STORIA- Pagina 3

Le mitiche origini di Augusta Taurinorum

Torino, bellezza, magia e mistero   Torino città magica per definizione, malinconica e misteriosa, cosa nasconde dietro le fitte nebbie che si alzano dal fiume? Spiriti e fantasmi si aggirano per le vie, complici della notte e del plenilunio, malvagi satanassi si occultano sotto terra, là dove il rumore degli scarichi fognari può celare i fracassi degli inferi. Cara Torino, città di millimetrici equilibri, se si presta attenzione, si può udire il doppio battito dei tuoi due cuori.

Articolo 1: Torino geograficamente magica
Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Articolo 3: I segreti della Gran Madre
Articolo 4: La meridiana che non segna l’ora
Articolo 5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche
Articolo 6: Dove si trova ël Barabiciu?
Articolo 7: Chi vi sarebbe piaciuto incontrare a Torino?
Articolo 8: Gli enigmi di Gustavo Roll
Articolo 9: Osservati da più dimensioni: spiriti e guardiani di soglia
Articolo 10: Torino dei miracoli

Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum

Nelle alte valli delle Alpi era usanza liberare una mucca prima di fondare una borgata; l’animale andava al pascolo tutto il giorno per poi trovare il punto in cui distendersi a terra e riposarsi. Quello sarebbe stato il luogo in cui i montanari avrebbero iniziato ad edificare il borgo: «la mucca può “sentire” cose che all’uomo sfuggono, se il posto è sicuro o meno e se di lì si irradiano energie benefiche o maligne».

Anche la fondazione di Torino potrebbe rientrare in una di tali credenze. Ma a questa versione, tutto sommato verosimile e riconducibile a qualche usanza rurale, fanno da controparte altre ipotesi, decisamente più complesse e letteralmente “divine”, poiché hanno come protagonisti proprio degli dei, Fetonte ed Eridano.  Avviciniamoci allora a queste due figure. Secondo il mito greco, Fetonte, figlio del Sole, era stato allevato dalla madre Climene senza sapere chi fosse suo padre. Quando, divenuto adolescente, ella gli rivelò di chi era figlio, il giovane volle una prova della sua nascita. Chiese al padre di lasciargli guidare il suo carro e, dopo molte esitazioni, il Sole acconsentì. Fetonte partì e incominciò a seguire la rotta tracciata sulla volta celeste. Ma ben presto fu spaventato dall’altezza alla quale si trovava. La vista degli animali raffiguranti i segni dello zodiaco gli fece paura e per la sua inesperienza abbandonò la rotta. I cavalli si imbizzarrirono e corsero all’impazzata: prima salirono troppo in alto, bruciando un tratto del cielo che divenne la Via Lattea, quindi scesero troppo vicino alla terra, devastando la Libia che si trasformò in deserto. Gli uomini chiesero aiuto a Zeus che intervenne e, adirato, scagliò un fulmine contro Fetonte, che cadde nelle acque del fiume Eridano, identificato con il Po. Le sorelle di Fetonte,, le Eliadi, piansero afflitte e vennero trasformate dagli dei in pioppi biancheggianti. Le loro lacrime divennero ambra. Ma precisamente, dove cadde Fetonte? In Corso Massimo d’Azeglio, proprio al Parco del Valentino dove ora sorge la Fontana dei Dodici Mesi.  In un altro mito, Eridano, fratello di Osiride, divinità egizia, era un valente principe e semidio. Costretto a fuggire dall’Egitto, percorse un lungo viaggio costeggiando la Grecia e dirigendosi verso l’Italia. Dopo aver attraversato il mar Tirreno sbarcò sulle coste e conquistò l’attuale regione della Liguria, che egli chiamò così in onore del figlio Ligurio. Attraversò poi l’Appennino e si imbatté in una pianura attraversata da un fiume che gli fece tornare alla mente il Nilo. Qui fondò una città, che dedicò al dio Api, venerato sotto forma di Toro.


Un giorno Eridano partecipò ad una corsa di quadrighe, purtroppo però, quando già si trovava vicino alla meta, il principe perse il controllo dei cavalli che, fuori da ogni dominio, si avviarono verso il fiume, ed egli vi cadde, annegando.  In sua memoria il fiume venne chiamato come il principe, “Eridano”, che è, come abbiamo detto, anche l’antico nome del fiume Po, in greco Ἠριδανός (“Eridanos”), e in latino “Eridanus”.  Questa vicenda ci riporta alla nostra Torino, simboleggiata dall’immagine del Toro, come testimoniano, semplicemente, e giocosamente, i numerosissimi toret disseminati per la città. Storicamente il simbolo è riconducibile alla presenza sul territorio della tribù dei Taurini, che probabilmente avevano il loro insediamento o nella Valle di Susa, o nei pressi della confluenza tra il Po e la Dora. L’etimologia del loro nome è incerta anche se in aramaico taur assume il valore di “monte”, quindi “abitanti dei monti”. I Taurini si scontrarono prima con Annibale e poi con i Romani, infine il popolo scomparve dalle cronache storiche ma il loro nome sopravvisse, assumendo un’altra sfumatura di significato, risalente a “taurus”, che in latino significa “toro”. È indubbio che anche oggi l’animale sia caro ai Torinesi, sia a coloro che per gioco o per scaramanzia schiacciano con il tallone il bovino dorato che si trova sotto i portici di piazza San Carlo, sia a quelli vestiti color granata che incessantemente lo seguono in TV. C’è ancora un’altra spiegazione del perché Torino sorga proprio in questo preciso luogo geografico, si tratta della teoria delle “Linee Sincroniche”, sviluppata da Oberto Airaudi, che fonda, nel 1975, a Torino, il Centro Horus, il nucleo da cui poi si sviluppa la comunità Damanhur. Le Linee Sincroniche sono un sistema di comunicazione che collega tutti i corpi celesti più importanti. Sulla Terra vi sono diciotto Linee principali, connesse fra loro attraverso Linee minori; le diciotto Linee principali si riuniscono ai poli geografici in un’unica Linea, che si proietta verso l’universo. Attraverso le Linee Sincroniche viaggia tutto ciò che non ha un corpo fisico: pensieri, energie, emozioni, persino le anime. Il Sistema Sincronico si potrebbe definire, in un certo senso, il sistema nervoso dell’universo e di ogni singolo pianeta. Inoltre, grazie alle Linee Sincroniche è possibile veicolare pensieri e idee ovunque nel mondo. Esse possono essere utilizzate come riferimenti per erigere templi e chiese, come dimostra il nodo centrale in Valchiusella, detto “nodo splendente”, dove sorge, appunto, la sede principale della comunità Damanhur. Secondo gli studi di tale teoria Torino nasce sull’incrocio della Linea Sincronica verticale A (Piemonte-Baltico) e la Linea Sincronica orizzontale B (Caucaso).Vi sono poi gli storici, con una loro versione decisamente meno macchinosa, che riferiscono di insediamenti romani istituiti da Giulio Cesare, intorno al 58 a.C., su resti di villaggi preesistenti, forse proprio dei Taurini. Il presidio militare lì costituitosi prese il nome prima di “Iulia Taurinorum”, poi, nel 28 a.C, divenuto un vero e proprio “castrum”, venne chiamato, dal “princeps” romano Augusto, “Julia Augusta Taurinorum”. Il resto, come si suol dire, è storia.
Queste le spiegazioni, scegliete voi quella che più vi aggrada.

