Un sindaco casalese dei marchesi di Cinzano

CARTOLINE DA TORINO
Il nome ufficiale è Casa Scaccabarozzi, ma è conosciuta dai torinesi come Fetta di polenta, la curiosa abitazione sita nel quartiere Vanchiglia, all’angolo tra corso San Maurizio e via Giulia di Barolo. Fu progettata da Alessandro Antonelli (Francesca Scaccabarozzi, era la nobildonna che divenne sua moglie). I due abitarono nell’edificio per pochi anni, anche per dimostrare che una casa così curiosa poteva essere realmente solida e abitata. L’ origine del suo soprannome è dovuta alla pianta trapezoidale dell’edificio, con uno dei prospetti laterali di appena cinquantaquattro centimetri. Il quartiere Vanchiglia nacque verso il 1840 per volere della Società Costruttori di Vanchiglia, con la collaborazione dell’architetto Antonelli, che in seguito realizzò la Mole Antonelliana e anche altri edifici residenziali nel quartiere. Quale compenso per i lavori gli fu donato anche il terreno sull’angolo sinistro di Via dei Macelli, coincidente con l’attuale via Giulia di Barolo. Poiché l’area èera di piccole dimensioni, per sfida decise di costruire un edificio con un appartamento per ciascun piano, nonostante il minimo l’esiguo spazio, recuperando in altezza ciò che non poteva in larghezza. La scommessa fu vinta e l’Antonelli donò l’edificio alla moglie.
Apertura straordinaria, in anteprima, venerdì 22 novembre dalle 19.30 alle 23.30, per la mostra, che rimarrà aperta ai Musei Reali fino al 23 marzo prossimo
A Cleopatra, Regina d’Egitto, donna di grande potere e fascino, i Musei Reali dedicano una mostra dossier che si inserisce nell’ambito delle celebrazioni dei 300 anni del Museo d’Antichità (1724-2024). Cleopatra, le cui vicende hanno ispirato molti scrittori come Shakespeare, Gautier e Bernard Show, oltre ad artisti, musicisti e registi, i Musei Reali di Torino dedica un’esposizione dossier curata da Anna Maria Bava ed Elisa Panero, che si avventura nella vicenda storica e nella leggenda attraverso un profilo del personaggio e del suo tempo, la nascita del mito e la fascinazione esercitata dallo stesso nel corso dei secoli. Il percorso espositivo è suddiviso in 5 aree tematiche e riporta al centro degli studi l’enigmatica “Testa di fanciulla” di Cleopatra, in marmo bianco, risalente alla metà del primo secolo a.C., del Museo di Antichità, che nella capigliatura e nei tratti mostrano caratteristiche che rimandano all’iconografia nota di Cleopatra VII, a cui si affiancano manufatti archeologici e sculture antiche provenienti dal Patrimonio dei Musei Reali e da collezioni pubbliche e private poste in dialogo con opere pittoriche e grafiche, oltre a documenti cinematografici che hanno visto protagonista la celebre Regina d’Egitto nel corso dei secoli. La mostra si apre con un inquadramento storico del periodo nel quale ha vissuto e regnato Cleopatra VII (51-30 a.C.), ultima Regina della dinastia Tolemaica, in un Egitto ormai ellenizzato in virtù delle azioni di Alessandro Magno, iniziate nel IV secolo a.C.
L’Egitto era ormai un Paese d’avanguardia, inserito nel Mediterraneo, luogo d’incontro di diverse civiltà e tradizioni, connotato da un forte rispetto per le tradizioni dell’Egitto faraonico e, nello stesso tempo, dall’adesione alla koinè culturale ellenistica.
La sezione “Cleopatra, la Regina che sfidò Roma” si focalizza sulla figura di Cleopatra e sul suo operato politico, in relazione ai protagonisti del suo tempo rappresentati dalla testa di Giulio Cesare, da Tusculum dei Musei Reali, considerato il ritratto più veritiero dell’Imperatore, e con quelli di Marco Antonio e Ottaviano Augusto, in prestito dalla Sopraintendenza del Molise e dei Musei Capitolini. L’analisi si concentra su Cleopatra come donna di potere, a capo di una nazione che vive un importante sviluppo economico grazie anche alla riforma monetale voluta dalla stessa Regina.
