“Su le dentate scintillanti vette salta il camoscio, tuona la valanga da’ ghiacci immani rotolando per le selve croscianti :ma da i silenzi de l’effuso azzurro esce nel sole l’aquila, e distende in tarde ruote digradanti il nero volo solenne. Salve, Piemonte! A te con melodia mesta da lungi risonante, come gli epici canti del tuo popol bravo,scendono i fiumi…”.
Chi non l’ha imparata a memoria e recitata a scuola questa poesia? Secondo alcuni esperti di storia della letteratura, i versi dell’ode “Piemonte” vennero composti da Giosuè Carducci durante il suo soggiorno al Grand Hotel di Ceresole Reale nel luglio del 1890.
Nato a Valdicastello, una frazione di Pietrasanta, nella Versilia lucchese, il 27 luglio 1835, il poeta e scrittore, fortemente legato alle tematiche “dell’amor patrio, della natura e del bello”, fu il primo italiano – nel 1906 – a vincere il Premio Nobel per la Letteratura. Questa la motivazione con la quale gli venne assegnato, vent’anni prima di Grazia Deledda, l’ambito premio dell’Accademia di Svezia: “non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all’energia creativa, alla purezza dello stile ed alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica”. Giosuè Carducci morì un anno dopo, il 16 febbraio 1907, all’età di 72 anni, lasciando alla cultura italiana una vasta produzione di poesie, raggruppate in diverse raccolte: dagli “Juvenilia” fino ai lavori della maturità. Tra questi ultimi si distingue in particolare la raccolta “Rime nuove”, composta da 105 poesie, tra cui sono contenuti i versi più conosciuti dell’autore, presenti in “Pianto antico” ( “L’albero a cui tendevi la pargoletta mano..”) e “San Martino” (“La nebbia a gl’irti colli piovigginando sale, e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar;ma per le vie del borgo dal ribollir de’ tini va l’aspro odor dei vini l’anime a rallegrar..”).
Nella sua produzione non mancano anche alcuni lavori in prosa, tra cui la raccolta dei “Discorsi letterari e storici” e gli scritti autobiografici delle “Confessioni e battaglie“. Alla notizia della sua morte – nella sua casa delle mura di porta Mazzini, a Bologna – la Camera del Regno ( Carducci, dopo essere stato a lungo Senatore del Regno era stato eletto alla Camera nel collegio di Lugo per il gruppo Radicale, di estrema sinistra) sospese la seduta. L’Italia intera vestì il lutto per la scomparsa del poeta che aveva cantato il Risorgimento. Durante i funerali, che si svolsero il 18 febbraio, i cavalli che portavano il feretro alla Certosa avevano gli zoccoli fasciati. Il cuore di Bologna, piazza Maggiore, e molte case private si presentarono parate a lutto. I fanali lungo il percorso vennero accesi e “guarniti di crespo“. La salma del poeta, fu “rivestita dalle insegne della massoneria, alla quale fu affiliato, e molti massoni partecipano alle esequie”. Pochi giorni dopo la casa e la ricca biblioteca del poeta vennero donate dalla regina Margherita al Comune di Bologna.
Marco Travaglini
La Città metropolitana di Torino ha firmato, insieme all’Ente di gestione delle aree protette delle Alpi Cozie, all’Unione montana Alta Val Susa, all’Unione montana Valle Susa e al CAI Piemonte, il rinnovo del protocollo d’intesa per la registrazione nel patrimonio escursionistico regionale e per la valorizzazione del Sentiero dei Franchi. “Tra le novità sancite da questo rinnovato accordo è presente l’inclusione nel Sentiero dei Franchi di una nuova tappa Novalesa-Susa-Meana di Susa che parte dall’Abbazia di Novalesa” spiega il vicesindaco della Città metropolitana Jacopo Suppo. “Un’integrazione molto significativa anche in vista del 2026, quando si celebreranno i 1300 anni dalla fondazione del complesso abbaziale che nel 1972 fu acquistato dalla Provincia di Torino, oggi Città metropolitana”. L’inserimento della nuova tappa ha una giustificazione storica, avendo a che fare con l’evento della Battaglia delle Chiuse, che nel 773 contrappose Carlo Magno e il principe longobardo Adelchi, figlio del re Desiderio.
