Villa Cimena, una bellezza nascosta
Filippo Re
La storia di Torino ghigliottinata
La meridiana che non segna l’ora
Torino, bellezza, magia e mistero / Torino città magica per definizione, malinconica e misteriosa, cosa nasconde dietro le fitte nebbie che si alzano dal fiume?
Spiriti e fantasmi si aggirano per le vie, complici della notte e del plenilunio, malvagi satanassi si occultano sotto terra, là dove il rumore degli scarichi fognari può celare i fracassi degli inferi. Cara Torino, città di millimetrici equilibri, se si presta attenzione, si può udire il doppio battito dei tuoi due cuori.
Articolo 1: Torino geograficamente magica
Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Articolo 3: I segreti della Gran Madre
Articolo 4: La meridiana che non segna l’ora
Articolo 5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche
Articolo 6: Dove si trova ël Barabiciu?
Articolo 7: Chi vi sarebbe piaciuto incontrare a Torino?
Articolo 8: Gli enigmi di Gustavo Roll
Articolo 9: Osservati da più dimensioni: spiriti e guardiani di soglia
Articolo 10: Torino dei miracoli
Articolo 4: La meridiana che non segna l’ora
Passeggiare per Torino è così, non sai mai che mistero puoi incontrare una volta girato l’angolo. Se siete per caso nei pressi di Palazzo Reale e svoltate verso sinistra vi ritroverete vicino al Duomo, il principale centro di culto cattolico della città, ma anche l’ennesimo edificio in cui si nasconde una leggenda da raccontare. Il fabbricato si trova nella zona storica di Torino, quasi adiacente al teatro romano dell’antica Julia Augusta Taurinorum. Inizialmente nell’area si ergevano tre chiese paleocristiane, forse edificate sulla base di templi pagani preesistenti, e dedicate a San Salvatore, Santa Maria in Campo e San Giovanni Battista. Le tre chiese vennero demolite tra il 1490 e il 1492, al contrario della torre campanaria che, terminata nel 1469, non venne minimamente toccata, e resta ancor oggi ben visibile a fianco del Duomo. Il 22 luglio 1491 Bianca di Monferrato, reggente di Casa Savoia, posò la prima pietra dell’edificio religioso, dedicato a San Giovanni, patrono della nostra città. La costruzione venne affidata ad Amedeo de Francisco da Settignano, il quale vi si dedicò fino alla morte, avvenuta nel 1501. Il Duomo fu completato nel 1505 e nello stesso anno, il 21 settembre, fu consacrato. Durante il Seicento venne portato avanti un progetto di ampliamento della struttura, in modo da creare un ambiente degno per la conservazione della Santa Sindone. Si iniziò con un progetto di Bernardino Quadri, basato su alcune correzioni che egli stesso aveva apportato agli studi precedenti di Carlo di Castellamonte. Tuttavia nel 1667 il compito di concludere ilavori venne affidato a Guarino Guarini, già attivo in molti altri cantieri piemontesi, tra cui la non lontana Chiesa di San Lorenzo. L’edificio si presentava all’esterno maestoso ed imponente, all’interno, invece, sbalordiva i visitatori con i preziosi giochi cromatici dei marmi che da neri andavano via via schiarendosi verso l’alto. Carlo Alberto I volle impreziosire ulteriormente la costruzione e ordinò a Luigi Cagna di eseguire una copia dell’Ultima Cena, da porre sulla controfacciata della chiesa, unico punto in cui era possibile ancorare un’opera da 900 Kg. Anche il campanile, in forme romaniche, venne in seguito modificato, questa volta per volere di Vittorio Amedeo II, ad opera di Juvarra, che lo sopraelevò di ben 12 m, portando la torre campanaria ad un’altezza complessiva di 60 metri, nel 1720. Il Duomo oggi si mostra come una struttura rinascimentale inconfondibile nel panorama cittadino. All’esterno il bianco marmoreo della facciata principale risplende ai raggi del sole, e il gioco di luci e ombre che si crea rende ancora più visibili gli altri elementi architettonici lì presenti, quali i tre portoni, il timpano che sovrasta l’ingresso mediano e le due volute laterali. L’interno, severo, è costruito su pianta a croce latina e diviso in tre navate, lunghe 40 metri, le due laterali di 5,80 m., quella centrale di 9,50 m.