La mostra prosegue con l’origine del mito di Cleopatra, nato con la Regina ancora in vita, e sviluppatosi negli anni successivi, attraverso l’assimilazione della sua figura a quella della dea Iside. Nel corso del Rinascimento l’immagine di Cleopatra inizia ad avere una certa fortuna nell’arte occidentale, come mostra una raffinata incisione di Marco Antonio Raimondi, della Galleria Sabauda. Nata dalla collaborazione tra l’artista bolognese e Raffaello. Nel Seicento e Settecento la sovrana è protagonista di molte opere, nelle quali è spesso rappresentata nel momento della morte, come nei dipinti di Giovanni Giacomo Sementi, provenienti dalle raccolte viennesi del Principe Eugenio di Savoia Soissons, e ora conservata nella Galleria Sabauda, di Giovanni Lanfranco (circa 1630), delle gallerie nazionali di Palazzo Barberini e Galleria Corsini, e di Guido Cagnacci (1660-1662) della Pinacoteca di Brera. La pittrice Elisabetta Sirani, in un dipinto di collezione privata modenese, ritrae la sovrana mentre mostra il prezioso orecchino di perle che scioglierà in una coppa di aceto per poi consumare la costosissima bevanda alludendo all’episodio che sarebbe avvenuto nel sontuoso banchetto, al cospetto di Marco Antonio, nella tela di Francesco Fontebasso (1750), in prestito da Palazzo Madama di Torino.
Nell’Ottocento l’interpretazione del tema in chiave esoterica, darà vita a composizioni di vita orientaleggiante, come nel curioso dipinto di Anatolio Scifoni (1869), proveniente dalla raccolta di Palazzo Reale, e trasmette l’atmosfera sospesa e misteriosa dell’incontro tra Cleopatra e una magari.
L’esposizione si chiude con una sezione dedicata alla fortuna “pop” della Regina, con dischi, fumetti, giochi da tavolo e trasposizione della vita di Cleopatra su grande schermo, evocata attraverso locandine, fotografie e spezzoni di film, dall’epoca del cinema muto all’interpretazione di Elizabeth Taylor nella pellicola di Joseph Mankiewicz (1963), fino alla commedia “Asterix e Obelix – missione Cleopatra” con Monica Bellucci.
La mostra è visitabile dal 23 novembre 2024 al 23 marzo 2025, con orario dalle 9 alle 19 presso i Musei Reali.
Telefono: 011 19560449 – email: info.torino@coopculture.it
Mara Martellotta
Martedì 19 novembre 2024, alle ore 17.00, presso l’Unione Culturale Franco Antonicelli ( via Cesare Battisti,4 – Torino) la Sezione ANPI Eusebio Giambone di Torino presenta il documentario La grande estate partigiana ( Estate 1944: dalla formazione delle prime bande alle Repubbliche Partigiane. La storia di un’Italia che sceglie di resistere ). Realizzato dal regista Marzio Bartolucci, in collaborazione con gli autori Arianna Giannini Tomà e Andrea Pozzetta, il progetto è frutto della produzione di Lutea e dell’Associazione DomoMetraggi, con fotografia e montaggio a cura di Pixelpro Videoproduzioni. Il documentario offre uno sguardo approfondito sull’estate del 1944, un periodo cruciale nella storia dell’Italia, caratterizzato dall’emergere di numerose zone libere nel Centro-Nord, occupate dalle formazioni partigiane. Attraverso un mosaico di testimonianze, filmati d’epoca e fotografie, insieme a interviste a ricercatori e storici come Antonella Braga, Mirco Carrattieri, Chiara Colombini , Santo Peli e Andrea Pozzetta, il film ricostruisce una delle fasi cruciali della lotta di Liberazione mettendo in luce l’esperienza delle zone libere, vere e proprie anticipazioni di una democrazia che si affermerà con la sconfitta del nazifascismo ottant’anni fa. Alla presentazione del documentario saranno presenti il regista Marzio Bartolucci e gli autori, la giornalista Arianna Giannini Tomà e Andrea Pozzetta, responsabile scientifico del Centro di documentazione della Casa della Resistenza di Verbania Fondotoce.
