STORIA- Pagina 22

La storia dei Cavalieri Templari

Templari, ancora Templari. La mole di libri sui Cavalieri medioevali cresce sempre di più perché il fascino della ricerca templare consiste proprio nel non avere mai fine.

Ma di loro sappiamo proprio tutto? Faceva freddo quel mattino, lunedì 18 marzo 1314. Jacques de Molay, Gran Maestro dei Templari e Geoffrey de Charnay, precettore di Normandia, vengono condotti sul rogo e arsi vivi. Sulla Senna a Parigi, di fronte alla Cattedrale di Notre Dame, si spegne per sempre il sogno dei Templari. In realtà la loro rovina era già iniziata con una grande sconfitta militare a San Giovanni d’Acri nel 1291. I Mamelucchi, i nuovi padroni della Terra Santa, gettarono in mare gli ultimi crociati e uccisero i prigionieri feriti o troppo vecchi e le giovani donne furono violentate davanti a tutti. Era la fine dei cristiani in Palestina e di quel che restava del regno crociato. Ha un ritmo incalzante la saga dei Templari raccontata da Marco Salvador e Matteo Salvador nel libro “Storia dei Cavalieri Templari”, Edizioni Biblioteca dell’Immagine. Entrambi con la passione della ricerca storica ed esperti di strutture difensive, dai castelli medioevali alle fortificazioni degli ultimi conflitti mondiali, narrano le gesta dei Cavalieri tra vittorie sul campo e sconfitte, dai primi vagiti dell’Ordine del Tempio alla conquista musulmana di Acri passando per la disfatta di Hattin nel 1187, la perdita di Gerusalemme e la presenza di Federico II in Terra Santa. Ma il libro comincia dalla fine, dalla morte sul rogo degli ultimi templari. Gli ultimi giorni, le ultime ore di vita dei cavalieri del Tempio in forma di cronaca. “Fin dall’alba era stata proclamata a Parigi la sentenza di morte e l’ora dell’esecuzione. Una folla si era radunata sulla riva della Senna, la pira era pronta e il cancelliere iniziò a leggere ad alta voce la lunga lista delle accuse di eresia, di sodomia e di adorazione ma il popolo non pareva ascoltarlo e gridava qua e là “sono innocenti”. Finita la lettura, il cardinale si mise davanti al Gran Maestro dei Templari e chiese: “avete qualcosa da dire in vostra difesa?”. Jacques de Molay, l’ultimo Gran Maestro, non gli rispose ma si rivolse alla folla proclamando l’innocenza sua e di tutto l’Ordine. Li legarono al palo, il Gran Maestro chiese di recitare le preghiere e poi gridò: “ecco, ora sarò giustiziato e Dio sa quanto ingiustamente”. Dopo quelle parole si appiccò il fuoco alle fascine che avvolsero subito i due corpi.
Colpi di tosse e urla, poi nulla più”. Durante l’epoca delle Crociate l’Ordine del Tempio, nato nel 1118-1119 sulla spianata del Tempio a Gerusalemme, divenne l’organizzazione religiosa- militare più potente della Cristianità. Guerrieri e religiosi al tempo stesso, i Templari nacquero con il compito di difendere i pellegrini che si recavano ai luoghi santi dagli assalti dei predoni musulmani. Poi parteciparono come soldati a tutte le Crociate e a decine di battaglie in Terra Santa e in tutta l’area mediterranea. Un’ordine di monaci-guerrieri famoso non solo per il coraggio dei suoi Cavalieri in difesa della Terra Santa ma anche per le sue ricchezze. Il Tempio divenne infatti il principale potere finanziario della Cristianità e più di un terzo delle entrate venivano reinvestite nella difesa della Terra Santa. Dopo la perdita di Gerusalemme nel 1187 i cavalieri si spostarono a San Giovanni d’Acri dove si svolse l’estrema difesa contro i musulmani. Sconfitti dai Mamelucchi d’Egitto nel 1291 i Templari furono costretti ad abbandonare la Palestina e a insediarsi a Cipro. Sull’isola e nel resto dell’Europa diventeranno una potenza economica e politica. All’inizio del Trecento la storia cambiò radicalmente. Sofferente per la grave crisi economica in cui versava la sua nazione, Filippo IV il Bello, re di Francia, se la prese con i Templari per impossessarsi delle loro ricchezze e dei loro beni e li accusò di eresia. Nel 1307 furono arrestati e portati davanti ai giudici. Il sovrano li accusò impietosamente mentre Papa Clemente V cercò di salvarli ma fu poi costretto a sospendere l’Ordine nel Concilio di Vienne nel 1312. Due anni più tardi, nel 1314, l’ultimo Gran Maestro Jacques de Molay fu arso vivo sul rogo. Quella dei Templari fu una storia gloriosa con una fine tragica. Il ruolo di papa Clemente V nella fine dell’Ordine è stato finalmente chiarito dalla storica Barbara Frale che nel 2001 ha scoperto la pergamena di Chinon. Si tratta dell’atto originale dell’inchiesta avvenuta a porte chiuse nelle celle del castello di Chinon, dove erano reclusi i Templari, rinvenuto dalla studiosa dopo settecento anni di oblio nell’Archivio Segreto Vaticano. L’inchiesta di Chinon si concluse con l’assoluzione dei capi templari dall’accusa di eresia e il loro reintegro nella chiesa cattolica. Completa il libro di Marco e Matteo Salvador un suggestivo “viaggio pittorico” con decine di acquerelli e disegni realizzati dal pittore inglese David Roberts a metà Ottocento che ci consentono di vedere alcuni dei luoghi dove i Templari agirono, da Gerusalemme a Giaffa, da Gerico a Hebron, da Ascalona a San Giovanni d’Acri, da Tiro a Sidone.                  Filippo Re