Decorata ai lati da numerose cappelle, a cui lavorarono artisti di pregio, la cattedrale ospita nel transetto destro il grande organo a trasmissione meccanica costruito nel 1874, strumento che ne sostituisce un altro del 1741. L’elemento più discusso del complesso è la Cupola del Guarini, definita da costoloni che si intrecciano frantumando la superficie del soffitto e precisata dalla luce diffusa per mezzo di numerose finestre che emergono curiosamente all’esterno della struttura, dove il tamburo è recinto da una linea sinuosa che racchiude i finestroni. La mirabile opera venne pesantemente danneggiata dall’incendio dell’11 aprile 1997, ed è stata oggetto di un restauro ricostruttivo di particolare difficoltà; la riapertura al pubblico risale al 27 settembre 2018. La maestosità dell’edificio del Duomo nasconde un dettaglio singolare: sulla parete destra -arrivando dalla Piazzetta Reale- appare una meridiana dall’aspetto non comune. Si tratta di una meridiana zodiacale, meglio qualificata come planetaria. Essa appartiene alla piùantica concezione di meridiane, utilizzate già tempo addietro dai Babilonesi, dagli Ebrei e dagli Egizi. Questa tipologia di oggetti presenta al posto dei numeri i dodici segni astrologici, poiché la tradizione vuole che ad ognuna delle dodici ore corrisponda l’influenza di un pianeta. Anche l’aspetto della meridiana è piuttosto insolito, con il quadrante costituito da una croce: l’asta verticale è una freccia che punta verso il basso, Capricorno-Cancro; l’asta orizzontale congiunge Ariete e Bilancia. I segni ai vertici coincidono con l’inizio delle stagioni e ne determinano il ciclo: 21 marzo – Ariete; 21 giugno- Cancro; 23 settembre – Bilancia; 22 dicembre – Capricorno. L’asta centrale congiunge il Capricorno, segno di Gesù, con il suo ascendente, il Cancro. L’incrocio delle due assi rappresenta il Cristo, centro dell’Universo.
Tale meridiana zodiacale può anche essere intesa, in chiave esoterico-cristiana, come una sorta di talismano, formato dai quattro elementi da cui è nato tutto l’universo: la terra è il lino in cui è avvolto Gesù; l’aria è il tempo da lui impiegato per giungere fino a noi; l’acqua sono i viaggi che egli ha dovuto compiere; il fuoco è la fiamma energetica della Resurrezione. Le due interpretazioni si sovrappongono e conferiscono una doppia energia all’oggetto. Il talismano ha dunque sia forza intrinseca che estrinseca, infatti esso viene caricato dalla fede dei fedeli che venerano la Sindone, e si crea così uno scambio energetico in più direzioni, dall’interno verso l’esterno e viceversa, ossia dalla Sindone verso Torino e dalla Sindone verso ciascun fedele. Tuttavia il discorso sui segni zodiacali non termina qui. L’architetto Enrico Castiglioni (1914-2000), uno dei membri fondatori del CIDA, (Centro Italiano Discipline Astrologiche), intraprese uno studio secondo il quale ad ogni zona torinese sarebbe associato un elemento zodiacale. Egli divise la mappa della città in una raggiera a dodici quadranti, con centro in piazza Castello, allo scopo di evidenziare il nesso tra la porzione di città selezionata nei vari spicchi, le attività che lì si svolgono e le persone che vi abitano, con le caratteristiche del segno zodiacale corrispondente. Ad esempio all’Ariete, che è il segno piùmaschile, collegato all’elemento fuoco, che a sua volta rimanda a Marte, dio greco della guerra, corrisponde la zona di Madonna di Campagna, territorio caratterizzato dalla presenza di molte industrie metallurgiche. Ed ecco come continua l’elenco: al Toro, segno di elevazione dell’anima, è affine l’asse