Dal 15 novembre 2024 al 04 maggio 2025
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Credits Cosimo Maffione |
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Domani al Centro Pannunzio in via Maria Vittoria a Torino si terrà un incontro con Alberto Busca, eclettico divulgatore di storia medievale, innanzitutto attraverso i suoi romanzi, ma anche come animatore di gruppi di rievocazione in costume e ristoratore titolare di una taverna tematizzata. Particolare attenzione sarà riservata all’ultimo suo romanzo, “Baldesar”, dedicato ad un personaggio vero, oggi poco conosciuto, che ha frequentato le corti di tutta Europa, importante allora forse più del contemporaneo (e amico) Machiavelli. Introduce Edoardo Massimo Fiammotto.
Cento anni fa nasceva Ugo Buzzolan, il più autorevole critico televisivo italiano. Generazioni di torinesi, e non solo, lo ricorderanno di certo, firmava la sua rubrica su “La Stampa” con una sigla divenuta celebre: ” u.bz.”. Inventore di un genere nuovo, destinato ad avere grande fortuna, viveva la sua funzione di critico quasi come una missione: puntuale, attento, acuto, nemico di ogni eccesso, si impose come il più onesto ed il più temuto dei cronisti televisivi.
Buzzolan portò avanti numerose battaglie, denunciando già allora le straripanti interruzioni pubblicitarie, l’emarginazione del teatro in tv, la scomparsa degli spazi per le proposte culturali, dalla musica ai libri, e si faceva sovente portavoce di tutti i suoi lettori che per per anni non riuscirono a vedere la terza rete della Rai perché il segnale era irrangiungibile. Sapeva essere pungente ma sempre con garbo: su “La Stampa”, nel 1980, Ugo Buzzolan parlando dello sceneggiato televisivo italiano, osservava che ” abbiamo il primato assoluto delle riduzioni dei romanzi dell’Ottocento. I magazzini della Tv traboccano di tube, crinoline, cuffie e mustacchi, di lumi a petrolio, di occhialini e carrozze”.
Proprio lui che era stato il più innovativo già ai tempi della televisione sperimentale con i primi “originali televisivi”, opere scritte appositamente per il piccolo schermo, trasmesse dalla Rai ancora prima dell’annuncio ufficiale del gennaio 1954. Per il Centenario della sua nascita, mercoledì 13 novembre, alla Mediateca Rai di Torino, al Palazzo della Radio di via Verdi, verrà ricordato dai figli Arturo, Angelica e Dario con la visione di “Eravamo giovani”, un originale televisivo del 1955, dove tra l’altro, oltre a Antonella Lualdi e Franco Interlenghi, recita anche una giovane attrice, Cecilia Ciaffi, la moglie di Buzzolan.
Igino Macagno
Lunedì 11 novembre alle ore 15 al Collegio San Giuseppe (via San Francesco da Paola, 23) il Centro “Pannunzio” organizza un Convegno dal titolo “Giovanni Gentile: delitto politico o giustizia partigiana?” a 80 anni dall’assassinio del filosofo, a cui parteciperanno gli studiosi Hervé A. Cavallera, Carla Sodini, Valter Vecellio, Gianni Oliva, Pier Giuseppe Monateri, Nino Boeti, Luciano Boccalatte, Maria Grazia Imarisio e Giuseppe Parlato. Con il patrocinio del Ministero della Cultura, della Regione Piemonte, del Consiglio regionale del Piemonte, della Città metropolitana di Torino, del Comune di Torino. Ingresso libero.
