tradizione

La bottiglia senza “buscion”

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La primavera stava per lasciare, senza grandi rimpianti, il passo all’estate. Grandi nuvole nere s’addensavano sulla vetta delle montagne. L’aria si fece elettrica, segno che il temporale stava per scatenarsi. Audenzio Remolazzi , intento a falciare il fieno nel prato, guardò il cielo che si faceva sempre più scuro e s’affretto a raccogliere quant’aveva tagliato per evitare che la pioggia imminente facesse marcire il maggengo.

Tra sé e sé disse : “Ah, quando il monte mette il cappello, conviene lasciare la falce e metter mano al rastrello”. E diede voce anche a Bartolo che stava riposandosi appoggiato con la schiena  al tronco di un melo. “Oh.. Sacrebleu”, fece quest’ultimo, stirandosi. “Ho dormito come un sasso Colpa della frittata con le cipolle che è come una droga; mi piace ma mi crea un peso sullo stomaco che chiama l’obbligo di un riposino”. Guardò il cielo e borbottò: “Secondo me, Audenzio, è un temporale varesotto, poca acqua e gran casotto”. Tanto rumore per nulla, dunque? Nel dubbio, per non saper leggere e scrivere, s’impegnarono entrambi a rastrellare il fieno per poi raccoglierlo nel covone che andava coperto con una cerata. Ma più che dal cielo e dal temporale, il rumore più forte veniva dalla strada che saliva verso la Contrada delle Ciliegie. Stava passando una moto Guzzi, guidata dal proprietario, tal Arturo Brilli. Pareva un aeroplano intento a rullare sulla pista prima del decollo.” Guardalo là, l’Arturo. Sta passando con la sua moto taroccata che fa un gran fracasso e poca strada. Guarda che scia di fumo che lascia! Per me gli manca  qualche rotella in testa. Va sempre in giro colorato come l’Arlecchino di carnevale, cantando a squarciagola le canzoni d’osteria. Ah, no c’è più religione. Son diventati tutti matti”.

 

Audenzio Remolazzi, in pensione dopo quasi quarant’anni passati in fabbrica, era fatto all’antica. Scuoteva la testona per mostrare tutto il disappunto per le abitudini di quel “ragazzaccio” che non aveva nessuna voglia di lavorare e, giunto ormai alla soglia dei quarant’anni, non riusciva a smettere di essere quel che era: un pelabròcch, un buono a nulla. Da una settimana i suoi vecchi genitori erano partiti per il mare della Liguria con il viaggio organizzato da Don Goffredo per i pensionati della parrocchia e lui che faceva? Se la spassava, avanti e indietro, a zonzo. “E’ proprio vero il proverbio: via il gatto, ballano i topi. Eh,sì. E quel topo lì, in assenza dei suoi che lo frenano un po’, si scatena a ballare giorno e notte”. Remolazzi, appena mi ha visto uscire dal bosco con in mio bastone da passeggio, ha subito attaccato bottone anche con me. “Ma l’ha visto l’Arturo, quella canaglia? Pensi che ieri sera dava del tu al prevosto come se fossero vecchi amici. Io glielo avevo detto a don Goffredo, di non dargli troppa confidenza. Eh sì, che glielo avevo detto; la troppa confidenza fa perdere la riverenza. Ma lui, uomo di chiesa sempre in giro a cercar di salvare anime, niente. Mi ha risposto di aver pazienza, di aver fiducia che il “ragazzo, crescendo, capirà come comportarsi”…Ha capito? Deve ancora crescere, quel furfante del Brilli.

 

Roba da matti”. A dire il vero era difficile dar torto a Remolazzi ma che si poteva fare? Se non erano riusciti i suoi genitori a “raddrizzarlo” fin da piccolo, figurarsi ora che aveva passato i quaranta e aveva la testa più matta che mai. Tra l’altro, aveva il vizio di bere. Era uno di quelli che – per far in fretta a tracannare – stanno sempre con la bottiglia “senza buscion”, senza tappo. Pensate che una volta si era preso una sbornia tale che scambiò la barca a remi di suo padre per un motoscafo e gridò a tutti che gli avevano rubato il motore. Si recò persino al commissariato dei Carabinieri per sporger denuncia, picchiando pugni sul tavolo e urlando come una bestia, tanto che al povero maresciallo Valenti e al suo fido aiutante, il  brigadiere Alfio Romanelli, non restò altra soluzione che sbatterlo in gattabuia per qualche ora, finché gli si diradassero i fumi dell’alcool. Visto che nei circoli, nei bar e nelle osterie del paese e dei dintorni si guardavano bene dal dargli da bere perché esagerava e dava in escandescenze, il Brilli, tenendo fede – ironia della sorte – al suo stesso cognome, pigliava il treno o il battello e andava a “tracannare” in altri lidi, cambiando destinazione di volta in volta.

A chi cercava di moderarlo, come è capitato talvolta anche a me, rispondeva che “Quando c’è la sete, la gamba tira il piede”. Un modo per dire che, pur di soddisfare il proprio bisogno, non contava la distanza. Il maresciallo Valenti era stato testimone di un altro episodio. Un sabato sera, di turno con una pattuglia per i consueti controlli sul rettilineo che porta dal paese a quello confinante, più o meno all’altezza della seicentesca chiesa della Madonna del Carmine, incrociò il motocarro di Giovanni Guelfi con a fianco Arturo. La cosa strana era che quel motocarro era privo del vetro anteriore e in quelle condizioni non avrebbe potuto circolare. Il mezzo del Guelfi, a causa del gelo di quell’inverno che tutti ricordavano tar i più rigidi degli ultimi anni, aveva subito dei danni e il più serio tra questi era l’aver sottovalutato la crepa che, in meno di un amen, aveva provocato la rottura in mille pezzi del vetro.  Pur essendo ormai sul finire della primavera, non aveva ancora provveduto a sostituito. Andava in giro così, faccia al vento, evitando di circolare nei giorni di pioggia. Quella sera, appena videro l’Alfetta dell’Arma sul ciglio della strada, imprecarono alla sfortuna. Guelfi voleva fare una inversione a “u“ e tornare indietro.

Fu Arturo adavere, tuttavia, una brillante idea: far finta che il vetro fosse al suo posto, integro. E come? Con il più semplice degli accorgimenti: facendo finta di pulirlo con un fazzoletto. Così passarono, con noncuranza, davanti agli attoniti carabinieri. Mentre Giovanni guidava, fischiettando il ritmo di una polka, Arturo s’impegnò a “pulire” l’inesistente vetro con un grande fazzoletto bianco. Il maresciallo Valenti, a bocca aperta, se li vide passare davanti al naso con il fazzoletto svolazzante e i capelli scompigliati dal vento. Il dubbio che l’avessero fatto apposta, con quel candido fazzoletto che – agitato in aria – sembrava v
oler far “marameo” ai tutori dell’ordine, non abbandonò mai il maresciallo. Ma volete mettere l’alzata d’ingegno, il tocco d’artista, la prova di disperato e incosciente “coraggio”? Così la raccontò, scuotendo la testa, Audenzio Remolazzi. Nel frattempo, con l’aiuto di Bartolo, avevano raccolto e messo al sicuro il fieno. Appena in tempo per evitare il peggio, considerato che non si trattò di un “temporale varesotto” ma di un acquazzone in piena regola
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Marco Travaglini

Temporale imprevisto sul lago d’Orta

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Chi se lo aspettava, questo temporale. Quando abbiamo messo in acqua la barca, verso le nove, il cielo era sereno. Qualche nuvola sopra le Quarne e un po’ di vento di tramontana da nord-ovest. Il callo del Giacinto non dava problemi e, a suo dire, quel suo barometro molto personale non l’aveva mai tradito.  Eppure, sentendo la radio, le previsioni non  erano poi così buone. Infatti, alle 7,20 in punto, avevo sentito al “Gazzettino Padano” il mattinale del Centro Geofisico Prealpino di Varese. “ Il vento, dal monte al piano, può portare improvvisi sbalzi di temperatura che, in casi eccezionali, potranno determinare fenomeni temporaleschi nella fascia prealpina di nord-ovest”, aveva detto l’erede del professor Furia, imitando la sua inconfondibile voce un po’ raspa. Non c’era giornata che, almeno per me, non s’aprisse con le loro previsioni atmosferiche.

Tra l’altro il nostro metereologo, classe 1924, seduto alla sua scrivania dalla quale ogni santo giorno alla sette della mattina dettava ai lombardi e ai piemontesi dei laghi le previsioni del tempo, non aveva perso un colpo fino alla fine dei suoi giorni. Preciso come un orologio svizzero anticipava le evoluzioni del meteo, concludeva il suo intervento augurando ai radioascoltatori “pensieri positivi, nonostante il tempo“. La sua scomparsa ci aveva resi più soli e tristi anche se il servizio continuava con chi aveva raccolto la sua eredità. Stando a quanto avevo sentito alla radio, ero perplesso ma mi sono fatto convincere da Giacinto che aveva già ottenuto il consenso di Giuanin. Così, in tre, ci siamo mossi dall’imbarcadero di Oira, remando a turno. La barca era quella di Giacinto: la “Carpa Dorata”. Eravamo davanti alla Qualba, la nostra acqua Alba, famosa per il colore e la limpidezza delle sua acque e qualcosa già non andava. Il cielo si stava rannuvolando sulle nostre teste. “Se vègn nìul vérs Bagnèla tò su l’umbrèla”, si raccomanda sempre il signor Barzaccheri, altro noto metereopatico in grado di avvertire la pioggia che, come tutti sanno, arriva quasi sempre da ovest, dall’alpe Sacchi. Dunque, stiamo in campana: se il cielo si rannuvola dalle parti di Bagnella e Brolo, conviene tenere a portata di mano l’ombrello perché non si sa mai. E’ quello che sta accadendo e noi siamo in barca, non sulla terraferma. Giuanin mostra uno sguardo preoccupato e anche Giacinto non è più così baldanzoso. Sta per scoppiare un temporale di quelli che ti raccomando e, per quanto ci si possa dar da fare coi remi, non saremo mai a riva in tempo per schivarlo. L’aria sta diventando elettrica, carica. S’avverte persino pizzicare sulla pelle. Il cielo ha cambiato ancora umore: la nuvolaglia da bianco sporco è diventata grigio piombo, con alcune striature nere come la pece. L’abbassarsi improvviso della pressione atmosferica sembra volerci comprimere, schiacciandoci sul fondo della barca. L’acqua inizia a muoversi.

