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In visita al Museo del carcere “Le Nuove”

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TORINO OLTRE GLI ASTERISCHI 

Per la rubrica “The Password: Torino oltre gli asterischi”, oggi vi portiamo a conoscere Torino attraverso uno dei luoghi più emblematici della sua storia. Si tratta di un ex carcere, riflesso delle evoluzioni del capoluogo piemontese nell’ultimo secolo e mezzo, che ancora oggi ha molto da raccontarci in termini di democrazia e partecipazione politica. 

Torino è una città d’arte e cultura con oltre cinquanta siti storici aperti al pubblico: uno di questi è il Museo “Le Nuove” in via Paolo Borsellino, 3 (https://www.museolenuove.it/). Per accedervi è necessario prenotare: il costo è di 5 euro per gli studenti ed è inclusa una visita guidata di due ore circa. Le guide sono volontari dell’associazione “Nessun uomo è un’isola”, che si occupa del museo. Capita, a volte, di assistere anche alla testimonianza di persone che erano ancora bambine ai tempi della detenzione: alcuni sono figli di ebrei, i cui genitori furono deportati nei campi di concentramento, altri sono figli di partigiani fucilati o rilasciati dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Si tratta di testimonianze toccanti e dal valore storico e umano incredibile.

I percorsi guidati sono diversi. Il percorso storico-museale permette di accedere alla sezione esterna e ad alcuni bracci del sistema carcerario, come quello femminile, quello tedesco gestito dalle SS e la parte sotterranea destinata ai giovani partigiani, che da lì a poco sarebbero stati fucilati. Il ricovero antiaereo – altro percorso possibile – è un bunker situato a 18 metri di profondità sotto il carcere. La visita dura un’ora e in inverno è richiesto un abbigliamento pesante. Sacro e profano è, invece, un tour che permette di visitare la parte centrale della struttura, le chiese e i percorsi nascosti del Direttore.

Nella storia di questo complesso carcerario alcune figure della Chiesa sono state di grande conforto per i detenuti, come Suor Giuseppina Demuro e il frate francescano Ruggero Cipolla. La prima si fece promuovere ufficiale nazista, pur di continuare a gestire il Braccio B – l’unico femminile – durante l’occupazione tedesca, salvando numerose vite, come quella della partigiana Valérie, del piccolo Massimo di appena sei mesi (figlio di Elena Recanati, deportata ad Auschwitz e tornata viva), di Adriana Cantore che allora aveva solo 13 mesi, (sopravvissuta grazie alle cure della suora) e di sua mamma Ida (anche se quando uscì dal carcere pesava solo 38 chili). Padre Ruggero Cipolla, che all’inizio doveva assistere i detenuti della parte sotterranea per soli 15 giorni, fu invece nominato cappellano del carcere “Le Nuove” dal 1944 e poi delle “Vallette” fino al 1994. Fu autore di I miei condannati a morte. Lettere e testimonianze. Consapevole che la posta dei giovani detenuti sarebbe stata oggetto di censura, il frate, rischiando la propria vita, dava loro due fogli: uno lo consegnava ai nazisti, l’altro lo nascondeva e lo recapitava ai familiari delle vittime. A lui toccava un compito difficilissimo: assistere quei ragazzi, “i suoi ragazzi”, prima e durante la fucilazione, segnandosi dove erano stati sepolti così da poterlo comunicare ai cari.

Le storie sono tantissime: l’ebrea Enrichetta Iona che, insieme alla famiglia, fu deportata nei campi di concentramento dal binario 17 della stazione di Porta Nuova; i martiri della Resistenza Osvaldo Alasonatti e Renato Cottini, che oggi dà il nome al Liceo artistico statale di Torino; Emanuele Artom, il cui corpo, nonostante gli sforzi e le ricerche, non fu mai trovato; Ignazio Vian che, nonostante le torture, non fece mai un nome dei suoi compagni, tentò il suicidio tagliandosi le vene, ma fu salvato dai nazisti al fine di infliggergli loro stessi la pena di morte.

La superficie del carcere è di 37.634 metri quadrati: è immenso, se si pensa che la superficie di piazza Vittorio Veneto, la piazza più estesa di Torino, è di 38.000. È rimasto attivo fino al 2003, subendo modifiche nel tempo. Lì furono internati anche alcuni militanti delle Brigate Rosse, come i terroristi che, il 15 dicembre 1978, all’incrocio tra via Pier Carlo Boggio e corso Vittorio Emanuele II, freddarono Salvatore Lanza e Salvatore Porceddu, agenti di polizia chiusi all’alba dentro un furgoncino di servizio di fronte alla struttura carceraria, alla quale oggi è affissa una lapide in loro ricordo.

Piero Calamandrei disse: “Se volete andare in pellegrinaggio dove è nata la nostra Costituzione, andate sulle montagne, nelle carceri, nei campi, dovunque è morto un italiano per riscattare la nostra libertà, perché è lì che è nata questa nostra Costituzione”. Per essere testimoni della Storia e contribuire alla memoria collettiva occorre partire dall’ascolto e dalla divulgazione della storia di uomini comuni che soffrirono per la libertà e la democrazia di cui noi oggi godiamo.

