STORIA- Pagina 14

Non rullano più i Tamburi della Pioggia

Se n’è andato pochi giorni fa all’età di 88 anni Ismail Kadarè, scrittore e poeta albanese che denunciò la repressione della dittatura filosovietica e fu costretto all’esilio in Francia. Diversi suoi romanzi sono stati banditi dall’Albania: il più famoso è “Il generale dell’armata morta” pubblicato da Longanesi. Kadarè ha scritto anche storie e leggende dell’Albania nelle quali ha spesso criticato il regime comunista. Tra i romanzi che hanno contribuito alla fama di Kadarè ricordiamo La città di Pietra, Aprile spezzato, La Bambola, Il Palazzo dei sogni, Tre canti funebri per il Kosovo, I Tamburi della pioggia, edito da Longanesi, Tea, Corbaccio e Fabbri. E proprio su quest’ultimo vogliamo soffermarci, un grande romanzo storico. I Tamburi della Pioggia, una vicenda del Quattrocento, l’epopea del leggendario eroe Skanderbeg contro gli invasori turchi che combatterono in Albania una delle più lunghe e sanguinose guerre della storia. È la storia dell’Albania e del suo popolo: l’inizio del conflitto con l’impero ottomano, l’inizio di una lotta pluridecennale, ben 25 anni, la prima di 24 spedizioni dell’esercito del sultano contro il Paese delle aquile. Nel maggio del 1449 un immenso esercito turco pone l’assedio a Kruja, difesa da un piccolo presidio. Skanderbeg, il cui vero nome era Giorgio Castriota, mette al riparo sui monti i vecchi, parte delle donne e i bambini e con le sue forze resta al di fuori della cinta dell’assedio lanciando a più riprese e a sorpresa attacchi dall’esterno contro i turchi. Gli albanesi difesero strenuamente per 25 anni la propria libertà dalle ricorrenti invasioni della superpotenza ottomana. Decine di migliaia di soldati tentarono invano di scalare i bastioni ma dopo aver fatto di tutto per conquistare la cittadella di Kruja le forze turche furono obbligate a ritirarsi. Sul campo di battaglia rimase un quinto dei soldati ottomani. La cittadella di Kruja, capitale dell’Albania, sottoposta a un assedio fiaccante, diventò ben presto il simbolo della resistenza albanese. Di fronte alle sue mura il potente esercito turco è costretto a fermarsi, stroncato dal caldo torrido e indebolito dagli attacchi di Skanderbeg. L’autunno si avvicinava e il rimbombo dei “tamburi della pioggia” stava per segnare la fine di ogni speranza di vittoria. Kruja rifiuta di arrendersi. Gli assalti notturni di Skanderbeg terrorizzano i nemici. Basta il suo nome per far fuggire i turchi. La spedizione ottomana è un inferno. I tamburi della battaglia e della pioggia tormentano il comandante turco. I tamburi che annunciano la pioggia segnano la fine di un lungo cruento assedio. “Cominciò a piovere il 13 settembre, all’alba. In una parte dell’accampamento turco rullavano i tamburi della pioggia. Il loro campo appariva stranamente lugubre in quel mattino d’autunno. Eccolo, dunque, il più grande esercito del nostro tempo, il più temibile mostro della nostra epoca è ai nostri piedi, a inzupparsi di pioggia. Sembra che la prima stagione di guerra volga al termine. Altre ci attendono”.
Filippo Re      

“Valbum”, figurine per conoscere la storia valdese

Nell’anno del proprio quarantennale Radio RBE ha intrapreso molte iniziative con l’obiettivo di festeggiare questo importante anniversario – un traguardo certo non scontato per un’emittente comunitaria nata sull’onda lunga delle radio libere anni Settanta – tra queste segnalo la creazione del primo album di figurine dedicato agli 850 anni dalla nascita del movimento valdese: Valbum.