Le onde si fanno sempre più veloci e aggressive. Mamma mia, questo che soffia è  il Marescon, la peggior inverna che ci possa essere. Le raffiche violente hanno scacciato la tramontana e percorrono il lago come una scopa, spazzandone la superficie. Il tuono annuncia il lampo e il lampo saetta la sua energia scaricandosi in acqua, a qualche centinaio di metri da noi. Uno, due, dieci lampi secchi come una bastonata. Giacinto mormora le sue preghiere, preoccupato soprattutto per la barca che non ha ancora finito di pagare. Giuanin, passato dalla paura all’eccitazione, s’alza in piedi e canta come un ossesso: “Turbini e tempeste io cavalcherò, volerò tra i fulmini per averti.. Meravigliosa creatura, sei sola al mondo; meravigliosa paura di averti accanto..”. Roba da finire insieme ai matti; ci mancavano solo le canzoni della  Giannini, in mezzo a questo bordello! Uno trema, l’altro canta e io mi metto ai remi prima che venga giù l’ira di Dio. Quello del callo che non sbaglia mai, Giacinto, mormora “Santa Barbara e San Simòn, vardén da la lòsna e dal tròn” ( Santa Barbara e San Simone, guardateci dal fulmine e dal tuono, ndr). L’altro, matto come un cavallo, canta come un juke box e dalla Nannini è passato a Cuori in Tempesta per poi finire con Bréva e Tivàn di Davide Vandesfroos. Gli piace, la trova indicata e non smette di ulularla al vento: “E la barca la dùnda e la paar che la fùnda, che baraùnda vèss che in mèzz al laagh… Ma urmài sun chè… in mèzz al tempuraal, tuìvess föe di bàll che a mi me piaas inscì…”. 

Il ritmo del mio vogare è quasi da gara. Noncurante della fatica, con il cuore che mi scoppia nel petto e il fiato corto, approdo a Ronco di Pella, sfinito. Il cielo si è rotto e l’acqua scende a secchiate sul lago che ha preso il colore dell’incudine che il fabbro tiene in bottega. In breve la pioggia si trasforma in grandine e i goccioloni diventano cicchi ghiacciati grandi come noci. Siamo al riparo, sotto al tettoia della signora Erminia. Peccato non sia in casa. La sua ospitalità, in casi come questi, è graditissima. La “Carpa Dorata”, ormeggiata alla belle e meglio, non può ripararsi e subisce l’ingiuria della grandine. Giacinto piange come un bambino e maledice quel callo che lo ha tratto in inganno. “Quando torniamo a Omegna me lo vado a far raschiare via, questo giuda traditore”, mormora tra le lacrime. Io ho i brividi perché, oltre ad essere bagnato fino alle ossa mi sento stanco come un asino. L’unico eccitato è Giuanin che canticchia ancora, ma sottovoce. I nostri sguardi poco amichevoli l’hanno quasi convinto a dare un taglio a tutta quell’allegria senza ragione.
 

Marco Travaglini

L’imbarazzante presentazione…

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File di lampadine illuminavano la festa. I tavoli e le panche di legno, per l’occasione, erano stati rimessi a nuovo da Bepi Venier. Ripuliti, passati meticolosamente con la spessa carta vetrata e tonificati con una mano abbondante di essenza di trementina e poi di coppale, una resina dura, traslucida, delicata d’odore

La scelta del colore, un bel marrone carico, non era stata dettata da ragioni estetiche ma dalla necessità: erano le uniche due latte di vernice che Aquilino Bonello era riuscito a recuperare gratis da un suo vecchio cliente. Dunque, di necessità si fece virtù. La cucina, protetta da una struttura in tubi Innocenti, era stata montata su di un pavimento in mattonelle di ceramica posato da Teresio che in gioventù si era distinto come onesto artigiano piastrellista. Mariuccia era stata nominata, con il consenso di tutti, comandante in capo per le operazioni di cucina. Insieme a due amiche, Luisella e Adelaide, e a tre aiutanti a far da garzoni aveva predisposto un piano di battaglia adeguato. “Mettere insieme pranzo e cena per un oltre un centinaio di commensali per volta non è semplice”, ripeté per giorni, facendosi pregare. Maria era fatta così. Le piaceva fare la preziosa ma era solo scena; in fondo era ben contenta di farsi in due per la buona riuscita della prima festa dei pescatori del lago di Viverone, al campo sportivo di Azeglio. Lo specchio d’acqua dolce era il terzo lago più grande del Piemonte, situato tra l’estrema parte nord-orientale del Canavese e  e l’estrema parte meridionale del Biellese. E quella festa era davvero molto importante. Così come il contributo di Maria. La sua era una presenza indispensabile. Senza i suoi consigli e, quando capitava, senza il suo tocco, non ci sarebbero state quelle cene a base di pescato del lago che ogni mese venivano organizzate all’Osteria del Coregone Dorato. Nell’occasione aveva deciso di chiudere per tre giorni il locale, trasferendosi alla festa. Gran cuoca, dal cuore generoso e senza un’ombra di avarizia, non vedeva l’ora di poter raccontare a tutti i segreti della sua cucina. Immaginiamo che possa apparire come una stranezza, visto e considerato che i cuochi, di norma, sono gelosissimi dei loro segreti. Ma la nostra Maria  era convintissima di un fatto: a fare la differenza non erano solo ingredienti e tecniche ma il tocco, lamano. E su quello non temeva confronti. Un esempio, così a caso? La scorsa settimana, mentre si parlava del più e del meno, ci disse a bruciapelo: “Volete sapere come si fa la pastella per la frittura delle alborelle?” Non abbiamo fatto in tempo ad aprir bocca  che stava già declinando la ricetta. “Dovete versare in una terrina duecentocinquanta grammi di farina. Ci aggiungete due cucchiai di olio extra-vergine di oliva  e un pizzico di sale fino. Versate a poco a poco un bicchiere di birra chiara. Fatelo molto lentamente, sbattendo man mano con una forchetta, così evitate che si formino grumi. Con una quantità d’acqua sufficiente, a occhio, si ottiene una bella crema. Sapete montare gli albumi a neve? Bene. Ce ne vogliono sei. Quando sono pronti, li aggiungete alla pastella, mescolando ben bene dal basso verso l’alto. A questo punto non vi rimane che passarci i pescetti prima di tuffarli nell’olio bollente”. Tirò il fiato solo al termine della lezione,servendoci un gran piattone di quelle prelibatezze poichè Maria, mentre parlava, cucinava.

Gli architravi della nostra organizzazione, oltre a lei, erano Duilio e Giurgin. Per la scelta del vino occorreva un intenditore. Chi meglio di Jacopo di Piverone poteva vantare competenza e passione? Marcato stretto, evitando che si perdesse via in troppi assaggi, indicò nel vino da tavola di un produttore di Carema il migliore in assoluto. “Questo va bene per tutti i palati, anche per quelli più esigenti”, sentenziò, accompagnando le parole con un sonoro schiocco della lingua. Occorreva però una padella bella grande, larga quanto le braccia di Goffredo. Ma a questa aveva pensato Tomboli, che di nome faceva Mariano, operaio in un’impresa artigiana. L’aveva costruita un po’ per volta, sfruttando la pausa del pasto di mezzogiorno. Svuotata con quattro avide cucchiaiate la minestra della schiscèta, si metteva al lavoro. Batteva la lastra, ripiegando il metallo per ottenere un bordo abbastanza alto da non far schizzare fuori l’olio. Il fondo era doppio, robusto. Sul manico, saldato alla padella, aveva applicato un’impugnatura di legno, fissata con quattro viti. Per friggere i pesci in quantità era una cannonata. Se quella di Camogli rimaneva la padella per la frittura di pesce più grande d’Italia, quella di Mariano è la più capiente e robusta del lago di Viverone. Oreste si è fatto avanti per averne una uguale ma Mariano non aveva sentito ragioni. “Paganini non ripete. Non è questione di soldi o di tempo. E’ che una volta fatta una padella così, con tutta la passione che ci ho buttato dentro, non credo di poterne fare una uguale. Per non far brutta figura, rinuncio”. Così, tra mega padelle e tanta buona volontà, la festa di Azeglio si aprì con un successo da non credere: tanti, tantissimi in coda per le razioni di frittura dorata, sfrigolante nell’olio d’oliva. Gli amanti del pesce non avevano che l’imbarazzo della scelta, degustando alborelle, trote, salmerini, tinche, carpe, persici, lucci e soprattutto gli immancabili coregoni impanati e fritti, marinati in carpione, proposti in umido con le verdure e il bagnetto. Come tutte le associazioni che si rispettino, anche la Società Pesca Libera Lago Viverone – dall’impronunciabile e scivoloso acronimo SPLLV – aderiva ad un organismo che di tutela e rappresentanza come la Fips, la federazione della pesca sportiva. Così, nell’intenzione di fare le cose per bene, venne invitato il delegato provinciale, un tal Giampiero Nuvoloni di Chivasso, per un saluto.

