STORIA- Pagina 21

Il Conte Verde torna al Moncenisio con i suoi cavalieri

È un salto nel passato medioevale di Moncenisio che festeggia i suoi 800 anni dalla fondazione nel 1224. Incastonato in Val Cenischia lungo la via Francigena Moncenisio si chiamava un tempo Ferrera Cenisio. Amedeo VI di Savoia, detto il Conte Verde, è l’assoluto protagonista dello spettacolo equestre che ogni anno nel piccolo comune (51 residenti) richiama centinaia di turisti e villeggianti. La festa, animata dal Gruppo storico dei cavalieri del Conte Verde, rievoca i viaggi e le spedizioni compiute da Amedeo VI per visitare i suoi numerosi possedimenti a cavallo delle Alpi. Per l’occasione i personaggi che danno vita allo spettacolo sono tutti rigorosamente vestiti di verde, destrieri compresi. Fin da ragazzo infatti Amedeo partecipava ai tornei equestri indossando abiti di colore verde. È il gran giorno del Conte Verde e dei suoi fedeli cavalieri tornati a Moncenisio dopo una lunga cavalcata attraverso le Alpi. Ognuno rappresenta un personaggio d’epoca con costumi medievali e con accampamenti, vessilli e spade che riproducono quelli originali curati in ogni dettaglio. Più volte in questi anni il gruppo storico ha attraversato le antiche strade delle terre dei Savoia sostando nelle dimore e nei castelli reali che si trovano lungo il percorso.

Da Torino a Chambéry e fino ad Altacomba, l’abbazia dove è sepolto Amedeo VI. È suggestiva e affascinante la rievocazione storica del passaggio del Conte Verde al valico del Moncenisio. Sono stati tanti i viaggi compiuti da Amedeo VI su e giù per le Alpi. Nell’autunno del 1350 accompagnò la sorella Bianca attraverso la Maurienne e il Colle del Moncenisio (2083 metri) in occasione del matrimonio di Bianca con Galeazzo Visconti, celebrato a Rivoli. Alcuni anni dopo valicò nuovamente il Moncenisio per accompagnare la nipote Isabella di Valois promessa sposa a Gian Giacomo Visconti. Non appagato dalle fatiche piemontesi il Conte Verde decise di trasferirsi nel vicino Oriente, di andare all’avventura in terre a lui sconosciute e di combattere contro nemici molto potenti, i turchi ottomani, la superpotenza dell’epoca che cominciava a penetrare nei Balcani. Si tratta della celebre spedizione in Oriente (giugno 1366 -luglio 1367) immortalata nell’imponente monumento di Pelagio Palagi di fronte al Municipio di Torino. La statua al Conte Verde in piazza Palazzo di Città ricorda appunto la sua partecipazione alla crociata contro turchi e bulgari. Fu una decisione presa sull’onda dell’entusiasmo e del fervore determinato dalle notizie che filtravano in Europa sull’espansione turca a danno dell’Impero bizantino e anche per la stretta parentela che univa Amedeo al cugino Giovanni V Paleologo prigioniero dei bulgari. Il Conte conquistò Gallipoli sullo stretto dei Dardanelli e la restituì ai bizantini dopo aver liberato Giovanni V imperatore d’Oriente. L’ultimo viaggio del Conte Verde attraverso il valico del Moncenisio avvenne nel 1383 quando la sua salma (morì di peste durante l’ennesima campagna militare) fu portata a Lanslebourg scortata con tutti gli onori dai suoi cavalieri e da lì ad Hautecombe dove fu sepolto.

Filippo Re

“Teatri e teatrini”, curiosità e bozzetti nella Torino del ‘700 e ‘800

Sino al 9 settembre, nella Corte Medievale di palazzo Madama

Una curiosità: il ventaglio (pergamena dipinta ad acquerello e stecche in avorio) che raffigura il Teatro Regio e il Teatro Carignano (Arlecchino e Balanzone in scena), nelle sue due facce, con i palchi e i nomi degli occupanti nella stagione teatrale del 1780 – 1781, una preziosa fonte di reddito, i posti centrali, più costosi, vengono occupati stabilmente dalle famiglie aristocratiche. È uno dei quaranta oggetti che compongono, nella Corte Medievale di Palazzo Madama (sino al prossimo 9 settembre, gli appassionati di teatro dovrebbero farci la fila), la mostra “Teatri e teatrini. Le arti della scena tra Sette e Ottocento nelle collezioni di Palazzo Madama”, con l’affettuosa quanto lodevolissima cura di Clelia Arnaldi di Balme (“un’idea avuta un paio di anni fa, la ricerca nei depositi e negli archivi e la difficoltà a farmi largo in mezzo a tutto un materiale che amavamo rimettere sotto gli occhi del visitatore, le esigenze soprattutto delle scelte”), un mondo dell’arte dove non soltanto hanno trovato posto le grandi regie e i nomi di certi divi, ma quanto per lunghi decenni, per secoli, ha interessato le messe in scena degli spettacoli (vicino a noi, un ricordo per tutti, la maniacalità di un Visconti o i nudi piani inclinati di uno Svoboda) che entravano nei raffinati teatri di corte e negli apprezzati teatrini di marionette. Poi, accanto, in un generale allestimento di ampio respiro (vivaddio, felice anche per l’impiego di teche e supporti trasportabili che potrebbero essere impiegati anche in successive occasioni, in ossequio alla sacrosanta legge del finché si può non buttiamo niente alle ortiche), il dipinto di Giovanni Michele Graneri a rappresentare l’interno del Regio torinese, anno di grazia 1752, durante la rappresentazione del “Lucio Papirio”, con gli attori cantanti e l’orchestra in primo piano, un’illusione di archi di colonne di fughe incalcolabili che certo dovevano afferrare l’attenzione dei nobili e dei borghesi affacciati dai palchi e seduti nelle poltrone di platea, allietati durante la rappresentazione di camerieri che offrivano frutti e bibite: con buona pace di chi oggi storce il naso se in certe nostre sale teatrali circolano bibite o acque minerali.

Opere la cui sistemazione storica e bibliografica la si deve allo studio e alla passione e alla fatica quotidiana di Mercedes Viale Ferrero (1924 – 2019), figlia di quel Vittorio Viale, forse troppo presto dimenticato, che fu direttore del Museo Civico d’Arte Antica di Torino dal 1930 al 1965 e per il quale il direttore Giovanni Carlo Federico Villa, nel compimento del suo terzo anno di guida, facendo gli onori di casa, ha entusiastiche parole di apprezzamento: “Io non esito a definire Viale il più grande direttore di Musei Civici del suo tempo e non solo, non italiano ma a livello europeo, per cui sarebbe ora che le autorità e il pubblico torinese prendessero finalmente coscienza della grandezza di un tale studioso.” Nel 2024 si celebra il centenario della nascita di Mercedes Viale e a lei e alla sua indimenticabile passione per la storia del teatro è dedicata la mostra.

