La zona collinare situata nelle province del Verbano Cusio Ossola e di Novara, comprende i comuni in costa alla sponda orientale del lago Maggiore, da Arona a Baveno, e una piccola parte di comuni che si trovano salendo sulle pendici del massiccio del Mottarone. Rimanevano mesi e mesi lontani da casa, risparmiando il risparmiabile per sostenere le famiglie, ricorrendo il più delle volte – per il cibo e l’alloggio – a soluzioni di fortuna
I “lusciàt”, cioè gli ombrellai ambulanti, hanno sempre fatto un mestiere duro, macinando chilometri su chilometri su strade polverose o in mezzo al fango, lontano da casa, arrangiando il loro magro guadagno riparando ombrelli e parasole. La maggior parte proveniva dal Vergante, la zona collinare situata nelle province del Verbano Cusio Ossola e di Novara, comprende i comuni in costa alla sponda orientale del lago Maggiore, da Arona a Baveno, e una piccola parte di comuni che si trovano salendo sulle pendici del massiccio del Mottarone. Rimanevano mesi e mesi lontani da casa, risparmiando il risparmiabile per sostenere le famiglie, ricorrendo il più delle volte – per il cibo e l’alloggio – a soluzioni di fortuna. Spesso non riuscivano a mettere insieme il pranzo con la cena e dormivano dove capitava, appisolandosi, stanchi morti, sotto un cielo stellato nella buona stagione o in qualche fienile, quando tirava vento o scrosciava la pioggia. La loro vita era così, prendere o lasciare. Già da piccoli s’apprendeva il mestiere, girovagando al seguito degli ombrellai adulti per le pianure piemontesi e lombarde, cercando di sfuggire alla miseria. Giravano come dei nomadi gridando a gran voce “donne, donne.. à ghè l’ ombrelè!”, portando a tracolla la “barsèla”, la cassetta nella quale erano riposti tutti i “sápitt” , i ferri del mestiere del lusciàt: dai “ragozz”,le stecche degli ombrelli, a lusùra, flignànza, tacugnànza e tacòn, ramé, cioè forbici, rocchetti di refe, pezze varie, bastoni di legno. Con quell’armamentario erano in grado di cucire, limare, intagliare il legno, incollare, sagomare stoffe. Se c’era da riparare un ombrello lo accomodavano, racimolando qualche soldo; se invece si trattava di confezionarne uno nuovo, era festa grande. Girovagavano per le vie guardando porte e finestre, in attesa del cenno di chi era disposto ad affidar loro un parapioggia tartassato dai troppi acquazzoni, contorto dal vento o vittima della voracità delle tarme. Ogni lavoro era buono e non si rifiutava mai, mettendosi subito alacremente al lavoro, e in silenzio. Per arrotondare il magro guadagno, spesso accompagnavano il mestiere con la costruzione e la vendita di altri manufatti in legno e in fil di ferro , come gabbie, trappole per topi, insalatiere, setacci. Come da tradizione il giorno di Capodanno, sulla piazza di Carpugnino, si trovavano a parlar d’affari e preparare la nuova annata degli ombrellai. In quell’occasione, le famiglie più povere affidavano i loro figli piccoli agli artigiani ambulanti, nella speranza che avrebbero imparato un mestiere, sconfiggendo la povertà e l’indigenza. “Al prumm dal lungon a Carpignin, a truà l’ Casér senza an bergnin“, che tradotto equivale a “il primo dell’anno a Carpugnino, a cercar padrone, senza un soldino” , come recita un’epigrafe che fa mostra di sé ancor oggi nella piazza di Carpugnino. Reclutata così la manodopera gli ombrellai si mettevano in cammino alla ricerca di quei guadagni che potessero garantir loro un futuro migliore. Bisogna dire che l’apprendista entrava quasi a pieno titolo nella famiglia dell’ombrellaio che provvedeva a lui in tutto e per tutto. Così, lontano da casa e dai propri cari, si accompagnavano nei lunghi tragitti con i loro canti in quella particolare lingua che si parlava tra lusciàt: il “tarùsc”. Sì, perché tra di loro, per tradizione e abitudine, comunicavano in quel gergo difficile, quasi del tutto incomprensibile, dalla pronuncia piuttosto secca e dura. Secondo alcune ricerche etimologiche, più che plausibili, basate sulla presenza di termini derivati dal tedesco nel tarùsc, e pensando a parole come tarnen (maschera) e tarnung (mascheramento), è intuibile la volontà di crearsi