Alessia Cagnotto

D. Rodrigo de Souza Coutinho e Gabriella Asinari di San Marzano ritratti da de Sequeira

I personaggi pubblici dell’ancien régime spesso erano vivaci esponenti del mondo intellettuale. Così i lusitani de Souza Coutinho, soprattutto i diplomatici e gli uomini politici della famiglia. Tra essi D. Rodrigo de Souza Coutinho (Chaves, 3.08.1755 – Rio de Janeiro, 26.01.1812), 1° Conte di Linhares (Rio de Janeiro, 17.12.1808), che aveva iniziato la sua carriera come inviato straordinario e ministro plenipotenziario di Portogallo alla corte di Torino, dove era vissuto dal 23.09.1779 al 30.07.1796, e l’8.03.1789 si unì in matrimonio a Gabriella Asinari di San Marzano (Torino, 31.07.1770 – Rio de Janeiro, 24.01.1821).

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Torino, Via Garibaldi, il palazzo, che, alla sinistra della Chiesa di San Dalmazzo, delimita il ristretto

sagrato, all’epoca ospitava la residenza e gli uffici del Ministro di Portogallo alla Corte dei Savoia.

Torino, in Via Maria Vittoria, n° 4, nel Palazzo di famiglia, prospiciente la chiesa di S. Filippo,

D. Gabriella Asinari di San Marzano nacque e visse fino al matrimonio con D. Rodrigo de Souza Coutinho.

Fin dagli anni giovanili, il 1° Conte di Linhares mantenne buoni contatti con il mondo culturale. Così, in gioventù, era stato con l’abate Tommaso Valperga Caluso, a Lisbona presso il fratello, ministro plenipotenziario dei Savoia in Portogallo, e, successivamente plenipotenziario egli stesso, nei suoi dispacci da Torino, dove scrive della vivacità degli intellettuali nel Piemonte prerivoluzionario.

Qui ci soffermeremo soltanto sugli incontri del Coutinho col pittore Domingos Antonio de Sequeira, avvenuti a Lisbona nel palazzetto di famiglia dei conti di Linhares, tra il 1796 e il 1798, cioè dopo il rientro in Portogallo dei due uomini, reduci entrambi di prolungati soggiorni nella nostra Penisola, e conclusisi dopo, tra il 1797, quando arrivò a Lisbona la sposa di D. Rodrigo, e il 1807, quando i Coutinho si imbarcarono per il Brasile con la Corte portoghese.

Quanto al ministro plenipotenziario, nel dispaccio da Torino n° 65 del 30 luglio 1796, l’incaricato d’affari di Portogallo riferisce che, in quello stesso giorno, egli era partito alla volta di Genova, accompagnato dalla moglie ventisettenne, per imbarcarsi per Lisbona. Quel documento dice che, a quella data, non si sapeva ancora se il fratello di D. Rodrigo, D. Domingos de Souza, avrebbe occupato in Piemonte il posto lasciato libero dal Coutinho stesso, infatti il decreto di nomina del diplomatico avrebbe avuto la data del 1° novembre 1796, mentre, fin dal precedente 4 settembre, D. Rodrigo aveva ricevuto a Lisbona l’incarico di ministro di Stato per la marina e l’oltremare.

Lisbona, palazzetto de Souza Coutinho in Arroios: ingresso con vista dalla strada e biblioteca.

Rientrato in patria, nel 1796, D. Rodrigo prendeva alloggio con i fratelli nel palazzotto di Arroios, dove incominciava a ricevere le visite di Domingos António de Sequeira (Belém,10.03.1768 – Roma, 7.03.1837), pittore portoghese che a Roma si era perfezionato nell’arte.

A sinistra, Domingos António Sequeira (autoritratto, pastello, 1805 ca.) e, a destra, un raro ritratto del prelato

D. José António de Menezes e Sousa Coutinho, fratello di D. Rodrigo (disegno di Sequeira tratto dall’Album di Arroios).

Il pittore non aveva incontrato D. Rodrigo nel viaggio da Genova a Lisbona, poiché era in Portogallo fin dagli ultimi mesi del 1795, perciò solo nell’anno successivo «comincia a frequentare il palazzetto di D. Rodrigo de Sousa Coutinho, [poi] Conte di Linhares. Risulta da questa frequentazione una serie di 51 disegni di Sequeira (alcuni datati del 1796, 1797, 1798 e 1802), organizzati nel cosiddetto Album di Arroios». Di quei fogli, scriveva Alexandra Josephina Reis Gomes Markl, del«L’opera grafica di D. A. de Sequeira nel contesto della produzione europea del suo tempo», tesi di dottorato in belle arti / disegno, Università di Lisbona, 2013, p.122], scriveva: «Dalla relazione (di Sequeira) con la famiglia del Conte di Linhares, principalmente con D. Gabriella Asinari de Sousa Coutinho, risulta una parte significativa della sua produzione grafica di quel periodo. Un insieme di 51 disegni rimasti noti come Album Arroios, eseguiti, secondo la tradizione famigliare nelle serate che l’artista trascorreva con i Coutinho, tra i quali si incontrano alcuni fogli datati dal 1796 al 1802». Anche Manuel Pedro Alves Crespo de San Payo, nelle sue pagine intitolate: «Il disegno in viaggio, album, quaderno o diario grafico, l’album di D. A. de Sequeira», tesi di dottorato in belle arti / disegno, Università di Lisbona, 2019, p. 57, nota 15], che afferma: «Credo che Sequeira possa aver dato lezioni di disegno alla Contessa di Linhares o a qualcuno dei sui figli nel periodo compreso tra il 1796 e il 1798, giacché alcuni degli esercizi configurano alcune prove di questo tipo con tracce di linee veloci parallele e incrociate per le ombre».

Ma seguiamo meglio le vicende famigliari di D. Rodrigo dalle notizie che, su nostra indicazione, Andrée Mansuy pubblicò nel secondo tomo della sua biografia del Coutinho, dove scrive: «Plusieurs mois s’écoulèrent ainsi, jusqu’au moment où le frère de D. Gabriela, le marquis Asinari di S. Marzano, écrivit au comte Balbo, ambassadeur du roi de Sardaigne à Paris, en le priant d’obtenir du Directoire les passeports nécessaires pour que cette petite famille puisse entreprendre par voie de terre son voyage vers Lisbonne. Le 25 mai (1797), le comte Balbo communiqua au “Citoyen Secrétaire Général des Relations Extérieures” à Paris le signalement de D. Gabriela et des “gens de sa suite, tous Piémontais», qui l’accompagneraient dans sa traversée des «départements méridionaux de la France pour se rendre en Espagne pour rejoindre son mari». Quei documenti ricordano che la Signora Coutinho, nata San Marzano, aveva 26 anni, capelli castani scuri, occhi celesti, denti bianchissimi, quattro figli (dei quali il primo di sette anni, il secondo di cinque, il terzo di due e la quarta di un anno) e alcuni domestici al seguito (tra cui: un cuoco, un valletto, una bambinaia, una cameriera e un cameriere). Già il 23 giugno quella piccola comitiva arrivava a Barcellona, il seguente 10 luglio era a Madrid, mentre, già alla data del 23 agosto 1797, le prime notizie da Lisbona dicono che la piccola figlia dei Coutinho era in fin di vita: sarebbe morta il giorno successivo (memoria del martirio di San Bartolomeo apostolo).