Il principe e l’impresario che agivano nel Settecento erano consapevoli che i cambi di scena, definiti “comparse”, per il maggior divertimento del pubblico dovevano essere “molte, meravigliose e varie”, e che non soltanto le musiche e i testi determinavano il successo di un’opera, le scenografie dovevano rispecchiare originalità e le macchine teatrali dovevano spingere all’ammirazione, opera di persone ingaggiate per una unica stagione, con contratti rinnovabili ma non fissi: anche se i puristi guardassero a esse come a un motivo di distrazione dall’ascolto della musica e finissero con quasi ripudiarle. Innegabile che la grandezza delle costruzioni, nel pubblico come nel privato, dovesse confrontarsi con un sempre precario sistema economico. “Nell’Ottocento – ricorda Arnaldi di Balme – gli spettacoli presero a circolare in un tessuto teatrale allargato, in cui la stessa opera veniva rappresentata contemporaneamente in sale e città diverse. I teatri non erano più privilegio di pochi, si moltiplicavano numerosi sul territorio ed erano affollatissimi. Per il carnevale del 1858 a Torino si diedero ben 28 opere in musica in cinque teatri; nel 1860 si rappresentarono 46 opere in nove sale. E la città contava allora circa 200.000 abitanti.”

Atri vastissimi, palazzi, archi di trionfo, studi di scultori e progetti di cucine, sepolcri e alcove e antri delle streghe, giardini intesi come intrattenimento, selve come luoghi di smarrimento e boschetti ad ospitare solitudini e confidenze: questo e molto altro è progettato e rappresentato nei disegni che si snodano al centro e lungo la Corte Medievale. Sono la prova della lunga attività che accompagna la preparazione della stagione che si apriva il 26 dicembre e si concludeva con la fine del Carnevale. Con la scelta dei libretti, l’ingaggio degli scenografi che tra luglio e agosto dovranno presentare al direttore di scenario i bozzetti delle tante trasformazioni richieste, la realizzazione delle scene e il montaggio in autunno: il giorno della prova è il 26 novembre, un mese esatto prima della serata inaugurale, coreografo compositore cantanti e ballerini fanno prove separate, finché tutti si ritrovano insieme tre giorni prima dello spettacolo per le prove generali: e si va in scena. Dai bozzetti di Filippo Juvarra (uno per tutti, la “veduta romana” del 1722, in occasione delle feste ideate e coordinate dallo stesso per le nozze di Carlo Emanuele III con Anna Cristina Luisa di Sultzbach, per la rappresentazione del “Ricimero” nel teatro del principe di Carignano prima e poi nel teatrino del Rondò con cinque recite riservate alla corte) ai disegni dei fratelli Galliari, Bernardino Fabrizio e Giuseppe (uniche generazioni a collaborare con il Regio per tutta la seconda metà del Settecento, di quest’ultimo il “Magnifico padiglione di Annibale”, penna e acquerello su carta del 1792, per la scena VII di “Annibale in Torino” musicato da Nicola Zingarelli, dove i Taurini sono i più moderni Sabaudi stretti attorno al loro sovrano nel timore dei recenti eventi successi in Francia), a quelli di Pietro Gonzaga e Pietro Liverani, questi soltanto quindicenne scenografo titolare del Teatro di Faenza, realizzazioni per i teatri di Torino, Milano e Parma dal 1750 a tutto il secolo successivo, dove ogni elemento è invenzione, precisione, ricerca di una bellezza che potesse poi trovare il proprio spazio in palcoscenico.

Anche il teatro di marionette era una forma di spettacolo molto amata, soprattutto nel corso del XIX secolo. In mostra cinque fondali per teatrini tra i quindici giunti a palazzo Madama nel 1984 dalla collezione di Mario Moretti, esperto d’arte, di musica e di teatro, da lui tolti dalla polvere di un deposito, acquistati e restaurati. Ancora montati sulle bacchette originali, alcuni ancora a mostrare le giunture di tela per l’adattamento a questo o a quel palcoscenico, provengono dal teatro detto di San Martiniano in via San Francesco d’Assisi a Torino (nelle vicinanze di piazza Solferino), presso la chiesa omonima oggi non più esistente, luogo d’attività della compagnia Lupi – Franco, fondali che tratteggiano attualità storica e ideali risorgimentali, rappresentazioni orientali che incontrano il gusto del pubblico, “Reggia egiziana” di Giovanni Venere o la “Reggia persiana” di Giuseppe Toselli, entrambe negli anni 1840 – 1844, anni in cui collaborano con Giuseppe Morgari in San Martiniano, spettacoli sconosciuti ma legati alla piacevolezza di un mondo favoloso e misterioso.

Elio Rabbione

didascalie:

Giovanni Michele Graneri (Torino 1708 – 1762), “Interno del teatro Regio”, 1752, olio su tela, Palazzo Madama; Bernardino (Andorno 1707 – 1791) e Fabrizio Galliari (Andorno 1709 – Treviglio 1790), “Luogo magnifico terreno nella reggia di Alessandro” (per “La vittoria d’Imeneo” rappresentato nel 1750 al Teatro Regio di Torino per le nozze di Vittorio Amedeo III di Savoia), 1750, disegno a penna, pennello e inchiostro bruno, acquerello grigio su cartoncino, Palazzo Madama; Giuseppe Toselli (Peveragno, attivo dal 1835), “Reggia Persiana”, fondale per teatrino di marionette San Martiniano di Torino, 1840 – 1844, Palazzo Madama; “Ventaglio pieghevole con interno del Teatro Carignano”, 1780, pergamena dipinta ad acquerello, avorio, Manifattura torinese, Palazzo Madama.

I primati della città / 5. Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente

 

Torino sul podio: primati e particolarità del capoluogo pedemontano

Malinconica e borghese, Torino è una cartolina daltri tempi che non accetta di piegarsi allestetica della contemporaneità.
Il grattacielo San Paolo e quello sede della Regione sbirciano dallo skyline, eppure la loro altitudine viene zittita dalla moltitudine degli edifici barocchi e liberty che continuano a testimoniare la vera essenza della città, la metropolitana viaggia sommessa e non vista, mentre larancione dei tram storici continua a brillare ancorata ai cavi elettrici, mentre le abitudini dei cittadini, segnate dalla nostalgia di un passato non così lontano, non si conformano allirruente modernità.
Torino persiste nel suo essere retrò, si preserva dalla frenesia delle metropoli e si conferma un capoluogo a misura duomo, con tutti i pro e i controche tale scelta comporta.
Il tempo trascorre ma lantica città dei Savoia si conferma unica nel suo genere, con le sue particolarità e contraddizioni, con i suoi caffè storici e le catene commerciali dei brand internazionali, con il traffico della tangenziale che la sfiora ed i pullman brulicanti di passeggeri sudaticci ma ben vestiti.
Numerosi sono gli aspetti che si possono approfondire della nostra bella Torino, molti vengono trattati spesso, altri invece rimangono argomenti meno noti, in questa serie di articoli ho deciso di soffermarmi sui primati che la città ha conquistato nel tempo, alcuni sono stati messi in dubbio, altri riconfermati ed altri ancora superati, eppure tutti hanno contribuito e lo fanno ancora- a rendere la remota Augusta Taurinorum così pregevole e singolare.