La Farina, il siciliano sabaudo

Alla scoperta dei monumenti di Torino Una nota curiosa per quanto riguarda il monumento è la presenza, sul lato posteriore della balaustra, di un pannello decorato con il simbolo della Trinacria

Collocata all’interno di piazza Solferino, quasi all’altezza dell’intersezione con via Lascaris, la figura di La Farina è ritratta in piedi, appoggiata ad una balaustra. Le gambe sono leggermente sovrapposte in posizione rilassata ed indossa un cappotto chiuso dove sulla spalla sinistra, si dispiega un mantello che ricade sull’elemento architettonico. La Farina viene rappresentato mentre sta lavorando ad uno scritto: nella mano sinistra sorregge dei fogli che corregge con una penna stretta nella mano destra appoggiata anch’essa alla balaustra,mentre alle sue spalle un libro ferma alcuni fogli già letti. La balaustra presenta posteriormente un pannello decorato con il simbolo della Trinacria inquadrato tra due colonnine dal disegno complesso.

 

Nato a Messina il 20 luglio del 1815, Giuseppe La Farina fu un patriota, scrittore e politico italiano. Avvocato dalle idee liberali, sviluppò un interesse crescente per gli studi storici e letterari che lo portarono a pubblicare, lungo tutta la sua vita, numerosissimi scritti (tra i quali la Storia d’Italia dal 1815 al 1850) e a collaborare con giornali e riviste (è stato fondatore e collaboratore del giornale L’Alba che fu tra i primi a tendenza democratica-cristiana).

Nel 1837 cominciò a sostenere la causa per la liberazione della Sicilia, partecipando al primo movimento insurrezionale anti-borbonico. Dopo un periodo di esilio dall’isola, nel 1848 venne eletto deputato alla camera dei Comuni di Messina assumendo, in seguito, la carica di Ministro della Pubblica Istruzione; fece anche parte (assieme ad Emerico Amari) della missione incaricata di offrire la corona di Sicilia al Duca di Genova.

A seguito della riconquista borbonica della Sicilia, l’anno successivo si rifugiò in Francia da dove continuò la sua attività letteraria. Nel 1854 si stabilì a Torino e poco dopo fondò la “Rivista Enciclopedica Italiana”, il giornale politico “Piccolo Corriere d’Italia” e nel 1857 la Società Nazionale Italiana, un’associazione politica finalizzata a realizzare l’unità del Paese sotto la guida della Casa Savoia. La Società Nazionale Italiana aveva come presidente Daniele Manin e come vice presidente Giuseppe Garibaldi.

Dal 1856 venne chiamato a collaborare con Cavour che, nel 1860, gli affidò il delicato incarico di rappresentare in Sicilia il governo; dopo essere rientrato a Torino nel 1861, venne eletto al Parlamento italiano e nominato vice presidente della Camera dei Deputati. Muore a Torino il 5 settembre 1863. Subito dopo la sua scomparsa un comitato, composto da alcuni uomini politici, iniziò a sostenere l’erezione di un monumento alla sua memoria ma la proposta venne sospesa a causa dei lavori collegati al trasferimento della capitale da Torino a Firenze.

Nel novembre del 1866, grazie a Filippo Cordova (a quel tempo ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio), l’idea venne ripresa e fu aperta una pubblica sottoscrizione a livello nazionale; nel dicembre 1868 il Comitato promotore per l’erezione del monumento a Giuseppe La Farina, incaricòGiovanni Duprè, autorevole scultore toscano, della realizzazione dell’opera. Tuttavia fu solo dopo dieci anni e cioè nel 1878, che il progetto cominciò a prendere vita; Giovanni Duprè venne sostituito dallo scultore e scrittore palermitano Michele Auteri Pomar, che con le 24.000 lire raccolte, creò un monumento di una certa rilevanza.

Il monumento venne collocato nell’aiuola a mezzogiorno di piazza Solferino e fu inaugurato il 1 giugno del 1884, esattamente sedici anni dopo l’approvazione del progetto; il giorno precedente l’inaugurazione, i rappresentanti del Comitato promotore lo donarono con atto ufficiale alla Città di Torino.  Nel febbraio 1890, a seguito del progressivo distacco delle lettere bronzee che compongono l’epigrafe, il testo dell’iscrizione venne inciso sul fronte del basamento.

Una nota curiosa per quanto riguarda il monumento è (come già ricordato prima) la presenza, sul lato posteriore della balaustra, di un pannello decorato con il simbolo della Trinacria. Questo antico simbolo (Triscele per i greci e Triquetra per i romani), raffigura una testa gorgonica, con due ali, dalla quale si dispongono in giro simmetrico tre gambe umane piegate. La sua presenza sul monumento ricorda non solo le origini siciliane del personaggio, ma anche l’impegno da lui profuso nella lotta per l’indipendenza della Sicilia, durante la quale il bianco vessillo gigliato dei Borboni fu sostituito dal tricolore che recava al centro il simbolo triscelico.

 

Avendo già accennato la storia riguardante Piazza Solferino, grazie alle precedenti opere di cui abbiamo parlato, aggiungerò semplicemente che il monumento commemorativo a Giuseppe La Farina, dopo essere stato inaugurato nel 1884 all’interno dell’aiuola centrale meridionale, vi rimase fino al 2004, anno in cui la statua fu spostata per permettere alla piazza di ospitare i padiglioni Atrium per i Giochi Olimpici Invernali 2006. Il monumento fu provvisoriamente ricoverato all’interno di un deposito comunale per poi essere ricollocato, all’interno della piazza, il 16 giugno 2013. Oggi il monumento si erge in tutto il suo splendore all’interno di piazza Solferino.

 

Anche per oggi il nostro viaggio in compagnia delle opere di Torino termina qui. L’appuntamento è sempre per la prossima settimana per la nostra (mi auguro) piacevole passeggiata “con il naso all’insù”tra le bellezze della città.