Il nuovo protocollo d’intesa, inoltre, rilancia e rafforza il partenariato che la Regione Piemonte richiede per mantenere il riconoscimento degli itinerari e la conseguente ammissibilità ai finanziamenti. L’accordo appena sottoscritto ha una validità di cinque anni, con possibilità di rinnovo tacito annuale. Oltre alla gestione degli itinerari, i firmatari definiranno congiuntamente i progetti utili ad accedere ai finanziamenti necessari alla realizzazione degli interventi concordati di manutenzione straordinaria, potenziamento e valorizzazione turistica dell’itinerario.
Il Sentiero dei Franchi è un itinerario che parte da Oulx e, attraversando l’intera Valle di Susa, raggiunge la Sacra di San Michele. Nella sua totalità il tracciato è lungo oltre 60 km e attraversa i parchi del Gran Bosco di Salbertrand e dell’Orsiera-Rocciavrè.
Natale 1944, l’eredità della libertà
Faceva freddo in quella stalla abbandonata. Dai muri tirati su a secco entrava un’aria gelida, sibilata dal vento che quella notte turbinava neve. Attorno a quel tavolo di fortuna, combinato da due vecchie assi poggiate su malfermi cavalletti di legno, io, Giorgio e Renato parlavamo di quale futuro ci attendeva. La cera della candela era rappresa in pallide lacrime e le parole scorrevano veloci, di bocca in bocca. Quando sarebbe finito l’incubo della guerra, l’occupazione dei tedeschi e l’arroganza dei fascisti della repubblica sociale con quei ghigni sinistri e i simboli delle teste da morto? L’Italia sarebbe tornata come prima del fascismo o sarebbe cambiata davvero? Certo, volevamo la libertà ma non si combatteva solo per ottenere quella. C’era di più, molto di più. “Il nostro obiettivo riguarda insieme libertà e democrazia”, diceva Giorgio. “Non è possibile che le cose rimangano come al tempo dello Statuto Albertino. Non basta che ci sia un sovrano che conceda di sua iniziativa, bontà sua, i diritti al popolo. Anzi. Non va nemmeno bene che ci sia un Re, la monarchia, i Savoia a decidere e comandare. Quelli sono scappati all’8 settembre lasciandosi alle spalle un paese dilaniato, distrutto, occupato. Prima hanno aperto le porte al Duce, poi all’avventura della guerra e ora dovremmo accoglierli ancora, perdonando tutto? Nemmeno per idea!”. Accompagnava le parole picchiando pugni sul tavolaccio, facendo tremare la candela che prontamente dovevo prendere al volo. Eravamo d’accordo tutti e tre: non avevamo preso le armi per cacciare i fascisti e i tedeschi per tornare ad essere sudditi. Insieme alla libertà volevamo giustizia, un lavoro da svolgere con dignità. Volevamo la fine di quei tormenti che ci avevano avvelenato la vita. Era la vigilia di Natale, il 24 dicembre 1944. Dopo la caduta della Repubblica dell’Ossola e il proclama di Alexander che ci chiedeva di cessare le azioni di guerriglia, in questo gelido e duro inverno ci eravamo riorganizzati ma bisognava stare attenti. C’erano giorni in cui venivamo avvertiti che in giro c’erano tedeschi e fascisti che ci davano la caccia e non era il caso di uscire allo scoperto, altri in cui si preparava o si effettuava un agguato o un’azione particolare. Avevamo deciso di non stare ad aspettare che gli alleati riprendessero a risalire l’Italia. Dovevamo fare la nostra parte e l’avremmo fatta ad ogni costo. Nei periodi di inattività eravamo impegnati anche in grandi discussioni, in cui si parlava del futuro, di come lo si immaginava. L’idea del futuro, anche fosse solo per istinto, era associata al desiderio di qualche cosa di completamente diverso che chiamavamo genericamente democrazia, cioè un Paese senza dittatura, senza imposizioni, senza violenza. Sono passati tantissimi anni e a volte penso a quella sera e alle tante sere passate a discutere, alle azioni e ai rischi che corremmo, ai compagni che persero la vita e vedendo quest’Italia piatta, meschina, ignorante mi scopro a pensare chi ce l’avesse fatto fare. Poi, superato lo scoramento, mi ritornano in mente le parole di Renato quando diceva che non bisognava illudersi, che le cose sarebbero sì cambiate ma che non c’era conquista che sarebbe stata ottenuta una volta per tutte, che per noi che volevamo cambiare la società, che aspiravamo a cambiare il mondo non ci sarebbe mai stato congedo. Quante volte ci siamo ritrovarti da anziani. Noi, i