1. Torino capitale… anche del cinema!

2.La Mole e la sua altezza: quando Torino sfiorava il cielo

3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici

4. Torino e le sue mummie: il Museo egizio

5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente

6. Chi ce lha la piazza più grande dEuropa? Piazza Vittorio sotto accusa

7. Torino policulturale: Porta Palazzo

8.Torino, la città più magica

9. Il Turet: quando i simboli dissetano

10. Liberty torinese: quando leleganza si fa ferro

 

5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente

Ci si affacciava dalla palina della fermata, si osservava la strada dilungarsi verso l’orizzonte, poi si guardava l’orologio, poi ci si rivolgeva indietro, verso la tabella degli orari, ed infine si scambiavano sguardi sconsolati con gli altri astanti.
Si inventavano degli strani riti urbani nella speranza di far comparire il desiderato bus, chi camminava veloce verso la fermata successiva, chi improvvisava fantasiosi conti matematici sui possibili passaggi, c’era persino chi si accendeva una sigaretta, nella credenza che il fantomatico arrivo del mezzo avesse un fantasmagorico collegamento con il tipico gesto d’attesa.
Era ovviamente una stupidaggine, il tram non si palesava, ma si diceva così, secondo gli eterni insegnamenti della Legge di Murphy.
Sembra di parlare di un lustro addietro, quando fumare era già nocivo ma decisamente ancora troppo di moda perché la gente ci credesse sul serio. Tutto ciò succedeva prima di aver preso la patente e prima della vera indipendenza, durante quella parte di vita scandita dal passaggio dei trasporti pubblici, dalle lotte a suon di zaino sulle spalle per prendere d’assalto il bus subito dopo scuola, dalle corse forsennate per salire a bordo dell’ultimo tram serale, e poi i biglietti, la paura del controllore –e dai che è successo a tutti almeno una volta!- il posto vicino al finestrino, la deviazione del tragitto, la scusa perfetta per noi ritardatari: “perdonami, non passava il pullman”.


Una porzione di esistenza segnata dall’incertezza e dagli imprevisti, e forse è anche grazie a questo che noi, di qualche anno fa, abbiamo imparato a cavarcela!
Tuttavia, ad un tratto, a toglierci da questo impiccio è venuta in nostro soccorso la Metropolitana, effettivo segno di avanzamento tecnologico che ci pareggia alle altre megalopoli europee, un mezzo pulito, lindo, efficiente, veloce, niente più estenuanti attese allle fermate, niente più ressa nelle carrozze.
E poi ve lo ricordate? Lo stupore iniziale, quando tutti volevano provare l’ebbrezza della modernità stando seduti “ai posti davanti”, quelli “panoramici” e riservati –ahimè- ai bambini.
Un inaspettato passo in avanti verso il conformismo moderno, verso l’impagabile comodità, aspirazione che ci rende sempre un po’ più schiavi.
In quanto a grandezza e numerosità, non siamo di certo i primi dell’elenco, si pensi a Londra, con le sue dodici linee, a Milano e alle sue 4 linee e 111 stazioni – la metro di Milano è la più grande d’Italia, superando per estensione quella di Roma- alle tre linee arzigogolate di Napoli e persino alle 14 linee parigine.
Eppure le nostre due orgogliose linee metropolitane vantano un indiscusso primato tutto piemontese: la metropolitana di Torino è la prima in Italia ad essere dotata del sistema automatico VAL 208, (Veicolo automatico leggero), che non prevede conducente, con conduzione automatica gestita da una centrale, aspetto che di fatto la rende la più moderna non solo a livello italiano ma anche europeo.
Il progetto ha radici assai antiche, tutto inizia tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, grazie a personalità quali Riccardo Gualino, imprenditore e promotore piemontese e Marcello Piacentini, a cui si deve la progettazione del percorso di transito al di sotto di via Roma, piano tutt’oggi rispettato.
Tuttavia affinché l’idea si concretizzi è necessario attendere gli anni Novanta- Duemila, quando, grazie alle Olimpiadi invernali svoltesi a Torino, hanno effettivamente inizio i lavori.
Sembra un po’ la storia del “ritenta, sarai più fortunato”.
Negli anni Sessanta, nel contesto delle innovazioni apportate dalle celebrazioni di Italia ’61, si divulga un progetto ispirato alla Monorotaia, ma l’idea viene accantonata; negli anni Ottanta invece, si propone la “metropolitana leggera”, ossia cinque linee diramate in superficie con corsie preferenziali a collegamento dei vari quartieri cittadini, ma anche questa volta il proponimento non vede la luce, in questo caso per mancanza di fondi; arrivano gli ottimistici anni Novanta, si costruisce la Linea 9 in occasione dei Mondiali ’90, ma il tutto viene trasformato in una ordinaria linea tranviaria, ad eccezione della Linea 4, di fatto unica “metropolitana leggera” a tutti gli effetti e realizzata già a partire dal 1982.
Sempre negli anni Novanta, intorno al 1970, viene studiato un sistema per connettere le zone di Lingotto e Mirafiori, ma nuovamente le finanze non sono sufficienti; è ormai dicembre del 2000, quando il mondo punta gli occhi sulla minuta e borghese Torino, proprio a motivo delle Olimpiadi, e le alte sfere territoriali sono costrette a rispondere alla chiamata del Progresso.
Avviene così, il 4 febbraio del 2006, l’inaugurazione del primo tratto Collegno – Porta Susa.
Seguono poi ulteriori modifiche, altre tappe si aggiungono al percorso, le cui aperture spesso avvengono in concomitanza con avvenimenti di grande rilevanza, come il vernissage dell’ultimo tratto di percorrenza – fino a Lingotto- che ha avuto luogo durante le celebrazioni del 150° anno dell’Unità d’Italia.
Ci tengo, a nome dei miei concittadini della prima cintura –ed in particolare dei compatrioti Nichelinesi-, a sottolineare la data del 23 aprile 2021, quando, alla presenza del Sindaco Chiara Appendino, si svolge l’inaugurazione delle due fermate che prolungano la Linea 1 da Lingotto: Italia 61 e Bengasi.
Anche chi si trova nella lontana periferia può sentirsi un po’ più vicino ai privilegi del centro città.
Oltre alla questione tecnologica e di facilitazione dei trasporti, ad interessare la Metropolitana torinese vi è un discorso artistico: ogni stazione è decorata dalle opere di Ugo Nespolo, uno degli artisti italiani più importanti del panorama contemporaneo, convinto sostenitore del binomio artista-intellettuale, come dimostrano i suoi interventi in ambito di estetica e del sistema dell’arte, nonché attivo in diversi ambiti disciplinari, quali la pittura, la scultura ed il cinema.
Si chiama “Museo nel Metrò”, il progetto che interessa l’artista di Mosso e che si sviluppa parallelamente alla costruzione della linea metropolitana a partire dal 2006. Cuore dell’ideazione è il legame visivo e simbolico che si instaura, fermata dopo fermata, tra il mezzo di trasporto e la città soprastante: con tratti essenziali e ilari, nelle vetrofanie vengono raccontati, sotto forma di dirette e colorate illustrazioni impattanti, i luoghi, i personaggi e gli avvenimenti più importanti della storia civile e culturale del capoluogo piemontese, come ad esempio nella Stazione “Fermi”, all’interno della quale Nespolo compone un’opera elegante e unica, attraverso semplici elementi grafici che rimandano al celebre fisico, alle formule matematiche ed al mondo della scienza. Un ulteriore esempio è la fermata “Rivoli”, la cui vetrofania si rifà al Castello e alla raccolta di opere contemporanee contenute al suo interno, tra cui si riconoscono i riferimenti agli elaborati di Gilberto Zorio, Mario Merz, Keith Haring e Nicola De Maria. Assai particolare è anche “XIII Dicembre”, la cui decorazione riguarda la tematica del lavoro, la rimembranza
dei caduti del 18 dicembre 1922, attraverso la ripresa del quadro “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo, ridotto ad una manciata di siluette che avanzano sotto lo sguardo di esponenti della cultura torinese, tra cui Felice Casorati, Rita Levi Montalcini e Cesare Pavese.
Il tragitto non è tanto espanso, tuttavia non è nemmeno così breve da poter essere percorso in questa sede, fermata dopo fermata, per quanto ogni opera di Nespolo meriti un approfondimento adeguato.
I grandi lavori paiono a buon punto, anche se l’idea di ampliare il progetto c’è: ad oggi sono previsti diversi prolungamenti, tra cui, puntando verso ovest, la tratta Collegno – Cascine Vica -in cantiere, con tanto di lavori iniziati nel 2019-, altre tappe probabilmente riguarderanno Moncalieri, Rivoli e Rosta, San Mauro, Orbassano, con una certa attenzione verso alcuni luoghi fondamentali per la vita dei torinesi, come la FCA di Mirafiori, il Politecnico, l’ospedale San Giovanni Bosco e l’area industriale di Pescarito.
In sostanza, nessuno verrà lasciato a piedi, tanto più con l’ipotesi della Linea 3, che collegherà lo Juventus Stadium fino alla Reggia di Venaria Reale.
Insomma, cari amici ritardatari, un giorno non avremo più scuse per non essere puntuali, se non quella di essersi persi ad osservare le ipnotiche opere di Nespolo.

