La foto scelta per i manifesti della mostra fotografica di Paolo Siccardi “La lunga notte di Sarajevo” ( che rimarrà aperta al pubblico al Mastio della Cittadella di Torino, tra corso Galileo Ferraris e via Cernaia, fino al 19 marzo ) è dedicata a Vedran Smailović ,unico sopravvissuto del quartetto d’archi di Sarajevo, immortalato dal fotoreporter torinese mentre suona il violoncello nella stazione ferroviaria di Sarajevo.

Il musicista durante l’assedio strinse i denti come tanti suoi concittadini sotto le bombe e il tiro degli snjper, patendo quotidiane sofferenze. Il 27 maggio del 1992 gli assedianti uccisero a colpi di mortaio ventidue persone, ferendone altre centocinquanta in via Vaso Miskin, a poca distanza dal Markale, il mercato austro-ungarico nel cuore della città, in quella che venne ricordata come la strage del pane. Quel giorno un gruppo di persone, approfittando di un breve periodo di tregua, erano in fila davanti a un forno quando vennero colpite dalle granate dell’artiglieria serbo bosniaca. Smailović reagì suonando per ventidue giorni tra quelle macerie il suo strumento indossando lo smoking con solennità. Nel luogo della strage per ventidue volte, una per ognuna delle vittime, risuonarono le note dolenti dell’Adagio di Albinoni. L’artista sarajevese scelse di testimoniare così la rabbia e il dolore dell’intera città. E continuò a farlo anche in altre occasioni “perché la gente mi diceva che se avessi smesso di suonare Sarajevo sarebbe caduta”. Suonò gratuitamente alle esequie di persone che nemmeno conosceva, incurante dei rischi perché i funerali in città erano presi di mira dai cecchini serbi. Quel brano, scelto istintivamente, pareva scritto apposta per quelle occasioni. L’Adagio in sol minore (Mi 26), noto come Adagio di Albinoni, è infatti una composizione scritta nel 1945 e pubblicata nel 1958 da Remo Giazotto, musicologo e compositore italiano. Grande esperto di Albinoni si deve a lui la ricostruzione dell’Adagio che si basava sui frammenti di spartiti del grande violinista veneziano, ritrovati tra le macerie della biblioteca di Stato di Dresda, la Sächsische Landesbibliothek, l’unica dov’erano custodite partiture autografe di Albinoni, distrutta nel bombardamento che rase al suolo la città il 13 e 14 febbraio del 1945 ad opera degli aerei inglesi della RAF e dei B17 americani, le famose fortezze volanti. I frammenti facevano parte di un movimento lento di sonata in sol minore per archi e organo, particolarmente evocativo. Un brano che provocava forti emozioni seguendo, da Dresda a Sarajevo, il robusto filo di un tragico parallelismo di memorie ferite dall’odio nazionalista e dalle guerre. Dalle macerie della Vijećnica, la biblioteca nazionale di Sarajevo, ai binari dimenticati e ai vagoni semidistrutti della stazione ferroviaria a Marijin Dvor dove lo fotografò Paolo Siccardi, il solitario interprete di Albinoni suonò in vari punti della città assediata, tenendo lo strumento tra le gambe dopo aver poggiato a terra il puntale, facendo scorrere l’archetto sulle corde del violoncello. Spesso l’emozione di Vedran Smailović, interprete del dolore di tutta Sarajevo, si scioglieva in lacrime. Trent’anni dopo l’immagine del suo volto e dei suoi gesti rimanda alla memoria di quanto siano assurde tutte le guerre.
Marco Travaglini