sopravvissuti con i capelli bianchi. Noi che avevamo fatto saltare i ponti e con queste mani tremanti un giorno avevamo lanciato bombe a mano e stretto forte le armi. Con queste signore dallo sguardo mite, diventate nonne e anche bisnonne, che a quei tempi nascosero pistole, portarono messaggi, ospitarono e nutrirono partigiani, fecero con coraggio la loro parte. Oggi siamo rimasti in pochi e facciamo fatica a camminare, sorretti da un bastone o una stampella. Attraversiamo lentamente le vie che un tempo ci videro muoverci con rapidità, colpendo e fuggendo. Vecchi, malandati, spesso soli e dimenticati. Può darsi che si susciti tenerezza o compatimento ma a quel tempo sbaragliammo interi battaglioni, rischiammo la vita, ci battemmo per garantire quella libertà della quale oggi tanti ne fanno cattivo uso, abusandone, senza immaginare quanto ci sia costata perché non ne sono mai stati privati e non hanno dovuto battersi per riconquistarla. Non c’è retorica. Non serve indulgere in nostalgie. Abbiamo la consapevolezza di aver fatto ciò che era giusto e che tutto quanto è accaduto non deve essere dimenticato e quei semi di giustizia e libertà non inaridiscano mai. Siamo gli ultimi testimoni e tra poco non ci sarà più nessuno di noi. Il nostro regalo per Natale e per tutti i giorni a venire è questa eredità. Fatene un buon uso e non scordatevi quanto è costata.
Marco Travaglini
Il latinista Luciano Perelli
IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
Il latinista Luciano Perelli è stato ricordato al liceo “Carlo Botta” di Ivrea dove nacque nel 1911. Morto trent’anni fa, è ancora molto ricordato dagli ex allievi al liceo Gioberti di Torino e alla Facoltà di Lettere dove insegnò-caso raro- Letteratura latina e successivamente Storia romana alla Facoltà di Magistero. Soprattutto Perelli è ricordato per i suoi libri di testo dalla pregevolissima “Storia della letteratura latina” che non ebbe eguali per decine d’anni ai molti commenti a Cicerone ed agli amatissimi Lucrezio, poeta dell’angoscia e Catullo, poeta dell’amore tenero e disperato. I giovani nei suoi commenti ritrovavano l’humanitas autentica e la storicità di Roma senza l’eccessivo tecnicismo filologico che a volte uccide gli studi classici. Gli allievi di Perelli, similmente a quelli di Concetto Marchesi, acquisivano una cultura classica che era la base di un sapere poliedrico nel quale sarebbero cresciuti. Quando Perelli morì all’improvviso nel 1994, Luciano Canfora scrisse di lui una testimonianza ancora oggi importante che riguarda i suoi “ricordi antifascisti” incentrati sul carcere inflitto dal regime al padre e al fratello, che condizionò i suoi studi per affrettare il suo insegnamento privato, appena superata la Maturità, per dare un sostegno alla famiglia. Tuttavia egli non confuse mai l’insegnamento con un marcato impegno politico, come invece fece Marchesi. L’antifascismo per lui fu una scelta di libertà incompatibile con l’ideologismo anche se seppe difendere le ragioni della scuola classica da chi avrebbe voluto circoscriverla a pochi specialisti, di fatto uccidendola. Giovanna Garbarino, che fu docente di Letteratura latina, mi disse spesso che questa capacità di miscelare insieme letteratura e storia latina e greca era la cifra straordinaria di Luciano, forse non abbastanza apprezzato in Facoltà. Quando ancora insegnava al liceo, seppe difendere con coraggio ed anticonformismo la dignità professionale dei professori dalla tendenza già allora emergente di considerarli degli impiegati. La tutela della funzione docente fu una delle sue più grandi preoccupazioni e anche questo rende Perelli un protagonista unico della scuola piemontese. Egli capì fin dal suo sorgere l’aspetto eversivo di una parte della contestazione giovanile del ’68 insieme ai colleghi Franco Venturi, grande storico dell’Illuminismo e Giorgio Gullini, archeologo e preside della Facoltà di Lettere. Giunse a vedere delle affinità con il fascismo in certi estremismi di sinistra. Una volta con il “Corriere della Sera” in mano parlammo di un articolo del direttore Spadolini sugli opposti estremismi che corrispondeva a pieno al suo modo di vedere la violenza in quegli anni difficilissimi in cui qualcuno tentò di vedere le lotte studentesche in una sorta di continuità con la Resistenza.