 

 

Simona Pili Stella

C’era una volta Marianini il colto re dei flaneur

Lo vidi una sera attraversare trafelato e furtivo tra Corso Duca degli Abruzzi e Corso Luigi Einaudi Gianluigi Marianini e come in un confronto all’ americana, tra la mia memoria semantica televisiva e    l’osservazione    diretta, lo riconobbi con certezza probatoria, dal suo vestire    eccentrico fuori stagione abbinato alla fisionomia occhialuta e    vagamente cavouriana.

Una volta interpellato dal Mike nazionale a    ‘Lascia o Raddoppia’ (1956) di delucidarlo sui suoi studi teologici    ed    esoterici, affermò sfoderando tutta la sua icastica ironia, che avrebbe    voluto prendere i voti ma vi rinunciò ‘ad limina’ perché la sua incurabile astemia, gli avrebbe impedito l’uso del calice durante    l’offertorio. Al suo dotto inquisitore ( così appellava Mike Bongiorno)    che gli faceva notare l’uso dei guanti in trasmissione, Marianini lo    corresse definendoli aulicamente chiroteche e così rafforzando la    ”leggenda metropolitana” che lo voleva appartenente alla    massoneria.    Flaneur e perdigiorno non svolse mai una professione ufficiale e stabile nonostante fosse trilaureato in filosofia, giurisprudenza e diritto    canonico. Fu professore di filosofia dell’inventore del telequiz    all’Istituto Rosmini, dove osava apparire dietro la cattedra vestito di    una finta talare, quando Bongiorno soggiornò con sua madre a Torino    durante gli ultimi anni della guerra. Fu membro dell’ Ordine dei    Templari, esperto di occultismo, spiritismo e demonologia divenendo    consulente di Paolo VI sul fenomeno delle sette sataniche anche nell’area    torinese. Disse una volta di potersi permettere di ”vivere libero    e    alla giornata seguendo interessi puramente ideali”. Era una buona    forchetta e divenne gastronomo ”col pretesto di poter mangiare a  scrocco”. Estroso, poliedrico, geniale scrisse anche una serie di   poesie che raccolse nel volume che ha per titolo Apophàntica (1941,    editrice Le Collane) dove compare il componimento    assertivo ”Dichiarazione a Torino” sua città prediletta e    musa    ispiratrice. Partecipò anche al Laureato di Piero Chiambretti su Rai    Tre. E’ mancato nel 2009 a 91 anni a Vicoforte nel cuneese e riposa a    Mondovì accanto al sua amata moglie Ornella.  Anima fluttuante della  Magica Torino.
Aldo Colonna

Giugno 1855, Baudelaire e l’eresia dei fiori del male

 

Ma jeunesse ne fut qu’un ténébreux orage, traversé çà et là par de brillants soleils; le tonnerre et la pluie ont fait un tel ravage, qu’il reste en mon jardin bien peu de fruits vermeils ” (Non fu che fosca tempesta la mia giovinezza, qua e là solcata da rilucenti soli;il tuono e la pioggia ne han fatto un  tale strazio da lasciare nel mio giardino solo qualche vermiglio frutto). Versi potenti, tratti da L’ennemi, il nemico, una delle poesie che Charles Baudelaire raccolse nei suoi Les Fleurs du Mal. Era il 1°giugno 1855 quando, per la prima volta, la Revue des Deux Mondes pubblicò, con tanto di nota cautelativa per violenza, diciotto poesie di Baudelaire dal titolo I Fiori del Male, opera che subito destò scalpore e fu censurata. Ma la censura e la critica de Le Figaro non bastarono a celare l’opera e, infatti, il grande pubblico fu subito attirato dal lavoro.  Così I Fiori del Male sbocciano in quel lontano primo giugno, per poi essere pubblicati in prima edizione il 25 giugno del 1857, con 100 poesie suddivise in 5 sezioni e messi in vendita in circa 1100 esemplari, dagli editori Poulet-Malassis et De Briose. Le liriche di Baudelaire conobbero nuovamente e con più vigore l’asprezza della censura dei benpensanti, conseguenza naturale dello scalpore sollevato dall’audacia dei componimenti e dall’anticonformismo dei temi trattati che sconvolsero l’intero mondo letterario europeo. Il 20 agosto si celebrò a Parigi il processo penale contro l’autore e l’editore, accusati di pubblicazione oscena. Pubblico ministero era Ernest Pinard, lo stesso che qualche mese prima aveva pronunciato la requisitoria contro Madame Bovary di Flaubert. Baudelaire e Poulet-Malassis furono condannati a pene pecuniarie e alla soppressione di sei poesie. Negli appunti scritti per il suo avvocato per la difesa, Baudelaire diceva: “Il libro deve essere giudicato nel suo insieme: solo così si può coglierne la terribile moralità”. Il 30 agosto Victor Hugo gli scrisse: “I vostri Fiori del male risplendono e abbagliano come stelle […]”. E pensare che Baudelaire voleva intitolare la sua opera Les lesbiennes, le lesbiche, allo scopo di provocare quella gente che tanto disprezzava. Nonostante la censura e le critiche feroci che subì a quel tempo, il capolavoro di Baudelaire si diffuse in tutta Europa e ancora oggi i Fiori del Male è considerata una delle opere più innovative e influenti dell’Ottocento. Colpito da ictus, parzialmente paralizzato e divorato dalla sifilide ormai all’ultimo stadio morì ancora giovane a 46 anni il 31 agosto 1867 a Parigi dove venne sepolto nel cimitero di Montparnasse. E’ in quella tomba di famiglia senza alcun particolare epitaffio, insieme al detestato patrigno detestato e alla madre, morta quattro anni dopo, che riposa uno dei più famosi poètes maudits. Non mancano mai un fiore o un biglietto per l’autore dello Spleen di Parigi e vale sempre la pena di brindare al talento di Baudelaire, accompagnando il tutto con gli ultimi versi de Le osterie di Alda Merini che, ricordandolo, scriveva che in quei luoghi popolari “ci sta il nome di Charles scritto a caratteri d’oro”. À votre santé!

