La primavera stava per lasciare, senza grandi rimpianti, il passo all’estate. Grandi nuvole nere s’addensavano sulla vetta delle montagne. L’aria si fece elettrica, segno che il temporale stava per scatenarsi. Audenzio Remolazzi , intento a falciare il fieno nel prato, guardò il cielo che si faceva sempre più scuro e s’affretto a raccogliere quant’aveva tagliato per evitare che la pioggia imminente facesse marcire il maggengo.

Tra sé e sé disse : “Ah, quando il monte mette il cappello, conviene lasciare la falce e metter mano al rastrello”. E diede voce anche a Bartolo che stava riposandosi appoggiato con la schiena al tronco di un melo. “Oh.. Sacrebleu”, fece quest’ultimo, stirandosi. “Ho dormito come un sasso Colpa della frittata con le cipolle che è come una droga; mi piace ma mi crea un peso sullo stomaco che chiama l’obbligo di un riposino”. Guardò il cielo e borbottò: “Secondo me, Audenzio, è un temporale varesotto, poca acqua e gran casotto”. Tanto rumore per nulla, dunque? Nel dubbio, per non saper leggere e scrivere, s’impegnarono entrambi a rastrellare il fieno per poi raccoglierlo nel covone che andava coperto con una cerata. Ma più che dal cielo e dal temporale, il rumore più forte veniva dalla strada che saliva verso la Contrada delle Ciliegie. Stava passando una moto Guzzi, guidata dal proprietario, tal Arturo Brilli. Pareva un aeroplano intento a rullare sulla pista prima del decollo.” Guardalo là, l’Arturo. Sta passando con la sua moto taroccata che fa un gran fracasso e poca strada. Guarda che scia di fumo che lascia! Per me gli manca qualche rotella in testa. Va sempre in giro colorato come l’Arlecchino di carnevale, cantando a squarciagola le canzoni d’osteria. Ah, no c’è più religione. Son diventati tutti matti”.
Audenzio Remolazzi, in pensione dopo quasi quarant’anni passati in fabbrica, era fatto all’antica. Scuoteva la testona per mostrare tutto il disappunto per le abitudini di quel “ragazzaccio” che non aveva nessuna voglia di lavorare e, giunto ormai alla soglia dei quarant’anni, non riusciva a smettere di essere quel che era: un pelabròcch, un buono a nulla. Da una settimana i suoi vecchi genitori erano partiti per il mare della Liguria con il viaggio organizzato da Don Goffredo per i pensionati della parrocchia e lui che faceva? Se la spassava, avanti e indietro, a zonzo. “E’ proprio vero il proverbio: via il gatto, ballano i topi. Eh,sì. E quel topo lì, in assenza dei suoi che lo frenano un po’, si scatena a ballare giorno e notte”. Remolazzi, appena mi ha visto uscire dal bosco con in mio bastone da passeggio, ha subito attaccato bottone anche con me. “Ma l’ha visto l’Arturo, quella canaglia? Pensi che ieri sera dava del tu al prevosto come se fossero vecchi amici. Io glielo avevo detto a don Goffredo, di non dargli troppa confidenza. Eh sì, che glielo avevo detto; la troppa confidenza fa perdere la riverenza. Ma lui, uomo di chiesa sempre in giro a cercar di salvare anime, niente. Mi ha risposto di aver pazienza, di aver fiducia che il “ragazzo, crescendo, capirà come comportarsi”…Ha capito? Deve ancora crescere, quel furfante del Brilli.
Roba da matti”. A dire il vero era difficile dar torto a Remolazzi ma che si poteva fare? Se non erano riusciti i suoi genitori a “raddrizzarlo” fin da piccolo, figurarsi ora che aveva passato i quaranta e aveva la testa più matta che mai. Tra l’altro, aveva il vizio di bere. Era uno di quelli che – per far in fretta a tracannare – stanno sempre con la bottiglia “senza buscion”, senza tappo. Pensate che una volta si era preso una sbornia tale che scambiò la barca a remi di suo padre per un motoscafo e gridò a tutti che gli avevano rubato il motore. Si recò persino al commissariato dei Carabinieri per sporger denuncia, picchiando pugni sul tavolo e urlando come una bestia, tanto che al povero maresciallo Valenti e al suo fido aiutante, il brigadiere Alfio Romanelli, non restò altra soluzione che sbatterlo in gattabuia per qualche ora, finché gli si diradassero i fumi dell’alcool. Visto che nei circoli, nei bar e nelle osterie del paese e dei dintorni si guardavano bene dal dargli da bere perché esagerava e dava in escandescenze, il Brilli, tenendo fede – ironia della sorte – al suo stesso cognome, pigliava il treno o il battello e andava a “tracannare” in altri lidi, cambiando destinazione di volta in volta.