Al capitano Carando la medaglia d’oro!
IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Sono già cominciate a Bra le manifestazioni commemorative dei fratelli Carando, trucidati dai fascisti il 5 febbraio 1945 a Villafranca Piemonte, zona dove Pompeo Colajanni, ”Barbato” ,aveva costituito-lui ufficiale al “Nizza Cavalleria” della vicina Pinerolo-una banda armata garibaldina che si rivelò una vera e propria punta di diamante nella Resistenza non soltanto piemontese. Ennio ed Ettore Carando ,fratelli con idee e vite diverse, furono accomunati da una morte atroce nella condivisione degli ideali di libertà propri della migliore Resistenza piemontese. Ennio , un apprezzato professore di filosofia quasi cieco che aveva insegnato a Savona ed era autore di saggi filosofici , divenne ispettore del Raggruppamento delle divisioni “Garibaldi” nel Cuneese.
Secondo una versione era un militante comunista ,mentre secondo altri aveva esitato a mettersi con i comunisti, chiedendo lumi nel 1943, già prima della Resistenza, al filosofo Piero Martinetti . Lo stesso dubbio lo ebbe il filosofo della scienza Ludovico Geymonat che parlerà del valore socratico dell’ opera filosofica di Ennio. Martinetti disse loro che il dovere dell’antifascismo era superiore ad ogni altra ragione. In tempi recenti ho appreso da un nipote dei due partigiani che Ennio era, nel periodo del partigianato, in stretti rapporti con il futuro leader politico Antonio Giolitti, nipote del grande statista liberale, che con le sue scelte dimostrò il suo rifiuto di ogni forma di stalinismo. Ettore era un ufficiale di artiglieria, sposato da poco tempo, che come tanti ufficiali fedeli al giuramento prestato sentì la Resistenza anche come un nuovo Risorgimento.
In una lettera alla moglie, che ebbi modo di conoscere ,espresse il suo dovere di soldato di liberare il suolo patrio dall’oppressione straniera che può farlo accostare anche nel portamento ad un eroe del Risorgimento. Nel contempo egli le scrisse tutto il dolore del distacco da lei con parole di intensa umanità. La vedova non volle risposarsi e visse nel ricordo disperato del marito. I due fratelli, uniti dalla morte, non vennero invece accomunati nel riconoscimento del loro sacrificio. Ad Ennio venne conferita con una bella motivazione che si trova in Internet, la Medaglia d’Oro alla memoria, mentre ad Ettore solo la Medaglia d’Argento.
Una disparità di trattamento che stupì allora e continua ancora a stupire oggi. Nessuna voce specifica è stata dedicata ad Ettore che viene citato insieme a quella dedicata al fratello. Vittorio Prunas Tola, capo dei gruppi d’ Unione “Camillo di Cavour” e combattente per la libertà a fianco dei suoi figli proprio a Villafranca evidenziò già molti anni fa questa diversità di trattamento, ricordando il partigiano caduto con le stellette del soldato. Anche Davide Lajolo si disse stupito. Forse sarebbe giusta nell’ottantesimo della Liberazione maggiore attenzione al capitano Carando, non conosciuto al mondo intellettuale come il fratello, ma egualmente meritevole di riconoscimento.