Alessia Cagnotto

 

 

Il Museo Egizio dedica un nuovo allestimento al corredo funebre della regina Nefertari

La seconda moglie di Ramesse

Ha inaugurato venerdì 9 agosto al Museo Egizio di Torino la nuova sala dedicata al corredo funerario della regina Nefertari. Si tratta di un allestimento curato da Enrico Ferraris, con la collaborazione di Cinzia Soddu e realizzato grazie al sostegno della Fondazione Crt, e che accoglie il ritorno al luogo di origine di quei reperti che per otto anni hanno viaggiato nei principali musei del mondo.

A centoventi anni dalla scoperta della tomba di Nefertari nella valle delle Regine, avvenuta nel 1904 ad opera di Ernesto Schiaparelli, allora direttore del Museo Egizio, il corredo verrà esposto nelle vetrine di inizio Novecento volute da Schiaparelli stesso.

Il riallestimento degli oggetti si accorderà ad un apparato testuale e a un video racconto, con disegni e foto d’archivio per restituire il contesto dei reperti provenienti dalla Valle delle Regine.

Per celebrare il ritorno di questo corredo il Museo Egizio ha invitato un ospite d’eccezione, Tarek Tawfik, presidente dell’Associazione Internazionale degli Egittologi e Direttore del Centro per gli Studi Archeologici e il Patrimonio Internazionale a Luxor. Alle 18 terrà una conferenza nella sala conferenze del Museo con ingresso libero, ma prenotazione obbligatoria.

MARA MARTELLOTTA

Prorogata la mostra “Palazzo Lascaris e i suoi abitanti”

La mostra storica e artistica intitolata “Palazzo Lascaris e i suoi abitanti”, allestita nelle sale del piano terreno di via Alfieri 15, è stata prorogata al 3 gennaio 2025. Orario di apertura: dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 17 (festivi e 16 agosto esclusi). Ingresso gratuito.

In questi mesi (la mostra è stata inaugurata il 25 marzo) centinaia di persone hanno apprezzato le ricerche storiche e gli approfondimenti legati ai quattrocento anni di vita di uno dei più sontuosi e meno noti palazzi barocchi del centro di Torino, trasformato nel tempo da residenza aristocratica in sede di uffici. La mostra ha la curatela del direttore della Fondazione Cavour di Santena Marco Fasano ed è stata allestita grazie ai numerosi prestiti di oggetti e documenti forniti dalla Camera di Commercio di Torino. Ai visitatori viene dato in omaggio il catalogo.

Il presidente Davide Nicco e l’intero Ufficio di presidenza del Consiglio regionale, che si è insediato lo scorso 22 luglio, ha deciso di prorogarne l’apertura per permettere ai nuovi consiglieri di conoscere la storia del palazzo che li ospiterà per i prossimi cinque anni ed anche per riaprire le visite alle scolaresche: al link http://www.cr.piemonte.it/prenotazionevisite/scuole/scegli-data le classi possono prenotare la visita gratuita il giovedì o il venerdì mattina tra il 26 settembre e il 20 dicembre 2024.