Marco Travaglini

I templari e i vampiri dei Balcani nel castello della Rotta

Non solo templari e fantasmi di cavalieri morti in battaglia, leggende e suggestioni, ma molto di più.

Il castello medievale della Rotta a Moncalieri non finisce di stupire, più passa il tempo e più si infittiscono i misteri che lo circondano. Nuovi studi rilanciano la storia di questo maniero che ci porta anche molto lontano, nelle fredde terre ungheresi e in quelle dei principi di Valacchia e di Transilvania, i famosi Vlad Dracul. Da Moncalieri alla Romania. Abbiamo già scritto su questo castello ricordando storie e favole che volteggiano sullo stato fatiscente dell’edificio nei pressi di Moncalieri che rimanda alla storia dei Templari e poi a quella dei cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme. D’altronde, tra le ipotesi che circolano sull’origine del nome stesso di Moncalieri c’è proprio quella che ritiene che derivi da Monte dei Cavalieri, perché l’antico ponte sul Po fu prima dei Templari e poi dei cavalieri di San Giovanni. Ma ora le vicende della Rotta si arricchiscono di nuovi capitoli grazie alle ricerche di Francesco Lorusso Léon, studioso di storia, archeologia ed esoterismo. Dopo aver scoperto un cunicolo nei pressi del castello, nascosto dalla vegetazione, che potrebbe risalire al medioevo templare, lo storico e artista sostiene che nel maniero sono passati i Cavalieri dell’Ordine del Drago e forse perfino Leonardo da Vinci. L’attenzione dello studioso si è concentrata sul proprietario del castello, Giorgio di Valperga, Gran Priore gerosolimitano, conte di Mazzè, nato nel 1371. Dopo anni di ricerche Lorusso Léon afferma con certezza che Giorgio di Valperga faceva parte dell’Ordine del Drago perché lavorava per Sigismondo di Lussemburgo, fondatore dell’Ordine del Drago, nato per contrastare l’avanzata del sultano ottomano nei Balcani. Era quindi al servizio di Sigismondo di Lussemburgo, re d’Ungheria e imperatore del Sacro Romano Impero, sconfitto in modo disastroso dai Turchi nella battaglia di Nicopoli nel 1396. Per ordine del sovrano il Valperga svolse vari incarichi tra cui quello di presidiare la frontiera con la Valacchia. Forse combatté gli Ottomani a fianco dei principi “vampiri” di Valacchia e Transilvania, i Vlad Dracul, che difendevano l’Europa dall’invasione ottomana, e che avrebbe poi ospitato proprio al castello. Morì sul campo di battaglia contro i turchi nel 1429. Ma la storia della Rotta continua. Dopo la morte del conte di Valperga i suoi successori ingrandirono il castello e alla fine del Quattrocento arrivò Ludovico il Moro, reggente del Ducato di Milano, e le gallerie sotto la residenza, sempre secondo le ricerche di Lorusso, sarebbero state probabilmente progettate da Leonardo da Vinci che in quegli anni lavorava per il suo signore, Ludovico il Moro.
Filippo Re
Nelle foto, Castello della Rotta, Francesco Lorusso Léon, archeologo e storico, conte Giorgio di Valperga

Nobili parentele monferrine

 

L’antica e nobile famiglia dei Sordi, oriunda di Cremona risalente al secolo XI° di origine greca dal generico significato nominativo attribuibile a differenti individui senza precisa identità e origine, era presente a Piacenza nel XVI° secolo, ramo estinto con Orsola Sordi e Bernardo Anguissola, membro della aristocratica famiglia piacentina di origine bizantina aggregata al patriziato veneziano da cui aveva avuto origine Sofonisba Anguissola, importante pittrice vissuta tra il ‘500 e ‘600. Nei secoli, la famiglia Anguissola si imparentò con illustri famiglie lombarde come i Gonzaga del principe Maurizio Ferrante (*1938), figlio di Luisa Anguissola-Scotti. I Sordi erano già presenti nel XIII° secolo a Milano, Crescentino, nell’abbazia di Lucedio con don Pietro Sordi e in Monferrato.
A Casale risiedeva Giovanni Pietro Sordi primo consignore infeudato di Coniolo nel 1589, presidente del Senato sia di Casale che di Mantova, ambasciatore del duca Vincenzo Gonzaga presso papa Clemente VIII° e autore di opere legali stampate a Lione, Francoforte e Venezia. Il figlio Guglielmo I° Sordi fu il primo conte infeudato di Torcello nel 1623, contea acquistata dal nonno materno Camillo Becchio di Occimiano da Francesco Fassati di Balzola nel 1576. I Fassati (o Fassato) discendevano dai Sordi, nominati promiscuamente conti di Torcello e Coniolo che nel 1530 acquistarono il primo cascinale di Balzola con Giovanni Francesco, marito di Isodina Sannazzaro dei conti di Giarole.
Illustre parentela fu generata dalla marchesa Fulvia Maria Fassati, figlia del governatore di Casale Evasio Ottaviano marchese di Coniolo e Balzola e di Cecilia Natta (figlia del conte Vincenzo di Fubine) con il primo marchese di San Giorgio Fabrizio Gozzani, nonno di Giovanni Battista che edificò il palazzo casalese San Giorgio, attuale sede
comunale. Nel 1705, in occasione del matrimonio, Fulvia ebbe in dote dal padre la Communa di Altavilla, proprietà redatta dall’agrimensore Pietro Francesco De Giovanni di Torcello con atto rogato dal notaio Evasio Bellati nello stesso anno.
Luigi Guglielmo III° Sordi conte di Torcello, signore di Coniolo e Rosignano, sindaco di Casale nel 1832 e gentiluomo da camera di sua maestà Carlo Alberto, generò una importante parentela con i Gozzani casalesi sposando Clara Maria Teresa, figlia del marchese di Treville Luigi Gaetano e di Carlotta Tarsilla, figlia del marchese Faussone Scaravelli di Montaldo (Mondovì), sepolta nel sepolcreto di San Germano.