Il delegato, un omone di oltre cento chili, dal colorito rubizzo e con una imponente zazzera di capelli sale e pepe, si presentò puntuale. Gli avventori riempivano i tavoli e in gran numero stavano già onorando la cucina di Maria. Lui, guardandosi attorno compiaciuto, si avviò verso il microfono con Giurgin , al quale era stata affibbiato l’incarico di cerimoniere. Schiarita la voce con un colpo di tosse, accingendosi a presentare il dirigente della Fips, Giurgin iniziò a sudar freddo. Si era scordato il nome di quest’omone che, alle sue spalle, pareva incombesse su di lui, basso e mingherlino, con tutta la sua mole. Un vuoto di memoria improvviso e imbarazzante. Come diavolo si chiamava? Nugoletti, Nivolini, Nuvolazzi? Oddio, che guaio. Che fare, a quel punto? Non aveva alternative. Decise di stare sul generico e quindi, con tutte le buone intenzioni, provò a dribblare la difficoltà del momento, pronunciando poche ma decise parole: “Amici, cittadini, pescatori. E’ un onore ospitarvi e un privilegio dare la parola al.. mio didietro”. Le risate, soffocate a malapena, si sprecarono. Il Nuvoloni, che si trovava alle  spalle del povero Giurgin, si ritrovò in mano il microfono. Rosso in volto e schiumante di rabbia, lo avvicinò alla bocca quasi volesse morderlo o mangiarlo. L’altoparlante gracchiava di brutto e questo non aiutò la comprensione. Chi poté udire le parole dell’iracondo delegato Fips giurò in seguito che non fu un discorso particolarmente memorabile. Comunque, dopo meno di cinque minuti, il signor Giampiero, scuro in volto come il lago durante una tempesta, restituì il microfono e se ne andò, incavolato nero, senza guardare in faccia nessuno. Giurgin, affranto, piagnucolava: “Non l’ho fatto apposta. Ero in pallone e mi è venuta fuori così”. La sensazione che tutti ebbero era che, per un bel po’, difficilmente si sarebbe ancora visto da quelle parti il Nuvoloni e, molto probabilmente, anche gli altri della Fips. La festa azegliese, comunque, finì in gloria e allegria, consolando Giurgin con un allegro e chiassoso “prosit”!

Marco Travaglini

Sua maestà il maiale

Del maiale (ma non solo) e di ciò che, suo malgrado, ci regala…

Al dì dal porc”, il giorno del maiale, cadeva tra novembre e febbraio, tra i Santi e Carnevale e rappresentava  un giorno di gran festa per la famiglia contadina. Quello era il periodo canonico dell’uccisione e della pressoché immediata concia delle carni del maiale

Un tempo che si snodava dal 30 novembre, Sant’Andrea fino  – ma non sempre venivano rispettati gli andamenti stagionali – al 17 gennaio, Sant’Antonio Abate, protettore sacro degli animali domestici, della stalla e del cortile.


Un santo considerato, in particolare, protettore del maiale tanto da essere raffigurato nell’ iconografia popolare con accanto un maialino, fissando il “santino” sulla porta del porcile. Anche la fase lunare aveva la sua importanza nel rito della macellazione del maiale (fase di luna calante e luna nuova). Quel giorno non si poteva fare né il pane né la pasta, per timore che la carne potesse lievitare e deperire in breve tempo. Quando il norcino gli affondava il coltello nelle rosee carni si era certi che dell’animale nulla fosse buttato via: testa, orecchie, lingua, gola, lardo, coppa e lonza, spalla e zampino, pancetta e filetto, culatello, coscia e cotiche. Sì, perché del maiale si utilizza tutto. E avere il “maiale da ingrassare”, nella civiltà contadina, prima e dopo l’epoca degli “alberi degli zoccoli” ( descritta in modo straordinario da Ermanno Olmi), era segno di benessere. Il maiale -versione domestica del cinghiale – dalla notte dei tempi ha assolto un compito del tutto particolare: sfamare la gente. Infatti, era il solo animale allevato per puri scopi alimentari.

A differenza degli equini e dei bovini, animali da tiro e da soma, utili ai lavori nei campi o come “mezzo di trasporto” negli spostamenti,  o delle pecore e delle capre  – che  fornivano latte e pelli –  il maiale era invece  solo ( e quasi tutto) carne commestibile, che costituiva la stragrande maggioranza delle riserve di “ciccia” già dalla preistoria. Un nobile animale, preziosissimo, che offriva il meglio di se per condimenti, grassi e sapori, sugna, lardo, strutto, cotenne (basti pensare che, in origine, la bagna càoda piemontese era fatta con lardo o sugna). La sugna serviva a tanti scopi: dall’ingrassare gli scarponi ( per mantenerli morbidi e protetti ) e le ruote dei carri, fino a farne candele e ceri. Nemmeno le ossa e i “peli” si buttavano del maiale: con le migliori veniva prodotto del sapone, dalle unghie si ricavava uno straordinario concime e con le setole s’imbastivano robustissimi ancorché rozzi, tessuti. Disporre di un maiale era un ottimo  investimento: non è forse evocativo il fatto che, spesso se non sempre, i salvadanai hanno la forma di un porcellino? Fino a più di un secolo fa i  maiali erano cresciuti liberi di ingozzarsi di ghiande nei boschi dove prevalevano querce e farnie. Finite quelle, esaurita la scorta di cibo, per così dire, “naturale”, non avendo altro cibo per ingrassarlo ancor più, il maiale passava al macello. E, sezionato in tutto e per tutto, finiva per gran parte sulla tavola. Spesso dire maiale equivale a dire prosciutto e salume anche se non solo col porcello si fanno ottimi insaccati. Dove sono nato, nel profondo nord del Piemonte e  dell’Italia di “mezzanotte”, quando si parla di salumi è naturale pensare alle valli ossolane ed alle produzioni locali. Dal prosciutto crudo della Val Vigezzo alle mocette, dai violini di cervo e di capra alla mortadella. Nella valle Anzasca, ai piedi del Rosa, da Macugnaga a Castiglione, con carne della testa e del guanciale  – cotta e aromatizzata –  si produceva il salame di testa. Salamini, salamelle e salsicce da grigliare si trovano un po’ ovunque, mentre è difficile trovare ancora, la salsiccia di riso: un divertente salame povero con riso bollito e maiale che si conserva sotto grasso. C’è sempre, nelle lavorazioni artigianali, il “tocco” di qualità, il vanto di tradizioni che si trasformano in prelibatezze che, spesso, non ammettono confronti.

Ma non c’è solo il “made in Ossola” sul tagliere. C’è anche la scuola degli insaccati della “bassa” che, dalle sponde dei laghi Maggiore e d’Orta scende, tra colline e baragge, fino alle risaie del novarese. Una scuola antica, contadina, che vede per l’appunto nel maiale e nelle sue carni un punto di riferimento che, pur non essendo l’unico, è di gran lunga il principale. Immaginando di tracciare una “via del salame” è curioso vedere dove ci porta, accompagnando il rilievo gastronomico a quello geografico. Iniziamo dal cacciatorino, piccolo, gustoso e conosciutissimo salamino stagionato da mangiare crudo. Confezionato il più delle volte in “collane”, è diffuso un po’ dappertutto ma è particolarmente prelibato quello di Borgomanero e dintorni. I ciccioli ( in piemontese “garisole”) di maiale o d’oca, sono invece dei piccoli pezzi di carne fritti e croccanti che si ottengono facendo sciogliere il lardo e il grasso dell’animale per ricavare lo strutto. Il “collo d’oca”, invece, è un caratteristico insaccato ottenuto nella bassa novarese imbottendo con carne e grasso d’oca aromatizzati la pelle del collo di questo pennuto. Si trova in due versioni, cioè cotto o crudo. Ed eccoci ad una delle parti migliori del maiale: la coppa ( o capocollo ). C’è da sbizzarrirsi. Fresca, questa carne dà lonze, filetti e braciole. Intera è nota come “carrè” mentre il capocollo è un insaccato che si ottiene con la carne della testa e delle parti posteriori tritata, salata, conciata ed “infilata” nell’involucro di budello cieco.