 

Radio RBE ha scelto di omaggiare così una storia con cui è legata a doppio filo; RBE, infatti, è acronimo di Radio Beckwith Evangelica e nasce nel 1984 come avventura pionieristica per creare un’emittente di impianto laico e aperto al mondo, ma con le radici affondate in un’identità evangelica e protestante, nel solco dell’impegno verso la cultura e la comunità tracciato da John Charles Beckwith nella prima metà dell’Ottocento.

VALBUM è uno strumento originale pensato sia per chi già conosce il patrimonio culturale valdese, sia per chi ne è incuriosito e desidera saperne di più con una formula alla portata di tutti. È composto da 60 figurine con immagini storiche, rappresentazioni di quadri e stampe, informazioni, curiosità e contenuti audio speciali raggiungibili con QR code. Pur guardando al gioco e alla leggerezza, VALBUM restituisce la storicità adeguata grazie alla collaborazione con l’Ufficio Archivio Storico e Beni Culturali della Tavola Valdese ed è l’occasione per unire divulgazione storica, narrazione per immagini e contenuti extra e aspira ad essere un ponte tra generazioni.

Renato Rascel, l’attore che nacque “per caso” a Torino

STORIE PIEMONTESI: a cura di CrPiemonte – Medium /   

Il 2 gennaio del 1991, moriva dopo una lunga malattia Renato Rascel, nome d’arte di Renato Ranucci

di Marco Travaglini

Artista incredibilmente versatile, indimenticabile protagonista del teatro leggero italiano, nella sua lunga carriera di attore, comico, cantautore e ballerino si cimentò in moltissimi ruoli. In molti, tra i non più giovanissimi, lo ricorderanno protagonista di moltissimi spettacoli dalla rivista alla commedia musicale, dall’intrattenimento televisivo e radiofonico all’operetta e al teatro.

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La sigla della trasmissione tv I racconti di Padre Brown

Non tutti sanno però che nacque “casualmente” a Torino il 27 aprile 1912, durante una tournée della compagnia di cui facevano parte i suoi genitori, il cantante di operetta Cesare Ranucci e la ballerina classica Paola Massa, artisti di opera comica che lavorarono anche con il grande Ettore Petrolini.

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Il Corazziere del 1961

Il piccolo Renato passò così i primi giorni di vita in una cesta dietro le quinte dove i genitori, a turno, si prendevano cura di lui tra una scena e l’altra. Venne poi battezzato a Roma, nella basilica di San Pietro per volontà del padre “che volle confermare la sua romanità risalente a sette generazioni”.

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Una vecchia locandina

Nascendo in una famiglia d’artisti fu normale che anche Renato sentisse il richiamo della scena e così, fin da piccolo, si ritrovò a calcare i palcoscenici di compagnie filodrammatiche e teatrali. A 10 anni entrò a far parte come soprano nel coro delle voci bianche della Cappella Sistina. Grazie alla sua travolgente simpatia e a un innato talento fece tutta la trafila dalla gavetta al successo.

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Le più belle canzoni

Suonò la batteria, ballava il tip-tap, si esibì come cantante, debuttò nel 1934 vestendo gli abiti di Sigismondo ne “Al Cavallino bianco” l’operetta più nota e popolare dopo la “Vedova Allegra”. L’esperienza lo portò a inventare un suo personaggio che lo rese riconoscibile al grande pubblico. La bassa statura e il fisico esile gli suggerirono la celebre, esilarante e surreale interpretazione del Corazziere.

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Rascel nelle vesti del Corazziere

Elaborò sketch e canzoni diventate pietre miliari della rivista, al fianco di attori e autori come Garinei e Giovannini. Con la sua compagnia teatrale mise in scena nel 1952 uno spettacolo — “Attanasio cavallo vanesio” — che ottenne un clamoroso successo, confermandolo tra i più amati beniamini del pubblico italiano. Un successo bissato con “Alvaro piuttosto corsaro”, “Tobia la candida spia”, “Un paio d’ali”, girando per i teatri di una Italia desiderosa di svago e divertimento.

