Torino tra architettura e pittura

Torino tra architettura e pittura. Felice Casorati

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7  I Sei di Torino
8  Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

 

6) Felice Casorati (1883-1963)

Lungi da me sostenere che esistono periodi artistici di facile e immediata comprensione, ogni filone, ogni movimento e ogni tipologia d’arte necessita di un’analisi approfondita per penetrarne il senso, tuttavia mi sento di affermare che da una certa fase storica in poi le cose sembrano complicarsi.

Mi spiego meglio: siamo abituati a considerare “belle opere” le architetture classiche, così come le imponenti cattedrali gotiche o ancora i capolavori rinascimentali e gli spettacolari chiaroscuri barocchi; il comune approccio alla materia rimane positivo ancora per tutto il Settecento, ma poi, piano piano, con l’Ottocento le questioni si fanno difficili e lo studio della storia dell’arte inizia a divenire ostico. I messaggi di cui gli artisti sono portavoce diventano maggiormente complessi, entrano in gioco le rappresentazioni degli stati d’animo dell’uomo, del suo inconscio, si parla del rapporto con la natura e d’improvviso l’arte non è più quel “locus amoenus” rassicurante a cui ci eravamo abituati. La sensazione di spiazzante spaesamento raggiunge il suo apice con le opere novecentesche, le due guerre dilaniano l’animo degli individui e la violenza del secolo breve si concretizza in dipinti paurosi che di “bello” non hanno granché. I miei studenti, giunti a questo punto del programma, sono soliti lamentarsi e addirittura dichiarano che “potevano farli anche loro quei quadri” o che “sono lavori veramente brutti” e ci vuole sempre un lungo preambolo esplicativo prima di convincerli a seguire la lezione senza eccessivo scetticismo.
Nel presente articolo vorrei soffermarmi su di un autore che si inserisce nel difficile contesto del Novecento, un autore le cui opere sono cariche di inquietudine e rappresentano per lo più immote figure silenziose, come imprigionate in atemporali visioni oniriche.  Sto parlando di Felice Casorati, uno dei protagonisti indiscussi della scena novecentesca italiana, attivo a Torino, dove si circonda di ferventi artisti volenterosi di proseguire i suoi insegnamenti.


Ma andiamo per ordine e, come mi piace sempre ribadire in classe, “contestualizziamo” l’artista, ossia inseriamo l’artista in un “contesto” storico-culturale ben determinato per meglio definire il senso e il portato dell’opera.
Nei primi anni Venti del Novecento, grazie all’iniziativa della critica d’arte Margherita Sarfatti, si costituisce il cosiddetto gruppo del “Novecento”, di cui fanno parte sette artisti in realtà molto differenti tra loro: Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi. Le differenze stilistiche sono più che evidenti poiché alcuni sono esponenti vicini al Futurismo, altri invece si dimostrano orientati verso un ritorno all’ordine, altri ancora hanno contatti con la cultura mitteleuropea. La definizione di “Novecento”, con cui tali pittori sono soliti presentarsi, allude all’ambizione di farsi protagonisti di un’epoca, di esserne l’espressione significativa. Il gruppo si presenta alla Biennale di Venezia del 1924 come “Sei pittori del Novecento”(Oppi presenzia all’avvenimento con una personale). L’esposizione viene felicemente acclamata dalla critica, tanto che, sulla scia del successo ottenuto a Venezia, la Sarfatti si impegna ad organizzare in maniera più incisiva il movimento, quasi con l’intento di trasformarlo in una “scuola”. I risultati si manifestano chiaramente: nel 1926 al Palazzo della Permanente di Milano viene organizzata un’esposizione con ben centodieci partecipanti. Il movimento “Novecento” si è ormai allargato tanto da comprendere gran parte della pittura italiana: fanno parte della cerchia quasi tutti gli artisti del momento, da Carrà a De Chirico, da Morandi a Depero, da Russolo allo stesso Casorati.  Tra i soggetti prediletti rientrano la figura umana, la natura morta e il paesaggio. Presupposti comuni sono il totale rifiuto del modernismo e un continuo riferimento alla tradizione nazionale, soprattutto a modelli trecenteschi e rinascimentali.

Con il passare degli anni il gruppo si fa sempre più numeroso e l’organizzazione del movimento si trasforma, la direzione delle iniziative artistiche ricade anche nelle mani di artisti di prima formazione quali Funi, Marussing e Sironi, insieme a personalità conosciute come lo scultore Arnolfo Wildt e i pittori Arturo Tosi e Alberto Salietti. Diventano via via numerosi i contatti con centri espositivi internazionali; alcuni artisti italiani trasferitisi all’estero si fanno appassionati organizzatori di “mostre novecentesche”, come dimostra ad esempio l’iniziativa di Alberto Sartoris, architetto torinese residente in Svizzera, il quale si occupa di organizzare nel paese di residenza un’ampia esposizione artistica del gruppo. Nel 1930, addirittura, il “Novecento” espone a Buenos Aires, avvenimento doppiamente importante, poiché grazie a tale iniziativa la critica Sarfatti riesce a ricapitolare nel catalogo della mostra le molteplici tappe del movimento. Espongono in Argentina ben quarantasei artisti, tra cui Casorati, De Chirico e Morandi.

 


Come è evidente, l’eterogeneità del gruppo manca di direttive e connotati chiari e univoci. Il tedesco Franz Roth conia appositamente per gli artisti di “Novecento” l’espressione “realismo magico”, che indica una rappresentazione realistica –domestica, familiare- ma al tempo stesso sospesa, estatica, come allucinata. Esemplificativo per esplicitare tale concetto è il dipinto di Antonio Donghi, “Figura di donna”, opera in cui domina una straniante immobilità incantata, la scena è immobile e l’osservatore percepisce che nulla sta per accadere e nulla è accaduto precedentemente.
Ed ecco che di “realismo magico” si può parlare anche per Felice Casorati (1883-1963), artista attivo nella prima metà del Novecento e docente di Pittura presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino.
Egli nasce a Novara, il 4 dicembre del 1883; il lavoro del padre, che è un militare, comporta che la famiglia si sposti spesso. Felice trascorre l’infanzia e l’adolescenza tra Milano, Reggio Emilia e Sassari, infine la famiglia si stabilisce a Padova, dove il ragazzo porta avanti la sua formazione liceale. A diciotto anni inizia a soffrire di nevrosi, ed è costretto a ritirarsi per un po’ sui Colli Euganei; proprio in questo periodo, Felice inizia a dedicarsi alla pittura. A ventiquattro anni -siamo nel 1907- si laurea in Giurisprudenza, ma decide di non proseguire su quel percorso, per dedicarsi all’arte, nello stesso anno parte per Napoli per studiare le opere di Pieter Brueghel il Vecchio, esposte presso il Museo Nazionale di Capodimonte.


Nel 1915, si arruola volontario nella Prima Guerra Mondiale, lo stesso fanno molti suoi contemporanei come Mario Sironi, Achille Funi Filippo Tommaso Marinetti, Carlo Carrà, Gino Severini, Luigi Russolo e Umberto Boccioni.
Nel 1917, dopo la morte del padre, Felice si trasferisce a Torino, dove attorno a lui si riuniscono artisti e intellettuali della città. Tra questi vi è Daphne Maugham, che diventerà sua moglie nel 1930 e dalla quale avrà il figlio Francesco, anche lui futuro pittore.
Casorati a Torino ha molti allievi nella sua scuola e presso il corso di Pittura dell’Accademia Albertina. Gli artisti più noti legati al suo insegnamento sono riuniti nel gruppo “I sei di Torino”, tra questi Francesco Menzio, Carlo Levi, Gigi Chessa e Jessie Boswell.
La sua ascesa artistica è sostenuta da diverse amicizie, tra cui il critico d’arte Lionello Venturi, la critica milanese Margherita Sarfatti, gli artisti di Ca’ Pesaro, il mecenate Riccardo Gualino e l’artista di Torinese Gigi Chessa insieme al quale partecipa al recupero del Teatro di Torino.
L’artista non lascerà più il capoluogo piemontese, e qui morirà il 1 marzo del 1963 in seguito ad un’embolia.
L’autore è da considerarsi “isolato”, con un proprio personalissimo percorso, pur tuttavia incrociando talvolta le proprie idee con altre ricerche artistiche di gruppi o movimenti a lui contemporanei.
Secondo alcuni critici, le opere di Casorati sono intrise di intimità religiosa. Lo stile pittorico dell’autore si modifica nel tempo, i primi lavori sono infatti decisamente realistici e visibilmente ispirati alle opere della Secessione Viennese; negli stessi anni si può notare l’influenza di Gustav Klimt, che porta Felice ad abbracciare per un breve periodo l’estetica simbolista. L’influsso klimtiano è particolarmente evidente in un’opera del 1912, “Il sogno del melograno”, in cui una donna giace dormiente su un prato fiorito. Il prato intorno alla fanciulla è cosparso di una moltitudine di fiori di specie differenti, mentre dall’alto pendono dei grossi grappoli di uva nera. I riferimenti all’artista viennese sono concentrati nella figura della ragazza, con chiari rimandi ai decorativismi delle “donne-gioiello” protagoniste di raffigurazioni quali “Giuditta” (1901), “Ritratto di Adele Bloch-Bauer”(1907) o il celeberrimo “ll bacio” (1907-08).
La figura del soggetto ricorda inoltre le opere preraffaellite, nello specifico l’ “Ofelia” di Sir John Everett Millais.


Negli elaborati degli inizi del Novecento, invece, sono evidenti i riferimenti a capolavori italiani del Trecento e del Quattrocento; nello stesso periodo l’autore si concentra su una generale semplificazione del linguaggio e sullo studio di figure sintetiche. Intorno agli anni Venti del secolo scorso impronta il suo stile a una grande concisione lineare, anche se è nel primo dopo-guerra che egli definisce il suo stile peculiare, caratterizzato da figure immobili, assorte, rigorosamente geometriche, quasi sempre illuminate da una luce fredda e intensa. Appartengono a questi anni alcuni dei suoi capolavori, come “Conversazione platonica” o “Ritratto di Silvana Cenni”. Per quest’ultima opera Casorati si rifà al celebre capolavoro rinascimentale “Sacra Conversazione” di Piero della Francesca, di cui riprende l’atmosfera sospesa, quasi metafisica, ottenuta grazie alla rigidità con cui Felice ritrae la donna  –seduta, assorta e immobile-  alla resa scenografica del paesaggio e alla fittizia disposizione degli oggetti all’interno della stanza. Le figure di Casorati sono volumetriche, solide e immote, come pietrificate, l’artista ne esalta i valori plastici grazie al sapiente uso del colore tonale. Nelle ultime tele, le fanciulle ritratte risulteranno quasi geometrizzate, esito di una notevole sintesi formale.
L’illuminazione risulta artificiale e per nulla realistica, effetto sottolineato dal fatto che Casorati non mostra quasi mai il punto di provenienza della luce; il risultato finale è quello di un mondo sospeso, raggelato e senza tempo.
Negli anni Trenta Casorati si dedica a dipingere nature morte con scodelle o uova, soggetti che ben si prestano ad interpretare il suo linguaggio plastico semplificato; egli esegue inoltri diversi nudi femminili in ambienti spogli e alcune tele che presentano disturbanti maschere, tema a lui già caro, come testimonia l’opera “Maschere” del 1921.
Davanti ai lavori di Felice Casorati non possiamo che rimanere attoniti e pensosi, intrappolati nel suo mondo metafisico.
L’arte è così, lo vedo con i miei studenti, non finisce mai di metterci alla prova, continua a incentivare pensieri e confronti e per quanto possa essere “lontano da noi” essa è capace di stimolare discussioni su tematiche sempre inesorabilmente e meravigliosamente attuali.

Alessia Cagnotto 

Torino tra architettura e pittura. Filippo Juvarra

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Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

1) Filippo Juvarra

Stiamo lentamente avanzando verso la primavera, le giornate si fanno poco a poco più luminose e più tiepide e la natura che ci circonda presto inizierà a sgranchirsi, intorpidita dal lungo sonno invernale. Non rimane che incrociare le dita e sperare che l’arrivo della bella stagione porti con sé anche la possibilità di fare qualche passeggiata in più, anche se muniti ovviamente di mascherina, outfit ormai egualmente essenziale e indispensabile. Nella speranza che questi pensieri possano trasformarsi in realtà, mi piace immaginare di poter organizzare un’uscita didattica con i miei studenti alla scoperta delle bellezze barocche di Torino; ribadisco infatti il concetto che l’arte vada insegnata nel modo più concreto possibile, invitando i ragazzi a guardare le architetture dal vivo -nel limite del possibile ovviamente- e non solo sulle pagine dei libri o attraverso la LIM, convincendoli a toccare colori e materiali, e se anche se ci si sporca un po’ non è un problema. È così che mi piacerebbe poter spiegare alle mie classi il “Barocco”, portando i ragazzi a passeggiare per le vie del centro, fermandoci a commentare e a chiacchierare tra piazza Castello e Piazza Vittorio, desidererei poterli condurre alla Palazzina di Caccia di Stupinigi o alla Basilica di Superga, rendendo loro lo studio un’esperienza concreta e trasformando delle nozioni prettamente storico-artistiche in un autentico ricordo di vita.