A chi cercava di moderarlo, come è capitato talvolta anche a me, rispondeva che “Quando c’è la sete, la gamba tira il piede”. Un modo per dire che, pur di soddisfare il proprio bisogno, non contava la distanza. Il maresciallo Valenti era stato testimone di un altro episodio. Un sabato sera, di turno con una pattuglia per i consueti controlli sul rettilineo che porta dal paese a quello confinante, più o meno all’altezza della seicentesca chiesa della Madonna del Carmine, incrociò il motocarro di Giovanni Guelfi con a fianco Arturo. La cosa strana era che quel motocarro era privo del vetro anteriore e in quelle condizioni non avrebbe potuto circolare. Il mezzo del Guelfi, a causa del gelo di quell’inverno che tutti ricordavano tar i più rigidi degli ultimi anni, aveva subito dei danni e il più serio tra questi era l’aver sottovalutato la crepa che, in meno di un amen, aveva provocato la rottura in mille pezzi del vetro. Pur essendo ormai sul finire della primavera, non aveva ancora provveduto a sostituito. Andava in giro così, faccia al vento, evitando di circolare nei giorni di pioggia. Quella sera, appena videro l’Alfetta dell’Arma sul ciglio della strada, imprecarono alla sfortuna. Guelfi voleva fare una inversione a “u“ e tornare indietro.
Fu Arturo adavere, tuttavia, una brillante idea: far finta che il vetro fosse al suo posto, integro. E come? Con il più semplice degli accorgimenti: facendo finta di pulirlo con un fazzoletto. Così passarono, con noncuranza, davanti agli attoniti carabinieri. Mentre Giovanni guidava, fischiettando il ritmo di una polka, Arturo s’impegnò a “pulire” l’inesistente vetro con un grande fazzoletto bianco. Il maresciallo Valenti, a bocca aperta, se li vide passare davanti al naso con il fazzoletto svolazzante e i capelli scompigliati dal vento. Il dubbio che l’avessero fatto apposta, con quel candido fazzoletto che – agitato in aria – sembrava v
oler far “marameo” ai tutori dell’ordine, non abbandonò mai il maresciallo. Ma volete mettere l’alzata d’ingegno, il tocco d’artista, la prova di disperato e incosciente “coraggio”? Così la raccontò, scuotendo la testa, Audenzio Remolazzi. Nel frattempo, con l’aiuto di Bartolo, avevano raccolto e messo al sicuro il fieno. Appena in tempo per evitare il peggio, considerato che non si trattò di un “temporale varesotto” ma di un acquazzone in piena regola.
Marco Travaglini
A differenza degli equini e dei bovini, animali da tiro e da soma, utili ai lavori nei campi o come “mezzo di trasporto” negli spostamenti, o delle pecore e delle capre – che fornivano latte e pelli – il maiale era invece solo ( e quasi tutto) carne commestibile, che costituiva la stragrande maggioranza delle riserve di “ciccia” già dalla preistoria. Un nobile animale, preziosissimo, che offriva il meglio di se per condimenti, grassi e sapori, sugna, lardo, strutto, cotenne (basti pensare che, in origine, la bagna càoda piemontese era fatta con lardo o sugna). La sugna serviva a tanti scopi: dall’ingrassare gli scarponi ( per mantenerli morbidi e protetti ) e le ruote dei carri, fino a farne candele e ceri. Nemmeno le ossa e i “peli” si buttavano del maiale: con le migliori veniva prodotto del sapone, dalle unghie si ricavava uno straordinario concime e con le setole s’imbastivano robustissimi ancorché rozzi, tessuti. Disporre di un maiale era un ottimo investimento: non è forse evocativo il fatto che, spesso se non sempre, i salvadanai hanno la forma di un porcellino? Fino a più di un secolo fa i maiali erano cresciuti liberi di ingozzarsi di ghiande nei boschi dove prevalevano querce e farnie. Finite quelle, esaurita la scorta di cibo, per così dire, “naturale”, non avendo altro cibo per ingrassarlo ancor più, il maiale passava al macello. E, sezionato in tutto e per tutto, finiva per gran parte sulla tavola. Spesso dire maiale equivale a dire prosciutto e salume anche se non solo col porcello si fanno ottimi insaccati. Dove sono nato, nel profondo nord del Piemonte e dell’Italia di “mezzanotte”, quando si parla di salumi è naturale pensare alle valli ossolane ed alle produzioni locali. Dal prosciutto crudo della Val Vigezzo alle mocette, dai violini di cervo e di capra alla mortadella. Nella valle Anzasca, ai piedi del Rosa, da Macugnaga a Castiglione, con carne della testa e del guanciale – cotta e aromatizzata – si produceva il salame di testa. Salamini, salamelle e salsicce da grigliare si trovano un po’ ovunque, mentre è difficile trovare ancora, la salsiccia di riso: un divertente salame povero con riso bollito e maiale che si conserva sotto grasso. C’è sempre, nelle lavorazioni artigianali, il “tocco” di qualità, il vanto di tradizioni che si trasformano in prelibatezze che, spesso, non ammettono confronti.