Di rilievo il matrimonio del conte di Conzano Pio Gerolamo Vidua con Marianna Gambera, figlia dei conti Fabrizio Bernardino e Paola Gaspardone (figlia del conte Onofrio Del Carretto) cugina del marchese Giovanni Gozzani di Treville marito di Lucrezia Gambera, edificatore all’inizio del ‘700 dello splendido palazzo Treville di Casale progettato da Giovanni Battista Scapitta, nonno di Vincenzo Scapitta agrimensore delle proprietà Gozzani.
Il conte di Conzano Carlo Domenico Giuseppe Maria Vidua, figlio di Pio cresciuto dai nonni materni Gambera dopo la prematura scomparsa della madre Marianna, fu collezionista ed esploratore (unitamente ad un cugino Gozzani) e la città di Torino, a cui sono state donate collezioni e raccolte, gli ha intitolato una via nella zona San Donato. Leggende monferrine narrano di indagini commissionate dal re Vittorio Emanuele I° sul simbolismo dei Gozzani di Casale, effettuate da Guglielmo Sordi e Pio Gerolamo Vidua, le cui conclusioni sono opposte allo studio eseguito dall’autore sugli ipotetici blasonatori di Corte.
Armano Luigi Gozzano

Torino città del cioccolato: apre il museo Choco Story. Storia e segreti di una delizia

 

Dalla domanda su quale città italiana poteva essere la principale candidata a ospitare il Museo del Cioccolato, se non Torino, a cui è tradizionalmente legata da secoli, nasce Choco Story Torino.

Inaugurato ieri, alla presenza del sindaco Stefano Lo Russo e degli assessori al commercio Paolo Chiavarino e al turismo Domenico Carretta, il Museo del Cioccolato e del Gianduja apre così le sue porte per svelare e raccontare al pubblico l’affascinante quanto gustoso mondo del cioccolato.

Come viene coltivato il cacao? Come si passa dalla pianta al cioccolato fondente? Sono domande che trovano risposta lungo il percorso museale studiato e realizzato nei locali che un tempo erano i grandi laboratori sotterranei della storica pasticceria Pfatisch di via Sacchi 38.

Qui i visitatori potranno fare un “viaggio” appassionante e coinvolgente, ideato per intrattenere un pubblico di ogni età, che consente di esplorare le origini della coltivazione del cacao, le prime ricette dei Maya e degli Aztechi, l’importazione in Europa e naturalmente la nascita della grande tradizione artigianale di Torino e del Piemonte.

L’esposizione diventa così un racconto articolato sul legame tra Torino e il cioccolato, composto da numerose attività interattive e da oltre 700 oggetti, tra antichi strumenti per le lavorazioni di cioccolato e zucchero, tazze, cioccolatiere e confezioni delle grandi cioccolaterie piemontesi, oltre che da alcune sale che approfondiscono i diversi aspetti storici legati al consumo e alla produzione dell’alimento; ne sono esempi la stanza in cui si rievocano i tempi in cui i Savoia ebbero per primi il privilegio di gustare il cioccolato in forma di bevanda, come quella interamente dedicata alle nocciole del Piemonte, nella quale fanno bella mostra un macchinario di fine ‘800 per la sgusciatura dei frutti e un originale costume di Gianduja, simbolo del Carnevale Torinese messo a disposizione dalla Famija Turineisa, o ancora gli spazi dedicati alla mera produzione, allestiti con originali macchine in uso ad inizio ‘900 e ancora oggi perfettamente funzionanti.

I visitatori troveranno quindi un percorso ricco, pieno di attività interattive, che trova la sua conclusione su alcune vetrate direttamente affacciate sui laboratori artigiani che permettono di osservare il lavoro di veri maestri cioccolatieri, dei quali è poi anche possibile assaggiarne la produzione.

Insomma Choco Story Torino si candida come tappa consigliata, tanto per i torinesi quanto per i turisti con la passione del cioccolato o semplicemente curiosi.

«Come amministrazione – ha detto il sindaco di Torino Stefano Lo Russo – non possiamo che essere attenti verso la tutela e la valorizzazione di un prodotto così rappresentativo per Torino. La tradizione del cioccolato è parte integrante della storia e della cultura di questa città e una delle eccellenze che la rendono nota nel mondo. Per questa ragione non possiamo che essere lieti di questa nuova apertura: un museo che celebri la storia del cioccolato torinese e l’importante tradizione dei maestri cioccolatieri sarà un ulteriore elemento di attrattività per Torino e meta da non perdere per torinesi e turisti.»

“Torino è la vera capitale italiana del cioccolato – ha affermato l’assessore al Commercio Paolo Chiavarino – e questo museo celebra il ruolo importantissimo che il cioccolato gioca nella storia della nostra città e dell’Italia intera. Sono convinto che la ricaduta economica del cioccolato sulla città non vada sottovalutata bensì incoraggiata. Questa inaugurazione è un riconoscimento  che sottolinea una volta di più la straordinarietà di Torino e della nostra Regione”

“Sono certo – ha detto l’assessore al Turismo Domenico Carretta – che l’apertura del Museo del Cioccolato e del Gianduia contribuirà a far conoscere l’importante ruolo che Torino ha avuto nella creazione e diffusione del cioccolato. È di fondamentale importanza dare valore alla storia e ai luoghi storici della nostra città, come i grandi laboratori sotterranei di Pfatisch, che hanno contribuito in modo significativo alla produzione e alla tradizione del cioccolato. Invito tutti i torinesi e i turisti a visitare il museo per immergersi nella ricca storia e tradizione di questo prodotto, con l’augurio che possa diventare una destinazione imperdibile per tutti gli amanti del cioccolato e della storia di Torino”.