Sono consapevole di quanto sia utopico il mio pensiero, non solo per la drammatica situazione pandemica che pone ovvi divieti e limitazioni alle nostre abitudini quotidiane, ma anche perché il tempo scolastico pare trascorrere a ritmi insostenibili, le lezioni si susseguono e le ore non sono mai abbastanza per stare al passo con i programmi ministeriali. Non mi dilungo poi su quanto sia diventato complicato a livello burocratico organizzare attività sia dentro che fuori le aule.
Facciamo un gioco, facciamo finta che quanto appena premesso non sia del tutto vero, e fingiamo di poter organizzare un tour della Torino barocca. Prima di tutto occorre mettere in evidenza la personalità che più di tutte ha contribuito alla trasformazione dell’aspetto del capoluogo piemontese, si tratta di Filippo Juvarra, nato a Messina in una famiglia di orafi e cesellatori, è stato scenografo, disegnatore e architetto, la sua formazione è stata decisamente “pratica”, volta a migliorare le qualità tecniche artigianali.
Filippo Juvarra, (1678-1736), arriva a Torino nei primi anni del Settecento. Quando l’architetto messinese mette piede nel territorio si trova circondato da cantieri, lavori di ammodernamento e di ristrutturazione urbanistica, tutti interventi volti a rendere la città esteticamente degna del ruolo di capitale che le era stato decretato da Emanuele Filiberto nel 1563. In questo senso era risultato essenziale il contributo di Guarino Guarini, al servizio dei Savoia a partire dalla seconda metà del Seicento; all’architetto si deve infatti l’edificazione di vari edifici, tra cui la chiesa di San Lorenzo e la realizzazione della Cappella della Sacra Sindone.

E’ tuttavia con Juvarra che la città acquista effettivamente un nuovo aspetto, degno delle idee innovative che investono il Settecento.
Nel 1714 Vittorio Amedeo II di Savoia chiama a suo servizio l’artchitetto siciliano e lo nomina “primo architetto del re”, grazie a questo titolo Juvarra ottiene immediata visibilità all’interno dell’ambiente artistico e la sua ben più che meritata fama viene riconosciuta in poco tempo anche in territori stranieri. Egli infatti intraprende molti viaggi durante la sua vita, lavorando in Austria, Portogallo, Londra, Parigi e Madrid, città in cui morì improvvisamente nel 1736.
La sua formazione avviene prevalentemente a Roma, dove frequenta lo studio di Carlo Fontana e ha l’occasione di studiare dal vivo le opere classiche, rinascimentali e barocche, soffermandosi soprattutto sugli esempi di Michelangelo, come attestano i numerosi schizzi sui quali era solito appuntare le sue osservazioni. A Roma Juvarra esordisce anche in qualità di scenografo, come attestano i fondali che egli realizza per il teatrino del cardinale Ottoboni, al cui circolo arcadico era strettamente legato. I fogli juvarriani del periodo romano evidenziano i suoi molteplici interessi: progetti per architetture e apparati effimeri, capricci scenografici e vedute equiparabili a quelle del Vanvitelli, con cui in effetti Juvarra era entrato in contatto.
Juvarra esercita la sua opera come architetto soprattutto in Piemonte, più precisamente a Torino e dintorni. Egli non solo progetta chiese e residenze reali ma si occupa anche di riorganizzare interi quartieri periferici; lavora sullo spazio urbano e si conforma ai dettami dell’urbanistica torinese, riuscendo tuttavia a creare nuovi punti focali, quali i “Quartieri Militari” nei pressi di porta Susa, la facciata principale di Palazzo Madama (che di conseguenza rinnova anche l’aspetto di Piazza Castello), le chiese di San Filippo Neri, Sant’Agnese del Carmine, e, soprattutto, la Basilica di Superga, che si erge sulla collina e determina un nuovo confine visivo della città. Decisamente degni di nota sono anche i suoi interventi extraurbani, come dimostrano i nuclei architettonici nei pressi di Venaria, Rivoli e Stupinigi.

Tutte le sue costruzioni si inseriscono nell’ambiente in modo armonioso e studiato, ogni cantiere viene soprinteso con rigorosissimo controllo dallo steso architetto messinese; per ogni progetto egli recupera sapientemente il proprio ricco bagaglio culturale, riuscendo di volta in volta a riplasmare e innovare i modelli di riferimento in senso moderno e suggestivo, secondo una razionalità e una sensibilità del tutto settecentesche.
Continuiamo il gioco e immaginiamo di poterci fisicamente spostare per il territorio alla ricerca delle realizzazioni architettoniche di Juvarra. Partiamo da Palazzo Madama: per la ristrutturazione di tale edificio Juvarra parte da modelli francesi, (fronte posteriore di Versailles), e romani, (palazzo Barberini), e arriva però a una soluzione originale: conferisce unità alla parete grazie all’utilizzo di un unico ordine corinzio sopra l’alto basamento a bugnato piatto e sottolinea la zona centrale dell’ingresso con colonne aggettanti e lesene plasticamente decorate. Il palazzo, classicheggiante nella netta spartizione degli elementi, risulta settecentesco nelle ampie finestre attraverso le quali una ricca luce illumina adeguatamente i vani interni. Nella realizzazione dello scalone d’onore, opera unica nel suo genere, Juvarra fa invece affidamento alla sua esperienza teatrale: lo spazio che la gradinata marmorea occupa è uno spazio scenografico. La struttura si presenta di grande impatto visivo ma al contempo è calibrata e misurata, le decorazioni, segnate da delicati stucchi a forma di conchiglie e ghirlande floreali, aderiscono alla scalinata e si amalgamano all’architettura, rendendo più incisivo l’effetto della luce che trapassa le vetrate.

Immaginiamo ora di prendere un pullman e di allontanarci dei rumori della città. La nostra direzione è la verdeggiante collina torinese, dove ci aspetta uno dei simboli della città subalpina. La Basilica di Superga, edificata tra il 1717 e il 1731, svolge una duplice funzione, essa è sia mausoleo della famiglia Savoia, sia edificio celebrativo dedicato alla vittoria ottenuta contro l’esercito francese nel 1706. L’edificio svetta su un’altura, la posizione è tipica dei santuari tardobarocchi, soprattutto di area tedesca. L’impianto centralizzato con pronao ricorda il Pantheon, la cupola inquadrata da campanili borrominiani, invece, si ispira a Michelangelo. Nonostante i modelli di riferimento, sono del tutto assenti quelle tensioni tipiche del Buonarroti o dell’arte barocca: il nucleo centrale ottagonale si dilata nello spazio definito dal perimetro circolare del cilindro esterno, perno di tutto l’edificio; da qui si protendono con uguale lunghezza il pronao arioso e le due ali simmetriche su cui si innestano i campanili. Quest’ultima parte è in realtà la facciata del monastero addossato alla chiesa che su uno dei lati corti fa corpo con essa. L’edificio si estende nello spazio e asseconda l’andamento della collina, e diventa un nuovo e interessante punto di osservazione per chi si trova a guardare verso le alture torinesi.
Impossibile non ricordare la tragedia di Superga, avvenuta il 4 maggio 1949, alle ore 17.03, quando l’aereo su cui viaggiava il Grande Torino si schiantò contro il muraglione del terrapieno posteriore della Basilica, provocando trentuno vittime. Certi luoghi assorbono tristezza e per quanto siano architettonicamente belli, rimangono velati di malinconia e accoramento. Sempre rimanendo sul nostro iniziale filone dell’ipotetico tour scolastico, immagino che mi sarei allontanata dalla Basilica riferendo ai miei allievi una certa superstizione: meglio non visitare la chiesa in compagnia della propria metà, pare infatti che porti sfortuna alla coppietta innamorata.
Saliamo sul nostro pullman e dirigiamoci ora verso un’altra meta.

Nella Palazzina di Caccia di Stupinigi (1729-1733), troviamo un oscillamento tra la tradizione francese e la pianta italiana a forma di stella. Qui ritorna il motivo della rotonda, ma da essa fuoriescono quattro bracci a formare una croce di sant’Andrea, schema su cui Juvarra medita fin dagli anni giovanili. Il nucleo centrale e centralizzato costituisce il punto focale di un disegno vasto e articolato: esso è preceduto da una corte d’onore dal perimetro mistilineo, che si innesta nell’ambiente naturale e per gradi conduce fino al palazzetto vero e proprio; lungo il perimetro della corte d’accesso si dispongono le costruzioni dedicate ai servizi. L’impianto del grande salone richiama precedenti illustri, ma il tutto è trasfigurato in senso rococò, grazie ai ricchi stucchi, alle elaborate pitture, agli arredi e al particolare cadere della luce sui dettagli preziosi delle decorazioni artistiche e artigianali. La muratura esterna è scandita da una successione di lesene piatte nettamente profilate. Tutta la struttura della Palazzina risulta raffinata e in studiato rapporto dialettico con la natura che la circonda; le numerose finestre che si trovano su tutto il perimetro contribuiscono a dare un senso di generale leggerezza, controbilanciando l’impatto visivo dato dalle dimensioni imponenti dell’edificio.
Siamo alla fine del nostro gioco immaginato e ci manca ancora una meta per terminare la lezione sul Barocco.

Le chiese juvarriane presentano soluzioni architettoniche originali, soprattutto la chiesa del Carmine (1732-1735), dove le alte gallerie aperte sopra le cappelle si rifanno ad uno stile nordico e medievale. In queso edificio (che si trova in via del Carmine angolo via Bligny) l’impianto tradizionale a navata unica con cappelle lungo i lati è rinnovato dalla riduzione del muro delimitante la navata a una ossatura essenziale di alti pilastri di ribattutta e dalla sapiente modulazione della luce che, piovendo dall’alto fra i pilastri, si diffonde nella navata e nelle cappelle. Lo storico dell’arte Cesare Brandi così descrive l’elaborata chiesa del Carmine: “L’invenzione appare così una felice contaminazione coll’architettura del teatro e aggiunge un segreto senso di festa e di leggerezza all’ardita struttura della chiesa che solo nella volta, appunto a somiglianza di un teatro, ha una superficie unita, e quasi un velario teso sugli arredi delle grandi pilastrate.”
Ecco, il tour fantastico è terminato, e così anche l’articolo che concretamente sto scrivendo: come nelle favole realtà e immaginazione si mescolano, si sovrappongono e si uniscono, in una sorta di “kuklos” che alla fine fa quadrare tutto.
D’altronde sognare è gratis. Per ora.

Alessia Cagnotto

Torino tra architettura e pittura. Alighiero Boetti

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Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)
8) Alighiero Boetti (1940-1994)

8 Alighiero Boetti (1940-1994)

In genere, a scuola, quando si arriva ad uno dei capitoli finali del libro di testo e si leggono titoli quali “Neoavanguardie” e “ultime tendenze” ci si deve preparare ad una reazione di scetticismo estremo che sovente si manifesta sotto forma di sonora risata corale.
Sono convinta che, per fare bene il mestiere dell’insegnante, sia importante costringersi a ricordare che anche noi siamo stati studenti sospettosi, soprattutto nei riguardi di certe materie.
Reazione non del tutto incomprensibile di fronte a un Kosuth, un Anselmo o una montagna di caramelle messe lì da Gonzalez-Torres; di fronte a un Michelangelo certo non possiamo che meravigliarci, anche se non si conosce appieno il senso dell’opera, ma la maestria con la quale l’autore ha eseguito i suoi lavori basta a convincerci che siamo di fronte a vera “arte”, ciò non avviene con i Dada, con l’astrattismo o con gli artisti concettuali. Niente di strano comunque, perché la peculiarità delle opere nate a partire dalle prime avanguardie è che queste debbano essere sempre accompagnate da una accurata spiegazione.