di Corso Regina Margherita (dove c’è una moltitudine di chiese); ai Gemelli si accorda la zona che va da Corso Francia a Borgata Parella, area propizia per intellettuali, commercianti e occultisti; al Cancro fa riscontro il territorio di Borgo San Paolo; al Leone, segno di comando, spetta la Crocetta, dove sta la crème de la crème della città; la Vergine è in simmetria con il settore di Porta Nuova, Corso Massimo fino agli ospedali; alla Bilancia soddisfa piazza Maria Teresa, verso Valsalice, luogo in cui è l’arte a farla da padrone; allo Scorpione, segno magico per eccellenza, aderiscono piazza Castello, via Po e la Gran Madre; al Sagittario compete la Mole Antonelliana; al Capricorno, segno che governa l’Aldilà, ben si adatta la zona dei cimiteri; all’ Acquario tocca la Barriera di Milano: il segno è collegato alla speranza, e nel territorio le molte autostrade possono essere intese come frecce che puntano verso il destino; affine ai Pesci è la Falchera, là dove vivono assembramenti di persone semplici ma autentiche. Davanti allo zodiaco ci comportiamo tutti allo stesso modo, come di fronte all’oroscopo, nessuno ci crede ma tutti lo leggiamo.
Alessia Cagnotto
Le Parfum. Quel Plaisir!
Palazzina di Caccia di Stupinigi
Domenica 19 marzo
Per Life, istantanee di vita di corte, uno spaccato di vita sulla cura del corpo e il profumo a corte
La corte in epoca barocca, attenta all’eleganza e alla cura dell’aspetto, non si lavava ma si “cosmetizzava”: al mattino l’acqua rinfrescava mani e viso ma si ignorava il resto del corpo. Descrivendo la toeletta del Re Sole, il duca di Saint-Simon ricorda solo l’abitudine di lavare le mani con dell’alcol di vino. Per ovviare agli umori del corpo si usavano le spugnature o, al limite, le frizioni con un panno bianco, seguite dalla purificazione tramite applicazione di unguenti aromatici.
L’importanza del profumo a corte è il tema di Life, istantanee di vita di corte che domenica 19 marzo farà rivivere uno spaccato di vita ricostruito il più fedelmente possibile. Dalle 10 alle 18.30 si scoprirà la vita a palazzo di una corte dedita al loisir, tra grandi battute di caccia e nozze regali, e a una singolare cura del corpo. Alle 15.45 è in programma la visita tematica di approfondimento “Igiene e cura del corpo tra XVIII e XX secolo”.
L’evento è realizzato in collaborazione con l’associazione Le vie del Tempo e Muses – Accademia Europea delle Essenze di Savigliano.
INFO
Palazzina di Caccia di Stupinigi
Piazza Principe Amedeo 7, Stupinigi – Nichelino (TO)
Domenica 19 marzo
Le Parfum. Quel Plaisir!
Dalle 10 alle 18.30:
Life, istantanee di vita di corte, compreso nel biglietto di ingresso
Ore 15.45:
Visita tematica “Igiene e cura del corpo tra XVIII e XX secolo”
Durata della visita: un’ora circa
Prezzo della visita guidata: 5 euro, oltre al costo del biglietto
Biglietto: 12 euro intero; 8 euro ridotto; gratuito minori di 6 anni e possessori di Abbonamento Musei Torino Piemonte e Royal Card
Prenotazione obbligatoria per la visita guidata entro il venerdì precedente
Info e prenotazioni: 011.6200634stupinigi@info.ordinemauriziano.it
Giorni e orario di apertura: da martedì a venerdì 10-17,30 (ultimo ingresso ore 17); sabato, domenica e festivi 10-18,30 (ultimo ingresso ore 18).
Carlo Antonio Gozani vescovo di Acqui
Armano Luigi Gozzano presenta l’immagine, la personalità e il carattere del Gozani più importante del ‘600,con cenni storici e vicende della sua missione nel territorio diocesano analizzata da “I vescovi della chiesa di Acqui”(Impr.Grafiche 1997 Acqui) e dai segni rimasti immutati nel tempo.