Città dei crocieristi, delle torri e dei Papi, Savona è una bella città, facile da visitare per chi ha poco tempo. Il piccolo centro storico si gira agevolmente a piedi tra vicoli stretti, palazzi colorati e lunghe vie centrali come via Paleocapa. Per raggiungere tutte le altre località del Ponente è quasi d’obbligo passare da Savona ma spesso la città viene considerata solo un luogo di passaggio, sovente ignorata e trascurata. È uno sbaglio, andrebbe visitata e goduta anche Savona. Viene chiamata la Città dei Papi perché nei dintorni di Savona nacquero ben due Papi, Sisto IV, Francesco della Rovere (1414-1484), il pontefice che commissionò la Cappella Sistina di Roma e Giulio II, Giuliano della Rovere (1443-1513). Una piccola cappella Sistina c’è anche a Savona, accanto alla cattedrale dell’Assunta, fatta edificare proprio da Sisto IV come cappella funeraria per i suoi genitori. Non è certo paragonabile alla cappella omonima romana ma è comunque un’attrazione da non perdere. Si può visitarla sabato 10-12,30 e 16,00-18,00 e domenica 10-12 e 16-18, le visite pomeridiane sono sospese a luglio e agosto. Il Duomo, realizzato nel Seicento accanto alla cappella, si può vedere quando non sono in corso le funzioni religiose per ammirare gli affreschi di scuola genovese e savonese, l’organo voluto da Papa Sisto IV e gli appartamenti papali dove un altro Papa, Pio VII, fu rinchiuso come prigioniero di Napoleone ai primi dell’Ottocento. Ma il simbolo più importante della città è però la Torre del Brandale al porto, a Campanassa per i savonesi, la torre più importante tra le diverse torri della città. Innalzata nel Trecento, la campana suona quando in città succede qualcosa di importante. Ma accanto alla torre si anima un intero centro storico che merita una visita. A pochi metri svettano le
torri, più basse, Guarnero e Corsi, e poco più in là, all’ingresso di via Paleocapa, fa bella mostra di sé la Torre Leon Pancaldo che, eretta alla fine del Trecento, faceva parte della cinta muraria. A picco sul mare c’è l’imponente e straordinaria fortezza del Priamàr, eretta dai genovesi nel Cinquecento per proteggere la città dagli attacchi dal mare. Il porto fu interrato e sul colle del Priamàr venne costruita la piazzaforte dopo aver abbattuto l’antica cattedrale, tre ospedali, la chiesa e il convento dei Domenicani e diversi oratori. Scomparve in pratica la parte più importante della città di epoca medioevale. Gli storici fanno notare che nel Duecento a Savona si trovavano almeno 50 torri e una decina si innalzavano sul Priamàr. La fortezza, che conserva i pochi resti dell’antica cattedrale cittadina, fu anche carcere con Giuseppe Mazzini in cella. Oggi è un grande teatro all’aperto con spettacoli e concerti per tutta l’estate e ospita il Museo archeologico e il Museo Sandro Pertini. Infine, da gustare in tutti i sensi, la Vecchia Darsena con il porticciolo turistico a pochi minuti dal Priamàr, luogo di incontro di savonesi e turisti a spasso tra pescherecci, ristoranti e trattorie. Filippo Re
nelle foto:
la Fortezza del Priamàr a Savona
La Torre del Brandale con le torri minori
Interno della Cappella Sistina accanto alla Cattedrale
Il Villaggio Leumann, la filantropia si fa arte
Il villaggio Leumann è una originale borgata operaia del comune di Collegno, alle porte di Torino, costruita a fine Ottocento per volere dell’imprenditore e filantropo svizzero Napoleone Leumann
Il villaggio operaio è una vera opera d’arte , che nulla ha a che fare con le moderne periferie industriali, simbolo concreto di una cultura del lavoro e dell’umanesimo di imprenditori illuminati che non pensavamo solo al profitto . Ma e anche l’esempio di un mondo popolare che aveva valori e principi e non era una plebe abbrutita e emarginata di cui purtroppo sono popolate oggi certe banlieue. L’edilizia industriale si trasforma così in arte, e ancora oggi attira gli sguardi dei curiosi per la sua particolare architettura.