E poi proviamo a capirli questi studenti. Chiediamo loro di studiare l’imponenza dei Dolmen, la “kalokagathìa” greca, di memorizzare la nomenclatura architettonica delle chiese romaniche e delle cattedrali gotiche, vogliamo che si cimentino nel far proprio il lessico adatto per analizzare alcune delle più importanti opere d’arte dal Rinascimento al post-impressionismo, dopodiché forse non dovremmo stupirci più di tanto se i nostri cari fanciulli si sentono “sballottati” e dubbiosi di fronte a un Munch o all’astrattismo geometrico di Mondrian. E quando i miei giovani pensano che non possa esserci nulla di più “strambo”, ecco che mi diverto – lo ammetto- a proporre alla classe una lezione sulla provocatoria “Arte povera”.
Sono sempre molto attenta a creare un clima disteso durante le mie ore, affinché i ragazzi si sentano a proprio agio e possano intervenire dando la propria opinione o ponendo domande. Questa sentita loro partecipazione fa sì che io riesca a contrastare il loro scetticismo e indurli ad ascoltare quanto ho da dire.
L’utilizzo della lavagna elettronica mi è di grande aiuto, ottengo rapidamente l’attenzione degli studenti e, proiezione dopo proiezione, mi accorgo che l’iniziale diffidenza si tramuta in curiosità.
Parliamo dunque di “Neoavanguardie”, tra le quali una delle più interessanti è l’ “Arte povera”, un movimento artistico tipico italiano, sorto nella seconda metà degli anni Sessanta del Novecento, al quale aderiscono molteplici autori, diversi di ambito torinese.


La data simbolica che segna ufficialmente la nascita della corrente è il settembre 1967, anno in cui Germano Celant (1940-2020), illustre critico d’arte e direttore artistico, organizza un ‘esposizione presso la Galleria “La Bertesca” di Francesco Masnata a Genova, a cui partecipano Boetti (1940-1994), Fabro (1936-2007), Kounellis (1936-2017), Paolini (1940-), Pascali (1935-1968) e Prini (1943-2016).
I lavori dell’ “Arte povera” si basano sull’associazione ambientale di materiali prelevati dal quotidiano, oggetti comuni, che possono essere definiti appunto “poveri” -legno, sassi, paglia, cartone, stoffa, vetro- presentati in maniera disadorna e nella loro essenzialità. Tale poetica è portata all’estremo, solo per citare un esempio, dal greco Jannis Kounnellis, che arriva a palesare autentici spaccati di realtà, come dimostra l’allestimento di cavalli vivi esibito nel 1969 alla Galleria l’ “Attico” di Roma.
L’ “Arte povera” prende dalla “Land Art” il gusto di modificare la percezione di un ambiente o di uno spazio interno attraverso l’uso di installazioni. Tali installazioni possono essere creazioni molto diverse fra loro, ma tutte con un unico intento: stravolgere l’aspetto di una stanza o di un paesaggio, perfino con la sola presenza di mucchi di pietre o di patate sul pavimento, o con la mostra di veri alberi nella sala di un museo.
In molti aderiscono al movimento, ma, come spesso avviene, le opere di alcuni artisti divengono più celebri di altre. Impossibile dunque intraprendere questo discorso senza citare nemmeno di sfuggita Michelangelo Pistoletto (1933 -) e la sua iconica “Venere degli stracci”.

La ricerca dell’artista è varia e multiforme, sempre spiazzante e libera da schemi codificati; centrale nella sua poetica è il rapporto dialettico tra “arte e vita” e fra “oggetto e comportamento”. Egli inizia ad affermarsi con i noti “quadri specchianti”, lastre d’acciaio inossidabile con immagini fotoserigrafiche di persone e cose sulla superficie, di cui alcuni esemplari sono esposti a Torino, presso la GAM. È tuttavia la serie degli anni 1965-1966 “Oggetti in meno” che segna l’aderire di Pistoletto all’ “Arte povera”. I lavori più “poveristici” sono sistemazioni di stracci multicolori, la cui versione più conosciuta è titolata “Venere degli stracci”, messa in scena per la prima volta nell’ottobre del 1969 ad Amalfi, nella manifestazione artistica “Arte povera + Azioni povere”, come una “performance live”. In questa occasione la moglie di Pistoletto, Maria, nuda, di schiena e in una posa che ricorda l’iconografia della Venere classica, rimane in piedi e immobile di fronte a un grosso e informe cumulo di vecchi abiti. Nel 1970 il lavoro diventa un’installazione stabile, composta da un calco di gesso di “Venere”, in sostituzione della modella vivente, e sempre con una pila di indumenti raffazzonati. L’opera, con evidente efficacia estetica, mostra il contrasto “arte-vita”, tra la bellezza canonica e formale e la caotica espressività di elementi quotidiani.
Altro grande nome che domina la scena dell’ “Arte povera” è quello del torinese Alighiero Boetti (1940-1994), artista e autodidatta, protagonista indiscusso della stagione artistica degli anni Sessanta-Settanta.

9Egli entra a far parte del gruppo nel 1967, partecipando all’esposizione organizzata da Celant; in seguito il suo lavoro diventa internazionale, e l’artista accede a “When Attitude become Form” alla Kunsthalle di Berna. Boetti è un grande viaggiatore, trascorre diverso tempo a Kabul, dove apre l’ One Hotel e dove fa realizzare dalle ricamatrici locali i suoi celebri “arazzi”. Tra i suoi cicli più famosi vi sono “I lavori postali”; “Mettere al mondo il mondo”, tracciati con penna a sfera; “Arazzi” sulla quadratura di parole e frasi come “Ordine e Disordine”; “La natura è una faccenda ottusa”; “Due mani e una matita”. È opportuno ricordare anche le tre retrospettive che gli sono state dedicate al Reina Sofia di Madrid, alla Tate Modern di Londra e al MoMA di New York.
Boetti è sicuramente fra i protagonisti più eccentrici della scena artistica di quegli anni.
L’artista porta avanti una ricerca complessa e multiforme, caratterizzata da una raffinata concettualità apparentemente ludica, ma legata a questioni tutt’altro che lievi. Tra le problematiche da lui affrontate vi sono la dimensione del doppio, la categoria temporale e quella spaziale, il gusto analitico, ironico e sistematico per le catalogazioni, la visualizzazione di criptiche formule matematiche, infine la dialettica fra ordine e disordine e fra caso e necessità.

Boetti è solito dare un’interpretazione filosofica del mondo, che tuttavia non offre mai risposte tranquillizzanti.
Con i suoi lavori l’artista ci attrae nel labirinto del “non-senso” della vita, da cui è impossibile salvarsi, ad esso ci si può sottrarre solo per poco tempo, attraverso l’energia dell’immaginazione creativa.
Tra gli elaborati più conosciuti dell’artista -come sopra indicato – vi sono gli “arazzi”, tessuti prima da ricamatrici afghane a Kabul e in seguito, dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, nei campi profughi di Peshawar, in Pakistan; in questi oggetti, generalmente di difficile decodificazione, in cui colori “pop” si mescolano con composizioni/combinazioni di cifre o segni grafici e lettere, emerge una forte tensione concettuale di diretto impatto visivo. Tra le creazioni che possono essere considerate di più “immediata comprensione” vi sono le “Mappe” del mondo, dove ogni nazione è rappresentata con i colori e i simboli della propria bandiera. Queste tessiture, che ad un primo sguardo ci colpiscono per la maestosità, la grandezza e la gioiosità delle tinte, affrontano tuttavia tematiche complesse come i nazionalismi, le lotte politiche e le guerre che incessantemente segnano il destino dell’uomo.
Ancora una volta l’arte diventa spunto di riflessione; ancora una volta gli artisti utilizzano l’ “escamotage” della leggerezza per esprimere significati reconditi.
Ai miei studenti lo faccio sempre notare, siamo partiti da una “grossolana risata” per poi arrivare a dibattere su questioni di ben altro spessore e tutte le volte i miei ragazzi rimangono stupiti: non solo hanno incrementato le loro nozioni, ma sono stati capaci di gestire il proprio comportamento, passando dal momento “ludico” a quello del “serioso apprendimento”.
Non tutti gli adulti ne sono in grado.

Alessia Cagnotto

Torino tra architettura e pittura: Giacomo Balla

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

3) Giacomo Balla (1871-1958)

Mi piace sempre fare un po’ di dibattito con i miei studenti, parlare, proporre loro delle tematiche su cui riflettere, ascoltare ciò che pensano è non solo stimolante e interessante per entrambe le parti, ma necessario per tenere attiva l’attenzione. Uno degli ultimi argomenti su cui ci siamo impelagati è stato davvero complesso, ma credo che abbia fatto comprendere alla classe quanto l’arte possa essere una materia interdisciplinare, diversificata e soprattutto ampia. La riflessione riguardava il concetto di “damnatio memoriae”, e il fatto che in tempi antichi non destasse tanto scalpore la distruzione di opere d’arte; tali accadimenti erano motivati da varie ragioni, politiche prima di tutto, ma anche religiose. Il discorso si è poi allargato e ci siamo ritrovati a dibattere sulla complessa questione dell’arte come “atto distruttivo”.
Le operazioni artistiche talvolta lavorano “in negativo”, rimandano al “disfare” e alla “distruzione creativa”, come per esempio i tagli di Fontana o le combustioni di Burri, inoltre molte “performance” di celebri artisti come Hermann Nitsch o esponenti della “body art”, di cui Marina Abramović è la regina indiscussa, sono allo stesso tempo “atti distruttivi” e “esibizioni spettacolari”.
Non sono pochi i testi e le interviste di esperti del settore che sottolineano il sottile e articolato legame tra tale particolare estetica artistica e la strategia del terrore, basata anch’essa sul “distruggere per richiamare l’attenzione del pubblico”. E se tale modo d’agire “funzionava” in passato, oggi risulta tragicamente vincente: viviamo ormai ai tempi dei “mass media”, una cosa non è vera finché non viene caricata su internet e non ottiene milioni di visualizzazioni. Si pensi ai tragici eventi del 2001, all’esplosione dei Buddha di Bamiyan o alla caduta delle Twin Towers: entrambi momenti angosciosi e tremendi, entrambi rigorosamente filmati e mostrati al mondo con il preciso scopo di spiazzare e terrorizzare gli spettatori.

Eppure l’atto di distruggere un’opera d’arte può avere anche un’altra valenza. Nella “graphic novel” di Alan Moore, “V for Vendetta” il protagonista, mascherato da Guy Fawkes, cospiratore cattolico protagonista della “Congiura delle Polveri”, vuole far esplodere il parlamento inglese, edificio simbolo di una dittatura violenta e totalitaria. La demolizione dell’edificio storico diventa, nel fumetto, simbolo di un nuovo inizio, della libertà del popolo che trionfa sulla dittatura.
L’arte come “atto di distruzione”, la distruzione di opere d’arte, qual è il confine tra i due concetti? Dove può condurre l’etica della spettacolarizzazione? Non basterebbe un ciclo di conferenze per esaurire tali argomentazioni, figuriamoci quarantacinque minuti di didattica a distanza.
Tanto per mantenere attivo il dibattito con la classe, ho voluto insistere su un particolare movimento artistico e culturale che a mio parere risulta più che azzeccato per la situazione.
“Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.” Questo dice il decimo punto del Manifesto del Futurismo, scritto da Tommaso Marinetti e pubblicato il 20 febbraio 1909 sulla prima pagina de “Le Figaro”. Nasce così il movimento d’avanguardia con cui l’Italia si affaccia al panorama europeo dell’arte contemporanea; Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), con la stesura del Manifesto teorico del Futurismo, dà vita ad una corrente artistica che investe tutti i campi culturali, dalla poesia all’arte, dalla letteratura alla musica, dalla danza al teatro. I Futuristi sostengono che sia necessario “cancellare il passato e inneggiare al futuro tecnologico” ed esaltano la distruzione di musei, accademie, biblioteche, perfino di alcune città storiche, per fare spazio alle nuove forme di bellezza che vanno ricercate nel progresso, nelle città industriali, nelle macchine e nel concetto della velocità.