1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)
Lungi da me sostenere che esistono periodi artistici di facile e immediata comprensione, ogni filone, ogni movimento e ogni tipologia d’arte necessita di un’analisi approfondita per penetrarne il senso, tuttavia mi sento di affermare che da una certa fase storica in poi le cose sembrano complicarsi.
Mi spiego meglio: siamo abituati a considerare “belle opere” le architetture classiche, così come le imponenti cattedrali gotiche o ancora i capolavori rinascimentali e gli spettacolari chiaroscuri barocchi; il comune approccio alla materia rimane positivo ancora per tutto il Settecento, ma poi, piano piano, con l’Ottocento le questioni si fanno difficili e lo studio della storia dell’arte inizia a divenire ostico. I messaggi di cui gli artisti sono portavoce diventano maggiormente complessi, entrano in gioco le rappresentazioni degli stati d’animo dell’uomo, del suo inconscio, si parla del rapporto con la natura e d’improvviso l’arte non è più quel “locus amoenus” rassicurante a cui ci eravamo abituati. La sensazione di spiazzante spaesamento raggiunge il suo apice con le opere novecentesche, le due guerre dilaniano l’animo degli individui e la violenza del secolo breve si concretizza in dipinti paurosi che di “bello” non hanno granché. I miei studenti, giunti a questo punto del programma, sono soliti lamentarsi e addirittura dichiarano che “potevano farli anche loro quei quadri” o che “sono lavori veramente brutti” e ci vuole sempre un lungo preambolo esplicativo prima di convincerli a seguire la lezione senza eccessivo scetticismo.
Nel presente articolo vorrei soffermarmi su di un autore che si inserisce nel difficile contesto del Novecento, un autore le cui opere sono cariche di inquietudine e rappresentano per lo più immote figure silenziose, come imprigionate in atemporali visioni oniriche. Sto parlando di Felice Casorati, uno dei protagonisti indiscussi della scena novecentesca italiana, attivo a Torino, dove si circonda di ferventi artisti volenterosi di proseguire i suoi insegnamenti.
Ma andiamo per ordine e, come mi piace sempre ribadire in classe, “contestualizziamo” l’artista, ossia inseriamo l’artista in un “contesto” storico-culturale ben determinato per meglio definire il senso e il portato dell’opera.
Nei primi anni Venti del Novecento, grazie all’iniziativa della critica d’arte Margherita Sarfatti, si costituisce il cosiddetto gruppo del “Novecento”, di cui fanno parte sette artisti in realtà molto differenti tra loro: Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi. Le differenze stilistiche sono più che evidenti poiché alcuni sono esponenti vicini al Futurismo, altri invece si dimostrano orientati verso un ritorno all’ordine, altri ancora hanno contatti con la cultura mitteleuropea. La definizione di “Novecento”, con cui tali pittori sono soliti presentarsi, allude all’ambizione di farsi protagonisti di un’epoca, di esserne l’espressione significativa. Il gruppo si presenta alla Biennale di Venezia del 1924 come “Sei pittori del Novecento”(Oppi presenzia all’avvenimento con una personale). L’esposizione viene felicemente acclamata dalla critica, tanto che, sulla scia del successo ottenuto a Venezia, la Sarfatti si impegna ad organizzare in maniera più incisiva il movimento, quasi con l’intento di trasformarlo in una “scuola”. I risultati si manifestano chiaramente: nel 1926 al Palazzo della Permanente di Milano viene organizzata un’esposizione con ben centodieci partecipanti. Il movimento “Novecento” si è ormai allargato tanto da comprendere gran parte della pittura italiana: fanno parte della cerchia quasi tutti gli artisti del momento, da Carrà a De Chirico, da Morandi a Depero, da Russolo allo stesso Casorati. Tra i soggetti prediletti rientrano la figura umana, la natura morta e il paesaggio. Presupposti comuni sono il totale rifiuto del modernismo e un continuo riferimento alla tradizione nazionale, soprattutto a modelli trecenteschi e rinascimentali.