Il disegno (già dell’album di Arroios) che qui riproduciamo, diversamente da quanto riporta la didascalia, non tratta il momento in cui, a Torino, D. Rodrigo si accomiatava dai famigliari (infatti la stessa Mansuy, nel secondo tomo della biografia del Coutinho, ricorda che la nobildonna accompagnò il marito a Genova, dov’egli si imbarcava per il Portogallo). La scritta sembrerebbe accogliere una voce che, pur circolando in casa dei Conti di Linhares, non era veritiera, anche se nata nel loro ambiente stesso. La vistosa cuffia, disegnata sul capo della gentildonna torinese, fa pensare che fosse più adatta all’abbigliamento di una donna che viaggiava per la capitale portoghese (spesso sferzata dai venti atlantici), piuttosto che riferibile a un afoso fine luglio torinese (infatti, come ricordano i dispacci dello stesso Ministro portoghese a Torino, nel periodo estivo erano frequenti le temperature elevate, accompagnate da picchi di umidità). Il disegno quindi è lo schizzo di un testimone (e Sequeira era presente in casa Coutinho a Lisbona, dove aveva visto D. Rodrigo accogliere i famigliari provenienti dal Piemonte). Nella stessa raccolta di disegni ce n’erano altri che ritraevano personaggi pure presenti a quell’incontro, uno di essi rappresenta Gabriella Asinari adagiata su un sedile (formalmente così ben definito da anticipare i lavori da designer che in anni successivi avrebbero impegnato l’artista) e un ritratto del secondo conte di Linhares, D. Vittorio, bambino, disegno che ben figurerebbe tra i migliori disegni inglesi del tempo.

Il lavoro più importante che Sequeira realizzò per i Coutinho tuttavia è un quadro a olio, a proposito del quale l’11 aprile 1985, D. Nuno de Souza Coutinho (1914–2006), 7° Conte di Linhares, nel riscontrare la prima lettera che gli avevo inviato nove giorni prima da Rio de Janeiro, scriveva per me le frasi che qui traduco dal portoghese: «Con molto piacere le mando una fotografia del quadro dei Conti di Linhares dipinto da Domingos Sequeira. Come si sa la Contessa di Linhares era portata per l’arte, soprattutto per la pittura, perciò D. Sequeira ebbe l’idea geniale di pensare alla Contessa che dipinge il ritratto del marito». Si tratta di un’opera pittorica per la quale un altro disegno dell’album di Arroios, eseguito a “punta d’argento”, si rivela un bellissimo studio preparatorio.

Una tela (mai uscita da Lisbona per seguire in Brasile i Coutinho) dalla quale, in Portogallo Francesco Bartolozzi (Firenze, 25.09.1728 – Lisbona, 7.03.1815), morto in Brasile il 1° Conte di Linhares, avrebbe tratto due lavori esemplari del suo ultimo periodo. In essi egli da prova delle sue notevoli abilità di incisore, ribaltando sul lato destro il sinistro per un delicato disegno a colori, e riproponendo il ritratto dipinto da Sequeira in un’acquaforte alla quale legherà indissolubilmente il ricordo del nobile portoghese.

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Per approfondimenti sui conti di Linhares rimando alle mie pagine: «Gabriella Asinari di San Marzano, Contessa di Linhares e la sua missione per l’Ordine di Malta» («Al­manacco Piemontese 2002», Torino, Viglongo, dicembre 2001, pp. 131-137); «1779-1796: a Torino, Dom Rodrigo de Souza Coutinho, portoghese, futuro conte di Linhares e ministro di Stato» («Studi Piemontesi», Torino, giugno 2008, vol. XXXVII, fasc. 1, pp. 181-196) e soprattutto a: Andrée Mansuy Diniz Silva, Portrait d’un homme d’État: D. Rodrigo de Souza Coutinho, Comte de Linhares (1755-1812), (Centre Culturel Calouste Gulbenkian – Commission Nationale pour les Commémorations des Découvertes Portugaises Lisbonne et Paris, tom. 1°, Les années de formation 1755-1796, 2002, tom. 2°, L’homme d’État 1796-1812, 2006). Mentre per il Sequeira rimando a: José Alberto Seabra Carvalho nel catalogo «1768-1837 Sequeira, um Português na mudança dos tempos», Ministério da Cultura – Instituto Português de Museus – Museu Nacional de Arte Antiga, janeiro a março 1997, pp.102-122 «Uma cronologia».

D. Domingos António de Souza Coutinho, m.se di Funchal

(Chaves, 20.02.1762 – Brighton, 28.11.1833).

Miniatura inglese, dipinta verso il 1820.

D. Domingos António de Souza Coutinho

Figlio di D. Francisco Inocêncio de Souza Coutinho (Vila Viçosa, 28.12.1726-Madrid,1781), governatore dell’Angola, morto ambasciatorein Spagna, e di D. Ana Luísa Joaquina Teixeira da Silva de Andrade. Fu fratello di: D. Rodrigo de Souza Coutinho, conte di Linhares (padrino di battesimo del quale era stato il futuro marchese di Pombal), ministro aTorino e membro del gabinetto regio quindi Ministro di Stato in Portogalloe in Brasile che, nel 1796, aveva pubblicato a Parma per i tipi bodoniani «Le virtù del trono. Cantata per la nascita di S. A. R. Don Antonio de Bragança Principe da Beira»; D. José António de Meneses e Souza Coutinho (Chavez, 24.01.1757–Lisbona, 28.09.1817), arcidiacono della Chiesa Patriarcale di Lisbona, noto come Principal de Souza il quale, durante la permanenza in Brasile del re di  Portogallo, a partire dal 1811 e fino alla morte, fece parte del Consiglio di Reggenza del Regno come rappresentante della Chiesa portoghese; D. Francisco Maurício de Souza Coutinho (Contins, 1763/4–Rio de Janeiro, 19.11.1820), ammiraglio della marina reale portoghese, professo e commendatore dell’Ordine di Malta, governatore e capitano-generale del Gran Pará (1789-1801).

D. Domingos António de Souza Coutinho, unico tra i fratelli, si laureò in giurisprudenza all’Università di Coimbra (1781), fu inviato straordinario e ministro plenipotenziario a Copenhagen (1790-1795), quindi a Torino(1796–1803), in ultimo a Londra (1803-1814) dove, nel 1810, fu elevato al grado di ambasciatore, infine a Roma (1814–1828). A Londra, aveva negoziato la dislocazione della corte portoghese in Brasile. Fu fatto conte di Funchal (17.12.1808), poi, poco prima di morire (nel giugno 1833), marchese di Funchal. Fu membro dell’Accademia delle Scienze di Lisbona fin dal 18.02.1810. Per combattere il Correio Braziliense di Hipólito José da Costa, fondò a Londra il periodico O Investigador Português em Inglaterra, che circolò fino al 1818.

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À memória de minha esposa

Carmen Quireze Burdet (1951- 1988)

há 40 anos de nossa mudança do Brasil

Carlo Alfonso Maria Burdet

Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio

Oltre Torino: storie miti e leggende del Torinese dimenticato

È luomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nellarte. 

Lespressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo luomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché  sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare.

Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo.  Non furono da meno gli  autoridelle Avanguardie del Novecento  che, con i propri lavori disperati, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto Secolo Breve.

Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di ricreare la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i ghirigori del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa ledera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di unarte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che larte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso. (ac)

Torino Liberty

1.  Il Liberty: la linea che invase l’Europa
2.  Torino, capitale italiana del Liberty
3.  Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio
4.  Liberty misterioso: Villa Scott
5.  Inseguendo il Liberty: consigli “di viaggio” per torinesi amanti del Liberty e curiosi turisti
6.  Inseguendo il Liberty: altri consigli per chi va a spasso per la città
7.  Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicità
8.  La Venaria Reale ospita il Liberty:  Mucha  e  Grasset
9.  La linea che veglia su chi è stato:  Il Liberty al Cimitero Monumentale
10.  Quando il Liberty va in vacanza: Villa  Grock

Articolo 3. Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio

Con lEsposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna del 1902, Torino assume il ruolo di  polo di riferimento per il Liberty italiano. LEsposizione del 1902 è un evento di grandissimo successo, e numerosi sono gli architetti che offrono il proprio contributo, ma il protagonista indiscusso di questa stagione èPietro Fenoglio, il geniale ingegnere-architetto torinese, che abitònella palazzina di Corso Galileo Ferraris, 55.

Allinizio del Novecento, Torino vede in particolare il quartiere di Cit Turin al centro della propria trasformazione. A partire da Piazza Statuto si dirama il grande Corso Francia che, con le sue vie limitrofe, costituisce in questa zona un quartiere ricco di architetture in stile Art Nouveau unico nel suo genere. Un tratto urbanistico in cui sono presenti numerose testimonianze dellopera di Fenoglio, riconoscibile dai caratteristici colori pastello, dalle decorazioni che alternano soggetti floreali a elementi geometrici e dallaudace utilizzo del vetro e del ferro. 

Personalità artistica di estremo rilievo, Pietro Fenoglio contribuisce in modo particolare a rimodellare Torino secondo il gusto Liberty. Nato a Torino nel 1865, larchitetto-ingegnere orienta il suo campo dinteresse nelledilizia residenziale e nellarchitettura industriale. Nato da una famiglia di costruttori edili, frequenta la Regia Scuola di Applicazione per ingegneri di Torino; subito dopo la laurea, conseguita nel 1889, inizia unintensa attività lavorativa, raggiungendo ottimi risultati in ambito architettonico. Partecipa, nel 1902, allOrganizzazione internazionale di Arte Decorativa Moderna di Torino e in questoccasione approfondisce la conoscenza dello stile liberty, riuscendo poi a concretizzare quanto appreso nei numerosi interventi edilizi di carattere residenziale, ancora oggi visibili nel territorio cittadino. La sua attività di progettista si estende anche al campo dellarchitettura industriale, come testimoniano la Conceria Fiorio (1900 – Via Durandi, 11) o la Manifattura Gilardini (1904 – Lungo Dora Firenze, 19). Nel 1912, Pietro entra a far parte del Consiglio di Amministrazione della Banca Commerciale Italiana ed è tra i promotori della SocietàIdroelettrica Piemonte. Colto da morte improvvisa, Pietro Fenoglio muore il 22 agosto 1927, a soli 62 anni, nella grande casa di famiglia a Corio Canavese.

Tra tutte le sue realizzazioni spicca lopera più bella e più nota per la ricchezza degli ornati: Casa Fenoglio-La Fleur (1902), considerata unanimemente il più significativo esempio di stile Liberty in Italia. Progettata in ogni più piccolo particolare da Pietro Fenoglio per la sua famiglia, la palazzina di Corso Francia, angolo Via Principi dAcaja, trae ispirazione certamente dallArt Nouveau belga e francese, ma lobiettivo dellIngegnere è di dar vita al modello Liberty. La costruzione si articola su due corpi di fabbrica disposti ad elle, raccordati, nella parte angolare, da una straordinaria torre – bovindo più alta di un piano, in corrispondenza del soggiorno. Manifesto estetico di Fenoglio, ledificio – tre piani fuori terra, più il piano mansardato –  riflette lestro creativo dellarchitetto, che riesce a coniugare la rassicurante imponenza della parte muraria e le sue articolazioni funzionali, con la plasticità tipicamente Art Nouveau, che ne permea lesito complessivo. Meravigliosa, e di fortissimo impatto scenico, è la torre angolare, che vede convergere verso di sé le due ali della costruzione e su cui spicca il bovindo con i grandi vetri colorati che si aprono a sinuosi e animosi intrecci in ferro battuto. Unedicola di coronamento sovrasta lelegante terrazzino che sporge sopra le spettacolari vetrate.  Sulle facciate, infissi dalle linee tondeggianti, intrecci di alghe: un ricchissimo apparato ornamentale, che risponde a pieno allautentico Liberty. Gli stilemi fitomorfi trovano completa realizzazione, in particolare negli elementi del rosone superiore e nel modulo angolare. Altrettanto affascinanti per la loro eleganza sono landrone e il corpo scala a pianta esagonale. Si rimane davvero estasiati di fronte a quelle scale così belle, eleganti, raffinate, uniche. Straordinarie anche le porte in legno di noce, le vetrate, i mancorrenti, e le maniglie dottone che ripropongono lintreccio di germogli di fiori. 

La palazzina non è mai stata abitata dalla famiglia Fenoglio, e fu venduta, due anni dopo lultimazione, a Giorgio La Fleur, imprenditore del settore automobilistico, il quale volle aggiungere il proprio nome allimmobile, come testimonia una targa apposta nel settore angolare della struttura. Limprenditore vi abitò fino alla morte. Dopo un lungo periodo di decadenza,  la palazzina venne frazionata e ceduta a privati che negli anni Novanta si sono occupati del suo restauro conservativo.

Alessia Cagnotto

Le Grottesche, i mascheroni satirici che guardano Torino

Dalle forme plastiche suggestive, narrano di una città inquieta e fantastica.

i muri della città parlano” diceva il barone de La Brède e di Montesquieu che giunse a Torino nel 1728. Effettivamente è così, ma oltre a raccontare una parte della storia della città queste sculture in pietra, che rivestono perlopiù gli edifici storici di Torino, osservano cose e persone con sguardi talvolta caustici ed altri minacciosi. Queste opere d’arte che si fanno notare per la loro plasticità, i loro particolari e la ricchezza che conferiscono ai palazzi che li ospitano, sono le Grottesche, anche conosciute come Mascheroni. Possono essere entità fantastiche o mostruose, mitologiche, animali, facce deformi o altre sagome e rimandano al quello straordinario periodo artistico che è stato Barocco europeo, ma anche a epoche seguenti come il Liberty. Nella nostra città sono molte e conturbanti e non furono scolpite unicamente come ricco ornamento, ma anche come veicolo potente di un linguaggio simbolico e satirico, un mezzo per raccontare ciò che non si poteva dire apertamente: l’instabilità del potere, la vanità della ricchezza, le paure del mondo e i desideri inconfessabili, il tutto scolpito su una base monocolore in pietra e di stucchi o simili a quelle di epoca romana, caratterizzate da una pittura multi-cromata, trovate nei resti sotterranei della Domus di Nerone (le “grotte” appunto)

A Torino le Grottesche non sono urlate come nella Capitale o a Firenze, sono più nascoste, meno protagoniste e per un occhio che le cerca e guarda con attenzione e curiosità, ma nonostante questa loro personalità sobria, in linea con il carattere culturale territoriale, riescono a farsi notare, risultano eloquenti ed affascinanti.