Va tuttavia sottolineato che il Futurismo non è stato un movimento unitario e spesso la carica di attrazione che esercitava sugli artisti si esauriva in fretta.
Al Manifesto letterario presto ne seguono altri: nel 1910 Umberto Boccioni, (1882-1916), scrive il Manifesto relativo alla pittura futurista, due anni dopo Giacomo Balla, (1871-1958) e Fortunato Depero, (1888-1916) redigono il Manifesto della scultura futurista; di questo gruppo di artisti fanno parte altresì Carlo Carrà, (1881-1966), Luigi Russolo, (1885-1947), e Gino Severini, (1883-1966). Nel 1914 viene proclamato il Manifesto dell’architettura futurista, steso da Antonio Sant’Elia (1888-1916).
La progettazione dell’ideale “città futurista” viene immaginata da Sant’Elia in una serie di disegni che rappresentano grattacieli dotati di alte torri, edificati in metallo, vetro e cemento; all’interno dei progetti urbanistici sono compresi aeroporti, centrali elettriche, ponti e strade a vari livelli. Le architetture risultano imponenti e si ergono come “volumi puri”; al di là della vera e propria funzione, tali costruzioni paiono dei “monumenti” volti a celebrare “il trionfo della tecnologia”.
Una città brulicante e in continuo fermento, affollata e caotica, un po’ viene da chiederselo: Sant’Elia sarebbe poi effettivamente sopravvissuto ad un sabato pomeriggio in centro all’ora di punta? Bisogna sempre fare attenzione a ciò che si dice.
Per i Futuristi la protagonista indiscussa della rappresentazione artistica è “la realtà in movimento”, studiata e approfondita nel suo continuo divenire e nella sua incessante trasformazione.
In pittura, ad esempio, i soggetti prediletti sono le automobili, i treni, gli aerei, ma anche i cavalli al galoppo, uomini in azione, che camminano, che danzano, o colti mentre corrono; inoltre sono spesso rappresentate le strade, traboccanti di traffico convulso o costellate di cantieri edilizi, emblemi della città che cresce.
Gli artisti sono fortemente influenzati dalla cronofotografia e dal cinema, mezzi che permettono di registrare le fasi di un’azione, istante dopo istante. È per questo motivo che nei dipinti dei Futuristi il movimento viene scomposto nelle diverse fasi, come se si trattasse di studi scientifici in cui i vari momenti vengono visualizzati separatamente e poi sovrapposti. Più che esplicativo in tal senso è il “Dinamismo di un cane al guinzaglio (guinzaglio in moto)”, opera del 1912, realizzata da Giacomo Balla.

Questa modalità di rappresentazione del movimento risulta totalmente nuova e avrà larga eco nelle figurazioni grafiche dei fumetti. Il ritmo del moto viene sottolineato e accentuato da linee curve, oblique, ondulate o a spirale, che accompagnano il soggetto nella sua traiettoria, come a visualizzare le “scie” delle parti che fendono l’aria. I futuristi, oltre a preferire soggetti dinamici, amano l’uso di colori intensi e vivaci, contrapponendosi ai cubisti, che privilegiano tinte smorzate o monocrome e soggetti statici.
Vorrei ora soffermarmi proprio su Giacomo Balla, uno dei principali esponenti della pittura futurista. Egli nasce a Torino nel 1871, qui frequenta l’Accademia Albertina di Belle arti, dove conosce Pelliza da Volpedo; incomincia a dipingere quadri di matrice “pointilliste”, ma non segue rigorosamente il programma di Seurat e Signac. Nel 1895 Balla lascia definitivamente la città natale e si stabilisce a Roma, qui si avvicina in un primo momento al “Divisionismo”. Tra il 1908 e il 1910 si conclude il momento puntinista e si apre quello futurista; l’opera che segna il passaggio da un movimento all’altro è “Lampada ad arco”, tela databile al 1909, lo stesso anno in cui viene proclamato il Manifesto letterario di Marinetti.

In ambito futurista, Balla si dedica alle ricerche sulla scomposizione del colore e sulle fasi del movimento, percorso che si può constatare, oltre che nel già citato “Dinamismo di un cane al guinzaglio”, nell’opera “Ragazza che corre sul balcone, linee di velocità + paesaggio”, tela che risente degli studi che nel frattempo sta portando avanti la fotografia, come dimostra in particolar modo il lavoro di Anton Giulio Bragaglia. Essenziale, per quel che riguarda la scomposizione della luce e del colore, è il ciclo intitolato “Compenetrazioni iridescenti” (1912-1914), costituito da una folta serie di quadri e lavori ormai completamente astratti.
Negli anni in cui aderisce al futurismo, Balla si dedica anche alla scultura e allo studio di diversi materiali: in questa fase del suo percorso artistico lo si può considerare precursore del dadaismo.
Dopo il fervore iniziale, l’artista ritorna su temi più tradizionali, quali la raffigurazione di città, paesaggi e ritratti, riprendendo tecniche più convenzionali, anche se è giusto sottolineare che non abbandonò mai del tutto gli studi futuristi.
Certo non è sufficiente un’ora di lezione per discorrere di certi argomenti, così come non è questa la sede per spiegare in modo esaustivo le diverse complessità del Futurismo.
Credo tuttavia che il compito di un buon insegnate sia anche quello di stimolare nei propri studenti pensieri e riflessioni e, soprattutto, di pungolare la curiosità che mette in moto la mente e fa sì che ognuno possa approfondire in autonomia le tematiche proposte. D’altra parte ciò che si studia a scuola non è fine a se stesso, anzi sovente, è più attuale di quanto si creda.

Alessia Cagnotto

Torino tra architettura e pittura. I Sei di Torino

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

7) I Sei di Torino

Ho già detto la mia sul fatto che il Novecento sia di per sé un periodo assai complicato, non solo per quanto riguarda gli accadimenti storici, ma anche per i movimenti artistico-letterari che si susseguono a ritmo incalzante per tutto il secolo. Nell’articolo scorso ho accennato a “Novecento”, complesso movimento artistico basato sui concetti di “monumentalismo” e di “ritorno all’ordine”, è ora opportuno parlare della società artistica che, nel medesimo periodo, si pone in netto contrasto con la poetica sostenuta dai novecentisti: “I sei di Torino”.
Tra il finire degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta del Novecento, si riuniscono intorno alla figura di Felice Casorati e sotto l’insegna del “realismo magico” diversi artisti, poi conosciuti con l’appellativo di “I sei di Torino”; di questa cerchia fanno parte Francesco Menzio, Carlo Levi, Luigi Chessa, Jessie Boswell, Enrico Paulucci, Nicola Galante.
Il sodalizio artistico, favorito dagli intellettuali e critici d’arte Edoardo Persico e Lionello Venturi, è sostenuto economicamente dal mecenate e collezionista torinese Riccardo Gualino.
L’azione di questi pittori si inscrive in un contesto più ampio, volto a creare un movimento di opposizione alla pittura novecentista, portata avanti dagli esponenti dell’ “entourage” di Margherita Sarfatti.

La critica milanese, infatti, organizza nel medesimo periodo storico, una corrente artistica meglio nota come “Novecento”, e nel 1922 fondano il collettivo Mario Sironi, Achille Funi, Leonardo Dudreville, Anselmo Bucci, Emilio Malerba, Pietro Marussig e Ubaldo Oppi. Negli anni il gruppo si farà sempre più numeroso, e ospiterà al suo interno artisti tra loro molto differenti per stile, personalità e formazione, seppur tutti uniti dal comune desiderio di rappresentare lo spirito del secolo. Essi sostengono un ritorno all’ordine dopo le avanguardistiche sperimentazioni del primo Novecento (Futurismo e Cubismo); le tele novecentiste presentano chiari rimandi all’antichità classica, alla purezza delle forme e all’armonia generale che deve dominare la composizione. Lo stile “Novecento” è anche definito “Neoclassicismo semplificato”, espressione con cui si indica una tipologia architettonica apprezzata da molti regimi totalitari, un’architettura che riprende i modelli classici ma ne alleggerisce gli elementi e i dettagli, eliminando o semplificando la decorazione. In Italia il maggior esponente di tale tendenza è l’architetto Marcello Piacentini, che domina la scena del ventennio fascista con progetti razionalisti che conciliano i temi del Movimento Moderno con i propositi del regime. I progetti architettonici di Piacentini influiscono sull’urbanistica, come dimostrano la costruzione del campus universitario di Roma, nel quartiere Tiburtino e le demolizioni e ricostruzioni di centri storici di città come Brescia e Livorno.

In netta opposizione a tale sentire si pone il gruppo de “I sei di Torino”, con la loro arte tutta rivolta verso l’esperienza artistica europea, che i novecentisti rifiutano “in toto”, soffermandosi in particolar modo sulla pittura francese. È proprio Lionello Venturi a spingere il circolo pittorico ad appropriarsi di un lessico impressionista, mezzo espressivo attraverso il quale –sostiene Venturi – si può contrastare la cristallizzazione formale del gruppo “Novecento”. Gli esponenti torinesi seguono pedestremente il consiglio dell’intellettuale: la quasi totalità delle opere dei diversi autori segnala chiari riferimenti all’Impressionismo francese, in particolare alle opere di Monet. È pur vero che essi apprezzano anche il Fauvismo e dunque i lavori di Matisse, subiscono l’influenza della stagione dei Macchiaioli e prendono spunti dalle opere di celebri autori come Amedeo Modigliani, Pierre Bonnard e Raoul Dufy.
I componenti del circolo presentano tra loro evidenti differenze espressive, ognuno tiene a sottolineare e a mantenere la propria personalità e il proprio stile; tali diversi approcci contribuiscono alla breve durata del sodalizio, che dura appena due anni.

La prima mostra del gruppo si tiene a gennaio del 1929, presso la Galleria Guglielmini di Torino; nello stesso anno, ad aprile, essi espongono al Circolo della Stampa di Genova e a novembre alla Galleria Bardi di Milano; l’ultima collaborazione si tiene alla Galleria Bardi di Roma, nel 1931, in concomitanza e in aperta polemica con l’apertura della Quadriennale romana.
“I sei di Torino” esaltano il primato della forza del colore sul disegno e sui volumi, e si basano su una pittura tonale che si pone in forte contrasto con le caratteristiche dell’arte “ufficiale”, segnata da un taglio falsamente classico e dal totale rifiuto degli influssi stranieri.
Vediamo ora di scorrere più da vicino i sei componenti del gruppo.
Francesco Menzio, (1899-1979), si forma a Torino ed è una delle figure più attive nel panorama artistico italiano. L’autore, oltre alla lezione di Casorati, guarda con particolare attenzione all’arte francese post-impressionista. I soggetti che predilige variano dalla figura umana, alla natura morta, al paesaggio; emerge dalla sue tele una raffinata sensibilità cromatica, come si evince per esempio da quadri come “Natura morta con ciliegie” o “Corridore podista”.

Carlo Levi (1902-1975), di famiglia ebraica torinese, e militante politico, è sicuramente la personalità di spicco del gruppo. Laureato in medicina, egli non abbandona l’interesse per la pittura e la scrittura; a partire dagli anni Venti del Novecento frequenta assiduamente lo studio di Casorati, luogo in cui approfondisce il suo percorso artistico. Tra il 1927 e il 1928 si sposta a Parigi per approfondire la pittura europea e post-impressionista. Le sue opere, forse ancor più di quelle degli altri componenti della cerchia, si pongono in netta antitesi all’accademismo tipico del gruppo “Novecento”, caratterizzato dall’assidua ricerca di monumentalità e ritorno al classicismo. Egli si dedica alla realizzazione di ritratti, paesaggi e nature morte, in tutti i suoi elaborati emerge un intenso e vibrante linguaggio espressionista, seppur piegato a esplicite istanze realistiche. Pittore, e anche scrittore attento e incisivo, Carlo Levi scrive, tra il 1943 e il 1944, il romanzo “Cristo si è fermato ad Eboli”, pubblicato nel 1945, un ritratto morale e sociale, veridico ma anche poetico, delle semplici popolazioni della Lucania. L’autore, con peculiare abilità artistica, crea delle atmosfere “mitiche” in cui figure e paesaggio si armonizzano e si fondono insieme, in una prosa sempre ferma e sicura. Scrive anche vari libri di viaggio, ricchi di spunti di analisi politica e sociale, tra cui “Le parole sono pietre” (1955), sulla Sicilia, e “Il futuro ha un cuore antico” (1956), sulla Russia sovietica, e “La doppia notte dei tigli” (1959), e “Tutto il miele è finito” (1964).
Luigi Chessa (1898-1935) meglio noto come “Gigi”, è persona dai molteplici interessi, egli è pittore, scenografo, arredatore e pubblicitario. Trascorre l’infanzia a Parigi, in seguito si trasferisce a Torino, dove frequenta L’Accademia Albertina ed entra nelle grazie del pittore Agostino Bosia.

I soggetti che predilige sono vari, egli spazia dai paesaggi ai nudi alle nature morte, pur dimostrandosi sempre un raffinato colorista e un moderno interprete dell’Impressionismo.
In ambito teatrale, nel 1925 esegue i disegni per le scene e i costumi de “L’italiana in Algeri” di Rossini, mentre l’anno successivo si dedica a scenografie e abiti per “La sacra rappresentazione di Abraham e Isaac” di Ildebrando Pizzetti, diretta dall’autore, e per Alceste di C. W. Gluck. La sua maestria è conosciuta anche nell’ambito del balletto, in questo settore progetta scene e costumi per “La luna” di L. Perrachio, tratto da un racconto dei Fratelli Grimm e per “La Giara” musicato da Alfredo Casella, ospitato al Metropolitan di New York nel 1926.
In qualità di pubblicitario Chessa porta avanti diversi impegni, tra cui la collaborazione con le ditte Venchi Unica,Vis Securit e Solaro, gli allestimenti delle vetrine per la Mostra della moda a Torino e degli arredi per il bar Fiorina.