Torino tra architettura e pittura
1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)
3) Giacomo Balla (1871-1958)
Mi piace sempre fare un po’ di dibattito con i miei studenti, parlare, proporre loro delle tematiche su cui riflettere, ascoltare ciò che pensano è non solo stimolante e interessante per entrambe le parti, ma necessario per tenere attiva l’attenzione. Uno degli ultimi argomenti su cui ci siamo impelagati è stato davvero complesso, ma credo che abbia fatto comprendere alla classe quanto l’arte possa essere una materia interdisciplinare, diversificata e soprattutto ampia. La riflessione riguardava il concetto di “damnatio memoriae”, e il fatto che in tempi antichi non destasse tanto scalpore la distruzione di opere d’arte; tali accadimenti erano motivati da varie ragioni, politiche prima di tutto, ma anche religiose. Il discorso si è poi allargato e ci siamo ritrovati a dibattere sulla complessa questione dell’arte come “atto distruttivo”.
Le operazioni artistiche talvolta lavorano “in negativo”, rimandano al “disfare” e alla “distruzione creativa”, come per esempio i tagli di Fontana o le combustioni di Burri, inoltre molte “performance” di celebri artisti come Hermann Nitsch o esponenti della “body art”, di cui Marina Abramović è la regina indiscussa, sono allo stesso tempo “atti distruttivi” e “esibizioni spettacolari”.
Non sono pochi i testi e le interviste di esperti del settore che sottolineano il sottile e articolato legame tra tale particolare estetica artistica e la strategia del terrore, basata anch’essa sul “distruggere per richiamare l’attenzione del pubblico”. E se tale modo d’agire “funzionava” in passato, oggi risulta tragicamente vincente: viviamo ormai ai tempi dei “mass media”, una cosa non è vera finché non viene caricata su internet e non ottiene milioni di visualizzazioni. Si pensi ai tragici eventi del 2001, all’esplosione dei Buddha di Bamiyan o alla caduta delle Twin Towers: entrambi momenti angosciosi e tremendi, entrambi rigorosamente filmati e mostrati al mondo con il preciso scopo di spiazzare e terrorizzare gli spettatori.
Eppure l’atto di distruggere un’opera d’arte può avere anche un’altra valenza. Nella “graphic novel” di Alan Moore, “V for Vendetta” il protagonista, mascherato da Guy Fawkes, cospiratore cattolico protagonista della “Congiura delle Polveri”, vuole far esplodere il parlamento inglese, edificio simbolo di una dittatura violenta e totalitaria. La demolizione dell’edificio storico diventa, nel fumetto, simbolo di un nuovo inizio, della libertà del popolo che trionfa sulla dittatura.
L’arte come “atto di distruzione”, la distruzione di opere d’arte, qual è il confine tra i due concetti? Dove può condurre l’etica della spettacolarizzazione? Non basterebbe un ciclo di conferenze per esaurire tali argomentazioni, figuriamoci quarantacinque minuti di didattica a distanza.
Tanto per mantenere attivo il dibattito con la classe, ho voluto insistere su un particolare movimento artistico e culturale che a mio parere risulta più che azzeccato per la situazione.
“Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.” Questo dice il decimo punto del Manifesto del Futurismo, scritto da Tommaso Marinetti e pubblicato il 20 febbraio 1909 sulla prima pagina de “Le Figaro”. Nasce così il movimento d’avanguardia con cui l’Italia si affaccia al panorama europeo dell’arte contemporanea; Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), con la stesura del Manifesto teorico del Futurismo, dà vita ad una corrente artistica che investe tutti i campi culturali, dalla poesia all’arte, dalla letteratura alla musica, dalla danza al teatro. I Futuristi sostengono che sia necessario “cancellare il passato e inneggiare al futuro tecnologico” ed esaltano la distruzione di musei, accademie, biblioteche, perfino di alcune città storiche, per fare spazio alle nuove forme di bellezza che vanno ricercate nel progresso, nelle città industriali, nelle macchine e nel concetto della velocità.