Peñarol, il Piemonte d’Uruguay. Storie di calcio e di emigrazione

Il nome deriva da Pinerolo e lo si deve a Giovan Battista Crosa che nel 1765 arrivò a Montevideo e fondò – insieme ad altri conterranei – il quartiere che , storpiando il nome del comune situato allo sbocco in pianura della Val Chisone, nel tempo, è diventato il “barrio” Peñarol

Nel 2016 a Montevideo il Club Atletico Peñarol ha festeggiato l’inaugurazione del suo nuovo stadio: 43.000 posti a sedere, attrezzato, moderno e con un area-museo dedicata alla storia  del club più prestigioso dell’Uruguay. D’ora in poi l’Estadio Campeón del Siglo celebrerà le gesta dei calciatori i maglia giallo-nera, ricordando il legame tra questa  squadra, tra le più vincenti del sudamerica, e il Piemonte.

Il nome Peñarol , infatti, deriva da Pinerolo e lo si deve a Giovan Battista Crosa che nel 1765 arrivò a Montevideo e fondò- insieme ad altri conterranei – il quartiere che , storpiando il nome del comune situato allo sbocco in pianura della Val Chisone, nel tempo, è diventato il “barrio” Peñarol. Una storia che è diventata uno spettacolo teatrale, grazie al testo curato da Renzo Sicco e Darwin Pastorin che,  grazie ad Assemblea Teatro, anima le scene con il progetto ”Peñarol, il Piemonte d’Uruguay:storie di calcio e di emigrazione”. Pinerolo, Peñarol: due nomi identici che in due lati del mondo in continenti lontani raccontano di emigrazione, povertà, lavoro, rinascita ..e calcio! Bella storia, quella del club che assume i colori sociali giallo e nero, ispirati a quelli delle barriere delle strade ferrate, essendo molti dei suoi fondatori dei “musi neri”, macchinisti delle ferrovie uruguaiane, per lo più italiani. Un legame profondo, segnato dalle storie d’emigrazione dalle terre piemontesi verso il “nuovo mondo”, dove la passione per il calcio si confonde con la storia in una città, capitale d’Uruguay, dove nelle vene della metà dei tre milioni di abitanti, scorre sangue italiano. I pinerolesi, come tanti altri abitanti delle valli e della pianura, andavano a Genova per imbarcarsi, spesso senza conoscere l’effettiva destinazione, stipati in terza classe, a rischio di finire morti affogati quando i piroscafi cedevano alla rabbia dell’oceano, per cercare fortuna nelle “meriche”.

La passione per i “fotbaleur” , nel caso, ha fatto il resto.  Così, quello che nel 1891 era stato fondato a Montevideo come “Central Uruguay Railway Cricket Club” (CURCC), squadra di fùtbol della capitale uruguaiana,  nel 1913, cambia nome in “Club Atletico Peñarol”. In breve, questa “instituciòn deportiva” diventò presto la miglior squadra del Sudamerica, complice il ciclo del grande Uruguay che tra il 1930 ed il 1950 vinse due edizioni dei Mondiali. Quando la finale della Coppa del mondo venne giocata in Brasile, nella storica data del 16 luglio 1950, quando la “Celeste” nazionale uruguagia  sconfisse 2 a 1 la Seleção dei padroni di casa, sprofondando nella disperazione il Maracanà, il Peñarol aveva già conquistato 17 campionati d’Uruguay e forniva alla nazionale giocatori del calibro di Obdulio Varela e Juan Alberto Schiaffino, che poi venne a giocare in Italia, nel Milan. Nel biennio 1960-61 il Peñarol salì in vetta al mondo del pallone, vincendo due Coppe Libertadores (la Champions sudamericana) e una Coppa Intercontinentale. Così i “carboneros” entrarono nella storia del calcio. Nel 1966 arrivò la doppietta: Libertadores e Intercontinentale. Doppietta replicata sedici anni dopo, nel 1982. Nel frattempo arrivano altri 32 titoli nazionali, l’ultimo nel 2012-13.

Un palmares di successi impressionante, al punto da far sì che la Federazione Internazionale di Storia e Statistica del Calcio (IFFHS) nominasse il Peñarol “Club del XX° secolo del Sud America”. Ma non tutto si può ridurre ai dati numerici. La passione, la voglia di riscatto sociale, l’incrollabile fede nei colori del “Pinerolo d’Uruguay” , nel tempo, ha rappresentato un fenomeno davvero importante, legatoa  doppio filo con l’Italia. Nei primi grandi calciatori aurinegros ( gialloneri , per via del colore delle maglie) erano evidenti le tracce di italianità: le più grandi leggende del club erano figli o nipoti di italiani. Basta pensare alle prime due stelle, Lorenzo Mazzucco e Josè Piendibene Ferrari, entrambi avevano i genitori italiani. E poi Juan Alberto Schiaffino ( così scrisse di lui Eduardo Galeano: “con le sue giocate magistrali, organizzava il gioco della squadra come se stesse osservando tutto il campo dalla più alta torre dello stadio”),il centrocampista Rafael Sansone, il difensore Ernesto Mascheroni , l’istriano di nascita Ernesto Vidal, centrocampista che aveva “tre patrie ma solo una gli regalò il tetto del mondo”, il portiere Roque Maspoli e tanti altri. Una storia di scatti, rincorse e calci al pallone che continua, sull’asse della memoria che unisce i due lati del mondo, da Pinerolo al “barrio” Peñarol.

Marco Travaglini

Chi era davvero Enrico Mattei?

 

“Nel luglio del 1987, dopo un colloquio con Mario Ronchi alla cascina Albaredo di Bascapè, raggiungo il breve prato della notte del 27 ottobre.

C’è una lapide sul terreno, in memoria di Mattei, Bertuzzi, McHale. All’intorno, tanti alberi e una fitta siepe. In un angolo, un cancello bianco, chiuso. Di quando in quando il silenzio è rotto dal rombo di un aereo che passa basso scendendo su Linate”. Con queste parole Italo Pietra concludeva il suo libro ‘Mattei La pecora nera’ il libro dedicato ad Enrico Mattei, uno dei più geniali ed autorevoli figli dell’Italia del Novecento, partito dalle Marche come operaio e giunto alla presidenza dell’Eni, la sua creatura, dopo aver salvato l’Agip dalla liquidazione cui era condannata alla fine della seconda guerra mondiale, considerata un inutile residuato del regime fascista. La sua vita ebbe termine, come tutti sanno, il 27 ottobre del 1962 mentre rientrava da una due giorni in Sicilia, di cui molto di è detto e scritto. Il Morane-Saulnier mentre era in fase di avvicinamento a Linate cadde e con lui morirono il pilota Irnerio Bertuzzi, asso dell’aviazione della Repubblica Sociale ed il giornalista americano William McHale, della testata Time-Life, incaricato di scrivere un articolo su di lui. Il testo di Italo Pietra, già comandante partigiano nell’Oltrerpo Pavese e direttore de ‘Il Giorno’, quotidiano voluto da Mattei, dal 1960 al 1972 è una delle pietre miliari, anche se datato, dei lavori a lui dedicati. L’aereo cadde in territorio del comune di Bascapè, piccolo centro della Provincia di Pavia incuneato tra i territori di quelle di Milano e di Lodi.