una lingua tutta loro, adatta a camuffare i loro discorsi. Facilitati dalla stessa provenienza territoriale, cioè dai paesi dell’alto Vergante, gli ombrellai potevano così comunicare con rapidità e segretezza , scambiandosi notizie e commenti nella certezza di non essere capiti. L’idioma era un misto di dialetto e parole di altre lingue, dallo spagnolo al francese al tedesco, rielaborate con arguzia e duttilità. Così, tanto per fare due esempi, l’avvocato era un “denciòn” ed il cuoco un “brusapignat“. “Al lusciàt caravaita a gria i lusc”, dicevano, riferendosi al fatto che “L’ombrellaio ambulante ripara gli ombrelli”. Pensando alla vita comoda, scuotevano la testa sentenziando “la repenta ha biò l’elban in su la frisa” (la gallina ha fatto l’uovo sulla paglia). Era una critica, e guai a contraddirli, perché la “ghéna”, la fame, era tanta e ci si poteva considerare “brisòld” (ricchi) solo quando si riusciva a metter su la prima bottega con un banchetto e l’insegna di due cupole d’ombrello a spicchi bianchi e rossi e la scritta “luscia, el lusciat piòla” che, più o meno, si può tradurre così: piove, l’ombrellaio si prende una sbornia. Infatti, quando il cielo diventava scuro, la terra cambiava odore e l’acqua iniziava a scrosciare , fosse temporale estivo o pioggia autunnale, si brindava alla fortuna perché con la pioggia si lavorava di più. Quando veniva chiesta all’ombrellaio quale fosse la ragione di quel nome così strano, veniva raccontata anche la leggenda che individuava nel Tarùsc uno gnomo scontroso e permaloso che viveva alle pendici del Mottarone e sulla Motta Rossa. Poco incline a tollerare i forestieri ,si teneva ben nascosto nei boschi. Era lui che, in un tempo remoto, aveva insegnato agli uomini come costruire gli ombrelli, oltre a trasmetter loro la sua lingua. Alto circa mezzo metro, dal pelo rosso ( come la sue scarpe), con un copricapo a forma di tricorno, era sempre vestito di verde. Combinare piccoli dispetti era uno dei suoi passatempi. Ma c’era un rimedio infallibile, qualora si era presi di mira da un Tarùsc: rovesciare sul pavimento alla sera un sacchetto di riso o di segale. Essendo lo gnomo un tipo ordinato e pignolo, era costretto a passare l’intera nottata a raccogliere granello per granello quanto versato. Ai Tarùsc piacevano i rospi ma non è dato a sapere il perché. Oltre alle storie e alle leggende, quando tornavano a casa, raccontavano le avventure della loro vita randagia. E manifestavano un certo orgoglio per quel lavoro dove la fatica e i sacrifici erano ricompensati dalla passione per un mestiere che richiedeva non solo molta abilità ma anche una buona dose di creatività. Soprattutto quando l’ombrello andava costruito nuovo di zecca e s’usavano le sagome per tagliare le stoffe. Qui la differenza di censo balzava all’occhio immediatamente: i benestanti e i nobili sceglievano la seta, per gli altri tutt’al più c’era il cotone. Molti di questi ombrelli fanno mostra di se nel museo a loro dedicati, a Gignese. Questo museo è l’unico al mondo dedicato al tema dell’ombrello e del parasole e vi sono conservati oltre mille pezzi fra ombrelli, parasole e impugnature di varie fogge e materiali. Nelle sale espositive sono ospitati pezzi curiosi e di notevole valore storico-culturale: dall’ombrello della regina Margherita di Savoia a quello appartenuto a Giuseppe Mazzini, tra i tanti. Gli esemplari nelle vetrine sono di rara fattura e squisitamente lavorati. Nel settore dedicato alla vita degli ombrellai si possono vedere le foto dei “pionieri” di quest’attività, i loro rudimentali attrezzi recuperati dalle antiche botteghe e quelli che li accompagnavano per le strade d’Italia e del mondo. Un itinerario storico, ricco di immagini e di testimonianze di un lavoro antico che gli ombrellai nati nel Vergante hanno saputo far conoscere e apprezzare un po’ ovunque. Non molto distante, a Massino Visconti, nel centro del paese, si può ammirare il monumento dedicato agli ombrellai. Realizzato nel 1972 dallo scultore Luigi Canuto, è stato eretto a ricordo dei molti “lusciàt” che, dalla fine del Settecento fino al primo Novecento, praticarono questo mestiere.