Va tuttavia sottolineato che il Futurismo non è stato un movimento unitario e spesso la carica di attrazione che esercitava sugli artisti si esauriva in fretta.
Al Manifesto letterario presto ne seguono altri: nel 1910 Umberto Boccioni, (1882-1916), scrive il Manifesto relativo alla pittura futurista, due anni dopo Giacomo Balla, (1871-1958) e Fortunato Depero, (1888-1916) redigono il Manifesto della scultura futurista; di questo gruppo di artisti fanno parte altresì Carlo Carrà, (1881-1966), Luigi Russolo, (1885-1947), e Gino Severini, (1883-1966). Nel 1914 viene proclamato il Manifesto dell’architettura futurista, steso da Antonio Sant’Elia (1888-1916).
La progettazione dell’ideale “città futurista” viene immaginata da Sant’Elia in una serie di disegni che rappresentano grattacieli dotati di alte torri, edificati in metallo, vetro e cemento; all’interno dei progetti urbanistici sono compresi aeroporti, centrali elettriche, ponti e strade a vari livelli. Le architetture risultano imponenti e si ergono come “volumi puri”; al di là della vera e propria funzione, tali costruzioni paiono dei “monumenti” volti a celebrare “il trionfo della tecnologia”.
Una città brulicante e in continuo fermento, affollata e caotica, un po’ viene da chiederselo: Sant’Elia sarebbe poi effettivamente sopravvissuto ad un sabato pomeriggio in centro all’ora di punta? Bisogna sempre fare attenzione a ciò che si dice.
Per i Futuristi la protagonista indiscussa della rappresentazione artistica è “la realtà in movimento”, studiata e approfondita nel suo continuo divenire e nella sua incessante trasformazione.
In pittura, ad esempio, i soggetti prediletti sono le automobili, i treni, gli aerei, ma anche i cavalli al galoppo, uomini in azione, che camminano, che danzano, o colti mentre corrono; inoltre sono spesso rappresentate le strade, traboccanti di traffico convulso o costellate di cantieri edilizi, emblemi della città che cresce.
Gli artisti sono fortemente influenzati dalla cronofotografia e dal cinema, mezzi che permettono di registrare le fasi di un’azione, istante dopo istante. È per questo motivo che nei dipinti dei Futuristi il movimento viene scomposto nelle diverse fasi, come se si trattasse di studi scientifici in cui i vari momenti vengono visualizzati separatamente e poi sovrapposti. Più che esplicativo in tal senso è il “Dinamismo di un cane al guinzaglio (guinzaglio in moto)”, opera del 1912, realizzata da Giacomo Balla.
Questa modalità di rappresentazione del movimento risulta totalmente nuova e avrà larga eco nelle figurazioni grafiche dei fumetti. Il ritmo del moto viene sottolineato e accentuato da linee curve, oblique, ondulate o a spirale, che accompagnano il soggetto nella sua traiettoria, come a visualizzare le “scie” delle parti che fendono l’aria. I futuristi, oltre a preferire soggetti dinamici, amano l’uso di colori intensi e vivaci, contrapponendosi ai cubisti, che privilegiano tinte smorzate o monocrome e soggetti statici.
Vorrei ora soffermarmi proprio su Giacomo Balla, uno dei principali esponenti della pittura futurista. Egli nasce a Torino nel 1871, qui frequenta l’Accademia Albertina di Belle arti, dove conosce Pelliza da Volpedo; incomincia a dipingere quadri di matrice “pointilliste”, ma non segue rigorosamente il programma di Seurat e Signac. Nel 1895 Balla lascia definitivamente la città natale e si stabilisce a Roma, qui si avvicina in un primo momento al “Divisionismo”. Tra il 1908 e il 1910 si conclude il momento puntinista e si apre quello futurista; l’opera che segna il passaggio da un movimento all’altro è “Lampada ad arco”, tela databile al 1909, lo stesso anno in cui viene proclamato il Manifesto letterario di Marinetti.