Qui si trova l’area commemorativa dei 3 scomparsi in quello che all’epoca venne classificato come un incidente ma che oggi la caparbia tenacia di un magistrato, l’ex procuratore di Pavia, Vincenzo Calia, può ragionevolmente fare ritenere un attentato. Il magistrato ha riassunto i risultati degli anni di lunghe indagini e ricostruzioni giudiziarie in un testo che vale davvero la pena di leggere: ‘Il caso Mattei. Le prove dell’omicidio del presidente dell’Eni dopo bugie, depistaggi e manipolazioni della verità’. Oggi, anche a distanza di oltre trent’anni dalla descrizione che diede Italo Pietra l’area di Bascapè non è molto dissimile. Al suo esterno dei cartelli posti ‘a ricordo del fondatore di Eni nel luogo in cui perse la vita’ spiegano sinteticamente chi era e all’interno una lapide, offuscata dal tempo, ricorda i tre scomparsi nel tragico incidente. Chissà se verrà data una ripulita il prossimo anno, visto che sono ormai sessanta gli anni dell’evento. Il luogo, posto in campagna, sembra quasi immerso in un silenzio irreale, quasi angoscioso, quasi a perpetuo ricordo di  quanto accadde quella notte. Ma chi era veramente Enrico Mattei ?  Un Uomo che vedeva molto al di là del tempo in cui viveva, che sapeva creare lavoro ed assicurare al lavoro italiano energia a buon mercato, un Uomo che capiva i tempi, che capiva che il mondo stava cambiando, che sicuramente non si faceva troppi scrupoli per arrivare agli obiettivi che si prefissava, ma che sognava un’Italia aperta al mondo. Forse la definizione sentita in un bar di Bascapè è quella che gli si cuce maggiormente addosso: “Era un grande italiano, un patriota, un partigiano’. E la sua opera andrebbe studiata maggiormente nelle scuole perché è comunque un pezzo di storia dell’Italia odierna.

Massimo Iaretti

I 300 uomini dello Chaberton

Sospesi a 3130 metri di altitudine, nel silenzio più totale, i 300 uomini della 515esima batteria dello Chaberton ascoltano via radio le parole di Mussolini provenienti dal balcone di piazza Venezia a Roma: “…la dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Francia e di Gran Bretagna..”.

Era il 10 giugno 1940. La guerra con i francesi si avvicina, sono attimi di grande tensione e incertezza. Al forte Chaberton, fra il valico del Monginevro e il Colle del Sestriere, tra l’alta Val Susa e la valle di Briancon, a strapiombo sui paesi di Cesana e Claviere, la guarnigione è comandata dal giovane capitano Spartaco Bevilacqua mentre sul versante opposto i mortai francesi sono pronti ad aprire il fuoco per distruggere l’odiato Chaberton. Fa freddo lassù e la nebbia è fitta. I primi giorni trascorrono in una relativa calma interrotta solo da scariche di fucileria e di armi automatiche. I cannoni del forte aprirono il fuoco alcune volte verso obiettivi militari francesi ma con scarso successo. Nella notte tra il 13 e il 14 giugno suonò l’allarme per l’arrivo di alcuni aerei nemici che sorvolarono il forte e raggiunsero Torino che verrà pesantemente bombardata. Nei giorni successivi il nostro presidio militare assistette a duelli di artiglieria a distanza tra il forte italiano Jafferau, sopra Bardonecchia e il forte francese de l’Olive. Niente di più, l’artiglieria francese, per il momento, ignorò lo Chaberton e si concentrò contro la fanteria italiana in valle. Ma il 21 giugno fu una giornata drammatica: un inferno di fuoco si scatenò ai 3130 metri del monte Chaberton. L’imponente figura della montagna fu teatro di una delle tante battaglie della II Guerra mondiale. I francesi decisero di fare sul serio: l’ordine impartito ai comandi militari fu di demolire lo Chaberton. I mortai francesi cominciarono a martellare la vetta distruggendo sei delle otto torri del forte e la stessa teleferica, nove uomini dello Chaberton morirono sotto le bombe, una cinquantina tra ustionati e feriti, di cui alcuni gravi e notevoli furono i danni alle strutture.
Ci fu poca gloria per il forte alpino più alto e più famoso d’Europa costruito a fine Ottocento, ai tempi di Umberto I, proprio per la sua notevole importanza strategica, una fortificazione nota come la batteria dello Chaberton. Costituiva una grave minaccia per il fondovalle e in particolare per la conca di Briancon e quindi i francesi non vedevano l’ora di metterlo fuori uso. Ma restò sempre una postazione militare di assoluta rilevanza a tal punto che lo stesso De Gaulle nel 1947 pretese e ottenne la vecchia fortezza. In quel momento il monte Chaberton passò alla Francia, nel territorio del comune di Nevache. Le rovine della batteria sono visitabili ma bisogna pur sempre arrivare fino in vetta dove è possibile osservare non solo i resti delle torri ma anche le gallerie sotto il forte che si snodano per centinaia di metri nelle viscere della montagna. È quindi necessario attrezzarsi in maniera adeguata e informarsi bene prima di partire. Il monte è diventato una classica meta per escursionisti e scialpinisti. Il forte è raggiungibile a piedi o in mountain bike percorrendo la vecchia strada militare da Fenils (frazione di Cesana) o, a piedi, partendo dal paese di Claviere. Non solo vediamo chiaramente il monte salendo in auto in alta Valle di Susa, lassù ad oltre tremila metri, con quella cima dentellata dalle torri della fortezza ma, ogni volta che lo guardiamo, ci domandiamo a cosa serviva e se è servito a qualcosa a quell’altitudine il forte Chaberton. Per saperne di più si può leggere il sempre attuale libro “Distruggete lo Chaberton!” scritto dal colonnello di artiglieria Edoardo Castellano, edizioni Il Capitello, Torino. Un vecchio libro assai utile per scoprire i segreti militari dello Chaberton nel quale la tragica giornata del 21 giugno 1940 è documentata nei minimi particolari dall’autore, ufficiale di artiglieria e gran conoscitore della montagna. Un volume che ci parla di cannoni, di traiettorie, di mortai, di guerra, di sangue e soprattutto di 300 valorosi soldati e del loro forte.
 Filippo Re