TORINO CLICK

Cristina di Francia, i torinesi la chiamavano Madama Reale

Ma chi era costei? Come la piazza con il suo tradizionale mercato, anche la via, in zona San Salvario Valentino, signorile e commerciale al tempo stesso, amata dai torinesi, trae il nome dalla famosa Madama Cristina, la prima “Madama Reale”. Cristina di Francia (Parigi 1606 -Torino 1663), figlia di Enrico IV re di Francia e di Maria de’ Medici sposò nel 1619, appena tredicenne, Vittorio Amedeo I di Savoia. Rimasta vedova nel 1637 le venne affidata la reggenza dello Stato e per mantenere il potere si scontrò prima con il cognato Tommaso I, principe di Carignano, e poi con il cardinale Richelieu che intendeva annettere il Piemonte alla Francia. Dopo undici anni di reggenza Cristina di Francia consegnò i domini sabaudi al figlio Carlo Emanuele II. Fin qui, in sintesi, le tappe principali della sua vita, ma quello che oggi ci interessa è capire perché i torinesi le erano molto affezionati pur non essendo torinese né italiana. Bella, intelligente e colta, un carattere vivace, l’ingresso di Cristina in Piemonte è a dir poco spettacolare. Cala infatti in Piemonte in modo pirotecnico nel 1619 per sposarsi. Sul lago del Moncenisio, a 2000 metri di altezza, viene organizzata in suo onore una “battaglia navale” con zattere trasformate in galee mentre i fuochi di artificio simulano il fragore del combattimento. Un grande spettacolo che la principessa segue da un palazzo di legno eretto sulle montagne innevate, in fretta e furia, dall’architetto Amedeo di Castellamonte.
“La spettacolarità della scenografia e la suggestione del luogo, osserva Gianni Oliva, studioso dei Savoia, rappresenta l’esordio di una presenza esuberante e dispendiosa, che trasforma la corte di Torino in un continuo palcoscenico sul modello del Louvre”. L’ingresso a Torino non è da meno, anzi è trionfale. Archibugieri a cavallo, battaglioni di fanti e squadroni di cavalieri scortano il corteo nuziale tra ali di folla entusiasta verso il Duomo e poi al palazzo ducale in piazza Castello. Sono giorni di grandi festeggiamenti con ricevimenti, banchetti, balletti e spettacoli teatrali, neanche tanto inferiori a quelli parigini. Comincia così la vita torinese di Cristina di Francia, la prima “Madama Reale”. Erano nozze combinate quelle tra Cristina e Vittorio Amedeo, come accadeva a quei tempi tra famiglie nobili, ma nonostante fossero organizzate e malgrado la differenza d’età è stato un matrimonio sereno. Feste e passeggiate nei parchi cittadini, visite a palazzi e castelli e la caccia nei boschi a cui Cristina partecipava insieme al marito. Le giornate trascorrevano tranquillamente e la giovanissima Madama Reale si muoveva a suo agio in un ambiente festaiolo che le ricordava gli anni dell’adolescenza trascorsa a Parigi. Sono sei i figli che Cristina dà al marito ma la loro vita insieme dura poco. Vittorio Amedeo muore nel 1637, forse febbre malarica o avvelenamento, resta il dubbio. Cristina aveva solo 31 anni, tutto il tempo per sposarsi di nuovo e vivere tante altre avventure sentimentali. Che dire allora degli amori veri o presunti della Madama Reale? Anche con il consorte vivo la duchessa ebbe varie relazioni extraconiugali e ciò accadeva soprattutto quando il marito era lontano, impegnato sui campi di battaglia. Ambasciatori, cardinali…alcune relazioni sono vere, tante altre sono inventate. Ma il suo grande amore, l’unico della sua vita, è stato il conte Filippo San Martino di Agliè, appartenente a una delle più importanti famiglie della nobiltà piemontese. Un amore a prima vista, da romanzo.
Tutti sapevano a corte, anche il marito di Cristina, ma si preferì tacere per evitare uno scandalo. Filippo, 24 anni, rinuncerà per lei perfino alla carriera militare e sceglierà di restare vicino alla donna amata nei difficili anni della Reggenza. Filippo viene descritto dalla stessa Cristina come “un gentiluomo bello e spirituale con l’aria di un ragazzo di 18 anni”. Sta di fatto che lui si legò a lei per tutta la vita diventando non solo il suo amante ma anche il suo consigliere politico e consulente artistico. Una vita spesa al servizio di “Madama Reale”, come sempre la chiameranno i torinesi. La duchessa Cristina morirà nel 1663, quattro anni prima del conte Filippo che si spegnerà il 19 luglio 1667 all’età di 63 anni a Palazzo Madama. Filippo visse oltre metà della sua esistenza al fianco della donna più potente di Torino. Prima della chiusura il fratello inserì nella bara alcuni oggetti cari al conte come due piccoli fornelli da pipa regalati da Cristina. Ebbene, durante una serie di restauri al Monte dei Cappuccini nel 1989 la sorpresa e l’emozione furono grandi. D’improvviso venne alla luce uno scheletro con, di fianco, due fornelli da pipa: sono i resti di Filippo d’Agliè le cui spoglie sono state collocate nella chiesa di Santa Maria al Monte dei Cappuccini. Il conte guarda dall’alto Torino e poco più sotto, nella chiesa di Santa Teresa, nella via omonima, in una piccola nicchia riposa la sua Madama Reale.
Filippo Re
Nelle foto,
Cristina di Francia, la “Madama Reale”
Vittorio Amedeo I
conte Filippo d’Agliè
Torneo in piazza Castello per le nozze tra Vittorio Amedeo I e Cristina di Francia  (Galleria Sabauda, Torino)