Jessie Boswell (1881-1956), unica donna all’interno del gruppo, è originaria di Leeds (West Yorkshire) ma trascorre gran parte della sua vita in Italia e nel 1936 ottiene la cittadinanza italiana. Studia e si diploma in pianoforte nella città d’origine, in seguito si sposta con la sorella a Biella e poi a Torino. Giunta nel capoluogo piemontese inizia a frequentare la famiglia Gualino, entrando in contatto anche con il ritrattista Mario Micheletti e il pittore Felice Casorati. La sua adesione al gruppo dura solo un anno, dal 1929 al 1930, ed espone a Torino, Genova e Milano.
Nonostante la critica non si dimostri lusinghiera nei confronti delle sue opere, la Boswell prosegue nella sua pittura, riuscendo a organizzare anche una personale presso la Galleria d’Arte Garlanda di Biella, (1944).
Le sue tele hanno in genere dimensioni modeste; oltre a paesaggi e fiori, i soggetti riflettono tranquille scene familiari che si svolgono in ambienti interni.
Altra personalità di rilievo all’interno del gruppo è Enrico Paulucci (1901-1999), che, insieme a Casorati fonda lo studio “Casorati-Paulucci”, dove organizza diverse esposizioni di arte astratta e, sempre insieme all’amico Felice, dirige “La Zecca”; nel 1938 fonda e dirige il “Centro delle Arti” dove offre ad artisti ancora poco conosciuti la possibilità di esporre i propri lavori.
Paulucci mostra inclinazioni artistiche già dall’adolescenza e durante gli anni universitari partecipa a diverse mostre locali. Verso la fine degli anni Venti, Paulucci si avvicina all’ “entourage” dei più noti pittori torinesi, e conosce Lionello Venturi ed Edoardo Persico.

Nel 1928 si reca a Parigi per studiare da vicino le opere degli impressionisti, ma non perde l’occasione di interessarsi a Pablo Picasso, Henri Matisse, Raoul Dufy, e Georges Braque.
Nel 1939 insegna pittura all’Accademia Albertina di Torino e ne diviene direttore nel 1955; il suo insegnamento aperto e innovativo segna l’inizio di un’attualizzazione degli studi. Tra i suoi allievi vi è Mattia Moreni, uno dei maggiori interpreti del naturalismo astratto italiano.
Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Paulucci si trova ad affrontare un periodo difficile, lo studio e la scuola sono distrutti e lui si vede costretto a trasferirsi a Rapallo, dove riparte con la sua attività. Terminata la guerra l’artista fa ritorno a Torino e la sua pittura subisce una forte rielaborazione, lenta e continua, che confluirà nella mostra delle “Barche” alla Bussola.
A partire dagli anni Settanta del Novecento Paulucci attraversa un felice periodo colmo di riconoscimenti e avvenimenti che accrescono la sua notorietà: oltre alle esposizioni collettive de “I sei di Torino” partecipa alla XXXIII Biennale di Venezia; nel 1993 riceve il Premio Pannunzio a Torino; nel 1994 gli viene conferita la medaglia d’oro della Presidenza della Repubblica per i Benemeriti della cultura e dell’arte; nel 1995 si aggiudica il Premio Cesare Pavese.

Paulucci è conosciuto anche all’estero, come dimostrano l’esposizione alla Bloomsbury Gallery di Londra (1930) o le due partecipazioni nel 1951 e nel 1953 alla I e alla II Biennale di San Paolo del Brasile.
Nicola Galante (1883-1969) è prima di tutto incisore; nel 1922 inizia a dedicarsi alla pittura, attraverso la quale cerca di raffigurare l’essenza di ciò che vede. Nicola si ispira prevalentemente ai macchiaioli toscani, a Cézanne e a Georges Braque. L’artista, soprattutto dagli anni successivi al secondo conflitto bellico, usa colori puri che stende a campiture piatte, anche se talvolta ritorna all’esempio della pittura “Fauve”, come dimostrano i quadri “Campagna a Pavarolo” (1957) e “Pesci e ventaglio” (1955).

Alessia Cagnotto

Torino tra architettura e pittura. Giuseppe Penone

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

9) Giuseppe Penone (1947-)

La verità è che con l’inizio della bella stagione in classe non ci resisterebbe nessuno, né gli allievi, né tanto meno gli insegnanti. La primavera è tutta una poesia, il sole tiepido penetra attraverso le finestre e invade le aule, il venticello che al mattino è ancora freddo si fa piacevole brezza dalla tarda mattinata in poi, i colori della natura si accendono e tutto diventa un irresistibile richiamo per uscire all’aria aperta. Inutile dirlo, il ritorno di Persefone scuote gli animi degli studenti esattamente come il gasatore infervora le molecole dell’acqua e la rende frizzante; gli scolari diventano sensibilissime palline da ping-pong, guizzano tra i banchi appena trovano una scusa sostenibile e ormai il cambio d’ora non ha nulla da invidiare all’intervallo. È come se il mondo fuori emettesse dei richiami a ultrasuoni, che entrano nelle nostre menti impercettibilmente: uscire, uscire, uscire…
Ma è proprio nelle situazioni d’emergenza che vengono “le idee luminose”. Così ho pensato di trasformare questo irrefrenabile sentire primaverile in una riflessione costruttiva riguardo al rapporto “uomo-natura”. Certo tale titolazione è a dir poco vasta e si presta a diramarsi in diversi ambiti, dalla letteratura all’arte all’educazione civica, si può riflettere altresì sull’importanza dell’ecologia o su quanto l’ambiente che ci circonda influisca sul nostro stato mentale.
Le considerazioni sono tantissime e i ragazzi, quando si tratta di argomenti che li interessano sul serio, si dimostrano motivati oratori.
Da un punto di vista artistico-letterario si può affermare che l’argomento “uomo-natura” è antico come il mondo. Agli albori del tempo, in epoca preistorica, la condizione naturale e ambientale è aspetto costitutivo delle primissime pratiche artistiche, le pitture rupestri, ad esempio, dimostrano come l’uomo delle caverne sia riuscito a tramutare la mera materialità in manifestazione creativa, con lo scopo di sondare ciò che lo circondava.

Non solo, si pensi ai miti classici e a quanto la natura sia stata fonte d’ispirazione per aedi e filosofi; la civiltà greca “in primis”, attraverso la “cosmogonia”, tramuta gli Dei in elementi della natura, così la Terra diventa Gea, il mare Poseidone, il vento Eolo e via discorrendo.
Già solo con questa più che semplificata premessa si comprende che l’argomento è sconfinato e fitto di diramazioni e incisi.
Proviamo ora a restringere leggermente il campo e focalizziamo l’attenzione sull’ambito iconografico. Con l’epoca rinascimentale il paesaggio – e dunque la natura- acquista una sua propria importanza, lo sfondo diventa ambientazione scenografica, gli elementi raffigurati si fanno sempre più realistici e dettagliati e si caricano di significati simbolici che concorrono alla narrazione del soggetto scelto. Giusto per proporre un esempio concreto, per Leonardo da Vinci (1452-1519), uomo rinascimentale per eccellenza -su cui non provo nemmeno a dilungarmi in questo contesto perché ne verrebbe fuori un inciso chilometrico- la natura è un costante oggetto d’indagine; per l’artista lombardo l’ambiente va studiato e raffigurato con attenzione, esso ha la stessa importanza delle figure che ricoprono il ruolo di protagoniste, così come si evince dalla “Vergine delle Rocce” (1483–1485), opera nella quale la vegetazione è raffigurata con precisione scientifica, i fiori e le piante paiono illustrazioni botaniche e la resa dell’atmosfera confluisce nel risultato ultimo dell’aspetto delle figure, non più nette e contornate da una linea scura, ma sfumate, attraverso un sapiente uso della colorazione e della luce.

Con il trascorrere dei secoli la rappresentazione dell’ambiente acquista sempre più importanza, nel Seicento nasce il genere del paesaggio, nel Settecento invece si diffondono nuove correnti pittoriche quali il “vedutismo” e il “paesaggismo”. È però con il Romanticismo che il contesto naturale si afferma definitivamente come soggetto autonomo delle opere d’arte. A caratterizzare la poetica romantica vi sono due concetti principali: il “sublime” e il “pittoresco”. Entrambe le tematiche trovano la loro espressione nella natura e nel suo duplice aspetto, da un lato “locus amoenus” virgiliano, dall’altro manifestazione spettacolare ma spaventosa, “l’orrido che affascina” di Foscolo e Leopardi. I massimi esponenti del Romanticismo sono gli inglesi Turner e Constable e il tedesco Caspar David Friedrich. Questi pittori indagano in maniera simbolica il rapporto “uomo-natura”, arrivando però a conclusioni molto differenti, per Constable l’ambiente naturale è rassicurante, fonte di religiosità e tranquillità, al contrario per Friedrich e Turner la natura è qualcosa di irrefrenabile, devastante, stupefacente, che pone l’essere umano di fronte ai propri limiti. Una delle tele che meglio esprime il sentire dell’artista tedesco è “Il mare di ghiaccio” (1823–1824), in cui è raffigurata una nave che soccombe sotto la pressante e inesorabile forza delle calotte polari che dominano la scena e si ergono a protagoniste del dipinto.
Il Novecento si pone sempre come discorso a parte, le due guerre fanno sì che gli artisti sviluppino un’ottica pessimistica e disillusa, anche nei confronti della natura, non più confortevole ma maligna. Questo sentimento di totale scoramento sarà alla base dei filoni letterari della distopia e della fantascienza, particolarmente apprezzati negli anni Settanta. Nessuna corrente artistica però si è incentrata sul rapporto “uomo-natura” quanto la “Land Art”. Siamo negli anni Sessanta e in ambito artistico nasce un modo nuovo di affrontare l’argomento: gli artisti non si limitano ad illustrare o dipingere l’ambiente, essi agiscono direttamente sulla natura e sul territorio, creando opere altamente impattanti, caratterizzate dalla precarietà dell’essere e continuativamente soggette alle variazioni climatiche. Altra peculiarità di queste creazioni è quella di non poter essere viste nella loro interezza con un semplice sguardo, è necessaria infatti una prospettiva aerea o un elevato luogo d’osservazione per osservarle completamente, poiché si tratta in genere di opere enormi, che si estendono per lunghissimi tratti di territorio.
Ha eseguito anche lavori inscrivibili al settore della “Land Art” l’artista di cui vorrei parlarvi oggi nello specifico, personaggio parimenti conosciuto come “artista degli alberi”, la cui ricerca è tutta sviluppata intorno alla tematica “uomo-natura”.

Si tratta di Giuseppe Penone (1947-), originario di Garessio, un non troppo grande comune piemontese, in provincia di Cuneo. Penone si forma a Torino presso l’Accademia Albertina di Belle Arti, dove conosce Giovanni Anselmo (934)-) e Michelangelo Pistoletto (1933-), con i quali, a partire dal 1967, entra a far parte del movimento dell’ “Arte povera”.
L’anno successivo, nel 1968, espone con successo alcune sue sculture al “Deposito d’Arte Presente”; i suoi lavori sono realizzati con materiali poco convenzionali quali piombo, rame, cera, pece, legno, in essi è implicata l’azione naturale degli elementi, come esemplifica “Scala d’acqua: corda, pioggia, sole”.
L’artista è da sempre interessato a sondare le possibilità che ha l’uomo di interagire con la natura circostante, in tal senso sono celebri gli interventi che porta avanti nei boschi di Garessio, con il preciso scopo di intervenire nel processo di crescita degli alberi (“Alpi marittime”, 1968). In questa situazione l’artista decide di “lasciare un segno” del suo passaggio ed esegue dei calchi realistici delle proprie mani e braccia, dopodiché li installa su alcuni piccoli tronchi. Con il passare del tempo gli alberi crescono, ma tale crescita è sensibilmente e inevitabilmente modificata dalla presenza degli arti bronzei di Penone, che stringono e affondano nella corteccia come corpi estranei artificiali di cui la pianta non può liberarsi.
L’arte di Penone non è univoca, egli ricorre anche alla “performance”, alla “body art” e all’ “arte ambientale”, ma se possono cambiare le modalità d’azione, rimane invariata la sua prerogativa di studiare e approfondire il rapporto “uomo-natura”, sotto forma di un costante dialogo complesso tra “io e mondo”. Alla tematica ambientale fanno riferimento alcune sue opere che si avvicinano alla poetica della “Land Art”, come i lavori che egli esegue per le personali al Kunstmuseum di Lucerna (1977), al Museum of Modern Art di New York (1981) o al Musée d’art moderne de la Ville di Parigi (1984) o ancora ai grandi alberi in bronzo destinati ad alcuni spazi pubblici come il “Pozzo di Münster” del 1987, il “Faggio di Otterloo” (1988), l’“Albero delle vocali” inaugurato nel 2000 alle Tuileries di Parigi o l’“Elevazione” a Rotterdam del 2000.