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Rascel cantante

Si cimentò nel cinema con i suoi personaggi senza tralasciare ruoli più impegnati come ne “Il cappotto” (tratto da un racconto di Gogol’) con la regia di Alberto Lattuada e “Policarpo ufficiale di scrittura”, diretto dal torinese Mario Soldati. Rascel fu anche protagonista di una grande e commovente interpretazione nei panni del mendicante cieco Bartimeo nel “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli.

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Renato Rascel nei panni di Padre Brown

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Un primo piano di Renato Rascel

Rascel scrisse anche molte canzoni, alcune delle quali riscossero un successo che varcò i confini nazionali entrando a far parte del nostro repertorio popolare come “Arrivederci Roma”, “Romantica” ( con la quale trionfò al Festival di Sanremo nel 1960), “Te voglio bene tanto tanto”, “E’ arrivata la bufera”. I ragazzini della mia generazione lo ricordano in televisione con la veste talare del protagonista de “I racconti di padre Brown”, sceneggiato prodotto e messo in onda dalla Rai nel 1970. Risale a quello stesso anno la sua ultima interpretazione in una commedia musicale di Garinei e Giovannini (Alleluja brava gente) dove Rascel ebbe l’onere di sostituire all’ultimo istante il famosissimo Domenico Modugno con un giovane Gigi Proietti, pressoché sconosciuto al pubblico.

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Rascel con Giacobetti, Chiusano e la Mannucci del Quartetto Cetra nel 1970

Una carriera lunga e ricca che lo vide al tempo stesso innovatore e rappresentante autentico della storia nobilmente popolare della commedia italiana. Una vicenda umana e artistica che, ancora oggi, molti ricordano con affetto e riconoscenza.