La stagionatura, in media, dura quattro mesi ed è una specialità molto diffusa in Valsesia. Il cotechino ( cudighin ), re delle feste di carnevale e piatto tradizionale per il fine d’anno ( accompagnato da fumanti, e beneauguranti, lenticchie) è un salume fatto con cotenne e carne di maiale, tritate per bene ed insaccate nelle budella grosse con l’aggiunta di spezie. Saltando la cotenna, pelle del maiale indispensabile per dar gusto ad alcuni piatti, e tralasciando il lardo che meriterebbe, da solo, una gustosissima riflessione ( “nobilitatosi” agli occhi del grande pubblico grazie a quelli d’Arnad e di Colonnata ), ecco la lonza (o lombata) e le luganighe. La prima, riconducibile a quella parte del maiale macellato che comprende uno dei lombi, con tutta la parte dorsale (costolette e coscia o spalla ), in alcune zone della bassa novarese o del vercellese è trattata e aromatizzata, quand’è fresca, come un salume. Le seconde sono tipiche di Cannobio, ultimo borgo dell’alto lago Maggiore prima di varcare – a Piaggio Valmara – il confine con la confederazione elvetica. Si consumano per tradizione a gennaio, con l’avvio del nuovo anno: salamini con un impasto ottenuto mescolando, in varie quantità, carni di maiale, lardo, aromi, pepe e vino rosso. Uniche nel loro genere e assolutamente da non perdere. Poi c’è il sanguinaccio, composto appunto da sangue di maiale, latte, lardo, pane grattugiato, spezie, aglio e vino. Il tutto insaccato a dovere nel budello dello stesso maiale. Antico piatto contadino nelle lunghe giornate d’inverno della pianura novarese e vercellese, si consumava arrosto o lessato. Sulle mortadelle c’è molto da dire. Vanno spese subito due parole per quella della Val d’Ossola, tutelata e “certificata” anche da Slow Food. Simile al salame ma con l’aggiunta di una piccola percentuale di fegato, che le conferisce un gusto del tutto particolare, è da provare. E’ prodotta in due differenti forme: una é insaccata in budello sottile ed è ripiegata ad “U” e legata in modo tradizionale; nell’altra versione é insaccata in budello grosso e legata a stella. La stagionatura é di circa un paio di mesi e il prodotto è consumato sia crudo che cotto. Una delle “regine” è la mortadella di fegato d’Orta.

Costituita da un impasto a grana fine di fegato di maiale con carne di suino, grasso di sottogola e spezie, si presenta a forma di ciambella. Un particolare non secondario è  l’impasto. Alcuni lo condiscono con del vin brulé, preferibilmente barbera; altri invece usano del vino bianco per dare “tono” alla mortadella che, in ogni caso, sarà poi fatta stagionare per qualche mese. A detta di alcuni ricorda la “salama” ferrarese e si può mangiare sia cotta ( con la purea di patate )che cruda o affumicata. In dialetto cusiano quest’insaccato è conosciuto come “fidighin”e trova la sua terra d’elezione sulla sponda orientale del lago d’Orta, tra il paese dell’isola di San Giulio e Gozzano, oltre che nell’areale tra l’aronese e Borgomanero. La pancetta drogata di montagna (conciata con spezie, aglio ed un “fiato” di grappa) non si trova solo dove i sentieri s’inerpicano e si devono fare i conti con le “ragioni della montanità”( asprezza dell’ambiente, altrimetria in crescita, clima conseguente, accessi ardui) ma anche in collina.Se ne producono di buonissime nel Vergante, nell’entroterra del lago Maggiore, sulle “motte” che fanno da contorno al vasto panettone del Mottarone, la “montagna dei milanesi”. Ma, tornando alla pianura del riso e variando sul tema del maiale, ci si può imbattere di nuovo nell’oca o nell’anatra e, parlando questa volta di prosciutto, è d’obbligo spendere almeno un cenno al petto affumicato d’oca. Minuscolo e signorile prosciutto senz’osso, ottenuto dal petto di uno dei più interessanti e prelibati protagonisti della vita sull’aia, si conserva a lungo e si consuma crudo. Raro da trovare, riserva delle sorprese molto piacevoli al fortunato che lo gusta, lentamente, con la stessa assenza di fretta con cui si confeziona. In subordinata si può deviare sul prosciutto d’anatra: una piccola coscia speziata, salata, lasciata all’aria o affumicata.

Per chiudere, almeno virtualmente, il cerchio dei volatili, due parole sul salame d’oca o, come dicono nella bassa novarese, il “graton d’oca”. Famoso quello di Fara – terra di buone uve e di buon vino – con l’impasto di carne cruda tritata e insaccata nella stessa pelle dell’animale. Alla voce salami, ritornando al maiale ed allargandoci a cavallo e asino, c’è un lungo elenco da scorrere: dal “cotto” d’Oleggio al crudo di Sillavengo, dagli “asinini” di Bellinzago ai “cavallini” di Castelletto Ticino, Arona, Borgomanero e Cressa. Ma un occhio di riguardo va dedicato al “salam d’la doja”, l’insaccato fresco di maiale immerso nel suo grasso e conservato nel tradizionale orcio di terracotta, la doja piemontese. Appena preparati si lasciano asciugare per una decina di giorni per poi infilarli nell’orcio e annegarli nel grasso fuso di maiale. Prodotti tipici della terra delle risaie, sono uno dei componenti fondamentali della “panisa” o “paniscia”. Sull’origine dell’arte di far salumi c’è chi giura che occorra scavare fino alla preistoria, all’età del ferro. Per non voltar troppo indietro la testa e poter dare, comunque, un giusto peso alla “gloria del maiale” si può citare un celebre gastronomo francese, Grimod de La Reynière che, all’inizio dell’ottocento, sui suoi Almanach des Gourmands, scriveva così: “..é il re degli animali immondi, le cui qualità sono del tutto incontestate. Niente lardo senza di lui e di conseguenza niente cucina, niente prosciutto, né salsicce, né sanguinacci, né insaccati e di conseguenza niente salumieri”. E dopo averne tracciato un profilo dal quale non si scartava nulla, concludeva così: “..Qualunque buongustaio se sente pervaso da una profonda gratitudine verso il maiale ed è indegno di quel titolo se non nutre questo sentimento nel suo cuore”. Che dire, di più? Oui, monsieur de La Reynière…nous sommes d’accord avec vous: la viande de porc c’est trop bonne!

Marco Travaglini

L’anatra Dolores e gli uccelli sul lago d’Orta

Dal Piemonte / C’è una importante via di passaggio degli uccelli sulle sponde del lago d’Orta. Stormi di chiurli, gallinelle, beccaccini, attraversano il cielo insieme alle anatre che, volando in formazione, disegnano una grande “V”.

Anche i trampolieri, in certe occasioni, passano al volo sulle sponde del lago, senza però farvi sosta a causa delle rive tagliate a picco nella roccia e dell’assenza di quelle spiagge acquitrinose che prediligono.Tra i palmipedi nuotatori si distinguono senz’altro i germani reali, frequentatori assidui da novembre ad aprile, quando tirano il fiato riposandosi sulle acque. Garganèl e morette dal ciuffo, cazzulott e fischioni dalle allegre grida si accompagnano, a fasi alterne, con maestosi cigni, smerghi, resegott e svassi. Tra le varie colonie di gabbiani c’è n’è uno, il gabbianello (marenchìn) che un tempo appariva solo con le grandi piene e a grossi stormi, per la gioia dei cacciatori che – dalla terraferma o in barca – non perdevano l’occasione di mettere alla prova la loro mira. Le folaghe, a coppie o in piccoli stormi, si fermano nell’anfiteatro cusiano per tutta la durata dell’inverno, sfruttandone il clima lievemente più mite. I martin pescatori e le cincie, come i merli acquaioli, si trovano nei pressi dei torrenti che si versano nel lago.

Quante volte siamo stati in barca, silenziosi e immobili, per assistere alle evoluzioni, alla pesca, ai canti e agli amori di questi pennuti? Un’anatra che ribattezzammo Dolores perché con il becco, quando le gettavamo dei pezzi di pane, imitava il suono delle nacchere, si avvicinava spesso alla barca, mostrando di non aver timore. Nessuno di noi è cacciatore. Non ci va nemmeno giù che, tra le canne delle rive tra Pettenasco e Orta, dalle parti di Pella o nei pressi delle foci del Pescone e della Fiumetta, si nascondano quei predoni a due gambe, armati di doppietta, pronti a sparare ad ogni volatile. Non di rado, insieme a Giuanin, passando davanti ai canneti abbiamo fatto un chiasso del boia, affondando rumorosamente i remi in acqua o cantando a squarciagola: le anatre così scappavano via e i cacciatori restavano lì, con il colpo in canna e la rabbia in corpo. Una rabbia che, a volte, si scaricava in urla e male parole nei nostri confronti, quando non addirittura in minacce più pesanti. Ma noi non ci siamo mai fatti intimorire; nemmeno quella volta che uno di quei matti ci sparò addosso una rosa di pallettoni che si conficcarono nella fiancata della barca di Giuanin Luccio che, in preda all’ira, guadagnata la terraferma batté palmo a palmo la riviera con l’intenzione di prendere a calci nel sedere quel matto con la spingarda.

Una mattina d’inverno, dopo che i paesi del lago si erano svegliati sotto uno strato leggero di neve che incipriava tetti e alberi, siamo rimasti a lungo a guardare le anatre che s’immergevano nell’acqua fredda. Durante le loro immersioni erano capaci di percorrere anche più di duecento metri senza riemerge, questi straordinari sottomarini pennuti. Persino la nostra Dolores, forse per compiacerci e ottenere in cambio il boccone di pane, passava da un lato all’altro della barca nuotandoci sotto. Il dottor Rossini, un giorno, venne in barca con noi con tanto di macchina fotografica. Era, secondo le nostre regole, un aggeggio consentito, canne da pesca a parte. Scattò un’infinità di foto, molte delle quali veramente belle con quei giochi di riflessi sull’acqua, i colori dei piumaggi, i tuffi e le emersioni, le scie iniziali delle zampette palmate a tracciare momentanei solchi nell’acqua prima che si librassero in volo. Le foto, stampate in bianco e nero e a colori furono montate su grandi pannelli ed esposte nel salone di Santa Marta a Omegna. Non solo: il dottore, da alcune di queste immagini trasse l’ispirazione per alcuni straordinari acquerelli, confermandosi un artista di rara sensibilità. E di ferma e indiscussa impronta animalista che, tanto per esser chiari, non guasta mai.