Alla base delle creazioni di Penone vi è l’idea che la scultura non sia un’operazione legata alla vista, bensì al tatto; l’artista stesso, infatti, mentre scolpisce, aderisce e si immerge nel materiale dell’oggetto che sta lavorando e tale aderenza comporta dei cambiamenti nell’oggetto stesso. A sostegno di tale tesi, Penone riporta questo esempio: “Se noi prendiamo in mano una tazzina, è questa tazzina ad essere una scultura. Tuttavia nel momento stesso in cui la nostra mano afferra la tazzina, essa prende la forma di quest’ultima. Quindi possiamo affermare che solamente in quel momento la mano può essere considerata una scultura”.
Da qui nasce la riflessione che con l’impronta di una mano si possa intervenire sulla crescita di un albero: l’idea si concretizza e nascono i vari calchi in bronzo e acciaio che entrano in contatto diretto con i tronchi e diventano specchio della relazione “uomo-natura”, “io-mondo” che caratterizza tutta la ricerca artistica di Penone. Da questa particolare visione e da questa peculiare tipologia di intervento artistico si sviluppa il processo che lo porta a studiare le prerogative proprie della materia e insite all’interno di un albero.
Tra i lavori più conosciuti vi sono le numerose versioni di “Alberi”. Si tratta di travi di legno di diverse lunghezze che l’artista ha pazientemente intagliato e scavato con lo scopo di mettere in evidenza, all’interno della trave stessa, la forma naturale dell’albero. Lo scavo deve avere una precisa profondità, in relazione ad uno degli anelli che corrisponde all’età della pianta, la quale riemerge dal legno, più giovane e con i rami, individuabili grazie a nodi. L’altra parte della trave però viene lasciata intatta, sia per mostrare l’intervento dell’artista, sia lo sviluppo naturale della crescita dell’albero.
Dagli anni Ottanta in poi Penone si dedica a elaborare sculture in bronzo, che sono in realtà calchi di parti di alberi, nelle quali spesso inserisce elementi vegetali viventi. A questa categoria appartiene lo spettacolare “Giardino delle sculture fluide” (2003-2007) realizzato al parco della Venaria Reale.

Un’altra opera decisamente interessante si trova a Rivoli, presso il Museo di Arte Contemporanea. Si tratta dell’installazione “Soffi”, in cui l’artista indaga il momento dell’inspirazione. L’osservatore si trova di fronte a un ambiente completamente rivestito di foglie di alloro profumate, al centro di tale ambientazione, posizionato sulla parete centrale, è visibile un polmone in bronzo dorato. La scultura quindi entra nel corpo di noi visitatori, nel momento stesso in cui respiriamo e inaliamo gli odori: attraverso l’azione del respirare l’artista pone delle riflessioni sui confini dello spazio e della forma e si conferma interessato non solo alla rappresentazione dell’oggetto quanto più all’evocazione di una suggestiva immagine poetica.
Non posso avviarmi a concludere senza citare un’altra scultura, presente proprio a Torino, precisamente di fronte all’ingresso della GAM (Galleria d’Arte Moderna). Si tratta di “In limine”, opera ideata con lo scopo di creare un segno che indichi il passaggio dalla spazialità della Città a quella sacrale del Museo. È un blocco di marmo, materia che proviene dal sottosuolo, che sostiene un albero, cresciuto a contatto con la pietra, sradicato e fuso in bronzo, posizionato di traverso, apparentemente instabile. Le parti più volatili dell’albero, le sue foglie, si protendono a cercare la luce e attraverso il processo della fotosintesi si oppongono alla forza di gravità. Lo stesso Penone così commenta l’installazione: “La vita segreta della materia risiede nel movimento dei fluidi. Le vene sono la traccia di un’esistenza che si sviluppa nel corpo delle cose, appare nel marmo, nelle radici, nella scorza, nei rami, nelle foglie e nell’uomo”.
Cari lettori, sinceramente non so quanto mi abbiate prestato attenzione, ma non vi rimprovererò, capisco che la bella stagione porti via la concentrazione e induca a pensare alle tanto agognate vacanze. Soltanto, fingendo che il bianco del foglio che segna la fine del pezzo possa metaforicamente essere paragonato al suono della campanella, e possa dunque destarvi dai vostri pensieri leggeri, mi permetto un ultimo commento: guardatevi sempre intorno con stupore, la vera arte sta nell’imparare a meravigliarsi sempre.

 

Alessia Cagnotto

 

 

Torino tra architettura e pittura: Guarino Guarini

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

1) Guarino Guarini

Ne ho discusso poco tempo fa con i miei studenti, di quanto l’abitudine ci possa rendere indifferenti alle preziosità che ci circondano. Che si tratti di parchi o architetture, passeggiate lungo il fiume o piazze monumentali, le “cose belle” che sono alla nostra portata, che sono “sempre lì” a disposizione, ad un certo punto perdono –ai nostri occhi abituati- il loro fascino. Che fare allora? In classe non siamo addivenuti ad una soluzione, ma ci siamo ripromessi di camminare quanto più possibile con lo sguardo attento, magari provando a ricordare che cosa ci aveva originariamente colpito di certi luoghi, un tempo sorprendenti.

È più semplice di quel che sembra passeggiare per Torino senza accorgersi della preziosità dei suoi palazzi o della geometria perfetta delle vie del centro: Torino è “sempre lì”, sempre la stessa e ormai rischiamo –noi torinesi- di essere assuefatti al suo fascino malinconico, tanto da notare piuttosto una nuova vetrina o scoprire la chiusura di un negozio a cui eravamo affezionati e non osservare invece i decori aggettanti che inquadrano una precisa attività commerciale. Torino è una città esteticamente complessa, abbracciata dalle Alpi in lontananza, colorata dalle tinte degli alberi dei parchi e della collina, segnata da grandi architetture del passato e del presente. Nel capoluogo convivono in sorprendente armonia capolavori barocchi, edifici liberty e più recenti strutture, nate per la maggior parte negli anni Novanta, grazie soprattutto all’importante avvenimento dei XX Giochi Olimpici svoltisi proprio nella “nostra” città, per quest’ultima categoria ritengo opportuno ricordare la zona dell’ex Villaggio Olimpico, che sorge sull’area occupata fino al 2001 dai Mercati Generali.
È bene specificare che, oltre alle tipologie architettoniche più prestigiose, a Torino vi sono diversi edifici storici risalenti all’epoca lontana dell’antica Augusta Taurinorum, tra le costruzioni più datate vi sono Le Porte Palatine, attualmente inserite all’interno del Parco Archeologico, che racchiude e preserva molti altri reperti romani.

È però nel Seicento che iniziano gli elaborati interventi urbanistici che danno effettivamente lustro alla città; i numerosi lavori di ampliamento, di restauro e di costruzione di nuovi palazzi e quartieri si devono in prevalenza agli esponenti della famiglia Savoia, primi fra tutti Emanuele Filiberto (1528-1580) e Carlo Emanuele I (1580-1630). Ma andiamo in ordine e vediamo di percorrere brevemente quali sono stati gli avvenimenti più importanti a livello urbanistico e chi erano le personalità a cui era stata affidata la soprintendenza dei lavori. Nel 1563 Torino è capitale del ducato sabaudo, è dunque opportuno che l’estetica della città rispecchi l’importante funzione politica: a tal proposito Emanuele Filiberto avvia un primo sviluppo edilizio. Carlo Emanuele I prosegue poi con i lavori di modifica urbanistica e affida il progetto di ampliamento verso sud-est all’architetto civile Ascanio Vitozzi (1539-1615). Egli decide di mantenere per le nuove aree la trama a scacchiera, così da riprendere la primigenia struttura romana. Al Vitozzi si deve l’edificazione di Piazza Castello (1615), il primo tronco dell’attuale via Roma (all’epoca Via Nuova) e l’inizio della costruzione dei portici nelle strade principali. L’architetto si rifà al gusto francese, tanto apprezzato in quegli anni, e conferisce alla città un carattere omogeneo, attraverso la costruzione delle facciate dei palazzi che si susseguono uniformi e la scansione spaziale dei portici. All’architetto Vitozzi succede l’abile Carlo di Castellamonte (1560-1683), il quale continua l’opera di modernizzazione della città sabauda, egli realizza quindi Piazza San Carlo, che doveva unire l’antico nucleo storico con la parte nuova appena edificata, inoltre si adopera per completare la Via Nuova.

 

Va tuttavia sottolineata la geniale visione progettuale di Castellamonte, egli infatti, attraverso la costruzione di Piazza San Carlo, arriva all’uniformità del prospetto della piazza, in asse con la Via Nuova, grazie al doppio porticato aperto sui lunghi lati e alla ripetizione delle facciate degli edifici. Anche lui guarda al modello francese, per l’appunto la conformazione razionale di Piazza San Carlo ricorda la Piazza Reale di Parigi: un enorme spazio quadrato scandito da portici simmetrici le cui unità edilizie sono a malapena distinguibili. Nella seconda metà del Seicento Carlo Emanuele II ordina un ulteriore ampliamento verso il Po: tale progetto vede il Castello come vero e proprio fulcro del potere politico, attorno ad esso si sviluppano nuovi quartieri e nuove abitazioni. Nel 1658 viene edificato Palazzo Reale, altro edificio a testimonianza della presenza monarchica dei Savoia sul territorio.
Molte personalità illustri si adoperarono per rendere Torino elegante e regale, ma tra i tanti nomi spicca sicuramente quello di Guarino Guarini (1624-1683), padre dell’ordine dei Teatini, insigne matematico e studioso di filosofia; viaggia molto e lavora in diversi cantieri in città quali Modena, Messina e Parigi, inoltre soggiorna a Roma, dove ha modo di confrontarsi con i lavori artistici dei maestri barocchi, soffermandosi soprattutto sulle opere di Bernini e di Borromini; dagli autori seicenteschi assimila il rigore costruttivo, la fantasia delle articolazioni strutturali e il gusto del colore nella scelta dei materiali.

Nel 1666 l’architetto giunge a Torino, invitato dal padre generale dei Teatini a dirigere i lavori di rinnovamento della chiesa di San Lorenzo. In tale struttura, più che in altri edifici, è evidente che la geometria utilizzata da Guarini nei suoi progetti, pur basandosi su proporzioni matematiche, riesce a dare vita a un’architettura fantastica, grazie all’impiego di moduli incrociati di archi e all’introduzione di pilastri riccamente decorati privi di funzione portante. La chiesa ha una pianta geometricamente complessa, si tratta infatti di un ottagono; gli otto lati della struttura interna sono ricurvi verso il centro e costituiscono altrettanti ampi archi poggianti su sedici colonne in marmo rosso, oltre i quali si aprono nicchie con statue incorniciate da pilastri bianchi. Guarini, nella realizzazione delle cupole dell’asse longitudinale e del presbiterio, supera la concezione della cupola classica; la cupola dell’asse longitudinale è costituita da costoloni che formano una stella a otto punte e un ottagono su cui poi si innalza la lanterna. Tra i costoloni non vi è superficie muraria, ma ampie finestre ovali e tante altre più piccole, aperte con lo scopo di ottenere stupefacenti giochi di luce; all’osservatore la cupola appare leggerissima, egli guarda verso l’alto e punta gli occhi verso l’infinito celeste.
Nel 1668 Carlo Emanuele II vuole che Guarino diriga il cantiere della Cappella della Santissima Sindone, dedicata appunto all’inestimabile reliquia posseduta dai Savoia. L’architetto per prima cosa rivoluziona il precedente progetto di Carlo di Castellamonte, decisamente più tradizionale, e crea all’esterno il motivo delle sei grandi finestre del tamburo, evidenziato dal profilo ondulato del cornicione; al disopra inserisce l’originale motivo a “zig-zag” dei costoloni della cupola, che termina con la lanterna conica. L’interno della cupola è tutto giocato sulla successione decrescente di forme esagonali a stella, che conferiscono alla struttura un accentuato scorcio prospettico e accentuano l’effetto illusionistico in altezza.
Le cupole sono il tratto tipico della genialità e delle idee innovative del Guarini: in tali architetture il ritmo si fa serrato di segmenti curvilinei che si inscrivono in uno spazio vuoto, è come se tali strutture stessero sorprendentemente in equilibrio. “È l’istante in cui il calcolo matematico coincide con il percorso della fantasia che tende a Dio, l’istante in cui la logica coincide con la fede, l’istante in cui Dio si manifesta nel pensiero e nell’opera dell’uomo” (Argan, “Storia dell’Arte Italiana”, Rizzoli, 1981).
Il nome di Guarini è anche collegato ad un altro importante edificio torinese. In Palazzo Carignano, edificato tra il 1679 e il 1681, si riscontrano elementi del barocco romano. In tale edificio è evidente il richiamo al Borromini, prima di tutto nel motivo convesso del corpo centrale che si flette ai lati in concavità, mentre due grandi blocchi rettilinei concludono la facciata. L’andamento mosso, che rispecchia la disposizione interna del salone ovale e della scalinata, è ulteriormente sottolineato dall’uso uniforme del mattone rosso, con cui sono realizzati anche gli ornati, le inquadrature delle finestre e le accentuazioni delle lesene.