Case che dovevano ospitare l’imponente marea di immigrati dal Sud (ma non solo; molti a Vallette anche i profughi istriani e giuliano-dalmati), attratti in questa estrema periferia nord-ovest della città, dalla speranza di un lavoro che, sotto la Mole, era soprattutto garantito in quegli anni da mamma Fiàt…Quartiere operaio, quartiere dormitorio, via via Le Vallette hanno poi negli anni conquistato terreno (con buona pace dell’ingegner Gino Levi – Montalcini che nel 1957 ne firmò il piano urbanistico, curando anche la progettazione dei vari edifici) fino a spingersi oggi alla parte nord del verde Parco Carrara, noto più comunemente come Parco della Pellerina e fino a fregiarsi, in un’area di stretto confine, di un’autentica magia urbanistico-sportiva come il complesso dello Juventus Stadium e della Cittadella bianconera, così come di un’imponente centrale per il teleriscaldamento entrata in funzione nell’inverno 2012 e che sembrerebbe fare di Torino la città oggi più teleriscaldata d’Europa. A vent’anni dalla sua progettazione, le Vallette in cui mi trovai a lavorare e che mi trovai a vivere dagli Anni Settanta alla fine degli Ottanta, incutevano, per i “forestieri”, un certo senso di reverenziale rispetto. E anche appena appena – a voler giocare di ottimismo – un po’ di panico. Del resto erano quelli, anche per Torino, gli anni bui del terrorismo, delle Brigate Rosse e di Prima Linea: 19 morti e 130 feriti si contarono in città fra il 1977 e il 1982. Erano quelli anche gli anni di un’accesa contestazione studentesca, figlia o figliastra del ’68. Quella che molti di noi giovani (allora) insegnanti avevano fatto propria o comunque vissuta – direttamente o indirettamente- sulla propria pelle e che ora si trovavano a confrontare con le nuove proteste di ragazzi che non avevano molti anni meno di loro, che okkupavano scuole e organizzavano cortei e manifestazioni anche di forte impatto sulla vita della città, ma poco recepite, se non per farne spesso uso strumentale, dalle istituzioni e da quelle forze politiche cui si chiedeva maggiore attenzione e maggiori risorse per la scuola italiana nel suo complesso. Eventi però che, per valenza politica, sembravano interessare solo marginalmente le Vallette, dove il “buco nero” era fatto principalmente di ribellione e rabbia sociale. Ebbene, in quelle Vallette, a cavallo degli Anni ’70-’80, dove anche la Scuola, così come le Comunità Parrocchiali non meno che la presenza di Enti socio-assistenziali, assumevano un ruolo determinante nell’accompagnamento dei ragazzi e delle loro famiglie, io arrivavo tutte le mattine con un’“affannata” Fiat 127 bordeaux, che avevo battezzato, non so perché ma mi sembrava un nome simpatico, Carolina . Partivo (ero quasi sempre in ritardo) da via Spano, Mirafiori Sud (all’altro capo della città); attraverso corso Sebastopoli, arrivavo a tutta birra in via De Sanctis – via Pietro Cossa per poi imboccare via Sansovino e corso Toscana e ritrovarmi in quel dedalo di strade impreziosito – come detto – dalla soavità di graziosi nomi floreali: via dei Gladioli, via dei Glicini, viale dei Mughetti, via via fino a via delle Magnolie. Qui al civico 9, mi trovavo ogni mattina di fronte a quella media statale, titolata allora al grande “Carlo Levi” (oggi a David Maria Turoldo), che, nel corso degli anni, sarebbe un po’ diventata la mia “seconda casa”. Avevo fatto pochi chilometri e mi sembrava, ogni giorno, d’essere atterrato, con la Carolina fumante, su un altro pianeta. Ero al mio primo incarico diurno. Dall’atrio, volavo ogni giorno due rampe di scale, strappavo al volo dal cassetto personale della sala insegnanti il registro e m’infilavo, con l’irruenza di un vigoroso centometrista ma insieme con la silenziosa leggerezza di una libellula – per non offrire al pubblico ludibrio il mio vituperabile e sempre più proverbiale ritardo – nell’aula di mia competenza. Chiudevo alle spalle la porta, mi dirigevo alla cattedra e mi buttavo, pancia a terra, nella mischia. Calmavo con non poca fatica gli animi e iniziavo ‘a mattinata…
In questo modo “
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musivi della Domus romana di via Bonelli 11, al grande mosaico policromo fino ai bei gioielli della cosiddetta “Dama del Lingotto”. Il cuore della collezione è tutto contenuto in teche vicine e fortemente illuminate, si tratta del “Tesoro di Marengo”. Il tesoro è costituito da un sontuoso complesso di argenti, decorati a sbalzo e in alcuni casi dorati, che originariamente dovevano costituire lamine di rivestimento di mobili e arredi di legno, oltre all’eccezionale busto-ritratto dell’imperatore Lucio Vero (161-169 d.C.), forse anticamente montato al centro di uno scudo ornamentale (clipeo), oppure esposto su un supporto in legno o innalzato sui vessilli militari dell’esercito. Gli altri elementi sono costituiti da una tabella con iscrizione votiva alla dea Fortuna Melior, un disco con i simboli dello zodiaco, cornici, fregi decorativi con motivi figurati, geometrici, floreali e un rarissimo esemplare decorato con una catasta di armi. Notevole è anche la fascia di rivestimento (di un altare o della base di una statua) decorata con tredici figure di divinità in altorilievo, tutte ispirate a celebri modelli statuari del mondo greco.

Che Torino sia “città misteriosa” è ormai appurato. La meta che vi propongo oggi può rientrare sotto questo aspetto “tenebroso”, infatti è del Museo Cesare Lombroso che vi voglio parlare.
Particolarmente attinente è la vicenda del pittore Richard Dadd (1817-1886), che uccise il padre con un coltello a serramanico perché lo aveva scambiato per un principe delle tenebre, nemico della divinità che Richard adorava, Osiris, a cui aveva anche dedicato un piccolo santuario in una camera in affitto a Londra. Non c’è bisogno di spiegazioni per personaggi allucinati come Ensor, ( 1860-1949) e Munch,( 1863-1944). Forse tra tutti l’ “oscar della follia” va a Jackson Pollock, artista maledetto per eccellenza, consumato da alcool e droghe, riformato dall’esercito per problemi psichici, morto a soli 44 anni in un tragico incidente stradale, la stessa signora Guggenheim di lui aveva detto: “quest’uomo ha dei seri problemi, la pittura è senza dubbio uno di questi”. L’elenco è ancora lungo ed è costituito da grandi nomi quali Francis Bacon, (1909-1992), l’autodistruttivo e tormentato Jean Michel Basquiat (1960-1988) e la triste Camille Claudel (1864-1943), artista brillante, allieva e amante di Rodin. Camille soffrì di depressione con manie di persecuzione e venne internata per volere della madre, in tal modo è come se fosse morta due volte in solitudine: sola, perché rinchiusa in manicomio e sola, perché nemmeno un familiare partecipò al suo funerale.