Con il passare degli anni il gruppo si fa sempre più numeroso e l’organizzazione del movimento si trasforma, la direzione delle iniziative artistiche ricade anche nelle mani di artisti di prima formazione quali Funi, Marussing e Sironi, insieme a personalità conosciute come lo scultore Arnolfo Wildt e i pittori Arturo Tosi e Alberto Salietti. Diventano via via numerosi i contatti con centri espositivi internazionali; alcuni artisti italiani trasferitisi all’estero si fanno appassionati organizzatori di “mostre novecentesche”, come dimostra ad esempio l’iniziativa di Alberto Sartoris, architetto torinese residente in Svizzera, il quale si occupa di organizzare nel paese di residenza un’ampia esposizione artistica del gruppo. Nel 1930, addirittura, il “Novecento” espone a Buenos Aires, avvenimento doppiamente importante, poiché grazie a tale iniziativa la critica Sarfatti riesce a ricapitolare nel catalogo della mostra le molteplici tappe del movimento. Espongono in Argentina ben quarantasei artisti, tra cui Casorati, De Chirico e Morandi.
Come è evidente, l’eterogeneità del gruppo manca di direttive e connotati chiari e univoci. Il tedesco Franz Roth conia appositamente per gli artisti di “Novecento” l’espressione “realismo magico”, che indica una rappresentazione realistica –domestica, familiare- ma al tempo stesso sospesa, estatica, come allucinata. Esemplificativo per esplicitare tale concetto è il dipinto di Antonio Donghi, “Figura di donna”, opera in cui domina una straniante immobilità incantata, la scena è immobile e l’osservatore percepisce che nulla sta per accadere e nulla è accaduto precedentemente.
Ed ecco che di “realismo magico” si può parlare anche per Felice Casorati (1883-1963), artista attivo nella prima metà del Novecento e docente di Pittura presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino.
Egli nasce a Novara, il 4 dicembre del 1883; il lavoro del padre, che è un militare, comporta che la famiglia si sposti spesso. Felice trascorre l’infanzia e l’adolescenza tra Milano, Reggio Emilia e Sassari, infine la famiglia si stabilisce a Padova, dove il ragazzo porta avanti la sua formazione liceale. A diciotto anni inizia a soffrire di nevrosi, ed è costretto a ritirarsi per un po’ sui Colli Euganei; proprio in questo periodo, Felice inizia a dedicarsi alla pittura. A ventiquattro anni -siamo nel 1907- si laurea in Giurisprudenza, ma decide di non proseguire su quel percorso, per dedicarsi all’arte, nello stesso anno parte per Napoli per studiare le opere di Pieter Brueghel il Vecchio, esposte presso il Museo Nazionale di Capodimonte.
Nel 1915, si arruola volontario nella Prima Guerra Mondiale, lo stesso fanno molti suoi contemporanei come Mario Sironi, Achille Funi Filippo Tommaso Marinetti, Carlo Carrà, Gino Severini, Luigi Russolo e Umberto Boccioni.
Nel 1917, dopo la morte del padre, Felice si trasferisce a Torino, dove attorno a lui si riuniscono artisti e intellettuali della città. Tra questi vi è Daphne Maugham, che diventerà sua moglie nel 1930 e dalla quale avrà il figlio Francesco, anche lui futuro pittore.
Casorati a Torino ha molti allievi nella sua scuola e presso il corso di Pittura dell’Accademia Albertina. Gli artisti più noti legati al suo insegnamento sono riuniti nel gruppo “I sei di Torino”, tra questi Francesco Menzio, Carlo Levi, Gigi Chessa e Jessie Boswell.
La sua ascesa artistica è sostenuta da diverse amicizie, tra cui il critico d’arte Lionello Venturi, la critica milanese Margherita Sarfatti, gli artisti di Ca’ Pesaro, il mecenate Riccardo Gualino e l’artista di Torinese Gigi Chessa insieme al quale partecipa al recupero del Teatro di Torino.