Armi ottomane al Castello di Racconigi. I doni del sultano al re d’Italia

Quando la grande Storia passò per la Provincia Granda. Quel giorno il treno si fermò alla stazione di Racconigi. A quel tempo, tra ‘800 e ‘900, Racconigi era una fermata importante.
Arrivavano zar, sovrani e principi da ogni parte del mondo, ospiti dei Savoia nel castello sabaudo. Il 21 agosto del 1904 dal treno scesero degli uomini col turbante, tra lo stupore dei racconigesi che cinque anni dopo, nel 1909, avrebbero affollato la stazione e le vie del paese per dare il benvenuto ad un altro grande sovrano della storia, nientemeno che lo zar Nicola II in visita a re Vittorio Emanuele III. Ma cosa ci facevano i turchi a Racconigi? Inviati del sultano di Costantinopoli o spie al soldo di un regime sempre più vicino al tramonto?
Dal convoglio si fece avanti una delegazione diplomatica di alto livello guidata dall’ambasciatore turco Ghalib Bey e dal comandante delle guardie del sultano ottomano Abdulhamid II. I servitori scaricarono dal convoglio decine di casse contenenti i doni del sultano dell’Impero per Vittorio Emanuele III, re d’Italia. La reggia, in cui meno di un mese dopo nacque Umberto II di Savoia, l’erede al trono, si arricchì da un giorno all’altro di una straordinaria collezione di decine di armi antiche disposte su pannelli in modo da formare dei trofei d’armi.
Ma il grosso della donazione era costituito da ben 22 quintali di oggetti esposti su scaffali foderati in velluto rosso, al primo piano, accanto alla sala del biliardo, in un spazio chiamato la Sala delle armi turche, che oggi è la Galleria di Eolo. Ci sono armi da fuoco, diverse lance da cavalleria con la bandiera dell’esercito ottomano, un tridente di manifattura islamica e un antico roncone italiano preso durante le battaglie tra europei e turchi nel Quattrocento, pochi anni prima della caduta di Costantinopoli e dell’Impero bizantino nel 1453. Le armi antiche provengono dal Palazzo Yildiz di Istanbul e sono il segno di un lungo rapporto di amicizia e collaborazione tra il re e Abdulhamid II. Vittorio Emanuele III e Umberto II, l’erede al trono, trascorrevano a Racconigi i mesi estivi, lontano da impegni di corte. Gli scambi di regali furono frequenti e cominciarono ancora prima che Vittorio Emanuele diventasse re. Nel 1901 due grandi dipinti e una collezione di armi italiane erano partiti dal Quirinale alla volta della capitale turca mentre il sultano spedì in Italia alcune opere antiche della raccolta imperiale. A ben vedere, l’armeria-deposito del castello di Racconigi è forse l’ambiente più misterioso e intrigante di tutto il castello. Sono custoditi ben 22 quintali di armi tra fucili, archibugi, artiglierie, spade, asce, lance, revolver, armature, corazze, maglie d’acciaio, elmi in metallo e in stoffa consegnate dagli inviati del sultano ottomano a Vittorio Emanuele III nell’agosto del 1904.
Ogni oggetto fu sistemato in apposite vetrine in una sala attigua a quella del biliardo del Castello di Racconigi. A questo punto non stupirebbe se attorno al castello sabaudo o all’interno dello splendido parco aperto al pubblico trovassimo qualche spia turca travestita da turista. Speriamo che il “sultano” Erdogan, nostalgico delle glorie ottomane ed eccitato dai personaggi dell’Impero della Mezzaluna non sappia nulla e non si faccia avanti con la consueta aggressività per reclamare il “tesoro ottomano” nascosto nel deposito-armeria del maniero. Alcuni di questi oggetti sono esposti nell’ambito della mostra permanente “Storie dal mondo in Castello. Meraviglie da quattro continenti a Racconigi”. I pezzi più belli e pregiati sono un raro migfer (elmo) giannizzero del Cinquecento in seta, cotone, lino e rame dorato e soprattutto un’antica spada risalente al 1272 con iscrizione in arabo sulla lama. Altri cento oggetti, tra armi e manufatti, completano la raccolta dei prodotti artigianali extraeuropei presenti nell’esposizione. Tutti doni diplomatici, regali di ospiti illustri o ricordi di viaggio legati alla vita di Vittorio Emanuele III e di Umberto I. Un patrimonio rimasto finora nascosto nei depositi del Castello ma di grande rilievo per la storia della residenza sabauda. In vetrina si possono ammirare anche beni africani come un cofanetto egiziano donato alla regina Elena del Montenegro, uno scudo da parata etiope in seta e cuoio e una zanna d’avorio regalata a Umberto II insieme ad tanti altri oggetti provenienti da India e Persia, Sud America ed Estremo Oriente. La mostra, è aperta mercoledì, giovedì e venerdì con visite accompagnate alle 12.00 e alle 17.00. Sabato, domenica e festivi visite libere dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 19.00. Per informazioni: 0172 84005
Filippo Re
Nelle foto
il Castello di Racconigi, spada araba del 1272, elmi ottomani

“E se un angelo a Lisbona…”: Gabetto – Di Mauro, la leggenda del Grande Torino continua

Cosa sarebbe successo se uno dei componenti la comitiva del Grande Torino in quel lontano maggio del 1949, seguendo dei ‘segni’ non fosse salito a bordo dell’aereo, e con lui altri due compagni di squadra, e fosse tornato in Italia con un lungo e faticoso viaggio in auto via Francia ? Questo è il filo conduttore di ‘E se un angelo a Lisbona  …’ libro scritto a quattro mani di Orazio Di Mauro, già autore di diverse pubblicazioni (ultima in ordine di tempo il giallo calcistico ‘Rosso diretto’) e Sergio Gabetto, figlio di Guglielmo, il calciatore del Toro caduto con la squadra a Superga, L’editore è Neos Edizioni.Abbiamo incontrato Sergio Gabetto alla Cremeria Dolcearea di Alessandro Ledda in via Mercadantea Torino per parlare della sua prima produzione letteraria. L’autore, nato nel 1947, laureato in matematica, ha insegnato negli istituti superiori ed è stato assistente universitario alla facoltà di Fisica a Torino. Ha, però, vissuto una parte notevole della sua vita lontano dalla città natale.

Gabetto, come è nato questo libro ?