Costituita da un impasto a grana fine di fegato di maiale con carne di suino, grasso di sottogola e spezie, si presenta a forma di ciambella. Un particolare non secondario è l’impasto. Alcuni lo condiscono con del vin brulé, preferibilmente barbera; altri invece usano del vino bianco per dare “tono” alla mortadella che, in ogni caso, sarà poi fatta stagionare per qualche mese. A detta di alcuni ricorda la “salama” ferrarese e si può mangiare sia cotta ( con la purea di patate )che cruda o affumicata. In dialetto cusiano quest’insaccato è conosciuto come “fidighin”e trova la sua terra d’elezione sulla sponda orientale del lago d’Orta, tra il paese dell’isola di San Giulio e Gozzano, oltre che nell’areale tra l’aronese e Borgomanero. La pancetta drogata di montagna (conciata con spezie, aglio ed un “fiato” di grappa) non si trova solo dove i sentieri s’inerpicano e si devono fare i conti con le “ragioni della montanità”( asprezza dell’ambiente, altrimetria in crescita, clima conseguente, accessi ardui) ma anche in collina.Se ne producono di buonissime nel Vergante, nell’entroterra del lago Maggiore, sulle “motte” che fanno da contorno al vasto panettone del Mottarone, la “montagna dei milanesi”. Ma, tornando alla pianura del riso e variando sul tema del maiale, ci si può imbattere di nuovo nell’oca o nell’anatra e, parlando questa volta di prosciutto, è d’obbligo spendere almeno un cenno al petto affumicato d’oca. Minuscolo e signorile prosciutto senz’osso, ottenuto dal petto di uno dei più interessanti e prelibati protagonisti della vita sull’aia, si conserva a lungo e si consuma crudo. Raro da trovare, riserva delle sorprese molto piacevoli al fortunato che lo gusta, lentamente, con la stessa assenza di fretta con cui si confeziona. In subordinata si può deviare sul prosciutto d’anatra: una piccola coscia speziata, salata, lasciata all’aria o affumicata.
Nei paesi francofoni andavano matti per quell’eroe di carta, il pilota più veloce di tutti i tempi, capace di mettere il muso della sua “Vaillante” davanti a quello delle altre auto alla 24 ore di Le Mans. Più affascinante di Jacky Ickx, simpatico come Mario Andretti, estroverso come Clay Ragazzoni, metodico come Niki Lauda. E lei, divorandone il fumetto, sognava ad occhi aperti di scendere in pista con la tuta e il casco integrale, infilandosi nello stretto abitacolo della monoposto e sfrecciare via contro vento. Una ragazza in gamba, Laura. Sveglia, simpatica e piena d’entusiasmo. La passione per le corse derivava dall’eccezionalità della sua famiglia? Nulla di più strano. Figlia di contadini, cresciuta nelle campagne del “profondo” Piemonte, non aveva ricevuto nessuna spinta verso i motori in genere. Sul retro del cascinale c’era, ben riparato da una tettoia, un vecchio trattore Fiat 25R, datato 1951, dal colore arancione ormai smunto. Alimentato a gasolio, con ruote non troppo grandi, stretto per poter viaggiare nel frutteto, quand’era in moto lanciava tutt’attorno un ruggito cupo e ansimante, determinato dall’usura e dal peso degli anni. Lo guidava suo zio Giovanni, con abilità e destrezza. Ma anche Laura, appena possibile, si metteva al volante e con il vecchio Fiat improvvisava corse impossibili sull’aia e nel grande prato dietro alla cascina. Il rombo del trattore seminava terrore tra gli animali. Le galline fuggivano, chiocciando disperate; i pulcini pigolavano in preda al terrore. I tacchini gloglottavano caracollando su e giù, minacciando le oche che, schiamazzando atterrite, avevano perso ogni parvenza di coraggio.