Qualche esempio più noto? A Palazzo Chiablese, affacciato su piazza San Giovanni, ospita uno dei cicli più importanti di grottesche della città, con affreschi che ornano volte e stanze laterali. Qui si incontrano tritoni, chimere, teste giganti con occhi vuoti, tra decori vegetali e medaglioni enigmatici. Palazzo Carignano, tra le meraviglie barocche del Guarini, conserva motivi grotteschi sia all’interno sia all’esterno, tra mascheroni scolpiti nei timpani delle finestre. I volti deformati sembrano rimproverare severamente chi guarda, belli ma inflessibili.

Passeggiando, inoltre, per via della Rocca, via Giolitti, via Bogino, via San Francesco da Paola, ma anche per le strade di Cit Turin, come corso Francia dove si trova il Palazzo delle Vittoria, si possono osservare mascheroni sui portoni in legno o sulle chiavi di volta degli archi. Spesso sono volti demoniaci, nasi adunchi, oppure caricature dalla forma animale posizionati come elementi apotropaici, protettivi, per allontanare il male.

Anche in alcune chiese della città si possono trovare elementi grotteschi di interesse artistico, come nei dettagli in stucco della Chiesa della Misericordia o nelle cappelle laterali di San Lorenzo, si tratta di putti deformi o di volti che sembrano fondersi con il fogliame.

Le Grottesche sono, dunque, una forma d’arte in conflitto con qualsiasi canone, non mirano alla perfezione o alla armonia, ma all’inquietudine.
Guardarle e ammirarle significa comprendere che l’arte, nei secoli si è occupata anche di incubi, di paure e sogni deformati. Torino, con la sua personalità solenne e lineare, nasconde, ma neanche tanto, un’anima caustica e magicamente teatrale, un lato sarcastico in contrasto con la geometria a e il rigore sabaudo, i mascheroni sono un esempio di questo carattere anticonformista che fa di questa città un luogo eccezionale e complesso.

Maria La Barbera

Tracce di Templari, da Ventimiglia a Seborga

Quel giorno, nel dedalo di viuzze a Ventimiglia Alta, tra chiese quasi millenarie, San Michele, la cattedrale di Santa Maria Assunta e la chiesa di San Francesco, un templare pugnalò a morte un capitano genovese. Templari e genovesi venivano spesso alle mani in città. Sovente si accendevano zuffe e risse anche per futili motivi e a volte finiva proprio male. L’ostilità tra i contendenti aveva raggiunto livelli molto alti dopo la conquista genovese della città più occidentale della Liguria. I ventimigliesi, gli antichi intemelii, non volevano finire sotto il controllo della Repubblica di Genova, cercarono di resistere con tutte le loro forze ma nel 1221 dovettero arrendersi al lungo assedio per mare e per terra. La durezza del dominio della Superba scatenò ben presto la reazione violenta degli abitanti che facendosi scudo dei templari, più energici e meglio armati, affrontavano spavaldi i genovesi e talvolta ci scappava il morto. Ebbene, quel giorno di otto secoli fa, le cronache del tempo riportano la notizia che il templare fra Raimondo Galiana scatenò la propria rabbia contro gli occupanti genovesi uccidendo un capitano della Superba. Perché i Templari si trovavano a Ventimiglia? La città dell’estremo ponente ligure era un importante centro commerciale e marinaro con un continuo viavai di gente.
I Templari assicuravano la scorta armata ai pellegrini diretti a Santiago di Compostela, nella Galizia spagnola, e ai mercanti in cammino verso le fiere di Arles e di Nimes. Tra templari e genovesi non correva buon sangue né in patria né nei territori d’Oltremare. Cavalieri rosso-crociati e genovesi erano schierati in due opposti partiti nel Vicino Oriente e le lotte tra di loro erano frequenti. I genovesi erano alleati con i cavalieri di Gerusalemme e con gli spagnoli mentre i templari erano insieme a veneziani e pisani, Ma accadeva anche qualcos’altro. Correva infatti la voce che nell’estremo ponente ligure, transitavano antiche reliquie sacre e altri oggetti misteriosi. Furono i Templari della vicina Seborga, piccolo borgo di meno di 300 abitanti nell’entroterra di Bordighera, a portarli via e a nasconderli? È solo leggenda o c’è qualcosa di vero? In fondo, sia l’Ordine del Tempio sia il fantomatico Principato di Seborga sono spesso avvolti in un’aura di mistero e non si può escludere che qualcosa potrebbe essere ancora nascosto nello stesso Principato ligure. E che dire di Ventimiglia che ancora oggi ospita i raduni mondiali di Templari del terzo millennio organizzati dal Gran Priorato del Principato di Monaco dell’Ordre du Temple de Jèrusalem? Perché proprio nell’antica Albintimilium, l’odierna Ventimiglia? Anche qui, nella parte più occidentale della costa ligure, la memoria dei cavalieri Templari è ancora viva. Quanti misteri…alla Giacobbo, il gigante di Freedom che li risolve…quasi sempre.
Eppure una spiegazione c’è anche in questo caso: qui i Cavalieri Bianchi ci sono stati davvero. E a Seborga? Non ci sono prove storiche concrete che dimostrino la presenza dei Templari in questo piccolo paese anche se la tradizione locale e alcune leggende mantengono in vita il legame tra il borgo e l’ordine cavalleresco. Un modo sicuro per arricchire il fascino storico e culturale della località collinare a nord di Bordighera. Si narra addirittura, secondo alcune leggende, che nel 1117 San Bernardo di Chiaravalle, monaco, abate e promotore della II Crociata (1147-1150) si recò a Seborga e consacrò i primi nove cavalieri templari nella chiesa a lui dedicata, prima della loro partenza per le Crociate. In paese si svolgono raduni che richiamano la presenza dei Templari e il Principato di Seborga, nato negli anni Novanta del secolo scorso per rivendicare una “favolosa” indipendenza, riconosce l’Ordine dei cavalieri bianchi. Secondo alcuni storici non si tratta solo di leggenda ma la tradizione templare di cui Seborga si vanta sarebbe suffragata da una documentazione di tutto rispetto. In effetti, camminando per il paese si vedono croci templari ovunque, nelle vie e sugli edifici. Perfino una birra locale riporta l’effigie dei cavalieri sulla bottiglia, Siamo nel cuore dell’Ordine del Tempio? Qualcuno dice di sì, tanti altri sono molto più prudenti anche se la tradizione seborghina vede proprio in questo borgo i primi passi compiuti dai mitici cavalieri templari.
Filippo Re
nelle foto, paese collinare di Seborga , Cattedrale di Santa Maria Assunta a Ventimiglia Alta, Templari a Seborga

La Sindone? Il calco di un bassorilievo

Una recente simulazione 3D, pubblicata sulla rivista Archaeometry, offre una nuova interpretazione sull’origine della Sindone di Torino. Secondo lo studio, il celebre telo in lino – tradizionalmente ritenuto il sudario che avvolse il corpo di Gesù Cristo dopo la crocifissione – non sarebbe stato modellato su un corpo umano, bensì su una scultura in bassorilievo. Questa ricostruzione digitale rafforza l’ipotesi che si tratti di un manufatto medievale, in linea con i risultati della datazione al radiocarbonio effettuata nel 1989, che colloca la realizzazione della Sindone tra il 1260 e il 1390 d.C.