L’artista non lascerà più il capoluogo piemontese, e qui morirà il 1 marzo del 1963 in seguito ad un’embolia.
L’autore è da considerarsi “isolato”, con un proprio personalissimo percorso, pur tuttavia incrociando talvolta le proprie idee con altre ricerche artistiche di gruppi o movimenti a lui contemporanei.
Secondo alcuni critici, le opere di Casorati sono intrise di intimità religiosa. Lo stile pittorico dell’autore si modifica nel tempo, i primi lavori sono infatti decisamente realistici e visibilmente ispirati alle opere della Secessione Viennese; negli stessi anni si può notare l’influenza di Gustav Klimt, che porta Felice ad abbracciare per un breve periodo l’estetica simbolista. L’influsso klimtiano è particolarmente evidente in un’opera del 1912, “Il sogno del melograno”, in cui una donna giace dormiente su un prato fiorito. Il prato intorno alla fanciulla è cosparso di una moltitudine di fiori di specie differenti, mentre dall’alto pendono dei grossi grappoli di uva nera. I riferimenti all’artista viennese sono concentrati nella figura della ragazza, con chiari rimandi ai decorativismi delle “donne-gioiello” protagoniste di raffigurazioni quali “Giuditta” (1901), “Ritratto di Adele Bloch-Bauer”(1907) o il celeberrimo “ll bacio” (1907-08).
La figura del soggetto ricorda inoltre le opere preraffaellite, nello specifico l’ “Ofelia” di Sir John Everett Millais.
Negli elaborati degli inizi del Novecento, invece, sono evidenti i riferimenti a capolavori italiani del Trecento e del Quattrocento; nello stesso periodo l’autore si concentra su una generale semplificazione del linguaggio e sullo studio di figure sintetiche. Intorno agli anni Venti del secolo scorso impronta il suo stile a una grande concisione lineare, anche se è nel primo dopo-guerra che egli definisce il suo stile peculiare, caratterizzato da figure immobili, assorte, rigorosamente geometriche, quasi sempre illuminate da una luce fredda e intensa. Appartengono a questi anni alcuni dei suoi capolavori, come “Conversazione platonica” o “Ritratto di Silvana Cenni”. Per quest’ultima opera Casorati si rifà al celebre capolavoro rinascimentale “Sacra Conversazione” di Piero della Francesca, di cui riprende l’atmosfera sospesa, quasi metafisica, ottenuta grazie alla rigidità con cui Felice ritrae la donna –seduta, assorta e immobile- alla resa scenografica del paesaggio e alla fittizia disposizione degli oggetti all’interno della stanza. Le figure di Casorati sono volumetriche, solide e immote, come pietrificate, l’artista ne esalta i valori plastici grazie al sapiente uso del colore tonale. Nelle ultime tele, le fanciulle ritratte risulteranno quasi geometrizzate, esito di una notevole sintesi formale.
L’illuminazione risulta artificiale e per nulla realistica, effetto sottolineato dal fatto che Casorati non mostra quasi mai il punto di provenienza della luce; il risultato finale è quello di un mondo sospeso, raggelato e senza tempo.
Negli anni Trenta Casorati si dedica a dipingere nature morte con scodelle o uova, soggetti che ben si prestano ad interpretare il suo linguaggio plastico semplificato; egli esegue inoltri diversi nudi femminili in ambienti spogli e alcune tele che presentano disturbanti maschere, tema a lui già caro, come testimonia l’opera “Maschere” del 1921.
Davanti ai lavori di Felice Casorati non possiamo che rimanere attoniti e pensosi, intrappolati nel suo mondo metafisico.
L’arte è così, lo vedo con i miei studenti, non finisce mai di metterci alla prova, continua a incentivare pensieri e confronti e per quanto possa essere “lontano da noi” essa è capace di stimolare discussioni su tematiche sempre inesorabilmente e meravigliosamente attuali.
Alessia Cagnotto