Nicole Zunino – redattrice di The Password

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“Henri Cartier-Bresson e l’Italia”. La mostra sul pioniere del fotogiornalismo

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Con questo primo articolo si apre la collaborazione tra Il Torinese e The Password. Ma cos’è The Password? Siamo il giornale degli studenti di Torino. Ci trovate su Instagram come thepasswordunito, dove ci impegniamo a pubblicizzare i nostri articoli, riguardanti i temi più vari. La nostra associazione è organizzata al suo interno in diversi team, che cooperano, occupandosi di ogni aspetto del lavoro che si svolge dietro le quinte di un giornale: dalla redazione alla correzione, dai social fino al nostro podcast Oltre lInchiostro. La collaborazione consisterà in una rubrica settimanale dal titolo The Password: Torino oltre gli asterischi”, che parlerà di giovani e cultura a Torino. In questo articolo di apertura parliamo della mostra fotografica su Cartier-Bresson.

A Torino, dal 14 febbraio al 2 giugno, si tiene presso CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia una mostra fotografica che indaga il rapporto tra il fotografo francese Henri Cartier-Bresson e lItalia.

Bresson nasce nel 1908 a Chanteloup, vicino a Parigi. Cresce nellambiente dellalta borghesia e ha accesso a studi di livello elevato. In particolare, segue le orme dello zio pittore, approfondendo con lui il surrealismo francese.

I suoi scatti erediteranno molto dallestetica surrealista, benché sia un fotoreporter. Considerato pioniere del fotogiornalismo, verrà chiamato locchio del secolo”.

Dichiara di amare le strade, le piazze, le vie. Scatta foto di persone in contesti ordinari, cogliendo dettagli della vita quotidiana nella loro spontaneità, motivo per cui si impegna a mantenere il proprio volto sconosciuto. Nonostante la fama che si guadagnerà come fotografo, necessita di poter camminare per le strade nellanonimato; infatti, affinché i suoi scatti conservino la naturalezza, che è limpronta artistica della sua fotografia, deve poter non essere riconosciuto.

Proprio per questa ragione il suo celebre autoritratto scattato in Italia non lo riprende in volto.

I suoi viaggi in Italia cominciano negli anni ’30. Il primo è in compagnia di amici e non è a scopo professionale. Durante questo viaggio scatta una foto di nudo, che a primo impatto può sembrare un momento di goliardia, ma che diventerà uno scatto simbolico, nel quale ritrae un concetto di coppia e di amore: vediamo una testa, due braccia e due gambe, la fusione di due corpi che diventano uno solo.

Negli anni ’50 gli vengono commissionati degli scatti che rappresentino la società italiana; dunque, si reca a Roma e scende nelle strade. In particolare, ritrae la giornata dell’Epifania, festa molto sentita a Roma, durante la quale tradizionalmente venivano portati doni ai vigili urbani.

Tra le altre, scatta due foto con la stessa ripresa, ma con una prospettiva diversa: un vigile urbano, in strada, su un piedistallo con ai piedi i doni ricevuti. Una riprende la classicità della statua italiana, laltra, che ritrae il vigile col bracco alzato, è un chiaro richiamo al fascismo.

Oltre a Roma, si reca anche in Abruzzo, dove le piazze che i giornali internazionali ritraggono come cartoline di luoghi da vacanza in realtà sono ben diverse. Al posto di scintillanti calici di vino, Bresson trova una realtà contadina che arranca negli anni del dopoguerra.

Similmente accade a Ischia, in cui giunge su richiesta di una rivista americana con lo scopo di pubblicizzare la zona come meta turistica; eppure quello che trova è unisola di pescatori, che fotografa nella loro genuinità.

In questo periodo, tuttavia, vediamo pian piano gli sfondi cambiare nelle sue fotografie. Si intravede la trasformazione sociale di un Paese che si rialza. Le strade delle città italiane che Bresson ritrae mutano, e con loro i cittadini e i mestieri. I contadini scalzi e affamati cominciano a essere rimpiazzati da insegne di barbieri e donne col cappello.

Bresson con la sua fotografia toccherà tutta lItalia, da nord a sud, catturando attimi di vita di strade e piazze, sempre in maniera naturale, e conservando un gusto estetico, figlio della sua formazione di pittore immerso nel surrealismo.

Molte delle sue fotografie risentono del gusto pittorico del fotografo, tant’è che alcune foto di Napoli, risalenti agli anni ’60, appaiono come dei veri e propri quadri, con chiaroscuri quasi caravaggeschi.

Anche nelle foto di Venezia, degli anni ’70, che ritraggono manifestazioni e movimenti sociali, è ricercato un senso estetico attraverso i volti dei manifestanti coperti dagli ombrelli nelle piazze.

A causa di questo profondo sentimento artistico, non sorprenderà lappassionato scoprire che a fine carriera il fotografo francese si dedicherà nuovamente al suo primo amore: il disegno.

Alice Aschieri – redattrice di The Password www.thepasswordunito.com

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