Marco Travaglini

Il rombo del trattore di Laura

Sul comodino il “Corriere dei Piccoli”. Non uno qualsiasi, ma il numero 31 del millenovecentosessantotto, quello che “celebrava” Michel Vaillant con un poster a colori allegato alla rivista. E sopra, a fianco della spalliera del letto, la foto ingrandita del “Drago di Cavarzere”, il grande Sandro Munari che, a bordo della sua Lancia Stratos HF, si era appena aggiudicato la coppia Fia per piloti, la massima competizione mondiale per auto da rally. Un’impresa da brivido e un vanto nazionale, visto che era il primo italiano a mettere le mani su quel trofeo.

L’asso francese delle quattro ruote, frutto dell’immaginazione e della penna di Jean Graton, e il pilota veneto che stracciava tutti sulle strade ghiacciate di Montecarlo; non era una stranezza, per una ragazzina di 14 anni? Non che disdegnasse, da piccola, le bambole, ma era incredibilmente attratta dai motori. Aveva persino pasticciato più volte (rivelando una certa qual competenza) attorno al suo motorino e avrebbe dato chissà cosa per poter guidare uno di quei bolidi.

Nei paesi francofoni andavano matti per quell’eroe di carta, il pilota più veloce di tutti i tempi, capace di mettere il muso della sua “Vaillante” davanti a quello delle altre auto alla 24 ore di Le Mans. Più affascinante di Jacky Ickx, simpatico come Mario Andretti, estroverso come Clay Ragazzoni, metodico come Niki Lauda. E lei, divorandone il fumetto, sognava ad occhi aperti di scendere in pista con la tuta e il casco integrale, infilandosi nello stretto abitacolo della monoposto e sfrecciare via contro vento. Una ragazza in gamba, Laura. Sveglia, simpatica e piena d’entusiasmo. La passione per le corse derivava dall’eccezionalità della sua famiglia? Nulla di più strano. Figlia di contadini, cresciuta nelle campagne del “profondo” Piemonte, non aveva ricevuto nessuna spinta verso i motori in genere. Sul retro del cascinale c’era, ben riparato da una tettoia, un vecchio trattore Fiat 25R, datato 1951, dal colore arancione ormai smunto. Alimentato a gasolio, con ruote non troppo grandi, stretto per poter viaggiare nel frutteto, quand’era in moto lanciava tutt’attorno un ruggito cupo e ansimante, determinato dall’usura e dal peso degli anni. Lo guidava suo zio Giovanni, con abilità e destrezza. Ma anche Laura, appena possibile, si metteva al volante e con il vecchio Fiat improvvisava corse impossibili sull’aia e nel grande prato dietro alla cascina. Il rombo del trattore seminava terrore tra gli animali. Le galline fuggivano, chiocciando disperate; i pulcini pigolavano in preda al terrore. I tacchini gloglottavano caracollando su e giù, minacciando le oche che, schiamazzando atterrite, avevano perso ogni parvenza di coraggio.

Solo il gallo, impettito e fiero re del pollaio, trovò un barlume di intraprendenza e tentò di fronteggiare il mostro meccanico, un gesto ardito che durò ben poco, poi, abbandonata ogni baldanza, fuggì pure lui a cercare riparo sotto la scala di legno che portava al fienile. Laura, incurante della baraonda creatasi, continuò le sue evoluzioni, percorrendo in lungo e in largo lo spiazzo della casa colonica per imboccare, infine, a tutta velocità il prato e il sentiero dei campi. In ogni momento della giornata che non la vedeva impegnata a scuola o a aiutare i suoi nell’attività agricola, le principali occupazioni erano fondamentalmente due: divorare libri e ogni tipo di pubblicazione le passasse tra le mani e guidare quel trattore che pareva aver visto la guerra tanto appariva malconcio. Non smentendo chi la considerava un vero maschiaccio, come i vicini della cascina dei Pioppi, quando il trattore denunciava la propria anzianità di servizio ansimando o tossendo a causa dei problemi al motore o alla parte meccanica, s’ingegnava a ripararlo. Con cacciaviti e chiavi inglesi, fil di ferro e pezze per le camere d’aria, sporcandosi di grasso dalla testa ai piedi, riusciva quasi sempre a riparare il trattore che, magari arrancando un poco, si rimetteva in cammino. Quando proprio non c’era verso di venirne a capo interveniva il signor Oreste Bulloni, conosciuto da tutti con lo pseudonimo di “mani d’oro”, un garagista capace di compiere dei veri e propri miracoli. Oreste voleva un gran bene a quella ragazzina alla quale pronosticò un brillante avvenire di meccanico. Ma la passione di Laura, oltre alle bielle e ai pistoni, era la guida. I brividi che provava in quelle scorribande sui prati, avvinghiata al volante, manovrando con secchi movimenti il cambio e pigiando, senza risparmio, sui pedali, la rendevano felice. Lo zio Arcibaldo decise di fare un regalo alla nipote, iscrivendola alla gara di trattori e altri mezzi agricoli che ogni anno si svolgeva a Casalborgone in occasione della tradizionale “Sagra del pisello”. Laura fece salti di gioia. Quale occasione poteva capitarle per dimostrare tutto ciò che aveva imparato, dando prova della sua abilità di guida in una vera competizione?

Nei giorni che precedettero l’evento faticò a pensare ad altro. La sua testa era là, tra i campi del piccolo paese dell’Oltrepò, di giorno e di notte. A volte si svegliava di soprassalto, immaginando di dover riparare un guasto del trattore mentre lo guidava come una forsennata sulle strade agricole ai margini dei seminativi. In effetti, come ogni anno, c’era grande attesa per la gara che metteva in palio il decimo trofeo “Il rombo del trattore”, accompagnato da un cesto di vivande, una generosa quantità di piselli, una fornitura completa per due cambi d’olio del motore e una tuta integrale dove campeggiava la scritta “Numero 1”, riprodotta in vernice fluorescente. Alla manifestazione, in programma per il giorno successivo, si erano iscritti in molti, chi con il proprio mezzo, trattore o altro veicolo destinato ad arature, semine, scavi o traino. Arrivati di buon’ora a Casalborgone, Laura e i suoi avvertirono, immediatamente, che lo spirito di competizione era alle stelle. Il pubblico, nonostante l’ora antimeridiana, dimostrava d’aver già apprezzato le mescite del vino e della birra nei rispettivi stand al fianco di quelli gastronomici dove i panini venivano imbottiti d’ogni ben di Dio, mentre sulle griglie roventi sfrigolavano braciole, salamelle e costine di maiale. “Il rombo del trattore” non era solo una sfida su quattro ruote, ma molto, molto di più. Tutti i driver (come li definiva Celestino Sbrodoli, speacker ufficiale della manifestazione che, con irruenza contadina e terminologia anglosassone, impugnava il microfono quasi volesse strozzarlo) partecipanti all’appuntamento organizzato per la “Sagra del Pisello” si erano ripromessi di mettere in campo abilità, tenacia, ma soprattutto la propria esperienza e le proprie abilità. Sì, perché a parte la giovanissima Laura, tutti i competitori – poco meno di una decina – erano dei veterani della corsa che si snodava tra i campi da Val Chiapini a Val Frascherina per terminare nella piazza principale del paese con la gimkana fra i birilli. Per vincere occorreva completare il percorso nel minor tempo possibile senza incorrere in penalità. Cosa non facile sulle stradine, sulle piste agro-silvo-pastorali, sui viottoli tra i campi, tra i covoni di fieno e le cascine.

Ma dai concorrenti in gara e dai loro mezzi agricoli di varie categorie erano attese le più spericolate e spettacolari evoluzioni. Il percorso andava fatto tre volte e, già dal secondo giro, erano rimasti in tre a contendersi la testa della gara, dopo aver staccato gli altri concorrenti, alcuni dei quali si erano ritirati. Il veicolo del mezzadro della cascina dei Fondi, Evaristo Centobuchi, fu il primo ad abbandonare la competizione a causa di un incidente. Il trattore era finito addosso ad una recinzione e il conducente era stato sbalzato sulle balle di fieno. Per pura fortuna non si era fatto quasi nulla, se nel quasi si potevano ricomprendere le numerose sbucciature su gomiti e ginocchia. Altri due concorrenti, uno dei quali montava una motozappa modificata, finirono la corsa in un grande campo di piselli dopo aver sfondato una staccionata. Il proprietario, evidentemente poco incline a tollerare quell’invasione di campo della coppia di partecipanti alla competizione motoristica, li inseguì, brandendo un forcone, e solo il provvidenziale passaggio in auto offerto dal cugino di uno dei due evitò il peggio ai malcapitati. La gara continuò senza pause e Laura fu tra i primi concorrenti a doppiare il povero ragionier Carlo Conticini che, a bordo di un vecchio Fiat 18 degli anni ’50, si era impiantato per la fusione del motore. La gru dei pompieri del distaccamento di Chivasso aveva recuperato il trattore, adibito al trasporto del foraggio, offrendo un passaggio anche al contabile che, stringendo una chiave del 22 tra le mani, non riusciva a trattenere le lacrime, lamentandosi con il mezzo ormai fuori uso: “Còsa ch’it l’has fàit a ‘l tò pòver Carlin?”. Una sorte diversa era capitata al mezzadro della cascina dei Pioppi, il signor Cascioni, costretto a gettare la spugna a causa di una improvvisa e fastidiosa “crisi” alla parte bassa e terminale dell’apparato digerente. Mancavano meno di due chilometri all’arrivo quando Fulgenzio Vigorosi, fittavolo di un terreno dalle parti di Cavagnolo e terzo concorrente rimasto in gara, sparì in una nuvola di fumo nero, inequivocabile e inappellabile sentenza di abbandono del motore del suo Carraro del ’58, il primo trattore con il marchio dei “Tre Cavallini”. Giunti ormai alle battute finali della gara, davanti al cartello che annunciava l’ultimo chilometro transitarono i due mezzi rimasti a contendersi il trofeo. Si annunciava un vero e proprio testa a testa tra il Fiat 25R di Laura e un rombante Landini 13000 da centotrenta cavalli, piccolo gioiello uscito dalla storica fabbrica emiliana di trattori nel 1989, guidato da Calogero Strappapeli, meccanico di origine siciliana, contitolare di un’officina meccanica a Verolengo.