L’autore dell’analisi è Cicero Moraes, esperto brasiliano noto per le sue ricostruzioni tridimensionali di volti storici, tra cui quelli di Antonio da Padova e Francesco Petrarca. Tra i suoi lavori più recenti figura anche la ricostruzione del volto dell’uomo di Irhoud, il più antico esemplare conosciuto di Homo sapiens, vissuto circa 315.000 anni fa, pubblicata nel giugno 2024.

Pietro Pisano e Il cercatore di farfalle

Con “Il cercatore di farfalle – Aprile 1939, l’ultimo caso del giudice istruttore di Pallanza”  ( Macchione editore, 2025) il verbanese Pietro Pisano, appassionato di storia locale, tra gli ideatori e fondatori del Gruppo Escursionisti Val Grande, si è confermato uno straordinario indagatore di biografie e storie, dimostrando di avere del talento e una spiccata capacità di comunicare i frutti del suo lavoro ai lettori, conquistandone l’attenzione e stimolandone la curiosità. La vicenda, narrata con il ritmo di un romanzo, è ambientata durante gli ultimi anni del ventennio fascista e, particolarmente, in quel 1939 che segnò con un Regio Decreto la nascita di Verbania dalla fusione dei comuni di Intra, Pallanza e Suna. Tra la città che prese il nome dall’antica denominazione del lago Maggiore, la confinante Ghiffa e il lontanissimo Brasile si snoda la vicenda di Eugenio Pederzani, giovane professore universitario di entomologia con una particolare predilezione per il mondo delle farfalle, travolto da una drammatica vicenda che assume anche tratti grotteschi. Accusato dell’omicidio di un esponente della milizia fascista, costretto ad abbandonare le sponde del lago Maggiore, trova rifugio in Brasile. Non verrà mai meno l’amore per la sua terra, schiacciata sotto il tallone nazifascista al quale si opporranno dopo l’otto settembre del ’43 le formazioni partigiane, e finalmente – alcuni anni più tardi – colse al volo la possibilità di arruolarsi nelle fila della FEB, la Força Expedicionária Brasileira aggregata alla 5a Armata americana del generale Clark, risalendo la penisola combattendo fino a raggiungere Pallanza dove la vicenda avrà un epilogo che, com’è naturale, non sveleremo. Finalista nella sezione inediti dell’XI Premio Internazionale Città di Como 2024, in questo romanzo Pisano ha reso esplicite le sue passioni per la ricerca storica, l’ambiente lacustre che gli è familiare e l’amore per gli splendidi lepidotteri dai mille colori. Per la trama del libro Pietro Pisano ha rivelato di aver tratto ispirazione da un famoso naturalista di Laveno, sulla sponda magra del Verbano, l’avvocato ed entomologo Carlo Taccani  che girò in lungo e in largo quelle zone per settant’anni alla ricerca di farfalle, donando nel 1989 – due anni prima di morire – 244 teche con oltre 17.000 esemplari di farfalle, prevalentemente italiane, al Museo civico di storia naturale di Milano. Dopo aver raccontato, con una scrittura avvincente e documentata, la vita e le imprese dell’esploratore piemontese Giacomo Bove e la leggendaria storia del Coda Rossa (al secolo Giovanni Bertoletti), mitico bracconiere della Val Grande , Pietro Pisano con quest’ultimo libro si conferma uno degli autori più interessanti e originali degli ultimi anni.

Marco Travaglini

Scandaloso Pitigrilli

Si può dire che tra gli italiani più “scandalosi” della sua epoca, l’Europa fra le due guerre, ci sia stato lo scrittore e giornalista torinese Dino Segre, in arte Pitigrilli ( Torino, 9 maggio 1893-Torino, 8 maggio 1975).
Leggendo in questi giorni il saggio del semiologo Umberto Eco nel suo ” Il superuomo di massa Retorica e ideologia del romanzo popolare ” vado per curiosità al saggio intitolato “Pitigrilli: l’uomo che fece arrossire la mamma”. Lo sentivo citare da bambino, da mia nonna paterna e mi ha ingenerato una qualche curiosità.
E allora leggo e scopro che Pitigrilli, fu un anticipatore di “un Lenny Bruce alla amatriciana” o di un “Quentin Tarantino un po’ di maniera”, per lo stile trasgressivo e la denuncia dei vizi e del malcostume del suo tempo ( e del nostro previo adeguamento dei tempi ). Trasgressivo lui che scriveva. Trasgressivi gli altri, che leggevano.
Col regime fascista che storceva il naso, ma lo tollerava, perché in fondo i suoi libri erano scritti e ambientati a Parigi. Un po’ come dire a nuora, perché suocera intenda. O far degli sposi manzoniani, un dramma ispanico, per non disturbare il conducente: l’occupante austroungarico.Tanto che lo stesso Benito Mussolini, lo definì uno scrittore francese che scriveva in italiano. A Parigi infatti dedicò lunghe permanenze della sua vita, di scrittore e giornalista.
A chi ricorda la scena dell’overdose di cocaina di Uma Thurman in “Pulp fiction”,( ma anche per chi non la ricorda) cito dal testo, edito nel 1921:
« (…) L’ uomo, con una stretta vivace, si liberò e aspirò voluttuosamente il resto. Allora la donna gli prese il capo fra le palme (oh, quelle dita esangui incurvate come artigli su quei capelli neri!) e con le labbra bagnate, vibranti, palpitanti gli si gettò sopra la bocca e gli leccò ghiottamente il labbro superiore, gli introdusse la lingua nelle nari, per raccogliere le poche briciole trattenute sull’orifizio. “Mi soffochi!” mugolava l’uomo col capo arrovesciato all’indietro, tenendosi con le braccia distese alla spalliera (…) ».
(Cocaina 22-23)
Quanto alla “filosofia delle donne” Eco cita una non meglio precisata autobiografia’, e qui viene fuori la parola icastica e demolitrice, ‘alla Lenny Bruce’ e una marcata misoginia, per usare un eufemismo:
« tutte le donne sono prostitute, meno nostra madre e la donna che amiamo in questo momento. In ogni donna c’è una prostituta come in ogni uomo c’è un soldato. Le donne virtuose sono i casi sporadici come i riformati e i renitenti » .
Non fosse che il nostro fu l’ amante di Amalia Guglielminetti, una delle più belle donne della Torino del suo tempo, poetessa e intellettuale di fine e acutissima sensibilità, dal fascino e dalla sensualità infinitamente seducente e ingannatrice. Amico di Gozzano. Deuteroantagonista di Gabriele d’ Annunzio. Lui il vate, che lo vide da cronista il Pitigrilli, durante i moti di Fiume, dissentire dei suoi ideali irredentisti. Sempre in direzione ostinata e contraria.
Come e’ attuale oggi penso, questo personaggio trasformista e camaleontico, nell’Italia che combatte con i fumi del suo passato, melmoso e al contempo trasparente. E che come disse Woody Allen: “assomiglia a un film dei fratelli Marx”. O come scrisse Ennio Flaiano degli Italiani: “un popolo con i piedi ben piantati sulle nuvole”.
Se ne deduce che i concittadini (torinesi) cercavano di fargli una fama di pederasta, di mantenuto dalle donne e lui di risposta :
« la prima accusa è quella che mi offende di meno perché più conosco le donne più amo i pederasti ». E qui ci leggo in pieno, Oscar Wilde.
Riguardo alla politica il “credo” era:
« Non capisco niente di politica. Qualche volta leggo l’articolo di fondo del mio giornale, per sapere come la pensa il mio direttore, e quindi quale dev’essere la mia sincera e spontanea convinzione politica ».
Fu un epigono del decadentismo e del nichilismo, ma non si prendeva troppo sul serio. Non è vero che lo scettico non crede in nulla. Egli crede nelle capacità critiche della ragione.
Così era Dino Segre. E oggi dobbiamo esserlo anche un pò noi. Laicamente, spiritualmente, come vogliamo. Nell’interpretare e vivere questo tumultuoso presente storico sociale, un file compresso del secolo breve.
Capì presto fin da bambino di avere un buon talento per la scrittura e che poteva trasformare tutto ciò, in uno strumento per il successo e il denaro.
Collaborò con la “Gazzetta del Popolo” e fu inviato per L’epoca diretto da Tullio Giordana. Tradotto nei cinque continenti, letto di nascosto dalla media borghesia taurinense, benestante è un po’ bigotta.
Si fece eroe della dis-identitá, si direbbe oggi. Uno Zelig del suo tempo, tattico ed efficace, nel suo “fuggire da se” e dai rischi del vivere.
Antifascista temperato, ma talpa dell’Ovra, o almeno così si disse, senza prove certe.
Lo si ritenne delatore di Norberto Bobbio e Massimo Mila, azionisti di prima genesi.Seppe non inimicarsi il regime fascista. Con padre industriale ebreo e madre cattolica, che poco dalla nascita, lo fece battezzare di nascosto. Arrivarono le infami leggi razziali del 1938 a “metterlo con le spalle al muro” e a costringerlo all’errare, come un novello Ahasvero. A divenire magicamente, colui che combattè con Dio e rimase vivo: così significa la parola Israele.
Si convertí in tarda età al cattolicesimo, per amore e non per forza. Così si disse. Ma rimase tutta la vita un disincantato anarco-conservatore. Forse oggi si direbbe un
“eroe del pensiero debole”. La dove possono emergere per contrasto, ‘le verita forti’. Nel rispetto di tutti. In questa terza guerra mondiale a pezzetti.