Guardando dei vecchi ricordi dopo che ero tornato da Cuba. Qui, però, è necessario che faccia una precisazioni. Mi piaceva il mondo caraibico, avevo già vissuto un paio d’anni in Repubblica Dominicana e dal 1995 al 2020 ho vissuto a Cuba, dove mi sono sposato e ho avuto due figlie. E là con alcuni amici ho fondato il Toro Club Cuba. Il tifo la si fa al ritmo bailato. Al tempo del Covid con la mia famiglia sono tornato in Italia e ho seguito mio fratello sino a quando è mancato. Mio nipote mi diede un paio di scatoloni pieni di ricordi, così è nata l’idea di questo libro.

Che presenta una particolarità ….

Non volevo scrivere un qualcosa che riportasse dati, statistiche, risultati. Ne sono stati scritti tantissimi. Volevo che fosse un racconto di fantasia e avesse Lisbona sullo sfondo.

Ma c’è un fondo di verità ?

Mio padre, effettivamente, credeva nei segni, era abbastanza superstizioso.

In quanto tempo ha scritto il libro ?

Il libro è stato scritto a quattro mani con l’amico Orazio Di Mauro, che è tifoso del Torino, da gennaio a marzo circa, poi Neos ha provveduto a stamparlo ed era pronto prima del 75esimo anniversario della tragedia.

Il libro però non è stato l’unico modo per ricordare il Papà ?

Per celebrare questo anniversario ho voluto creare un oggetto da collezione: una bottiglia di quel Barbera che Giovanni Arpino legò a loro, ‘Il Vino del Barone’.

Che accoglienza ha avuto il libro ?

Buona. E ha anche vinto il primo premio alla Fiera del Libro di Orbassano. Adesso abbiamo anche in programma alcune presentazioni.

Che rapporto ha con suo Padre ?

Quando se n’è andato avevo solo venti mesi. Ne ho soltanto sentito parlare e ho ricevuto degli aneddoti e ricordi da mia mamma Anita e dai tifosi del Bar Vittoria che aveva con Ossol in via Roma, dove oggi c’è Zara. Quel far dove i tifosi chiamavano ‘Gabos’ con le iniziali di entrambi.

Cosa vuole dire essere Granata ?

E’ più di una fede, è un modo di vivere, l’interesse è che il giocatore abbia senso di appartenenza, che si impegni sul campo, che giochi e non vivacchi.

Il libro, che si legge velocemente, tanto è avvincente e pieno di significato si chiude con una riflessione di Guglielmo, bellissima: ‘Potrò giocare bene o male, vincere o perdere le partite, ma loro, soltanto loro rimarranno i granata che vincono sempre. Il Toro non perde mai”.

MASSIMO IARETTI

Il mosaico medievale tra il mondo antico e la ruota della fortuna

Restauro e allestimento all’interno del Museo Diocesano

Una lunga storia accompagna ormai il grande mosaico che, realizzato tra il 1170 e il 1190 nella chiesa di San Salvatore – fondata alla fine del 300 d.C., ricostruita nei primi decenni dell’anno 1000, a tre navate con un tetto a capriate, per essere distrutta alla fine del Quattrocento e far posto all’attuale duomo voluto dal vescovo Domenico della Rovere e dovuto ad Amedeo da Settignano conosciuto meglio come Meo del Caprino -, venne alla luce, nel corso di lavori di manutenzione, nel 1909: scoperta documentata da testimonianze, descrizioni, fotografie. I frammenti, rimossi, furono in un primo momento ospitati presso l’antico Museo Civico per essere in seguito ricomposti a Palazzo Madama nell’allestimento inaugurato da Vittorio Viale nel 1934. Nel 1996, nuovi scavi nell’area portarono il mosaico a essere ricollocato sul fianco del duomo, in corrispondenza del presbiterio della basilica antica, in aperta visione grazie ad una piramide vetrata progettata dallo studio Gabetti e Isola. Con il presentarsi di problemi conservativi, dovuti in special modo a infiltrazioni d’acqua, il mosaico veniva ancora una volta rimosso. Oggi, dopo il restauro che ha avuto l’alta sorveglianza di Tiziana Sandri e che ha visto gli interventi contributivi della Consulta torinese e della Reale Mutua, il mosaico di San Salvatore ha trovato la propria definitiva sistemazione pavimentale, nell’allestimento di Massimo Venegoni (l’eccellente posizionamento centrale che ha dovuto fare i conti “con quanto preesistente nella sala”, nuove luci, la valorizzazione dei dettagli, il filmato che aiuta il visitatore a comprendere meglio storia e caratteristiche e tecniche), all’interno del Museo Diocesano di piazza San Giovanni.