Cioccolato e Gianduja. Ci siamo, il museo che mancava a Torino aprirà il 26 giugno

Ci siamo, il museo che mancava a Torino aprirà il 26 giugno prossimo, infatti inaugura  CHOCO Story, MUSEO DEL CIOCCOLATO E DEL GIANDUJA.
Per un bel progetto nato dalla collaborazione tra Francesco Ciocatto, proprietario della storica Pasticceria Pfatisch di Torino, ed Eddy Van Belle, imprenditore belga creatore del marchio del cioccolato Belcolade dell’azienda di famiglia Puratos, nasce Choco Story Torino.
I musei Choco Story, creati da Eddy Van Belle, sono già presenti in Belgio, Francia, Repubblica Ceca, Libano e Messico. Choco Story Torino è il Museo del Cioccolato e del Gianduja, e sta per aprire le sue porte in un punto non casuale della città: Via Paolo Sacchi 38, in quelli che originariamente erano i grandi laboratori sotterranei di Pfatisch.
Del resto quale città meglio che la capitale Sabauda poteva ospitare un museo che racconta la storia del cioccolato e fa rivivere la sua storia, le origini, la lavorazione, e le esperienze sensoriali collegate?
Nel 1678 Madama Reale Giovanna Battista di Savoia Nemours, madre di Vittorio Amedeo II, rilasciò la prima licenza a Giovanni Antonio Ari per commercializzare la bevanda al cioccolato. Per oltre un secolo la cioccolata quindi era solo consumata in forma di bevanda. Poi, a inizio ‘800, Paul Caffarel creò il primo impasto solido di cioccolato, a cui seguì la creazione della pasta Gianduja con l’unione della Nocciola Tonda Gentile delle Langhe e a metà secolo la conseguente creazione del tipico cioccolatino per mano di Michele Prochet in società con Caffarel. E ancora la nascita di luoghi significativi come i caffè storici di Torino, in cui la cioccolata in tazza, o il Bicerìn tanto amato da Cavour: il cioccolato era ormai entrato nel cuore dei torinesi.
Questo museo si estende in un  percorso ideato per intrattenere visitatori di ogni età .La visita consente di esplorare le origini della coltivazione del cacao, le prime ricette dei Maya e degli Aztechi, l’importazione in Europa e la nascita della grande tradizione artigianale a Torino e in Piemonte. Oltre 700 oggetti della collezione testimoniano questo viaggio straordinario: molinillos, metate, strumenti per la lavorazione dello zucchero, tazze e cioccolatiere, confezioni delle grandi cioccolaterie piemontesi. Il viaggio comincia dal principio, all’interno della sala dedicata alla scoperta e ai primi sviluppi della coltura del cacao. Il racconto sulle sue mitiche origini e sulle divinità che lo hanno donato agli uomini avviene nella cornice suggestiva della ricostruzione di un tempio Maya. Per scoprire come Hernán Cortés abbia per primo portato in Europa il prezioso ingrediente, ci si imbarca su di un galeone spagnolo, dotato di carte nautiche tutte da esplorare e di una solerte vedetta che annuncia l’arrivo nel Nuovo Mondo. Ma come viene coltivato il cacao? Come si passa dalla pianta al cioccolato fondente? Lo si può scoprire stando comodamente seduti su un divano fatto interamente di fave di cacao e osservando un globo interattivo che racconta l’evoluzione del mercato globale, quali varietà di cacao esistono e quali sono i paesi che lo producono. Non poteva mancare il racconto del legame tra Torino e il cioccolato: una sala rievoca i fasti delle regge dove i Savoia ebbero per primi il privilegio di gustare un alimento esotico, misterioso e a dir poco irresistibile, in forma di bevanda. E come non dare un degno spazio al racconto dell’invenzione del Gianduiotto? Al primo cioccolatino incartato al mondo, e oggi riconosciuto come un prodotto IGP, è dedicata un’intera sala, arricchita da un macchinario di fine ‘800 per la sgusciatura delle preziose nocciole del Piemonte e da un costume originale di Gianduja, simbolo del Carnevale Torinese, e gentilmente concesso dalla Famija Turineisa.
Ma non basta conoscere le virtù del cioccolato. Bisogna anche entrare nelle viscere di una fabbrica, del suo processo produttivo ed immaginare il lavoro di tanti pasticceri, uomini e donne, che hanno dedicato la propria opera ad un ingrediente d’eccellenza. Ed è per questo che è possibile ammirare il vero valore aggiunto di questo museo: le macchine in uso già nel 1921 e oggi ancora perfettamente funzionanti, che sono custodite all’interno di un Locale Storico d’Italia come Pfatisch. Si entra qui davvero in un angolo della storia dell’artigianalità che, come molti tesori torinesi, a lungo è rimasto nascosto e per questo è ancora più entusiasmante da scoprire. Ed è tanto coinvolgente guardare al passato quanto poter osservare come oggi lavorino i maestri cioccolatieri: attraverso alcune vetrate infatti è possibile vederli all’opera e avere il privilegio di poter assaggiare le loro creazioni.
Per rendere l’esperienza ancora più memorabile, il museo offre numerose attività interattive, installazioni e giochi multimediali didattici che permettono di immergersi completamente nel racconto e che sono adatti a coinvolgere un pubblico di tutte le età. Il cioccolato accompagna molti momenti della nostra vita: Choco Story vuole esserne la celebrazione attraverso l’intrattenimento. Per questo motivo, il percorso museale è stato realizzato con una concezione di coinvolgimento attivo del visitatore, attraverso tecnologie innovative e momenti di condivisione, fornendo un’esperienza didattica efficace anche per i ragazzi delle scuole. Un luogo di concezione e richiamo internazionali, per torinesi e turisti innamorati del cioccolato in tutte le sue interpretazioni. Inoltre, lungo il percorso del museo sono presenti anche quattro video ad ambientazione storica con la regia di Alessandro Rota, realizzati in stretta collaborazione con Eddy Van Belle e Francesco Ciocatto. Le riprese sono state realizzate con la sinergia tra l’Associazione Officine Ianós e il gruppo di rievocazione storica “Le Vie del Tempo”, in importanti location storiche come la Palazzina di Caccia di Stupinigi, l’Accademia di Belle Arti di Torino e la Casaforte di Chianocco. Attraverso vere e proprie ricostruzioni cinematografiche si ripercorre la storia del cioccolato in Europa a partire dal XVI Secolo fino ad arrivare al 1915, anno della nascita della storica pasticceria Pfatisch e in cui fa la sua comparsa anche una storica vettura dell’associazione Torinese Tram Storici. Choco Story Torino è pronto ad accogliere i visitatori internazionali con un’audioguida disponibile in Italiano, Inglese, Francese, Spagnolo e Tedesco.
L’inagurazione è prevista per mercoledì 26 giugno e già dal giorno successivo sarà aperto al pubblico.
La Direzione del museo è affidata a BEATRICE CAGLIERO, giovane ,  sensibile e determinata torinese che vanta avi cioccolatieri.