Una mostra evento al Polo del 900 di Torino (Palazzo San Daniele, Piazzetta Franco Antonicelli ) vuole raccontare questo passato glorioso, di un uomo con una vision moderna e innovativa, concretizzatasi nel Villaggio Leumann
La mostra “Villaggio Leumann, da 150 anni passato e futuro si incontrano”, inaugurata a Torino è organizzata dall’Associazione Culturale Kòres, e fa parte dei progetti che inizieranno ad aprile 2025 per avvicinarsi alla storia e alla cultura del Villaggio Leumann, rendendo ogni visita un’esperienza unica e indimenticabile, dando priorità al coinvolgimento del visitatore e coniugando la cultura del passato con tecnologie attuali, che esaltino le bellezze e le prerogative del luogo in modo sostenibile e non invasivo.
In mostra fotografie di Renzo Miglio, foto d’epoca, documenti inediti tratti del carteggio tra Leumann e Fenoglio, il grande architetto torinese del liberty , manifesti e tanti oggetti che testimoniano la storia del villaggio e dell’opificio, provenienti da archivi privati e mai esposti al pubblico.
E’ stato anche presentato in anteprima il progetto V.O.C.A.LE (Villaggi Operai, Cultura ed Arte al Leumann), vincitore del bando “Ecosistemi Culturali” di Fondazione CDP – l’ente non profit del Gruppo Cassa Depositi e Prestiti, che partirà ad aprile 2025 e metterà a disposizione di tutti coloro che vorranno visitare il villaggio Leumann un’applicazione ad alto impatto emozionale. Intanto il comune di Collegno sta spendendo oltre tre milioni di euro per il rinnovamento del Villaggio
Come parte integrante del progetto, verranno attivati contatti e scambi con altre realtà di villaggi industriali europei per mettere in luce la complessità e le valenze del fenomeno del paternalismo industriale e per far
Dopo questa giornata d’inaugurazione, ci saranno alcuni incontri di approfondimento sulla storia del Villaggio Leumann:
• Martedi 17 dicembre 2024 alle ore 18: Marco Revelli, storico, politologo e giornalista parlerà de “La cultura operaia del lavoro nella Torino delle origini”
• Giovedì 9 gennaio 2025 alle ore 18: Gianni Oliva, storico, docente e giornalista terrà un incontro su “Il Villaggio sociale di Napoleone Leumann”. In serata ci sarà la Premiazione dei vincitori del workshop organizzato dal Fotogruppo l’Incontro di Collegno.
Napoleone Leumann fece costruire intorno al suo Cotonificio, primaria industria tessile dell’epoca, un complesso residenziale e assistenziale per gli operai che lavoravano nella fabbrica: una città nella città. Il villaggio fu progettato tra il 1875 e il 1907 dall’ingegnere igienista Pietro Fenoglio. Lo stile è Liberty e coinvolge circa 60 edifici, su una superficie di oltre 70 mila metri quadrati.
“In questo periodo il desiderio di rinnovamento e di salvezza raggiunge una più grande intensità, e la luce di un’epoca nuova per un ordine più giusto e più umano si accende come una fiamma che ci è stata consegnata e che bisogna alimentare e proteggere, perché le speranze dei nostri figli non vadano deluse”. Era la sera della vigilia di Natale, il 24 dicembre 1955, quando Adriano Olivetti concludeva così il suo discorso augurale ai lavoratori della ICO, della OMO, della Fonderia e dei Cantieri, cioè le intere maestranze della Olivetti. Era uno dei tre “Discorsi per il Natale” raccolti e pubblicati dalle Edizioni di Comunità, scritti da Adriano Olivetti per le feste di fine anno tra il 1949 e il 1957. Sono discorsi che fotografano tre dei momenti più importanti della storia della fabbrica di Ivrea offrendo, in una mirabile sintesi, il pensiero e il profilo morale di questo imprenditore che va annoverato — a tutti gli effetti — tra le figure più singolari e straordinarie del ‘900. Le