L’arcivescovo Roberto Repole, durante la presentazione nei giorni scorsi dell’attuazione del progetto, ha sottolineato come “recuperare un patrimonio storico non sia soltanto un fatto che appartiene alla chiesa ma altresì alla città tutta”, senza dimenticare che il mosaico presbiteriale, dalle radici pagane, ha subito “un processo di inculturizzazione” da parte del cristianesimo, laddove le antiche narrazioni volgevano ad “un più alto valore simbolico, finalizzato a istruire e ad ammonire i fedeli.” Mario Turetta, Segretario generale del Ministero della Cultura e Direttore avocante dei Musei Reali di Torino, ribadisce che “la sua esposizione nel percorso di visita del Museo Diocesano, visibile anche dall’area archeologica della Basilica paleocristiana dalla quale proviene, va ad arricchire l’offerta culturale avviata due mesi fa in occasione del trecentesimo anniversario del Museo di Antichità, con l’apertura al pubblico dell’area archeologica annessa al Teatro Romano, parte integrante dei Musei Reali.”

All’insegna del proprio disegno in bianco e nero, il mosaico di San Salvatore si pone come non ultimo esempio di quella ricca serie di pavimenti musivi romanici che caratterizza l’Italia padana e il Piemonte in particolare, ricordando Acqui, Aosta, Asti, Casale Monferrato, Ivrea, Novara e Vercelli, pavimenti che riprendono tecniche di età romana e spesso l’utilizzo di materiali di quella stessa età. Qui abbiamo l’unione di due racconti che facevano parte dell’immaginario medievale, la mappa del mondo e la ruota della fortuna, una geografia del tempo ricavata ad esempio dai trattati enciclopedici di Isidoro di Siviglia e una morale che stigmatizzava la vanità delle glorie terrene. Nello splendore di quanto oggi si può ammirare, nonostante le tante parti ormai inesistenti, ecco il mondo allora conosciuto – Europa, Africa, Asia – circondato dal grande cerchio dell’Oceano con le sue acque e le sue onde, ai quattro angoli la collocazione dei dodici venti (questi in gran parte perduti) e all’interno animali (i leoni a significare l’Etiopia, l’elefante l’India, il bufalo con il giogo l’Europa, e ancora grifoni e due gru dalle lunghe gambe) e creature fantastiche, una sirena a doppia coda, ad alludere alle varie regioni della terra. Ecco al centro l’immagine della Fortuna, “una figura femminile avvolta in un manto che afferra i raggi della ruota e la fa girare, determinando il successo e la disgrazia degli uomini, rappresentati da un personaggio che sale, raggiunge il culmine della gloria e infine precipita, colpito dalla sventura. Un’iscrizione, parzialmente conservata, fungeva da introduzione e da monito a coloro che si accostavano alle figurazioni del pavimento, salendo dalla navata centrale della chiesa verso l’altare.”

Ancora una volta una testimonianza preziosa, una tappa di un percorso che dovrebbe aprirsi senza interruzioni – al riparo della sicurezza e crediamo soprattutto degli intoppi burocratici – all’interno della intera area archeologica, e che percorra le tre chiese – non soltanto San Salvatore ma le consorelle Santa Maria di Domno e San Giovanni Battista, riportate alla luce -, i resti di abitazioni romane e dell’antico palazzo vescovile, le arcate di un chiostro e il decumano che si vede alle spalle del teatro. Altresì un allestimento che è una traccia importante per un passato medievale relativamente avaro e “un occasione per pensare anche oggi, sulla scorta dei padri antichi, alla natura del destino che, come scrive Bernardo di Cluny nel 1150, ‘gira come una ruota… mutevole, variabile e sempre instabile’.”

