PIANETA CINEMA / di Elio Rabbione
Attore di razza capace per gran parte della durata del film di reggere tutto solo un gran peso, fatto soltanto di silenzi e di sguardi, di labbra serrate e di mugolii di bestia ferita, nel corpo come nello spirito: pronto per afferrare quell’Oscar che sino ad oggi per troppe volte gli è sfuggito
Ha cambiato faccia Alejandro Gonzàlez Iňàrritu, con il suo ultimo Revenant. Ha abbandonato le claustrofobiche pareti teatrali e la metropoli newyorkese di Birdman (tra i tre Oscar dell’anno scorso anche quello per la miglior regia) per le distese innevate ed i cieli oscuri della Columbia Britannica, con un’appendice nella Terra del Fuoco, ottimamente fotografati dal genio di Emmanuel Lubezki e accarezzati dalle musiche di Ryuichi Sakamoto e Alva Noto: con il risultato eccellente di raggruppare attorno a sé e ai suoi collaboratori le dodici candidature che li porteranno sicuramente in area vincitori. Con i tratti del sovrumano, il film con la sceneggiatura firmata dallo stesso regista e da Mark L. Smith scolpisce robustamente la figura di Hugh Glass, storica e mitica figura della cavalcata verso l’ovest americano, che nel 1823, assunto come guida per una spedizione alla ricerca di pelli e pellicce, buon conoscitore di montagne e di costumi indiani, è attaccato da un grizzly; quei compagni che dovrebbero curarlo e proteggerlo, il perfido Fitzgerald (il sempre più perfetto Tom Hardy, che lo sperabilissimo Oscar quale miglior attore non protagonista dovrebbe far definitivamente decollare verso l’orizzonte cinematografico più alto) ed un ragazzotto succube di lui, preferiscono abbandonarlo, senza non prima avergli ucciso il figlio.
Ma l’uomo fuoriesce dalla sua tomba e risorge, sempre all’interno – ora la macchina da presa lo tallona vicinissima, ora lui è un minuscolo punto perduto al nostro occhio nella distesa di neve bianchissima – di una natura bellissima e smisurata, attraversa pericoli di ogni sorta, corre a perdifiato, si nasconde agli indiani e agli agguati, capitombola lungo le rapide del fiume, si costruisce rifugi, squarcia la carcassa di un cavallo per accovacciarsi dentro e salvarsi dal gelo e dal buio della notte, combatte e regola i conti con il cattivo. Un personaggio estremamente compatto nella propria fisicità: un personaggio che è l’occasione giusta per Leonardo DiCaprio di mostrare la forza e la rabbia tenuta dentro, l’intensità e l’immedesimazione con il personaggio, di confermarsi attore di razza capace per gran parte della durata del film di reggere tutto solo un gran peso, fatto soltanto di silenzi e di sguardi, di labbra serrate e di mugolii di bestia ferita, nel corpo come nello spirito: pronto per afferrare quell’Oscar che sino ad oggi per troppe volte gli è sfuggito (a meno che, questa volta, il più agguerrito nemico non si chiami Michael Fassbender, eccellente Steve Jobs). Come pure ci potrebbe essere un raddoppio per Iňàrritu, per l’eccezionale maestria a reggere il ritmo fragoroso del film, a riportarci gli attimi dell’agonia di un uomo, a concertare con risultati tutti da gustare i momenti della lotta tra la belva e l’uomo, a raccontarci una storia antica in un vero stato di grazia.
Leggi qui le ultime notizie: IL TORINESE