La ragazzina cercava di tenere il ritmo dell’avversario, ma il veicolo dello Strappapeli era decisamente più veloce. Il destino, tuttavia, riserva sempre sorprese inaspettate, a volte anche spiacevoli. Fu proprio una di queste ultime a spegnere il ghigno che, fino a pochi attimi prima, sembrava stampato sul volto del meccanico. La sorpresa di materializzò sotto forma di una buca la cui profondità era celata dall’acqua che l’aveva riempita a seguito del forte acquazzone della sera prima. La ruota anteriore destra del Landini finì nella buca, il conducente perse per un istante il controllo e finì sbalzato  nel fosso di scolo delle acque di irrigazione, provocando un fuggi fuggi di rane e rospi. Il trattore non si ribaltò e terminò la corsa contro un gigantesco ontano nero. Il conducente, coperto di fango, assistette attonito alla scena; illeso, ma moralmente scornato. Rimasta senza avversari, Laura percorse l’ultimo tratto tra gli applausi del pubblico che riconobbe in quella ragazzina la stoffa di una vera campionessa, caparbia nel carattere e diabolicamente in gamba nella guida. Il meritato successo le fece guadagnare, oltre ai premi, anche belle foto e ammirate parole sui giornali locali. Era felice per aver dimostrato di essere davvero una ragazzina in grado di farsi valere. Ma, nei giorni successivi, rendendosi conto che quella prova quasi temeraria le era costata moltissimo in termini di ansia, apprensioni e inquietudini decise di riflettere se continuare o meno a cimentarsi in quel genere di avventure. Non che fossero tante le occasioni per gareggiare con mezzi agricoli, ma, a suo parere, valeva la pena di riflettere su ciò che aveva provato. Ci ragionò abbastanza e, infine, prese una decisione. La passione per i motori faceva ormai parte delle sue passioni e non era certamente sua intenzione rinunciarvi. Le competizioni, invece, erano un altro paio di maniche. Troppa irrequietudine nelle fasi preparatorie, troppa fatica e trepidazione durante la gara. Decise, quindi, di lasciar perdere. Il desiderio della prova d’abilità se l’era tolto, in fin dei conti. Quando le fosse venuta voglia di far correre il trattore nei campi, tempo permettendo, il suo Fiat 25R era a disposizione, pronto ad assecondarne i voleri. Qualora avesse avvertito il desiderio di mettere le mani su cilindri e bielle, alberi motore e ingranaggi vari, annusando gli odori di benzina e del grasso lubrificante, nessun problema: la giovane avrebbe avuto modo di soddisfare la sua passione per la meccanica, mettendo in mostra l’innato talento senza dover sacrificare lo studio e chissà quali altre possibilità la vita le avrebbe offerto.

 

 

8 marzo in Barriera: quando la primavera iniziava prima

Cosa succedeva in città / Per noi “ragazzotti di Barriera” la Primavera cominciava dal 1 marzo. Esattamente 20 giorni prima. Febbraio è ancora inverno. Marzo un’ altra cosa. Eravamo impazienti su tutto, anche sulle stagioni. Qualcosa che si avvicina alla libertà di andare come il vento che spazza via tutto. Del resto si sa che Marzo è ventoso. Un vento che non dà fastidio e che porta via anche la puzza di bruciato.

In largo Palermo si fondevano il dolce profumo dei biscotti Wamar con la puzza delle gomme della Ceat. Vento che rende più tersa l’aria. Spazzava via il grigio che ammorbava di notte la città. Torino dove si mischiavano case e Boite di artigiani. Tempi in cui si non si buttava via niente. Dai meccanici ai creatori con l’ immancabile ciabattino, o calzolaio dir si voglia.

Come il pugliese di via Cimarosa, case anni 50. Entravi ed era tutto lì. Dal laboratorio al bancone. Come faceva a non inghiottire i chiodi?  Mistero. Entrando ci accoglieva il rumore di martello. Risuonava, e lui non aveva telefono. Sanno dove trovarmi. Pugliese strano. Ineccepibile il suo dialetto torinese. Inebriato dal profumo del cuoio. E il ricordo si annida nelle narici. Ancestrale, quasi esserci sempre stati. In quegli anni, a Marzo, facevo la mia prima conoscenza con l’8 Marzo. Inizialmente quasi in modo clandestino. Come i fiori che mia madre mi costringeva a portare alla maestra beccandomi del secchione. O mia madre libera per un giorno. Si prendeva il 57 fino in centro. Camera del Lavoro in via  Principe Amedeo e poi pranzo nelle Langhe.

Un rito, una tradizione. Parlava, parlava, parlava con le compagne di un tempo. Lei costretta al silenzio di tutto l’ anno, pantalonaia che lavorava rigorosamente in nero, versando le volontarie. Compagni da una parte e compagne dall’altra: il 68 era ancora lontano. Avrebbe sconfinato tutto, ma proprio tutto. I comunisti uscivano dall’ isolamento non solo politico. Esistenziale e non sol . Molti cinquantenni non capirono più niente innamorandosi di giovani donne affascinate dalla loro rettitudine morale. Ma questa è un’ altra storia. Poi c’è la mia piccola storia dell’8 marzo 1975, sabato,  la manifestazione finisce in piazza Carlo Alberto. Mi siedo vicino a Patrizia responsabile della zona Vanchiglia. Da mesi volevo conoscerla. Una parola tira l’altra. Ah,  sapeste quando mi piaceva ma “tanto non riuscirò mai nel fidanzarmi con Lei”. Mi sbagliavo. Un 8 marzo tra ricordi politica e, perché no, di amori. Tutto finisce, anche l’ amore. Rimane però  il ricordo di tanti Marzo tra mia madre libera almeno un giorno in un anno. Tra giovani ed ardenti amori giovanili, tante speranze di allora. E su questo, ammettiamolo, siamo ora decisamente più deboli.

Patrizio Tosetto

Gli acchiappaluna

 

La luna ricama di luce l’acqua del Maggiore, dondolando al ritmo delle onde. I cinque amici, pur essendosi resi conto dell’assurdità della loro impresa, almeno un tentativo decidono di farlo

 

“…Tacum i tach… Mi, tacat i tach a Ti che ti tacat i tach? Tacatai ti i tò tach, ti che ti tacat i tach…”. (“Attaccami i tacchi… Io, attaccarti i tacchi a te che attacchi i tacchi? Attaccateli tu i tuoi tacchi, tu che attacchi i tacchi!”) Ogni mattina, quando Berto della Rosetta passa davanti alla bottega di Guido, il calzolaio, è sempre la stessa identica scena. Giunto in prossimità della porta del negozietto comincia a cantilenare a gran voce. Sa bene che all’amico quella filastrocca dà sui nervi ma lui lo fa apposta e continua fino a quando l’altro compare sull’uscio con una vecchia scarpa o una ciabatta e, imprecando, gliela tira. E’ così che si salutano. Bizzarro, vero? E non è niente. Dovreste vedere quando si trovano all’osteria o in qualche altro ritrovo. Si guardano in cagnesco come se dovessero litigare su ogni cosa, e poi si sfidano a proverbi e scioglilingua. Sì, proprio così: una gara incruenta ma ricca di colpi di scena. Volete un esempio? Stamattina, appena si sono visti è iniziato il solito duello. “Il calzolaio non giudichi oltre la scarpa”, ha sentenziato Berto, lasciando intendere all’altro che farebbe bene a fare il suo mestiere standosene zitto. “Sai qual è il colmo per un panettiere come te? Avere una madre che si chiama Rosetta”, ha risposto Guido, sganasciandosi dalle risate. L’altro, con una smorfia e una punta di perfidia, risponde: “Sai qual è il colmo per un calzolaio come te? Trovare un concorrente che ti faccia le scarpe. Ma non c’è pericolo: vedo che hai sempre le scarpe rotte”. Guido, scuro in volto, non lascia cadere la cosa e ribatte: “Dai, Berto, non esagerare, eh? Dagli un taglio. Non è pane per i tuoi denti e non provarti a rendere pan per focaccia, caro il mio mangiapane a tradimento. Vai a insaccare la nebbia invece che la farina, và… Sempre lì ad aprire la bocca e parlare a vanvera”.