Elio Rabbione

Candidina Bolognino di Agliè, un’amica per i Gozzano

Con la scomparsa delle cartoline che Gozzano aveva mandato dall’Oriente a Candidina Bolognino, si perdonoelementi anche utili a comprendere la formazione di Guido.

Un compito dello storico è il documentare il passato e, nel caso, loposso ancora fare, perché, da sempre, mi è consueto Agliè, dove ritrovo, oltre ai parenti nostri, i riflessi di qualche amicizia di famiglia e, tra queste, l’amica di mamma: Mary Prola col marito, dottor Roberto Bolognino! Sono persone che animano i nostri ricordi più lontani e, nella vivacità dei loro incontri, caratterizzati dal racconto del loro vissuto, che era sempre partecipato da tutti, costituiscono esempi, divenuti consueti anche a noi, di vita domestica, quando le loro presenze erano ancora usuali. Io, che ascoltavo gli adulti, in caso di necessità, richiedevo direttamente i chiarimenti che sentivo necessari

Il periodare facile ed il vociare faceto dei famigliari erano scanditi dal timbro baritonale della voce del Bolognino, un compagno di facoltà dell’avvocato Agnelli… che, col gradimento di tutti, raccontava della sua prima infanzia (per nulla inficiata dalla prematura scomparsa di quel suo padre medico, nato come Guido nel 1883). Egli ricordava le visite ad Agliè, e la zia Candidina che,presente Diodata Mautino, la madre di Gozzano, invitava lui,Roberto bambino, a recitare a memoria qualche brano poetico di GuidoAdulto, egli sarebbe stato un impiegato dell’INPS, ma rimanendo uno sportivo, diviso nella pratica tra il ciclismo, il nuoto e lo sci (quasi coll’approvazione postuma del Poeta di Agliè).

Quanto a luogo, noi riconosciamo un’abitazione storica dei Bolognino (sarà quella una delle due per cui, fin dal Seicento, essi furono esentati dalle tasse, per volere e grazia dei San Martino d’Agliè?). Quella in questione è un bel palazzo sei-settecentescodai lineamenti sobri, con un’ala a doppio porticato sovrapposto, il quale fa da sfondo alla signora Gozzano, ritratta con una nipote del marito, in una fotografia del 1940!

Fi qua tutto bene, ma, allora, chi era e che cosa faceva ad Agliè la zia di Bolognino?

Si diceva che, giovanissima, Tota Candidina avesse avuto un incidente in bicicletta e che, rimasta azzoppata, si muovesseaiutandosi col bastone, che fosse un’insegnante e che preparasse i ragazzi agli esami di licenza

Battezzata Candida (Giuseppa Silvia) (Agliè, 1879-1953), era la figlia maggiore dell’esattore Giuseppe Bolognino e di sua moglie,la saviglianese Felicita Vineis (un nome che sembra tratto dal campionario poetico di Guido)! La coppia aveva avuto altri tre figli: Luigi (1880-1882), Eugenio, (Agliè, 1883 – Torino, 1918), il futuro medico chirurgo padre del dottor Roberto, e la più giovane,Claudia (San Giorgio Canavese,1889 – Torino, 1941) che andòsposa a Francesco Ciurnelli da Perugia.

Candidina aveva lo stesso nome della sua nonna paterna.

Luisa Candida Quintina Pezza che era stata battezzata a Vico Canavese, dov’era nata, perché era una figlia del notaio di Agliè Francesco Zaverio Pezza (Torino, 1772 – Agliè, 1851) che, essendo anche avvocato, fu giudice di prima istanza e, sposo di Paolina del conte Vittorio Bosco di Ruffino, ebbe alcuni figli, nati nelle sedi che egli occupò, nel progredire della sua carriera.Candida Pezza aveva poi sposato il chirurgo Giovanni Battista Bolognino di Agliè.