idee innovative e comunitarie in campo sociale, ancora attualissime, ne testimoniano pienamente la capacità visionaria. Adriano Olivetti fu capace di portare l’azienda di famiglia a competere alla pari con i giganti del mercato mondiale della sua epoca, trasformando la città canavesana “dalle rosse torri” nella capitale dell’informatica. Il suo era un sogno industriale che logicamente mirava al successo e al profitto, ma proponeva anche un progetto sociale che implicava una relazione del tutto nuova e compartecipata tra l’impresa e gli operai, oltre a un rapporto qualitativamente alto e molto stretto tra quella che era stata la “fabbrica in mattoni rossi”, la città degli eporediesi e l’intera realtà canavesana. Tornando al libro, nel primo discorso datato 24 dicembre 1949, l’erede di Camillo racconta i primi anni del dopoguerra per condividere il sollievo e l’orgoglio della compiuta ripresa dell’azienda dopo la difficile esperienza del fascismo e del conflitto mondiale. Nel secondo, sei anni dopo, il 24 dicembre 1955, Adriano Olivetti rievoca proprio quel discorso per ripercorrere i nuovi traguardi della fabbrica, che ha assunto ormai una dimensione internazionale ma non ha mai perso di vista le proprie radici morali, memore degli insegnamenti del fondatore Camillo. E dice, tra le altre cose: “Tutta la mia vita e la mia opera testimoniano anche — io lo spero — la fedeltà a un ammonimento severo che mio padre quando incominciai il mio lavoro ebbe a farmi: “Ricordati” — mi disse — “che la disoccupazione è la malattia mortale della società moderna; perciò ti affido una consegna: devi lottare con ogni mezzo affinché gli operai di questa fabbrica non abbiano a subire il tragico peso dell’ozio forzato, della miseria avvilente che si accompagna alla perdita del lavoro”. Una straordinaria lezione morale alla quale, nei fatti, accompagnò il suo agire concreto di imprenditore illuminato. In questi discorsi di Natale emerge la volontà di ringraziare tutti i lavoratori della fabbrica per la loro partecipazione a qualcosa di più grande, a una comune dimensione di riscatto del lavoro che, per usare le stesse parole di Olivetti, “non si esaurisce semplicemente nell’indice dei profitti”. Nell’ultimo discorso della breve raccolta, pronunciato in occasione del Capodanno del 1957 alla vigilia del cinquantesimo anniversario dello studio del primo modello di macchina per scrivere italiana ( l’Olivetti nascerà ufficialmente il 29 ottobre 1908) l’augurio dell’imprenditore di Ivrea, ormai all’apice del successo, è quello di non perdere mai di vista, nell’anno e negli anni a venire, quel senso di giustizia e di solidarietà umana che è alla base di ogni vero progresso e rappresenta il valore più profondo e ultimo di tutta l’esperienza olivettiana. Vi è l’orgoglio per quello che lui stesso definisce “lo spirito della fabbrica” e una potente visione di futuro. La città di Ivrea venne resa una realtà all’avanguardia da Adriano Olivetti che commissionò anche una serie di architetture uniche nel panorama di città industriali del Novecento, tanto da essere poi – nel 2018 – riconosciuta dall’Unesco come città industriale del XX secolo. Leggendo i discorsi resta però il rammarico per ciò che potevano diventare l’Olivetti, l’industria italiana e il modello sociale del paese se l’utopia di Adriano non si fosse spenta dopo la sua improvvisa e tragica morte, nel febbraio del 1960, quando non aveva ancora compiuto sessant’anni. Olivetti sosteneva che “un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande”. Peccato che quel sogno venne affossato dai tanti, troppi che avevano una concezione gretta del presente e una pressoché inesistente visione del futuro.