Quaglieni presenta “Matteotti” a Bardonecchia

Mercoledì 14 agosto alle ore 17,30 nel Foyer del Palazzo delle Feste di Bardonecchia (piazza Valle Stretta 1) verrà presentato il libro che lo storico Pier  Franco Quaglieni ha curato, dotandolo di un suo importante  saggio storico che sta facendo molto discutere, su Giacomo Matteotti nel centenario del suo assassinio (1924 – 2024), edizioni Pedrini. Oltre al suddetto saggio dal titolo “Matteotti fra contemporaneità e storia”, la pubblicazione contiene il discorso di Matteotti alla Camera dei Deputati del 30 maggio 1924 in cui egli denunciava i brogli perpetrati dai fascisti per vincere le elezioni dell’aprile 1924;  un inedito di Mario Soldati, il saggio che Piero Gobetti scrisse e pubblicò con la sua Casa Editrice all’indomani del delitto commesso il 10 giugno e scoperto il 16 agosto 1924, ed un ricco apparato iconografico sulla vita di Matteotti. Il saggio  di  Quaglieni è un lavoro fortemente innovativo su Matteotti, che propone una lettura storiografica lontana dalle banalizzazioni che hanno caratterizzato lo studio della figura politica di Matteotti nel passato. Interverrà Edoardo Massimo Fiammotto. Ingresso libero. L’iniziativa rientra nel calendario delle manifestazioni estive promosse dal Comune di Bardonecchia.

Torino e le sue mummie: il Museo egizio

 

Torino sul podio: primati e particolarità del capoluogo pedemontano

Malinconica e borghese, Torino è una cartolina daltri tempi che non accetta di piegarsi allestetica della contemporaneità.
Il grattacielo San Paolo e quello sede della Regione sbirciano dallo skyline, eppure la loro altitudine viene zittita dalla moltitudine degli edifici barocchi e liberty che continuano a testimoniare la vera essenza della città, la metropolitana viaggia sommessa e non vista, mentre larancione dei tram storici continua a brillare ancorata ai cavi elettrici, mentre le abitudini dei cittadini, segnate dalla nostalgia di un passato non così lontano, non si conformano allirruente modernità.
Torino persiste nel suo essere retrò, si preserva dalla frenesia delle metropoli e si conferma un capoluogo a misura duomo, con tutti i pro e i controche tale scelta comporta.
Il tempo trascorre ma lantica città dei Savoia si conferma unica nel suo genere, con le sue particolarità e contraddizioni, con i suoi caffè storici e le catene commerciali dei brand internazionali, con il traffico della tangenziale che la sfiora ed i pullman brulicanti di passeggeri sudaticci ma ben vestiti.
Numerosi sono gli aspetti che si possono approfondire della nostra bella Torino, molti vengono trattati spesso, altri invece rimangono argomenti meno noti, in questa serie di articoli ho deciso di soffermarmi sui primati che la città ha conquistato nel tempo, alcuni sono stati messi in dubbio, altri riconfermati ed altri ancora superati, eppure tutti hanno contribuito e lo fanno ancora- a rendere la remota Augusta Taurinorum così pregevole e singolare.

1. Torino capitale… anche del cinema!

2.La Mole e la sua altezza: quando Torino sfiorava il cielo

3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici

4. Torino e le sue mummie: il Museo egizio

5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente

6. Chi ce lha la piazza più grande dEuropa? Piazza Vittorio sotto accusa

7. Torino policulturale: Portapalazzo

8.Torino, la città più magica

9. Il Turet: quando i simboli dissetano

10. Liberty torinese: quando leleganza si fa ferro

 

4. Torino e le sue mummie: il Museo Egizio

Con oltre 850.000 visitatori all’anno, il Museo Egizio è un inopinabile punto di riferimento nel panorama culturale e scientifico, non solo del territorio ma anche a livello internazionale.
Al di là della sua notorietà, il primato museale è quello di essere il primo museo del mondo interamente dedicato alla civiltà nilotica.
La collezione affonda le sue radici nel lontano Seicento, quando Carlo Emanuele I di Savoia entra in possesso della Mensa isiaca, una minuziosa tavoletta in bronzo di epoca romana, nota anche come Tavola bembina” – perché originariamente di proprietà del Cardinal Bembo- preziosamente intarsiata in bronzo e metalli, raffigurante figure e geroglifici a imitazione di quelli egizi.
Il reperto suscita grande interesse tra gli studiosi dellepoca, che iniziano ad appassionarsi a quella parte di mondo, dove in effetti si sviluppano le prime civiltà che tuttoggi studiamo con fascinazione e meticolosità. Accade così che tra il 1759 e il 1762, Vitaliano Donati venga incaricato di recarsi in Egitto per effettuare una serie di scavi, da cui emergono diversi reperti di straordinaria bellezza, tuttavia sarà necessario attendere le campagne napoleoniche prima che la moda dellegittologiadilaghi in Europa, soprattutto grazie alle scoperte di Bernardino Drovetti, collezionista piemontese, allora diplomatico al servizio della Francia, a cui si deve la raccolta di ben 8.000 reperti.
Nonostante tale motivazione pare comunque strano che proprio qui, ai piedi delle Alpi, sorga una raccolta così ampia, da essere seconda solo al Museo del Cairo, tutta dedicata a quellesotica cultura sabbiosa e vetusta, non di meno ormai il Museo si presenta come uno dei principali centri nevralgici torinesi, indissolubilmente legato alla cittadinanza e, anzi, luogo misterioso che ben si addice a sottolineare un certo carattere occulto della Torino esoterica.
Il Museo infatti, oltre alla fama intellettuale indiscussa, si circonda di diverse leggende che lo rendono unicoanche sotto altre ottiche: vi ricordate, cari lettori, che cosa è avvenuto nellormai lontano 2000? In quellanno si registrano innumerevoli casi di bambini colpiti da malessere e intossicazioni proprio durante la visita allEgizio, i medici non trovano subito una spiegazione e lasciano così il tempo ai superstiziosi di gridare alla maledizione del faraone; poco dopo viene in effetti fuori che la colpa è delle mummie, o meglio, delle loro teche, pulite con un particolare solvente che danneggia il benessere del pubblico.
Vi è inoltre la questione dei triangoli magici, quello Bianco e quello Nero, i cui influssi positivi e negativi si riversano silenziosi e costanti sui cittadini, ecco, proprio allinterno delledificio pare vi siano molti oggetti dalle forti influenze energetiche, sia benevole che malevole, anche se gli esperti del settore ci tranquillizzano ricordandoci che il bene abbonda e la maggior parte dei reperti incriminati sono in realtà legati alla Magia Bianca.
Tiriamo quindi subito un sospiro di sollievo, senza tuttavia abbassare del tutto la guardia, dopotutto non è poco lo spazio occupato dal papiro definito Libro dei Morti, una delle attrazioni principalidellesposizione che, con i suoi 864 cm di lunghezza, occupa unintera parete! Si tratta di un diuturno reperto risalente al 332-320 a. C. e contenente vere e proprie istruzioni per guidare le anime nellaldilà; le sepolture egizie sono solite avere un oggetto simile nel corredo del defunto, ma quello conservato a Torino è il più dettagliato e completo mai stato ritrovato.