Meno male che sono amici, altrimenti la disputa finirebbe male. Così, raggiunto l’apice della polemica, come d’incanto, si danno delle gran pacche sulle spalle e vanno, tenendosi a braccetto, fino all’Osteria per il primo brindisi della giornata. Insieme agli altri amici formano un bel gruppo, senza legami di parentela tra loro (“I parenti sono come scarpe. Più sono stretti e più fanno male”, dice Guido che di scarpe, com’è ovvio, se ne intende.)Sono tutti di Oltrefiume e, ovviamente, sono degli Zulù, portando con spavalderia il soprannome degli abitanti della frazione raccolta tra il Selvaspessa, la Tranquilla, la Viscanìa e il confine di Feriolo. Tutti pronti a far “baracca”, magari anche a litigare tra di loro ma disposti anche a farsi in quattro quando uno di loro è in difficoltà e necessita dell’impegno solidale degli altri. Sembrano quasi una confraternita, come ha detto un giorno Don Piero, scuotendo la testa. “ Come no! Siamo la confraternita degli Zulù. Un po’ matti, un po’ balordi ma di buon cuore”, ci tengono a precisare.  Per essere originali lo sono senz’altro. Forse anche un tantino troppo originali. Berto, Guido, Merico, Gianni e Luciano sono compagni di briscole e bisbocce, gran giocatori di carte ma soprattutto di bocce. Luciano è il “puntatore” del gruppo. Preciso come uno svizzero nell’accostare la boccia al pallino. Guido e Gianni, esperti nella “raffa”, bocciano al volo che è un piacere, mostrando dei tiri da veri cecchini.

Berto e Merico sono, come dire?  più “universali”: non eccellendo in nessuna specialità, si arrangiano un po’ con l’una e un po’ con l’altra. Insieme, però, nelle gare sui campi dei Circoli e delle bocciofile, dimostrano d’essere una squadra mica male. Si sono dati anche un nome: “Le bocce degli Zulù”. Che, volendo, può essere esteso all’altra loro caratteristica: l’essere dei testoni, avere delle “bocce” dure come il granito delle cave sul monte Camoscio. In questi giorni, finito di lavorare, si trovano a far due chiacchiere ai tavolini del Circolo. Si sta ancora bene, all’aperto, perché è un autunno strano. Sul calendario di Frate Indovino, affisso nella bacheca a fianco dell’entrata del consorzio agrario, la pagina d’ottobre, con le sue fasi lunari, sta per lasciar posto a quella di novembre, ma l’aria resta tiepida e la luce più viva del solito. Pare più stagione di mosto spumeggiante d’uva americana e di funghi più che di nebbie, primi freddi e caldarroste. Nessun dubbio che, presto o tardi, le cose andranno a posto, immergendo il lago e le colline in quell’opaca e lattiginosa aria triste che solo novembre sa dare al paesaggio. Ma, intanto, è un gran bella cosa potersi godere il clima mite di questa primavera fuori stagione. Così passano le ore, chiacchierando e “trincando”, con le bottiglie che diventano leggere e le teste pesanti. Merico, alzando un po’ la voce, ricorda quella volta che presero in giro stresiani e bavenesi, impegnandosi – in quanto Zulù- a tagliare il fieno del codino dell’Isola Pescatori con i “falcett di Stresa per dar da mangiare il raccolto ai “gòss” di Baveno, prendendo in giro gli uni e gli altri, utilizzando i soprannomi che gli abitanti dei due comuni si portano addosso da una vita. Ride, ricordando, Merico. E ridono anche gli altri, rammentando che quella volta dovettero affidarsi alla velocità delle loro gambe per scansare le botte che gli uni e gli altri avevano loro promesso in quantità non certo modica. Sono dei burloni ma anche, in fondo, dei creduloni.

E così, guardando la luna fare capolino in cielo, proprio dietro al cucuzzolo tondo della vetta, Gianni si alza di scatto, quasi avesse il fuoco sotto il sedere, gridando: “E se andassimo su con la scala del Gioacchino a prenderla e portarla giù, quella luna là? Avremmo luce gratis sempre e per tutti. Eh, che ne dite?Finiremmo su tutti i giornali”. L’idea è così balzana che più balzana non si può. Gli altri quattro guardano Gianni con stupore, come si guardano i matti quando straparlano, quando sono “fora da testa”. Ma, stupore nello stupore, tre di loro dicono all’unisono, a conferma del loro essere dei balordi che, per di più, hanno alzato il gomito più del solito: “Dai… che idea fantastica!”.  Solo Guido, scuotendo la testa, mormora “Ma va a Bagg a sunà l’organ, ciaparàtt d’un ciaparàtt!” (che, tradotto per chi non è un mezzo sangue lombardo-piemontese come noi, equivale a “vai a Baggio a suonare l’organo! Buono a nulla di un buono a nulla!”. Un modo per mandare a quel paese chi s’accusa di falsità poiché nella chiesa di Baggio, alla periferia milanese, l’organo per esserci c’è ma è dipinto sul muro dato che la chiesa non poteva permettersene uno vero.) Ma non perdiamoci in particolari. Fatto sta che alla Confraternita degli Zulù l’idea di un’impresa così strampalata piace. Ad essere sinceri, piace molto. Anche Guido, nonostante il suo scetticismo, non può tirarsi indietro. Guarda storto Gianni e, tradendo le origini meneghine, borbotta a mezza voce un “te ghè ciapà la vaca per i ball”, traducendolo per tutti in un “stai facendo un lavoro sbagliato, alla rovescia”. Ma ormai è tardi e la decisione è presa: si va su al Mottarone per acchiappare la luna. Occorrono, però, una scala bella lunga e delle corde . “Non possiamo andar su per boschi e sentieri con in spalla una scala”, dice Berto.

A maggior ragione se si tratta di una scala lunga. Dove si può trovare un attrezzo del genere?  L’idea viene a Merico: “ Cavolo, ce n’è una che fa al caso nostro, la scala a pioli del Gìmell, su in Scerèa”. Recuperate delle lunghe corde nel magazzino della Navigazione (“Si chiamano Pietro-torna-indietro, eh? Ci siamo capiti, balordoni? Devono tornare qui”, si raccomanda Duilio Ripari, vociando dal suo ufficio all’Imbarcadero), si parte. Con passo svelto, in breve, si guadagna il sentiero che sale dopo il ponticello sul Selvaspessa fin su, oltre la Fraccaroli. Da lì, tra boschi di castagni e faggi, a mezzacosta, si va a Loita e poi a Campino. Dietro la casa del prevosto s’incontrano il campo di patate e l’orto, dove don Gallia coltiva la verdura. Il sole sta tramontando e le ombre si allungano tra gli alberi. All’alpe Scerèa una volpe svicola via in mezzo al prato, disturbata mentre – con ogni probabilità – sta architettando l’assalto alle galline del Gìmell. In fondo la fulva predatrice ha avuto una gran botta di fortuna. Non può sapere che l’anziano alpigiano la sta aspettando con la sua doppietta, pronto a scaricarle addosso le cartucce caricate a pallettoni. “Bruta logia d’una vulp”, impreca l’Aurelio Gemelli, conosciuto da tutti come il Gìmell, agitando in aria il pugno. Si era appostato dietro al pollaio, pronto a far fuoco, e l’arrivo dei cinque Zulù gli ha rovinato la sorpresa. “Anche stavolta, quella bestiaccia, ha salvato la ghirba ma non è sempre festa. E voi, cocomeri, cosa fate qui all’alpe? Non potevate stare giù in paese a fare i fannulloni? Siete amici miei o amici della volpe?” Tocca a Gianni, titolare dell’idea, esaurite le scuse, spiegare il perché e il per come di quella visita.

Non è ben chiaro, a questo punto, cosa stia dicendo il Gìmellma dal colorito del volto, rosso come un peperone maturo, è meglio lasciar perdere. Comunque, il prestito della scala è concesso. Con una raccomandazione: “Attenti, balordi. La scala è vecchia e qualche piolo malfermo. Io l’usavo per salire sul tetto del fienile ma ora non mi fido più, alla mia età…”.  Raggiunto l’obiettivo, i cinque salutano e, torce elettriche alla mano perché è ormai buio, attraversano il prato. Berto davanti e Gianni dietro, portano la scala e, per poco, non calpestano un riccio che sta lì, vicino al vecchio melo selvatico. Intento a caricarsi una raggrinzita mela sulla schiena, dopo averla inforcata con i suoi aculei, viene evitato per un soffio dallo scarpone numero quarantasei di Berto. Pochi centimetri più in là e addio riccio. Gianni impreca: “Stai attento a dove metti i piedi, crapone!“. Berto bofonchia qualche parola di scusa e il riccio, ignaro del rischio corso, continua lentamente nel suo intento d’accumular provviste per l’inverno che non tarderà ad arrivare. Ritornati nel bosco, camminano in fila indiana sul sentiero che sale verso la Vidabbia, accompagnati dallo stridire acuto di una civetta. A notte inoltrata, giunti al margine del bosco di querce, restano lì, impalati e a bocca aperta, davanti allo spettacolo della luna che inonda di luce la vetta senz’alberi. E’ bellissima. Grande, lucente e tonda. Così bella da far male al cuore. Da ieri è tornata piena e, a sentir Berto, pare una gran bella pagnotta. “Sì, di quelle dorate, gonfie, che facciamo al venerdì nel forno di mia madre, della Rosetta”, aggiunge. “Ma no, dai”, lo interrompe Gianni. “Sembra piuttosto una polenta. Guarda bene. La vedi com’è gialla?”. “Ma la polenta non è tonda e questa è perfetta come un cerchione delle bici del Carlin, quello che ha aperto l’officina da ciclista sul lungolago”, sottolinea a sua volta Merico. Insomma, ognuno la vede a modo suo ma tutti restano incantati quando, giunti sulla sommità del cucuzzolo, si voltano verso il lago e, giù in fondo, tra una riva e l’altra, oltre alle luci dei paesi tremolanti come fiammelle, vedono i larghi riflessi sull’acqua. La luce lunare gioca con l’acqua e risalta le sagome scure delle imbarcazioni attraccate all’Isola Pescatori. Si vede anche la costa e, spostandosi in posizione più favorevole, Baveno e il suo lungolago.