In ambito futurista, Balla si dedica alle ricerche sulla scomposizione del colore e sulle fasi del movimento, percorso che si può constatare, oltre che nel già citato “Dinamismo di un cane al guinzaglio”, nell’opera “Ragazza che corre sul balcone, linee di velocità + paesaggio”, tela che risente degli studi che nel frattempo sta portando avanti la fotografia, come dimostra in particolar modo il lavoro di Anton Giulio Bragaglia. Essenziale, per quel che riguarda la scomposizione della luce e del colore, è il ciclo intitolato “Compenetrazioni iridescenti” (1912-1914), costituito da una folta serie di quadri e lavori ormai completamente astratti.
Negli anni in cui aderisce al futurismo, Balla si dedica anche alla scultura e allo studio di diversi materiali: in questa fase del suo percorso artistico lo si può considerare precursore del dadaismo.
Dopo il fervore iniziale, l’artista ritorna su temi più tradizionali, quali la raffigurazione di città, paesaggi e ritratti, riprendendo tecniche più convenzionali, anche se è giusto sottolineare che non abbandonò mai del tutto gli studi futuristi.
Certo non è sufficiente un’ora di lezione per discorrere di certi argomenti, così come non è questa la sede per spiegare in modo esaustivo le diverse complessità del Futurismo.
Credo tuttavia che il compito di un buon insegnate sia anche quello di stimolare nei propri studenti pensieri e riflessioni e, soprattutto, di pungolare la curiosità che mette in moto la mente e fa sì che ognuno possa approfondire in autonomia le tematiche proposte. D’altra parte ciò che si studia a scuola non è fine a se stesso, anzi sovente, è più attuale di quanto si creda.
Alessia Cagnotto
L’ULTIMO RE D’ITALIA. APPUNTAMENTO A PALAZZO CISTERNA
“Dio me l’ha data, guai a chi la tocca!”. Troppo bella, troppo preziosa. Non sbagliava di certo Napoleone quando pronunciò quella famosa frase mentre, da solo, si metteva in testa la Corona ferrea auto-incoronandosi re d’Italia nel Duomo di Milano.
la Corona ferrea
la cappella di Teodolinda
Duomo di Monza
Tra le immagini esposte nella mostra fotografica di Paolo Siccardi “La lunga notte di Sarajevo”, organizzata da La Porta di Vetro e giunta alla quinta settimana ( resterà aperta al pubblico nel Mastio della Cittadella di Torino, tra corso Galileo Ferraris e via Cernaia, fino al prossimo 19 marzo ) quella dedicata al rogo della biblioteca nazionale di Sarajevo è particolarmente evocativa.
La prima cosa che viene in mente è la canzone intitolata Cupe Vampe, contenuta nell’album Linea Gotica che il Consorzio Suonatori Independenti pubblicò nel 1996: “Di colpo si fa notte e s’incunea a crudo il freddo. La città trema, livida trema. Brucia la biblioteca, i libri scritti e ricopiati a mano che gli ebrei sefarditi portano a Sarajevo in fuga dalla Spagna. S’alzano i roghi al cielo, s’alzano i roghi in cupe vampe. Brucia la biblioteca degli Slavi del Sud, europei dei Balcani..”. La Vijećnica è uno dei simboli tragici dell’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia moderna. Prima del conflitto che insanguinò i Balcani occidentali rappresentava il solo archivio nazionale di tutte le pubblicazioni bosniache. Un milione e mezzo di libri, tra i quali oltre centocinquantamila esemplari rari e preziosi e numerosi manoscritti unici al mondo. La sua imponente maestosità in stile pseudo moresco, opera degli austroungarici che nel 1894 la eressero ai piedi delle colline dove nacque la città, la pone da allora in stridente contrasto con le case e le vie strette dellaBascarsija, l’antico mercato ottomano. Le altissime finestre di vetro intarsiato si affacciavano sul fiume Miljačka e sul monte Trebević. All’interno tra panchine, sedie e scrivanie di legno massiccio “c’era