Marco Travaglini
Ha riaperto al pubblico giovedì 12 dicembre il Centro Storico FIAT di via Chiabrera 20, in sinergia con il MAUTO di corso Unità d’Italia 40
Sarà il Museo Nazionale dell’Automobile a gestire la riapertura e il programma di eventi evia attività volti a rilanciare un luogo fondamentale per la storia dell’automobilismo e della Città di Torino, con l’obiettivo di restituire alla collettività il patrimonio che conserva. In seguito all’annuncio dato, a proposito dell’opening della mostra “125 volte FIAT. La modernità attraverso l’immaginario FIAT”, dell’accordo programmatico tra Stellantis e MAUTO per la gestione del Centro Storico FIAT, l’edificio di via Chiabrera 20, sede delle prime officine di produzione dell’azienda, ha riaperto le sue porte al pubblico a partire da giovedì 12 dicembre scorso. A questa prima apertura prenatalizia, pensata per i visitatori che vorranno scoprire questo luogo di riferimento per la storia dell’automobilismo durante le festività, seguirà nel mese di febbraio un’inaugurazione ufficiale alla presenza delle autorità. L’accordo prevede l’intervento del MAUTO nel rilancio del Centro Storico FIAT quale parte di un polo espositivo d’eccellenza per la Città di Torino. Tale obiettivo sarà perseguito attraverso l’attivazione di una strategia di promozione e sviluppo culturale della sede storica FIAT, dell’archivio e della collezione storica che conserva. Un programma di mostre, eventi e attività di studio e ricerca volti a intensificare il dialogo tra Università e centri di formazione, consentirà di coinvolgere un pubblico ampio, insieme alla strategia di marketing culturale già avviata dal Museo e finalizzata al racconto della storia dell’automobile e delle sfide future. Il Centro Storico FIAT ha sede in un edificio liberty che fu il primo ampliamento, nel 1907, delle officine di corso Dante, nelle quali nacque l’azienda. Fin dall’inizio è stato teatro di momenti importanti per la storia della FIAT, e ora ospita una collezione di cimeli, modellini e manifesti pubblicitari che coprono l’intera storia aziendale, oltre, ovviamente, alle automobili più significative della storia dell’azienda, dalla 3 ½ HP, la prima vettura prodotta dalla FIAT, alla Eldridge Mefistofele, del 1923, che con la sua silhouette slanciata e la sua mole possente, segna uno dei primi esempi di vettura da record. E poi il primo trattore, il FIAT 702, del 1919, autocarro 18 BL che motorizzò le truppe italiane nella prima guerra mondiale, la Littorina, protagonista del trasporto ferroviario a partire dagli anni Trenta, il Caccia G91, il velivolo disegnato da Giuseppe Gabrielli e adottato in seguito dalla NATO. Tra le automobili ricordiamo ancora la 525 SS , disegnata da Mario Revelli di Beaumont, il prototipo dell’utilitaria del Settecento. Nello stesso edificio è presente anche l’archivio aziendale consultabile su appuntamento. Oltre novemila documenti lineari e cartacei, 400 mila disegni tecnici, 5 mila tra volumi e riviste di automobilismo e storia industriale, più di 6 milioni di immagini, stampe, lastre e negativi, 200 ore di filmati storici. Di particolare interesse il fondo del progettista Dante Giacosa, il “papà” delle utilitarie che hanno motorizzato l’Italia. Nell’ottica di progettare eventi in collaborazione con il MAUTO, il Centro Storico FIAT ospiterà fino a domenica 4 maggio il progetto espositivo “Memorie e conflitti”, spin off della mostra “125 volte FIAT – La modernità attraverso l’immaginario FIAT”, allestita nel museo di Corso Unità d’Italia.
Il Centro Storico FIAT conserva più di 2 mila immagini e 300 faldoni di documenti e volantini lungo tutto il corso del Novecento. Parte di questo materiale è stato raccolto da chi aveva il compito di garantire la sicurezza aziendale: foto scattate da dietro le finestre degli uffici. Colpisce in particolare la collezione di volantini, unica nel suo genere. Giorno per giorno, attraverso i decenni i sorveglianti, con grande cura, hanno annotato e allegato tutti i volantini lanciati, distribuiti o fatti trovare dentro e fuori gli stabilimenti. Qualche volta, su questi volantini, vengono specificate date e ore esatte, quale porta di Mirafiori, quale bagno di operai e impiegati, quale striscione e in quale officina si potessero trovare.
Contributi sono giunti dall’Associazione Culturale Vera Nocentini, dalla Fondazione Studi Storici Gaetano Salvemini, dalla Fondazione Istituto Piemontese Antonio Gramsci, dal Gruppo Dirigenti Fiat e dall’ISMEL (Istituto per la Memoria e la Cultura del Lavoro dell’Impresa e dei Diritti Sociali). I visitatori potranno accedere al Centro Storico FIAT dal martedì alla domenica, dalle 10 alle 19, acquistando il biglietto online sul sito del MAUTO www.museoauto.com o presso le biglietterie dello stesso, in Corso Unità d’Italia 40 o presso il Centro Storico FIAT in via Chiabrera 20. Martedì 24 dicembre e martedì 31 dicembre orario dalle 10 alle 14, mercoledì 25 dicembre e mercoledì 1 gennaio orario dalle 14 alle 19.
Mara Martellotta
|
---|