Dal Molino di Ripa alla pianta storta, dall’imbarcadero alle sagome scure nei pressi del Marmo Vallestrona, più in là, verso Feriolo e Fondotoce. La luna ricama di luce l’acqua del Maggiore, dondolando al ritmo delle onde. I cinque amici, pur essendosi resi conto dell’assurdità della loro impresa, almeno un tentativo decidono di farlo. La scala a pioli viene issata in direzione dell’astro lucente. In tre – Berto, Merico e Guido – hanno il compito di tenerla ferma mentre Gianni sale su con la corda che gli ha passato Luciano. Dondolando pericolosamente, con la mano libera, Gianni lancia la corda che cade di sotto, in testa a Luciano che, imprecando, reclama più attenzione. Anche la seconda corda finisce nel vuoto con un sibilo, senza afferrare un bel nulla, frustando il malcapitato di turno che, stavolta, è Merico. La scala, già malferma, persa la presa di uno dei tre, cade con Gianni che lancia un urlo mentre finisce a terra. Il crinale erboso e i cespugli attorno attutiscono la caduta e Gianni se la cava con poco, cadendo di terga, lamentandosi. La luna resta là, in cielo. Irraggiungibile, per quanto appaia vicina, quasi a portata di mano. L’impresa è fallita. L’operazione “acchiappa la luna” si è rivelata ciò che era: una goliardata, un folle disegno al quale nessuno dei cinque credeva davvero. In fondo, la luna sta bene dove sta. E’ di tutti. E di tutti deve rimanere. Nessuno si potrebbe permettere il lusso di tenersela tutta per se. Per i cinque non è una sconfitta, come diranno poi all’osteria, tra i sorrisi maliziosi e le battute degli altri. “E’ stata una rinuncia”, dice serio Gianni, facendo capire che si è trattato, per scelta loro, di un gesto generoso, altruista. Lasciare la luna in cielo, libera, è stata una cosa che va bene così. E poi, non avrebbero saputo dove metterla. Così sono scesi allegri, cantando, a mani vuote. Solo che, giunti in vista delle prime case di Oltrefiume, si accorgono di aver lasciato la scala del Gìmell in vetta. Un rapido sguardo basta per decidere che sarà recuperata in un altro momento. Per quella volta lì, bastava e avanzava.

 

 

Il cattivo sapore dell’acqua 

Era sempre la stessa storia. Ogni volta che un gerarca veniva sul lago, in visita alle isole Borromee,  a Stresa o in un’altra località nelle vicinanze, Gino e Lucio finivano ammanettati nella rimessa delle barche, proprio  sotto la passeggiata del  lungolago di Baveno

Le disposizioni, del resto, erano chiare: tutti coloro sui quali si nutriva anche solo il sospetto d’essere dei  sovversivi andavano controllati e, se necessario, messi a tacere. I due, pur avendo schivato il confino non potevano evitare quella restrizione della loro libertà. E quindi, giù sotto, in riva al lago, al riparo da sguardi indiscreti.

Incatenati ai grandi anelli di ferro dove venivano assicurate le cime da ormeggio delle imbarcazioni, non erano in condizione di nuocere. “Anche se si lamentassero, là sotto, nessuno potrà udirli”, sentenziò il maresciallo Rustici. Fascista antemarcia, il graduato dei carabinieri evadeva così la spinosa “pratica” di “quelle due teste calde”. “Oh, Carmelo – disse, rivolgendosi al carabiniere scelto Esposito -; ma ti pare che dovevano proprio capitare tra i piedi a noi questi rompiballe?”. Carmelo, buono come un pezzo di pane, annuì per far piacere al suo superiore ma in cuor suo non li avrebbe costretti a star lì, quasi a mollo nel lago, in quell’antro umido e inospitale. Già l’ultima volta, per un  soffio, non c’era scappato il morto. I due –  ai quali era stato aggregato anche Olimpo Bronzelli – erano finiti ammanettati agli anelli d’ormeggio perché era stata annunciata la visita di un pezzo grosso all’hotel Beau Rivage. L’Hotel era proprio lì, dall’altra parte della strada che attraversava il paese. Olimpo, scalpellino nella cava di granito rosa, era finito ai ferri perché reo di aver canticchiato in un’osteria un motivetto che il Podestà aveva giudicato offensivo nei confronti del regime e del Regno. In realtà, il povero tagliapietre – un po’ brillo – aveva improvvisato un’innocua e vecchia tiritera che più o meno suonava così: “Viva il Re, viva la regina e viva la capra della Bettina”, animale reso famoso dall’eccellente e copiosa produzione di latte. Uno scioglilingua che però era stato mal interpretato e così, ai soliti due reprobi si aggiunse pure il terzo. Il problema derivò dal maltempo. Una forte perturbazione stava imperversando tra il lago e le alture del Mottarone e, in poco tempo, le onde s’ingrossarono trasformandosi in schiumosi cavalloni che s’infrangevano sulla massicciata ricavata dalla passeggiata del lungolago. Immaginarsi che inferno anche là sotto, per i tre prigionieri. A tratti le onde li sommergevano per poi ritirarsi, lasciandoli infreddoliti e in balia di altri, gelidi, schiaffi d’acqua. Tutti e tre furono costretti, loro malgrado, a bere quell’acqua dal cattivo sapore. Soprattutto Lucio che, una volta liberato, giurò di non toccar più una goccia di quel liquido tremendo, limitandosi – pur nelle restrizioni dell’epoca – a sorseggiare soltanto vino, compreso quello aspro e ruvido, che legava in bocca,spillato dalla botte dell’osteria della Miniera, su in  Tranquilla.

A Tonco d’Asti tra pitu e cavalieri di Malta

A Tonco d’Asti il virus ha sconfitto anche il prode tacchino. Anche il Pitu è finito nella morsa dell’emergenza sanitaria facendo saltare la tradizionale Giostra equestre del tacchino che ogni anno, ad aprile, porta migliaia di persone sulle colline di questo paese di 800 anime a nord ovest del capoluogo

Era stata fissata per domenica 19 aprile ma naturalmente non si farà nulla. Sarà per la prossima volta…ma di Tonco si continuerà a parlare lo stesso, per sempre, non solo per la sua Giostra, ma perchè in paese abitava un personaggio molto importante, più famoso del pitu, che i tonchesi ben conoscono, ne vanno fieri e soprattutto non vogliono farselo portar via da certi storici.

Stiamo parlando nientemeno che del fondatore del glorioso Ordine di Malta, il più antico, più potente e più nobile di tutti gli Ordini cavallereschi della storia. Ebbene, fra Gerardo, vissuto nell’XI secolo, sarebbe nato (il condizionale è d’obbligo) proprio a Tonco d’Asti e quasi mille anni fa creò l’Ordine ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme che diventerà in seguito il Sovrano Ordine Militare di Malta. Nella festa del Pitu, antico rito popolare propiziatorio contadino, compare anche lui: la giostra equestre è preceduta dal corteo storico dei nobili che vanno a trovare Gerardo e sono seguiti dai carri dei borghi, dai fantini, da scene di vita contadina e dal povero Pitu (oggi un fantoccio di tessuto) che rappresenta il feudatario locale sul quale il popolo scarica tutta la rabbia accumulata durante l’anno. Nel sito del Comune astigiano si legge che “attualmente tutte le prove dimostrano che Gerardo da Tonco è di famiglia monferrina, uscito dai Signori di Tonco, i quali signori feudali compaiono in numerose carte della regione”. Bufale, fake news? Niente affatto. Gerardo si era trasferito a Gerusalemme per dare una mano ai cristiani e ai pellegrini e, secondo una leggenda, durante l’assedio di Gerusalemme nel 1099 da parte dei crociati gettò loro del pane dalle mura ma quando fu scoperto il pane si trasformò all’improvviso in pietre. Quindi anche il nostro Gerardo, che ha fatto conoscere il nome di Tonco in tutto il mondo, è volato nel Vicino Oriente anticipando le gesta dei celebri marchesi del Monferrato, da Corrado a Bonifacio.

Ma qui divampano le polemiche che dividono gli storici molti dei quali sostengono che fra Gerardo Sasso (e non di Tonco), superiore dell’Ospizio per pellegrini nella Città Santa, nacque ad Amalfi o nei pressi della cittadina, da dove partirono, intorno al 1050, i primi mercanti diretti a Gerusalemme per costruire una chiesa e un ospedale per accogliere e curare i malati. Tra questi studiosi spiccano l’inglese Ernle Bradford, Claudio Rendina e lo stesso Ordine di Malta nel suo sito ufficiale. Gerardo nato sulla costiera amalfitana? I tonchesi non ci stanno e mostrano invece le tesi sostenute dagli storici piemontesi che la pensano ben diversamente. Tanto più “che la partenza di Gerardo di Tonco per Outremer rientra nel quadro della partecipazione di tante famiglie feudali monferrine alle Crociate…” precisa Aldo di Ricaldone nella rivista “Note di storia” della Camera di Commercio di Asti. Lo scrittore e studioso casalese auspica inoltre che “in una prossima edizione della Storia dell’Ordine di Malta si provveda ad inserire un’opportuna appendice dimostrante che Gerardo di Tonco non è né amalfitano né provenzale ma piemontese, dei signori di Tonco Monferrato”. Il mistero continua.

Filippo Re