Guarini è sicuramente molto legato alla poetica borrominiana, più che all’insegnamento del Bernini, ma è opportuno ricordare che suo grandissimo merito è quello di essere stato in grado di sintetizzare le due lezioni, congiungendo le due antitetiche concezioni etico-religiose.
Proprio su quest’ultima affermazione vorrei soffermarmi prima di concludere. Guarini non è celebre solo per i suoi progetti architettonici, ma è degno di nota proprio per aver reso dialoganti tra loro le due opposte correnti di pensiero che si diffondono, apparentemente in antitesi, per tutto il Seicento.
Alla fine del Cinquecento la nascita del pensiero scientifico mette in discussione l’autorità degli antichi, le certezze dell’uomo rinascimentale risultano insufficienti e superate e gli studiosi si schierano in due differenti fazioni: chi sostiene la ragione, a discapito dei sensi, chi, al contrario, sostiene la necessità di far intervenire l’esperienza nel confermare o smentire la realtà. Tutto il Seicento oscilla tra queste posizioni, tra la teoria astratta di tipo matematico e quella a sostegno dell’esperienza, delle sensazioni emotive e dell’importanza dell’inconscio. La particolarità dell’architetto teatino è il sostenere che le due versioni si trovino in rapporto dialettico, egli è convinto infatti che la razionalità matematica non neghi l’esperienza, ma al contrario ne richieda l’intervento. Teoria e prassi operativa sono due momenti successivi ed inscindibili di un unico processo: il costruire.
Ma ora terminiamo. “Parlare” di tali argomenti è a mio parere “limitativo”, l’arte e l’architettura vanno vissute, viste, guardate, assimilate. Le lezioni dei grandi sono da apprendere sul campo, con i polpastrelli che tastano i materiali e percepiscono la differenza tra il marmo, l’intonaco e il cemento, con il collo che “scrocchia” a furia di tenere il capo rivolto all’insù. È questo che dico sempre ai miei studenti: non smettete mai di stupirvi.

Alessia Cagnotto

Torino tra architettura e pittura. Pietro Fenoglio

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)
4) Pietro Fenoglio (1865-1927)

 

I tempi cambiano, così come le mode, i gusti e le abitudini: non troppo tempo fa scrivevamo messaggi lunghi quanto papiri tascabili, ora non abbiamo più voglia di usare i pollici opponibili e ci scambiamo “vocali” ricolmi di silenzi e domande senza risposta; gli “immigrati digitali” continuano a pubblicare su “Facebook” i ricordi degli anni più magri della loro vita, mentre i “digital natives” parlano una lingua tutta loro tra “Instagram” e “Tick-Tock”, va da sé che il divario generazionale risulta a mio avviso incolmabile.

È incredibile quanto ci si metta poco ad abituarsi, ad accettare che ormai tutto debba essere veloce, che dobbiamo essere tutti “smart”. E se non siamo in grado di utilizzare le mille piattaforme digitali che ci vengono quotidianamente proposte per fare la spesa, cucinare, seguire le lezioni scolastiche e nel contempo fare “pilates” è colpa nostra, siamo noi che non sappiamo adattarci a questo “guazzabuglio moderno”. Mi solleva tuttavia pensare che Darwin non ha affermato che a sopravvivere sia il più intelligente. Ho anche notato che non abbiamo più pazienza, non siamo più abituati ad aspettare né a mantenere l’attenzione fissa su qualcosa per più di pochi minuti – ad essere generosi- . I film, per esempio, non ci piacciono più, preferiamo storie dilatate, che si protraggono per stagioni e stagioni così che possiamo seguire gli avvenimenti narrati mentre svolgiamo le diverse attività imposte dalla routine quotidiana. A tal proposito, con le numerosissime piattaforme di cui disponiamo abbiamo l’imbarazzo della scelta: una vastità di opzioni da risultare spiazzante. Io stessa impiego diverso tempo prima di decidere che cosa guardare, uno dei criteri che seguo è cercare di capire il periodo in cui è ambientata la vicenda, poiché, per me, i costumi, le scenografie e le ambientazioni risultano importanti quanto la trama. Attualmente mi sono fatta coinvolgere da una produzione spagnola ambientata in uno dei momenti storici che preferisco – artisticamente parlando – ossia gli anni Venti.
Sono gli anni che precedono la Grande Guerra e l’industrializzazione investe tutti i campi della produzione, i miglioramenti ottenuti in campo tecnico e scientifico diffondono grande ottimismo e in generale si evidenzia un periodo economicamente florido, soprattutto per la classe borghese. Parliamo in ogni caso di un tempo assai complesso, e non dobbiamo commettere l’errore di non ricordare le profonde contraddizioni di carattere sociale che vedono la classe operaia sopravvivere a stento, affrontando giornalmente indicibili condizioni di disagio, mentre, dall’altra parte, la ricca borghesia gode di una particolare agiatezza. È il periodo storico, culturale, artistico della “Belle Époque”.

Non voglio di certo proporvi qui e ora una riflessione sull’ingiusto divario economico-sociale che accompagna la storia, tra “chi ha troppo” e “chi non ha niente”; piuttosto il mio ruolo, quale docente di arte, è quello di parlare di quadri, sculture, decorazioni e di quanto al mondo c’è di bello e degno di nota. Non dimentichiamo che l’arte non è altro che la prova tangibile e inconfutabile di ciò che è stato, l’arte è una testimone silenziosa ma ineluttabile degli eventi trascorsi, ed è intrinsecamente veritiera e portatrice di pensieri, ragionamenti, confronti. Sarà per questo che il suo insegnamento è relegato a due sole ore settimanali? Ma torniamo al filo conduttore del nostro discorso, a quegli anni Venti in cui, poco più in là dei luoghi desolati “dove il sole del buon Dio non da’ i suoi raggi”, (De André), si stagliano netti quartieri ricchi di palazzi, teatri dell’opera, caffè “alla moda” e molti altri centri di ritrovo mondano.
In tale ricco contesto si diffonde “L’Art Nouveau”, vera e propria espressione del gusto della società moderna; si tratta di un linguaggio caratterizzato da uno spiccato amore per la decorazione raffinata ed elegante, che supera le distinzioni fra arte, artigianato e produzione industriale e che, in particolar modo, invade tutti gli ambiti della comunicazione visiva.
L’“Arte Nuova” osserva la natura, il mondo vegetale e ripropone, stilizzandole, le aggraziate forme di foglie e fiori. L’elemento dominante è la linea, morbida, libera e sinuosa, attraverso l’impiego di essa gli artisti esprimono idea di movimento, vitalità ed energia. L’aspetto più caratteristico è la linea “a colpo di frusta”, duttile ed elastica come la cordicella schioccata dal fantino.
In architettura i motivi decorativi si snodano sulle facciate degli edifici, le vetrate colorate presentano motivi stilizzati floreali e vegetali, gli interni sono decorati con arabeschi che adornano le pareti, le cornici delle porte e le ringhiere delle scale. Importante sottolineare come l’ “architetto” diventi un “progettista globale”, a cui è affidata la cura dell’intero edificio, dalla struttura progettuale ai più piccoli dettagli delle serrature.

In pittura la linea si unisce al colore piatto, spesso impreziosito dall’uso dell’oro, un esempio per tutti è dato dai dipinti di Gustav Klimt, (1862-1918), uno dei massimi esponenti dell’ “Art Nouveau”. Assai rilevante è anche il settore della grafica, non solo per quel che riguarda le raffinatissime illustrazioni dei libri, ma anche per la vasta produzione di manifesti atti a pubblicizzare prodotti commerciali, esposizioni d’arte e spettacoli di vario genere. Come non pensare, a tal proposito, all’illustre Alphonse Mucha (1860- 1939)?
Tuttavia, il vero trionfo dell’ “Art Nouveau” è nel settore delle arti applicate : manufatti di gran pregio, gioielli, mobili, oggetti d’uso comune, carte da parati, e qualsivoglia prodotto realizzato in serie. L’“Art Nouveau” influenza le arti figurative nella loro totalità, dall’architettura, alle decorazioni di interni, dalla lavorazione dei tessuti, fino all’arte funeraria; essa assume nomi diversi, ma dal significato affine, a seconda dei luoghi in cui si manifesta: “Style Guimard”, “Style 1900”, “Scuola di Nancy” in Francia; “Stile Liberty”, dal nome dei magazzini inglesi di Arthur Lasemby, “Liberty” o “Stile Floreale” in Italia; “Modern Style” in Gran Bretagna; “Jugendstil” (“Stile giovane”) in Germania; “Nieuwe Kunst” nei Paesi Bassi; “Styl Mlodej Polski” (“Stile di Giovane Polonia”) in Polonia; “Style Sapin” in Svizzera; “Sezessionist” (Stile di Secessione”) in Austria; “Modern” in Russia; “Arte Modernista o “Modernismo” in Spagna.
Non occorre però andare chissà dove per poter godere di quest’arte meravigliosamente “frivola” ed elegante, basta fare una passeggiata – appena ce ne sarà nuovamente l’occasione – dalle parti di Corso Francia, dove sorge “La Fleur” (1902), considerata dagli esperti il più significativo esempio di stile “Liberty” in Italia. La struttura è stata progettata in ogni più piccolo particolare da Pietro Fenoglio per la sua famiglia; la palazzina si erge in Corso Francia, angolo Via Principi d’Acaja, e trae ispirazione dall’Art Nouveau belga e francese.
La costruzione si articola su due corpi di fabbrica disposti ad “elle”, raccordati, nella parte angolare, da una straordinaria torre – bovindo più alta di un piano, in corrispondenza del soggiorno interno. Manifesto estetico di Fenoglio, l’edificio – tre piani fuori terra, più il piano mansardato – riflette l’estro creativo dell’architetto, che riesce a coniugare la rassicurante imponenza della parte muraria e le sue articolazioni funzionali, con la plasticità tipicamente “Art Nouveau”, che ne permea l’esito complessivo. Meravigliosa, e di fortissimo impatto scenico, è la torre angolare, che vede convergere verso di sé le due ali della costruzione e su cui spicca il bovindo con i grandi vetri colorati che si aprono a sinuosi e animosi intrecci in ferro battuto. Un’edicola di coronamento sovrasta l’elegante terrazzino che sporge sopra le spettacolari vetrate. Sulle facciate, infissi dalle linee tondeggianti, intrecci di alghe: un ricchissimo apparato ornamentale, che risponde a pieno all’autentico “Liberty”. Gli stilemi fitomorfi trovano completa realizzazione, in particolare negli elementi del rosone superiore e nel modulo angolare. Altrettanto affascinanti per la loro eleganza sono l’androne e il corpo scala a pianta esagonale. Si rimane davvero estasiati di fronte a quelle scale così belle, eleganti, raffinate, uniche. Straordinarie anche le porte in legno di noce, le vetrate, i mancorrenti, e le maniglie d’ottone che ripropongono l’intreccio di germogli di fiori.

La palazzina, mai abitata dalla famiglia Fenoglio, viene venduta, due anni dopo l’ultimazione, a Giorgio La Fleur, imprenditore del settore automobilistico, il quale ha voluto aggiungere il proprio nome all’immobile, come testimonia una targa apposta nel settore angolare della struttura, e lì è rimasto ad abitare fino alla morte. Dopo un lungo periodo di decadenza, la palazzina è stata frazionata e ceduta a privati che negli anni Novanta si sono occupati del suo restauro conservativo.
Va da sé che questa non è l’unica costruzione “Liberty” torinese, al contrario, ve ne sono molte altre soprattutto nel quartiere “Cit Turin”, ma di certo “La Fleur” è la più conosciuta e la più importante del territorio.