E voi, in che sfera dinfluenza lo inserireste, in quella Bianca o in quella Nera?
A connettere il Museo alla città, vi è poi una delle molte versioni del mito della fondazione dellantica Augusta Taurinorum: un giovane principe egizio, Pa Rahotep, costretto ad abbandonare il proprio paese dorigine ed a intraprendere un lungo viaggio, che prima lo porta sulle coste della Liguria, ed infine lo vede approdare in Piemonte dove, sulle sponde di un fiume il Po, secondo la storia- fonda una città che denomina Eridania -il fiume Po, per secoli, è noto come Eridano-. Una volta insediatosi, Pa Rahotep introduce il culto del dio Api, raffigurato con le sembianze di un Toro. Da qui la derivazione del nome della città.
Trovo sempre affascinanti, cari lettori, questi aspetti mitici e leggendari, ma è bene occuparsi anche di altri assunti, decisamente più quantificabili anche se meno intriganti.
Torniamo allepoca ottocentesca, precisamente nel 1824, quando re Carlo Felice acquista la collezione Drovetti, e, dopo averla unita a quella di Donati, dona vita al primo museo in nuce dedicato alla civiltà egizia.
La prima esposizione ha sede presso il Collegio dei Nobili, edificio costruito su progetto di Michelangelo Garove (dal 1679), tuttavia, nel corso del secolo, grazie agli interventi, di Giuseppe Maria Talucchi e Alessandro Mazzucchetti, lo spazio viene ampliato e adeguato alle nuove necessità, finché, a seguito degli importanti rinnovamenti, nel 1832, il Museo apre finalmente al pubblico.
Secondo il gusto del periodo, i reperti dellantico Egitto sono mescolaticon articoli romani, preromani e preistorici, ed è inoltre presente una sezione di storia naturale.
Nel tempo la collezione singrandisce, comportando diversi cambi di sede, dallAccademia delle Scienze, al Regio Museo di Antichità fino alla sede attuale, in via Accademia delle Scienze.
Di determinante importanza sono stati gli scavi archeologici di Ernesto Schiaparelli e di Giulio Farina, i quali, tra il 1903 e il 1937, portano a Torino circa 30.000 referti. Nel 1924 lo stesso Vittorio Emanuele III di Savoia solca i corridoi dellesposizione, attraversando per primo la nuova ala del Museo, denominata Ala Schiapparelli, nella quale sono visionabili oggetti provenienti da Assiut e Gebelein.
Tra gli anni 30 e gli anni 80 del Novecento si predispongono ulteriori ristrutturazioni e adattamenti, tra cui linstallazione della Pinacoteca e la sistemazione dellAla Schiaparelli; di particolare rilevanza è stata, allepoca, lopera di ricomposizione del tempietto rupestre di Ellesiya, donato dal Governo Egiziano in riconoscimento dellaiuto italiano nel salvataggio dei templi nubiani minacciati dalle acque della diga di Assuan. Per il trasferimento a Torino la struttura viene tagliata in 66 blocchi e poi ricostruita ed inaugurata il 4 settembre 1970.
A partire dagli anni 80 lattenzione si pone sulla costruzione di nuovi spazi espositivi sotterranei, dedicati ai ritrovamenti di Assiut, Qau el-Kebir e Gebelein, nonché allampia sala del piano terra destinata ad accogliere le testimonianze dellEtà Predinastica e dellAntico Regno.
Un altro anno da ricordare è senzaltro il 2006, (Giochi Olimpici Invernali di Torino), quando lo statuario è riallestito dallo scenografo Dante Ferretti; lintervento rifunzionalizza gli ambienti allintero percorso museale, ora articolato su cinque piani espositivi, muta inoltre notevolmente anche la generale atmosfera, ora assai suggestiva e teatrale, costituita da unilluminazione impattante e altamente immersiva. La riapertura del 2015 segna il nuovo approccio rivolto ai visitatori, decisamente meno faticosoe didatticodelloriginale, ma maggiormente apprezzato dal pubblico di massa, che allo sforzo intellettivo predilige lapprendimento stile TikTok.
Ancora qualche parola per chi fosse interessato al contenuto della raccolta e non solo ai selfienella Galleria dei Re.
Oltre al già citato Libro dei Morti, vi sono altri due papiri degni di nota: il papiro dello sciopero e il papiro erotico.

Il primo documenta uno tra i più antichi scioperi della storia, svoltosi durante il regno di Ramesse III, portato avanti dagli operai e dagli artigiani impegnati nella costruzione delle tombe reali di Luxor; il secondo invece, proveniente dal villaggio di Deir el-Medina, smorzalidea austera e monumentale che solitamente caratterizza lestetica dellarte egizia, mostrando al pubblico illustrazioni sinuose e figure curvilinee, ma soprattutto immagini esplicitamente erotiche, contrassegnate da tratti ironici ai limiti della comicità, senza mai perdere il tocco raffinato tipico dellOriente.
Oltre a testimoniare che chi non lavora, non fa lamore” – lo sciopero termina dopo alcuni mesi- i reperti dimostrano come la Cultura con la Cmaiuscola non abbia nulla a cui spartire con censura e bigottismo, aspetti esclusivi degli integralismi religiosi e dei regimi politici totalitari. Ce lo insegnavano già millecinquecento anni prima di Cristo, eppure luomo contemporaneo continua ad avere una testa durissima.
Oltre alla Tela di Gebelein, la più antica pittura su lino mai rinvenuta, raffigurante momenti di vita quotidiana e usanze dellepoca, consiglio di soffermarvi sulla tomba di Kha, una sorta di archistardellepoca, noto capo architetto, progettista della Necropoli Tebana. La sua bravura lo porta a lavorare per i grandi faraoni della XVIII dinastia, i suoi meriti sono riconosciuti pubblicamente, tanto da ottenere una tomba più piccola, ma uguale in tutto e per tutto a quella dei regnanti. Larchitetto viene sepolto insieme alla moglie Merit, il loro corredo funerario consta di circa 460 pezzi, tra cui anche una spettacolare parrucca rimasta ancora perfettamente intatta.
Dato che è secondo solo al Museo del Cairo, non credo sia il caso di continuare, in questa sede, con lelenco dei reperti visionabili allinterno dellesposizione torinese, vi invito quindi ad andare, cari lettori, a scoprire le meraviglie del Museo Egizio con i vostri occhi .
Spero, con questo mio scritto, di avervi un poincuriosito, perché non mi stancherò mai di sottolineare limportanza dei luoghi delle Muse, contenitori concreti della cultura, luoghi di testimonianza e bellezza, roccaforti dellunica, vera, insopprimibile libertà, quella intellettuale.

Alessia Cagnotto