all’appuntamento organizzato per la “Sagra del Pisello” si erano ripromessi di mettere in campo abilità, tenacia, ma soprattutto la propria esperienza e le proprie abilità. Sì, perché a parte la giovanissima Laura, tutti i competitori – poco meno di una decina – erano dei veterani della corsa che si snodava tra i campi da Val Chiapini a Val Frascherina per terminare nella piazza principale del paese con la gimkana fra i birilli. Per vincere occorreva completare il percorso nel minor tempo possibile senza incorrere in penalità. Cosa non facile sulle stradine, sulle piste agro-silvo-pastorali, sui viottoli tra i campi, tra i covoni di fieno e le cascine.
La ragazzina cercava di tenere il ritmo dell’avversario, ma il veicolo dello Strappapeli era decisamente più veloce. Il destino, tuttavia, riserva sempre sorprese inaspettate, a volte anche spiacevoli. Fu proprio una di queste ultime a spegnere il ghigno che, fino a pochi attimi prima, sembrava stampato sul volto del meccanico. La sorpresa di materializzò sotto forma di una buca la cui profondità era celata dall’acqua che l’aveva riempita a seguito del forte acquazzone della sera prima. La ruota anteriore destra del Landini finì nella buca, il conducente perse per un istante il controllo e finì sbalzato nel fosso di scolo delle acque di irrigazione, provocando un fuggi fuggi di rane e rospi. Il trattore non si ribaltò e terminò la corsa contro un gigantesco ontano nero. Il conducente, coperto di fango, assistette attonito alla scena; illeso, ma moralmente scornato. Rimasta senza avversari, Laura percorse l’ultimo tratto tra gli applausi del pubblico che riconobbe in quella ragazzina la stoffa di una vera campionessa, caparbia nel carattere e diabolicamente in gamba nella guida. Il meritato successo le fece guadagnare, oltre ai premi, anche belle foto e ammirate parole sui giornali locali. Era felice per aver dimostrato di essere davvero una ragazzina in grado di farsi valere. Ma, nei giorni successivi, rendendosi conto che quella prova quasi temeraria le era costata moltissimo in termini di ansia, apprensioni e inquietudini decise di riflettere se continuare o meno a cimentarsi in quel genere di avventure. Non che fossero tante le occasioni per gareggiare con mezzi agricoli, ma, a suo parere, valeva la pena di riflettere su ciò che aveva provato. Ci ragionò abbastanza e, infine, prese una decisione. La passione per i motori faceva ormai parte delle sue passioni e non era certamente sua intenzione rinunciarvi. Le competizioni, invece, erano un altro paio di maniche. Troppa irrequietudine nelle fasi preparatorie, troppa fatica e trepidazione durante la gara. Decise, quindi, di lasciar perdere. Il desiderio della prova d’abilità se l’era tolto, in fin dei conti. Quando le fosse venuta voglia di far correre il trattore nei campi, tempo permettendo, il suo Fiat 25R era a disposizione, pronto ad assecondarne i voleri. Qualora avesse avvertito il desiderio di mettere le mani su cilindri e bielle, alberi motore e ingranaggi vari, annusando gli odori di benzina e del grasso lubrificante, nessun problema: la giovane avrebbe avuto modo di soddisfare la sua passione per la meccanica, mettendo in mostra l’innato talento senza dover sacrificare lo studio e chissà quali altre possibilità la vita le avrebbe offerto.


Era stata fissata per domenica 19 aprile ma naturalmente non si farà nulla. Sarà per la prossima volta…ma di Tonco si continuerà a parlare lo stesso, per sempre, non solo per la sua Giostra, ma perchè in paese abitava un personaggio molto importante, più famoso del pitu, che i tonchesi ben conoscono, ne vanno fieri e soprattutto non vogliono farselo portar via da certi storici. 