L’opera omnia di Pitigrilli (al secolo Dino Segre) è pubblicata da Sonzogno (tranne l’ultimo romanzo, del 1974) e comprende una quarantina dí volumi tra romanzi, raccolte di novelle e articoli, memorie, aforismi, un poemetto. Le opere a cui si fa più sovente riferimento in questo saggio (citandole in forma abbreviata) sono: Cocaina, 1921; L’esperimento di Pott, 1929; I vegetariani dell’amore, 1931; Dolicocefala bionda, 1936; Mose e il cavalier Levi, 1948; La meravigliosa avventura, 1948; Lezioni di amore, 1948; Pítigrillí parla di Pítigrilli, 1949; Dizionario antiballistico, 1953.

Aldo Colonna

I legami tra Fénis, Buttigliera Alta e Avigliana

Domenica 27 luglio a Fénis l’Associazione Internazionale Regina Elena Odv ha ricordato il legame del Comune valdostano con Buttigliera Alta e Avigliana

Domenica 27 luglio 2025, nell’ambito del festival itinerante “Medioevo nella Terra degli Challant”, la rassegna culturale annuale volta alla valorizzazione della storia secolare della media e della bassa Valle d’Aosta, il Comitato per la tutela del patrimonio e delle tradizioni dell’Associazione Internazionale Regina Elena Odv ha celebrato a Fénis il 470° anniversario della Baronia: il 9 giugno 1555 Carlo di Challant-Fénis, che cinque anni prima era diventato Signore del paese succedendo al nipote Claudio, il quale aveva rinunciato al titolo, ottenne dal Duca di Savoia Emanuele Filiberto il titolo di Barone di Fénis, che passò poi a suo figlio Francesco, al nipote Giovanni Prospero e al bisnipote Claudio. Fu proprio il quarto Barone di Fénis a legare il destino del Comune a Buttigliera Alta, in Provincia di Torino: egli, il 4 ottobre 1631, sposò Caterina Carron di San Tommaso, figlia di Giovanni Carron, primo Conte di Buttigliera Alta e della seconda consorte Antonia Francesca du Marché dei Signori di Bozel. Il padre della sposa nel 1625 aveva ottenuto dal Duca di Savoia il titolo di Primo Segretario di Stato, che i suoi discendenti, caso quasi unico in Europa, si tramandarono per via ereditaria fino alle riforme volute dal primo Re di Sardegna Vittorio Amedeo II nel 1717.
Dall’unione tra Claudio di Challant-Fénis e Caterina Carron di San Tommaso nacque solo un figlio, Antonio che divenne il V Barone. Egli da Maria Anna Caterina Provana, figlia di Carlo Provana, III Conte di Collegno di questo casato e di Paola Orsini dei Conti di Rivalta, ebbe solo una figlia, la quale divenne Monaca Benedettina Cistercense nel Monastero dei Santi Maria e Michele di Ivrea. Alla morte di Antonio nel 1705 si estinse questo Ramo degli Challant, il cui capostipite era stato Aimone (1305 circa – 1387 circa), il quale fu anche Balivo della Val di Susa e Castellano di Avigliana, Ivrea, Lanzo e Susa.
Alla morte di Antonio il maniero di Fénis venne ereditato dal cugino Giorgio Francesco di Challant-Châtillon, XII Conte di Challant, il quale lo cedette nel 1716 al Conte Baldassare Saluzzo di Paesana. Il castello nel 1895 venne acquistato dal celebre architetto portoghese naturalizzato italiano Alfredo d’Andrade, che nel 1898 iniziò i lavori di restauro e nel 1906 lo donò allo Stato Italiano.
La commemorazione di domenica 27 luglio è iniziata alle ore 10 con una solenne cerimonia presso il Salone Tsanti de Bouva, durante la quale lo scrivente ha letto il messaggio di saluto inviato dal Sindaco di Avigliana Andrea Archinà e fatto scoprire ai numerosi presenti la storia degli Challant e un altro legame con Buttigliera Alta e Avigliana: il celebre pittore Giacomo Jaquerio, del quale quest’anno si ricorda il 650° anniversario dalla nascita. Egli a partire dal 1410 affrescò la Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso e, tra il 1414 ed il 1420, su incarico di Bonifacio I di Challant-Fénis, realizzò i magnifici affreschi che decorano il cortile interno e la cappella del maniero di Fénis. Nel 1447 su incarico del Duca Ludovico di Savoia, avrebbe ridipinto l’affresco raffigurante la “Madonna del Latte” che orna il pilone attorno al quale tra il 1622 e il 1642 venne costruito il Santuario della Madonna dei Laghi di Avigliana.
Il Comitato per la tutela del patrimonio e delle tradizioni dell’Associazione Internazionale Regina Elena Odv ha quindi conferito uno speciale attestato al Comune e al Gruppo Storico Le Cors dou Heralt di Fénis.
E’ seguita una Santa Messa celebrata nella Chiesa Parrocchiale di San Maurizio, durante la quale si è pregato anche per la Regina Elena e i primi Baroni di Fénis: Carlo di Challant e la consorte Francesca di Gruyère.
Dopo la funzione religiosa i gruppi storici hanno sfilato fino al Salone Tsanti de Bouva.
Hanno partecipato all’evento numerose compagnie di rievocatori della Valle d’Aosta, tra le quali Le Cors dou Heralt di Fénis; Groupe Historique Châtel Argent; Château d’Issogne e Gruppo Carnevale Storico di Verrés.
La commemorazione è stata impreziosita dalla presenza anche di tre gruppi storici piemontesi: “La Gente di Nichilinum del medioevo”, impersonata dal Gruppo Storico Conte Occelli; i “Marchesi Paleologi” di Chivasso e il “Filo della Memoria” de “Il Colibrì Aps” di Buttigliera Alta, i cui rievocatori hanno impersonato Giovanni Carron di San Tommaso, la seconda consorte Antonia Francesca du Marché, la figlia Caterina, Baronessa di Fénis e due sue damigelle.
Il Presidente nazionale dell’Associazione Internazionale Regina Elena Odv è stato rappresentato dal Vice Segretario Amministrativo Nazionale.