un odore misto di polvere antica e di quel grasso che un tempo si usava per conservare il legno”. I visitatori entravamo in silenzio, quasi con il fiato sospeso, cercando di smorzare il suono dei passi. Avvertivano l’importanza di quel grandioso palazzo dove si conservavano libri che a Sarajevo erano sempre stati considerati alla stregua degli oggetti sacri. Il 25 agosto 1992, scoccata la mezzanotte, dalle colline che circondano la città i serbi spararono le prime bombe incendiarie sulla Vijećnica. La biblioteca fu bersagliata dall’artiglieria degli assedianti per tre intere giornate. L’accuratezza dei lanci non lasciava dubbi sul fatto che il bersaglio fosse proprio l’ostentato e volgare desiderio di cancellare le memorie, i percorsi, le storie, le vite degli altri. Dopo tre giorni di incendi della biblioteca rimasero solo lo scheletro di mattoni anneriti e una montagna di cenere. Un disastro che rimase impresso nella memoria di Kemal Bakaršić, uno dei bibliotecari: ”Tutta la città fu coperta da brandelli di carta bruciata. Le pagine fragili volavano in aria, cadendo giù come neve nera. Afferrandola, per un attimo era possibile leggere un frammento di testo, che un istante dopo si trasformava davanti ai tuoi occhi in cenere”. Perché bombardare una biblioteca? Perché lanciare proiettili e bombe, impiegando mezzi, uomini e tempo per distruggere qualcosa che non spara, che non offende? Una semplice domanda, quasi ingenua, che si fecero in molti mentre cercavano, armati di secchi di acqua sporca, di spegnere i roghi e smorzare le fiamme. La risposta, che valeva allora come vale oggi, la diede il mite bibliotecario Bakaršić: “perché lì dentro la loro guerra non esiste. Perché lì dentro gli scrittori serbi sono nello stesso scaffale di quelli bosniaci”. Una convivenza culturale inaccettabile per l’ottuso, ignorante e violento nazionalismo. Solo tre mesi prima i medesimi incendiari avevano distrutto alla stessa maniera l’Istituto Orientale a Sarajevo. Un odio aggressivo verso il sapere degli altri e di tutti che mandò in fumo la grande collezione di manoscritti e testi rari, spesso documenti unici in arabico, persiano o ebraico che testimoniavano mezzo millennio di storia della Bosnia e dell’Erzegovina. In quel momento la perdita aprì gli occhi a molti esponenti della cultura e della scienza. Tra loro si fece strada la consapevolezza che stava accadendo qualcosa di terribile. Ma quando toccò alla Biblioteca Nazionale, il dolore venne avvertito da tutti i sarajevesi, compresi quelli che non avevano mai preso in prestito un suo libro. I cecchini e l’artiglieria serba non stettero a guardare e concentrarono il fuoco sui vigili del fuoco, sui bibliotecari e sui giovani volontari che formavano una catena umana nel tentativo di salvare i libri. Una ragazza che lavorava alla Vijećnica, Aida Buturović, perse la vita per salvare quei preziosi documenti. Lo scrittore bosniaco Goran Simić , guardando dalla sua finestra la Biblioteca in fiamme, in preda alla disperazione, prese carta e penna e con rabbia lanciò il suo urlo di dolore in versi:”Liberati dalla canna fumaria, i personaggi girovagavano per la città, mescolandosi con i passanti e le anime dei soldati morti. Ho visto Werther seduto sul recinto del cimitero distrutto; Quasimondo dondolante sul minareto di una moschea; Raskolnikov e Mersault sussurravano, per giorni, nella mia cantina; Yossarian già commerciava con il nemico; il giovane Tom Sawyer era pronto a vendere, per pochi soldi, il ponte Principov”. Le foto di Siccardi, fotoreporter torinese che frequentò a lungo la “Gerusalemme d’Europa” e i Balcani, restituiscono trent’anni dopo ricordi tragici e emozioni che non possono lasciare indifferenti.
Marco Travaglini