Mi preme ricordare inoltre che Torino, nei primissimi anni del secolo scorso, assume il ruolo di polo di riferimento per il “Liberty” italiano grazie all’ “Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna” del 1902. Tale avvenimento risulta di grandissimo successo, e numerosi sono gli architetti che offrono il proprio contributo, tuttavia – e pare quasi scontato dirlo – il protagonista indiscusso di questa stagione è Pietro Fenoglio, il geniale ingegnere-architetto torinese, che sceglie come abitazione la palazzina di Corso Galileo Ferraris, 55. Personalità artistica di estremo rilievo, da subito orienta il suo campo d’interesse nell’edilizia residenziale e nell’architettura industriale, Pietro Fenoglio contribuisce in modo particolare a rimodellare Torino secondo il gusto “Liberty”. Nasce a Torino nel 1865, da una famiglia di costruttori edili, frequenta poi la Regia Scuola di Applicazione per ingegneri, sempre nella città subalpina; appena dopo la laurea, conseguita nel 1889, inizia un’intensa attività lavorativa, raggiungendo ottimi risultati in ambito architettonico. Partecipa, nel 1902, all’ “Organizzazione internazionale di Arte Decorativa Moderna” di Torino e in quest’occasione approfondisce la conoscenza dello stile “Liberty”, riuscendo poi a concretizzare quanto appreso nei numerosi interventi edilizi di carattere residenziale, ancora oggi visibili nel nostro capoluogo. La sua attività di progettista si estende anche al campo dell’architettura industriale, come testimoniano la Conceria Fiorio (1900 – Via Durandi, 11) o la Manifattura Gilardini (1904 – Lungo Dora Firenze, 19). Nel 1912, Pietro entra a far parte del Consiglio di Amministrazione della Banca Commerciale Italiana ed è tra i promotori della Società Idroelettrica Piemonte. Colto da morte improvvisa, Pietro Fenoglio muore il 22 agosto 1927, a soli 62 anni, nella grande casa di famiglia a Corio Canavese.
Molto ci sarebbe ancora da dire ma vi ho rubato fin troppo tempo e chissà quante sono le cose che dovete ancora assolutamente fare. Anche io sono oberata da faccende da ultimare, chiederò allora -come sottofondo lieve- alle mie protagoniste televisive agghindate anni Venti, di tenermi compagnia; d’altronde, se non ci si abitua, un po’ di frivolezza non ha mai fatto male a nessuno.

Alessia Cagnotto

Torino tra architettura e pittura: Alessandro Antonelli

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

3) Alessandro Antonelli

“Il destino è quel che è, non c’è scampo ormai per me!” questo gridava nel sonno lo scapigliato protagonista del celebre “Frankenstein Junior”, film del 1974 diretto da Mel Brooks, e credo che questa battuta possa riassumere il mio attuale stato d’animo, non tanto dissimile –immagino- da quello delle altre persone. La situazione pandemica si è nuovamente aggravata, dobbiamo resistere e affrontare le difficoltà che si prospetteranno, ancora una volta, e ancora una volta ci tocca sperare “che andrà tutto bene”. Per questo articolo non mi sento di inventare panegirici di fantomatiche gite scolastiche perché anche le persone ottimiste come lo sono io, ogni tanto, hanno bisogno di “accasciarsi” e farsi trasportare dove li porta il vento. O il nuovo DCPM. E poi di vedrà.
In questo pezzo dunque vi chiedo di immaginare quello che già conoscete, ossia lo “skyline” del “nostro” capoluogo piemontese, reso assai riconoscibile da una punta che svetta “tra le montagne,” una costruzione che fino al 1953 è stata la più alta d’Europa, un edificio dalla storia leggermente travagliata e attorno al quale circolano “strane” storie e curiose verità.
Si tratta della Mole Antonelliana, uno dei simboli indiscussi di Torino,
situata nel centro storico della città, in via Montebello, ora sede del Museo Nazionale del Cinema, esposizione unica nel suo genere e conosciuta in tutta Italia. L’edificio è legato al nome del suo ideatore, Alessandro Antonelli (1798-1888), uno dei protagonisti della scena artistica italiana del XIX secolo.

Prima di addentrarmi nell’argomento del giorno gradirei accennare due parole sul Museo Nazionale del Cinema, luogo che amo particolarmente e che ho visitato più volte, soprattutto negli anni dell’Accademia, durante i quali ho approfondito le tematiche della scenografia cinematografica. Al di là degli studi, ho sempre apprezzato “andare al cinema” e vedere come la pellicola rielabori emozioni e sensazioni su cui poi è bello ritrovarsi a riflettere. La nascita del Museo si deve a Maria Adriana Prolo, che nel 1941 immagina un luogo dedicato alla raccolta dei documenti dell’industria cinematografica torinese. Attualmente l’esposizione vanta quasi 1.800.000 opere tra film, documenti d’archivio, fotografie, apparecchi e oggetti d’arte, manifesti, memorabilia del cinema, volumi e registrazioni sonore. Ma è meglio che mi fermi qui, prima di andare fuori tema.
Torniamo dunque a noi.Nella prima metà dell’Ottocento l’architettura, ancora essenzialmente legata al gusto neoclassico, inizia a risentire dell’influsso del “Gothic revival”, come testimoniano gli edifici in stile archiacuto costruiti in questi anni. La ripresa del Gotico favorisce il recupero di diversi elementi architettonici tipici di periodi passati; la riscoperta artistica rende la seconda metà del XIX secolo particolarmente eclettica dal punto di vista urbanistico, grazie proprio alla contaminazione e alla coesistenza tra i vari stili del passato. Tale particolare e polistilistica produzione architettonica non caratterizza solamente i padiglioni delle grandi esposizioni internazionali, ma anche l’edilizia civile, e nei centri urbani inizia a prevalere il criterio di applicare alle diverse tipologie funzionali altrettanti stili, per cui le banche vengono realizzate in stile classico, le abitazioni in stile rinascimentale, le stazioni termali in stile orientaleggiante e gli edifici religiosi in stile medievale.

Alessandro Antonelli è attivo soprattutto in Piemonte, le sue architetture tendono a staccarsi dal dilagante eclettismo e si distinguono per profonda originalità. Si può affermare che la sua opera rifletta quel contrasto, rimasto irrisolto per tutto l’Ottocento, tra il conservatorismo accademico e il progressismo di stampo scientifico.
I progetti maggiormente legati al nome dell’architetto innovatore sono due: la Mole di Torino e la Cupola di San Gaudenzio a Novara, in entrambi i progetti egli sperimenta la tecnica costruttiva con tiranti in ferro nella tessitura laterizia.
Il suo carattere e le sue idee innovative lo portano purtroppo a scontrarsi con clienti e committenti, le incomprensioni fanno sì che molte delle sue opere vengano realizzate parzialmente o comunque con importanti modifiche.
L’architetto nasce a Ghemme, in provincia di Novara, in una famiglia assai numerosa: egli è il quinto di undici figli; il padre notaio e la madre casalinga.
Alessandro frequenta il liceo artistico a Milano, in seguito si iscrive all’Accademia di Brera per poi spostarsi in quella di Torino; una volta conseguita la laurea in Architettura e Ingegneria, per i quattro anni successivi lavora presso gli uffici tecnici demaniali del capoluogo piemontese.
Nel 1828 vince il prestigioso “ Prix de Rome”, in seguito a un concorso indetto dall’Accademia Albertina, tale onorificenza lo porta a recarsi a Roma per una formazione di cinque anni; in questo periodo egli si dedica soprattutto allo studio della geometria descrittiva, sotto la guida del Professore Carlo Sereni, si confronta con le innumerevoli opere presenti in città e inizia a frequentare diversi scultori emergenti. Conosce Berthel Thorwaldsen, con cui stringe un rapporto di solida amicizia e a cui chiederà di collaborare in uno dei suoi primi progetti, la cattedrale di Novara, per l’altare maggiore della chiesa.

Nel 1833 Antonelli fa ritorno in Piemonte. Tra il 1836 e il 1857 egli è professore di architettura, prospettiva e ornato presso l’Accademia Albertina di Torino; nel 1843 sposa Francesca Scaccabarozzi da cui ha due figli, Costanzo che diventerà ingegnere e una giovane fanciulla che morirà prematuramente a soli 19 anni.
Antonelli elabora uno stile funzionale dell’architettura, che lo porta a prestare particolare attenzione al piano di sistemazione urbanistica del centro di Torino, in particolare del quartiere Vanchiglia, dove costruisce la “sua” opera più celebre, la “Mole Antonelliana”, la Casa Scaccabarozzi (meglio nota come “Fetta di Polenta”) e la Casa Antonelli. Contribuisce anche allo sviluppo della città di Novara, con la costruzione della cupola della basilica di San Gaudenzio, della vicina Casa Bossi e con la stesura del progetto di ricostruzione della cattedrale di Santa Maria Assunta.
Nel 1844 inizia l’edificazione della Cupola di San Gaudenzio, a Novara, destinata a completare la basilica eretta da Pellegrino Tibaldi; alla fine dei lavori l’edificio risulta un’arditissima opera, dotata di una base molto ristretta, di appena 26 metri di diametro, ma alta ben 125 metri, ai limiti della resistenza delle strutture. Particolarmente degna di attenzione è anche la parte esterna della cupola, rivestita da cinque ordini di pilastri, colonne, cornici, su cui si imposta la cupolina, a sua volta sormontata da quattro ordini di sostegni, a formare il pinnacolo.
Dopo aver completato il Duomo di Novara, (1861), Antonelli si dedica alla progettazione della Mole torinese. Il cantiere viene aperto nel 1863 e i lavori si protraggono oltre la morte dell’architetto, fino al 1888; inizialmente il progetto è rivolto a erigere una sinagoga, tempio della Comunità Israelita Torinese, ma l’idea non piace e la struttura viene adibita a museo. Il progetto approvato dalla comunità ebraica prevedeva un edificio dell’altezza di 47 metri, ma durante la costruzione Antonelli applica delle modifiche e porta l’altezza a 113 metri. La comunità ebraica non apprezza i cambiamenti progettuali e, anche per non meno importanti motivi economici, decide di chiudere il cantiere.

La Mole è una delle costruzioni più ardite dell’Ottocento, è formata da un massiccio piedistallo a base quadrata, sui cui si innalza una volta a padiglioni a sesto acuto sormontata da una sottile guglia, che raggiunge i 167 metri dal suolo.
Tale edificio evidenzia i presupposti culturali a cui l’architetto fa riferimento per le sue opere: da una parte il linguaggio neoclassico, come dimostrano il fitto reticolato di cornici, colonne e pilastri, presenti anche nella cupola novarese, dall’altra i motivi neogotici e romanici, evidenti soprattutto nel verticalismo della costruzione.
Sono molte le curiosità e le leggende legate a questa costruzione. Secondo la tradizione esoterica la Mole è in realtà un enorme “canalizzatore” di energia positiva, essa assorbe dall’alta guglia energia dal cielo e la distribuisce sul territorio attraverso la base piramidale.
Se l’aspetto esteriore della struttura-simbolo di Torino è assai nota, forse non tutti sanno che l’attuale sede del Museo del Cinema appare in diversi film, tra cui “Porco Rosso” di Hayao Miyazaki dove la Mole compare nella sigla di chiusura del lungometraggio;  “Dopo mezzanotte” di Davide Ferrario girato in gran parte all’interno dell’edificio; “Le amiche” di Michelangelo Antonioni, dove, nei titoli di testa si vede la sua guglia spezzata.
Alcuni studiosi hanno voluto sottolineare che la maestria costruttiva di Antonelli è il punto di arrivo di una tecnica antichissima, che parte addirittura dalle cupole romane, più che il punto di partenza di una tecnica e di una scienza nuove ( Gregotti-Rossi, 1957); tuttavia è opportuno sottolineare che l’architetto inserisce anche aspetti innovativi, evidenti specialmente nel costante interesse per il dato urbano.

In generale l’opera di Antonelli pare riflettere quel contrasto, che rimane irrisolto per tutto l’Ottocento, tra il conservatorismo accademico e il progressismo di stampo scientifico.
Negli anni Sessanta dell’Ottocento Antonelli, in qualità di rappresentante dell’Accademia Albertina, viene nominato membro della commissione incaricata di valutare i progetti della facciata della cattedrale di Santa Maria del Fiore, rimasta incompleta dai tempi del Rinascimento; l’architetto decide tuttavia di abbandonare la commissione e di partecipare al concorso come progettista, le sue idee però non piacciono e vengono scartate.
Egli è anche uomo politico, è consigliere regionale e provinciale, ed è, per un periodo brevissimo di appena due mesi, deputato del Regno di Sardegna.
Antonelli si spegne a Torino, nel 1888, a più di novant’anni. Dopo i funerali di rito cattolico, la sua salma è stata sepolta nella tomba di famiglia, posta all’entrata del cimitero del comune di Maggiora.
Non so chi siano i miei lettori, ma non posso terminare questo pezzo senza avvisare i potenziali studenti che si potrebbero inavvertitamente imbattere nella suddetta lettura: pare che la meraviglia architettonica torinese di Antonelli in realtà porti leggermente sfortuna agli universitari e agli scolari in genere, niente di allarmante, solo qualche possibile ritardo nel percorso di studio. Tuttavia, dato il periodo già abbastanza complicato di per sé, perché aggiungere ulteriori preoccupazioni?

Alessia Cagnotto