ANDREA CARNINO

Una riflessione storica sul colonialismo italiano. Contro le vulgate

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
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Credo che sia necessario avviare una riflessione storica sul colonialismo italiano in Africa che non sia succubo delle grossolane pagine di  Angelo del Boca. A 90 dall’inizio della guerra d’Etiopia (1935 ) Annamaria Guadagni sul “Foglio“ dedica un ampio articolo al colonialismo italiano in Africa iniziato nel 1882 con l’acquisizione della baia di Assab.  Nell’articolo vengono ripercorse le “nefandezze“ e le “atrocità  coloniali italiane”, rimettendo, in modo solo apparentemente sorprendente  in circolazione  le cose scritte con livore anti- italiano da un non storico come Angelo del Boca. Quindi viene evidenziato, come è giusto che sia, l’uso dei gas da parte del viceré di Etiopia Rodolfo Graziani e  viene persino esaltato il comunista Ilio Barontini, definito “leggendario  antifascista”, mandato da Mosca  ad addestrare partigiani in Etiopia  e organizzare un governo provvisorio riconosciuto dall’imperatore etiope in esilio. Viene invece  ignorato il massacro di soldati italiani ad Adua  del 1896 dopo la sfortunata ed improvvida campagna d’Africa, voluta da Crispi, che creò in Italia grande  scalpore e un ricordo destinato a restare nei decenni, sul quale fece leva 40 anni dopo Mussolini per giustificare a suo modo l’aggressione all’Etiopia come sostennero le maggiori potenze coloniali a Ginevra che condannò l’Italia alle “inique  sanzioni“, come venne detto allora.
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Non c’è parola in quasi due pagine di articolo della campagna di Libia del 1911, impresa iniziata  e conclusa durante l’età giolittiana che ebbe il favore degli Italiani, se si escludono Salvemini (che  definì la Libia “uno scatolone di sabbia”) e Mussolini che, allora socialista rivoluzionario, si sdraiava sui binari delle tradotte per impedire ai soldati di partire per la guerra. L’Italia giunse ultima a cercare un “posto al sole“, dovendosi accontentare di territori che non avevano attratto l’ingordigia coloniale inglese, francese e tedesca. Anche il Belgio e il Portogallo erano potenze coloniali e quindi la tesi in base alla quale l’Italia avrebbe dovuto astenersi, come sostiene Giorgio Rochat , uno degli storici più faziosi succeduto in cattedra al grande Piero Pieri, risulta essere viziata da un pregiudizio ideologico e da un anacronismo antistorico che giudica il passato con gli occhi del presente. Le imprese coloniali italiane furono la logica e inevitabile  conseguenza di una Nazione italiana nata con ritardo di secoli che seppe durante la Grande Guerra dare un apporto alla vittoria alleata  che la mise tra le grandi Nazioni europee. Non era più l’Italietta giolittiana il paese che aveva battuto l’impero austroungarico, provocandone la fine che segnò una svolta nella storia Europea carica di conseguenze per lo più non positive, come colse subito Croce già nel 1918.
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Si può discutere se nel 1935 avesse senso imbarcarsi in una nuova impresa coloniale fuori tempo massimo, ma non può essere dimenticato che l’impero africano dell’Italia fu anche quello volto a portare strade, scuole, ospedali in terre incolte e in paesi arretrati in cui vigeva addirittura la schiavitù. L’impero coincise con quelli che De Felice definì gli “anni del consenso”. Andrebbe anche evidenziato che forse l’Italia diede alle Colonie molto più di quanto ne  ricavò. E mi riferisco a Somalia, Libia, Etiopia in cui l’impronta italiana in parte rimane ancora oggi. L’Italia lasciò di sé un ottimo ricordo. Molti coloni italiani rimasero in Libia fino alla cacciata di Gheddafi  e in Etiopia il Negus, tornato al potere dopo la sconfitta dell’Italia in Africa, si circondò di Italiani in posti di responsabilità. L’azienda idroelettrica abissina rimase addirittura di proprietà di una famiglia italiana. Quindi un discorso storico non può fermarsi al livore ideologico di del Boca; anche le vicende dopo la fine del colonialismo italiano non rappresentarono maggiore civiltà e progresso, come dimostra la storia delle ex colonie italiane divenute preda di lotte tribali senza fine.
Ovviamente nell’articolo in questione  viene ignorato il sacrificio del domenicano padre Reginaldo Giuliani caduto nella compagna d’Etiopia ancora oggi venerato dai suoi confratelli  e viene, a maggior ragione,  ignorato il Vice Re di Etiopia e governatore dell’Africa orientale italiana Amedeo di Savoia duca d’Aosta che aveva una storia personale  di contatti e di vita in terra africana: in Somalia insieme allo zio Duca degli Abruzzi e nel Congo belga  come operaio sotto falso nome. Amedeo d’Aosta si era laureato in Giurisprudenza con una tesi  in diritto coloniale in cui si sosteneva che un dominio straniero sugli indigeni poteva trovare giustificazione solo  nel miglioramento delle condizioni  di vita delle popolazioni colonizzate.
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E come vice Re dal 1937 al 1941 il duca  fu promotore di grandi opere pubbliche destinate a durare nel tempo. Certo la dominazione fascista in Africa Orientale si fece sentire, come ebbe rilievo positivo in Libia la presenza  del  governatore Italo Balbo. Nella storia, come anche nella vita, non tutto è da gettar via. Come si dice volgarmente, va almeno distinto il bambino dall’acqua sporca . Come disse Carlo Delcroix che conobbe il principe sabaudo, Amedeo “visse da santo e morì da eroe“. Forse Delcroix esagerava, ma certo la sua figura studiata in modo esemplare da Gianni Oliva, non può essere ignorata. La sua resistenza sull’Amba Alagi  che ottenne l’onore delle armi inglesi e la sua morte in prigionia a Nairobi per restare con i suoi soldati sono una delle pagine più alte insieme alla strenua resistenza dei soldati italiani ad El Alamein a cui rese onore il presidente della Repubblica Ciampi che sentì la complessità della storia ,andando oltre la politica che “giudica e manda”, senza mai  tentare una sintesi storica, neppure a distanza di 90 anni. L’articolo del “Foglio “ non fa che riprendere le vulgate antistoriche del passato. Ed è un peccato che non deve sorprendere perché il giornale di Cerasa è in realtà molto conformista.