Gabriella Daghero

I portici, che invenzione!

I privilegiati passaggi di Torino realizzati in quattro secoli di storia

Caldo rovente, freddo e pioggia, i portici sono un passaggio sicuro in qualsiasi stagione e a qualsiasi temperatura. Adornati da bei negozi, eleganti ristoranti e bar, librerie e ogni tipo di esercizio commerciale, queste gallerie sono un rifugio protetto, ma anche una ariosa e piacevole veranda sulla citta’. A Torino ne abbiamo ben 18 chilometri, di diversi stili e materiali, quelli in pietra grigia di via Po che sfociano da una parte su piazza Castello e dall’altra su piazza Vittorio Veneto, i razionali di via Roma costruiti in marmo, quelli di via Cernaia e via Pietro Micca (la Diagonale) realizzati con uno stile eclettico e decorati da soffitti colorati.

Quale e’ stata la genesi dei portici torinesi? E perche’ furono costruiti?

La ragione era “nobile” ovvero permettere ai regnanti e alla coda aristocratica di passeggiare per la citta’ stando sempre al riparo. La costruzione dei portici, tuttavia, rientrava anche in un preciso disegno politico che voleva trasformare Torino da una citta’ di provincia in una rispettabile capitale, in un luogo rappresentativo e magnifico; costituiscono, inoltre, un fenomeno architettonico unico che ha dato vita ad una zona pedonale molto estesa, la piu’ grande d’Europa. I primi portici di Torino risalgono al periodo medievale ed erano siti a piazza delle Erbe, oggi Palazzo di Citta’, ma solo nei primi anni del 1600 per volonta’ di Carlo Emanuele I di Savoia venne realizzato il porticato di piazza Castello con un progetto di Ascanio Vittozzi, artefice di altre importanti ristrutturazioni.

L’edificazione prosegui’ con gli archi che arrivano fino a piazza San Carlo mentre un secolo dopo vennero ridisegnati, da Benedetto Alfieri, quelli di piazza Palazzo di Citta’. Nel 1800, poi, furono completate le volte di Piazza Castello, piazza Carlo Felice e piazza Statuto e per creare una uniformita’ strutturale e di design anche le due stazioni ferroviarie di Torino, Porta Nuova e Porta Susa, vennero dotate di deliziosi portici.

Negli anni ’30 del secolo scorso ci fu la ristrutturazione dei porticati di un tratto di via Roma in seguito alla demolizione e alla ricostruzione completa di alcuni isolati che vide la rimozione di diversi antichi impianti romani e medievali collocati poi nei musei cittadini. Tra gli ultimi (in senso temporale) passaggi coperti edificati ci sono quelli di piazza Bodoni, piu’ semplici e sobri rispetto agli analoghi monumentali e maestosi.

La storia dei portici di Torino, dunque, copre quattro secoli di storia, rappresenta la volonta’ di fare di Torino una citta’ monumentale, il proposito di creare un modello architettonico urbano funzionale ed originale, ma anche fiero e sorprendente grazie alla varieta’ degli stili di questi iconici passaggi, da quelli piu’ regali a piazza San Carlo a quelli vivaci e particolareggiati di via Pietro Micca. I piu’ famosi e amati rimangono, comunque, quelli di via Po, realizzati da Amedeo di Castellamonte in pieno periodo Sabaudo, che mettono in comunicazione la parte vecchia di piazza Castello con il Po e la Collina regalando a chi li percorre scorci di unica bellezza.

Il fascino e il valore razionale dei portici ha colpito molti personaggi celebri come Mark Twain che diceva, nel 1880: «si cammina dall’una all’altra di queste spaziose vie sempre al riparo” o Giorgio De Chirico che affermava “Questi portici danno alla città l’aria di essere stata costruita apposta per le dissertazioni filosofiche”.

Il loro charme e’ indiscutibile, ma e’ evidente anche la loro vocazione sociale, sotto i portici, infatti, le persone passeggiano, si incontrano, frequentano i caffe’ e i ristoranti sempre protetti dalla pioggia, ma anche dai bollenti raggi del sole estivi. Queste vie privilegiate simboleggiano il cuore di Torino, la sua storia, la vita sobria e allo stesso tempo vibrante di questa unica citta’.

Maria La Barbera