Marco Travaglini
Il latinista Luciano Perelli è stato ricordato al liceo “Carlo Botta” di Ivrea dove nacque nel 1911. Morto trent’anni fa, è ancora molto ricordato dagli ex allievi al liceo Gioberti di Torino e alla Facoltà di Lettere dove insegnò-caso raro- Letteratura latina e successivamente Storia romana alla Facoltà di Magistero. Soprattutto Perelli è ricordato per i suoi libri di testo dalla pregevolissima “Storia della letteratura latina” che non ebbe eguali per decine d’anni ai molti commenti a Cicerone ed agli amatissimi Lucrezio, poeta dell’angoscia e Catullo, poeta dell’amore tenero e disperato. I giovani nei suoi commenti ritrovavano l’humanitas autentica e la storicità di Roma senza l’eccessivo tecnicismo filologico che a volte uccide gli studi classici. Gli allievi di Perelli, similmente a quelli di Concetto Marchesi, acquisivano una cultura classica che era la base di un sapere poliedrico nel quale sarebbero cresciuti. Quando Perelli morì all’improvviso nel 1994, Luciano Canfora scrisse di lui una testimonianza ancora oggi importante che riguarda i suoi “ricordi antifascisti” incentrati sul carcere inflitto dal regime al padre e al fratello, che condizionò i suoi studi per affrettare il suo insegnamento privato, appena superata la Maturità, per dare un sostegno alla famiglia. Tuttavia egli non confuse mai l’insegnamento con un marcato impegno politico, come invece fece Marchesi. L’antifascismo per lui fu una scelta di libertà incompatibile con l’ideologismo anche se seppe difendere le ragioni della scuola classica da chi avrebbe voluto circoscriverla a pochi specialisti, di fatto uccidendola. Giovanna Garbarino, che fu docente di Letteratura latina, mi disse spesso che questa capacità di miscelare insieme letteratura e storia latina e greca era la cifra straordinaria di Luciano, forse non abbastanza apprezzato in Facoltà. Quando ancora insegnava al liceo, seppe difendere con coraggio ed anticonformismo la dignità professionale dei professori dalla tendenza già allora emergente di considerarli degli impiegati. La tutela della funzione docente fu una delle sue più grandi preoccupazioni e anche questo rende Perelli un protagonista unico della scuola piemontese. Egli capì fin dal suo sorgere l’aspetto eversivo di una parte della contestazione giovanile del ’68 insieme ai colleghi Franco Venturi, grande storico dell’Illuminismo e Giorgio Gullini, archeologo e preside della Facoltà di Lettere. Giunse a vedere delle affinità con il fascismo in certi estremismi di sinistra. Una volta con il “Corriere della Sera” in mano parlammo di un articolo del direttore Spadolini sugli opposti estremismi che corrispondeva a pieno al suo modo di vedere la violenza in quegli anni difficilissimi in cui qualcuno tentò di vedere le lotte studentesche in una sorta di continuità con la Resistenza.

Città dei crocieristi, delle torri e dei Papi, Savona è una bella città, facile da visitare per chi ha poco tempo. Il piccolo centro storico si gira agevolmente a piedi tra vicoli stretti, palazzi colorati e lunghe vie centrali come via Paleocapa. Per raggiungere tutte le altre località del Ponente è quasi d’obbligo passare da Savona ma spesso la città viene considerata solo un luogo di passaggio, sovente ignorata e trascurata. È uno sbaglio, andrebbe visitata e goduta anche Savona. Viene chiamata la Città dei Papi perché nei dintorni di Savona nacquero ben due Papi, Sisto IV, Francesco della Rovere (1414-1484), il pontefice che commissionò la Cappella Sistina di Roma e Giulio II, Giuliano della Rovere (1443-1513). Una piccola cappella Sistina c’è anche a Savona, accanto alla cattedrale dell’Assunta, fatta edificare proprio da Sisto IV come cappella funeraria per i suoi genitori. Non è certo paragonabile alla cappella omonima romana ma è comunque un’attrazione da non perdere. Si può visitarla sabato 10-12,30 e 16,00-18,00 e domenica 10-12 e 16-18, le visite pomeridiane sono sospese a luglio e agosto. Il Duomo, realizzato nel Seicento accanto alla cappella, si può vedere quando non sono in corso le funzioni religiose per ammirare gli affreschi di scuola genovese e savonese, l’organo voluto da Papa Sisto IV e gli appartamenti papali dove un altro Papa, Pio VII, fu rinchiuso come prigioniero di Napoleone ai primi dell’Ottocento. Ma il simbolo più importante della città è però la Torre del Brandale al porto, a Campanassa per i savonesi, la torre più importante tra le diverse torri della città. Innalzata nel Trecento, la campana suona quando in città succede qualcosa di importante. Ma accanto alla torre si anima un intero centro storico che merita una visita. A pochi metri svettano le
torri, più basse, Guarnero e Corsi, e poco più in là, all’ingresso di via Paleocapa, fa bella mostra di sé la Torre Leon Pancaldo che, eretta alla fine del Trecento, faceva parte della cinta muraria. A picco sul mare c’è l’imponente e straordinaria fortezza del Priamàr, eretta dai genovesi nel Cinquecento per proteggere la città dagli attacchi dal mare. Il porto fu interrato e sul colle del Priamàr venne costruita la piazzaforte dopo aver abbattuto l’antica cattedrale, tre ospedali, la chiesa e il convento dei Domenicani e diversi oratori. Scomparve in pratica la parte più importante della città di epoca medioevale. Gli storici fanno notare che nel Duecento a Savona si trovavano almeno 50 torri e una decina si innalzavano sul Priamàr. La fortezza, che conserva i pochi resti dell’antica cattedrale cittadina, fu anche carcere con Giuseppe Mazzini in cella. Oggi è un grande teatro all’aperto con spettacoli e concerti per tutta l’estate e ospita il Museo archeologico e il Museo Sandro Pertini. Infine, da gustare in tutti i sensi, la Vecchia Darsena con il porticciolo turistico a pochi minuti dal Priamàr, luogo di incontro di savonesi e turisti a spasso tra pescherecci, ristoranti e trattorie. Filippo Re
