i presagi sicuri”. Come si è lett
o, nessun’indulgenza all’invettiva ma un esercizio d’ironia pungente al punto da sfociare nello sberleffo sarcastico, senza sottacere un sottile ma fermo giudizio sul fascismo e  le sue esaltazioni di virilità  maschilista e militaresca.

Marco Travaglini

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