Ad Agliè, Zaverio Pezza era stato il padrino di battesimo diMassimo Secondo Zaverio Mautino (Agliè, 1816-1873), il cui padre, misuratore Massimo Felice Mautino era morto prima che egli nascesse, pertanto l’avv. Pezza fu una figura maschile diriferimento per il commendator Mautino, il nonno di Guido Gozzano. Per questo motivo (e anche perché i fratelli Bolognino erano vicini in età ai figli di Diodata) le famiglie Bolognino e Gozzano furono sempre in buona amicizia.

Su Candidina Bolognino dice il necrologio, pubblicato sul bollettino parrocchiale di Agliè in data 6 gennaio 1954: «Bolognino Candida d’anni 74. Non era laureata, ma era chiamata professoressa per i molti alunni che ha preparato con felici esiti ad un Diploma. Molto conosciuta nel campo letterario anche per la sua amicizia col poeta Guido Gozzano. I giornali di Torino e la R.A.I. la ricordano come l’amica e confidente di Guido Gozzano. Buona e praticante cristiana, chiuse gli occhi alla terra nella semplicità francescana».

Si trattava di una zia nubile, più giovane di pochi mesi di Erina Gozzano, la sorella maggiore del poeta, che a sua volta era la sorella del medico Eugenio, come Guido Gozzano nato nel 1883, il quale aveva avuto una figlia, nata in Friuli, dov’egli era statomedico condotto, e del nostro torinese dottor Roberto!

Si sono immaginate tante storie sul nostro Poeta e, senza tener conto della malattia, che tanto pesò sulla sua vita, si è fantasticatotanto sulle donne che egli poté frequentare ma probabilmente, se si fosse indagato meglio, senza dar retta troppo retta a suo fratello Renato, la veri storica, e non i suoi ipotetici «pallidi amori», avrebbe detto meglio...

Carlo Alfonso Maria Burdet

(Ricordando l’amicizia tra le nostre mamme, dedico queste paginea Daniela Bolognino

che qui ringrazio soprattutto per il prezioso ritratto della sua prozia).

La storia dei Cavalieri Templari

Templari, ancora Templari. La mole di libri sui Cavalieri medioevali cresce sempre di più perché il fascino della ricerca templare consiste proprio nel non avere mai fine.

Ma di loro sappiamo proprio tutto? Faceva freddo quel mattino, lunedì 18 marzo 1314. Jacques de Molay, Gran Maestro dei Templari e Geoffrey de Charnay, precettore di Normandia, vengono condotti sul rogo e arsi vivi. Sulla Senna a Parigi, di fronte alla Cattedrale di Notre Dame, si spegne per sempre il sogno dei Templari. In realtà la loro rovina era già iniziata con una grande sconfitta militare a San Giovanni d’Acri nel 1291. I Mamelucchi, i nuovi padroni della Terra Santa, gettarono in mare gli ultimi crociati e uccisero i prigionieri feriti o troppo vecchi e le giovani donne furono violentate davanti a tutti. Era la fine dei cristiani in Palestina e di quel che restava del regno crociato. Ha un ritmo incalzante la saga dei Templari raccontata da Marco Salvador e Matteo Salvador nel libro “Storia dei Cavalieri Templari”, Edizioni Biblioteca dell’Immagine. Entrambi con la passione della ricerca storica ed esperti di strutture difensive, dai castelli medioevali alle fortificazioni degli ultimi conflitti mondiali, narrano le gesta dei Cavalieri tra vittorie sul campo e sconfitte, dai primi vagiti dell’Ordine del Tempio alla conquista musulmana di Acri passando per la disfatta di Hattin nel 1187, la perdita di Gerusalemme e la presenza di Federico II in Terra Santa. Ma il libro comincia dalla fine, dalla morte sul rogo degli ultimi templari. Gli ultimi giorni, le ultime ore di vita dei cavalieri del Tempio in forma di cronaca. “Fin dall’alba era stata proclamata a Parigi la sentenza di morte e l’ora dell’esecuzione. Una folla si era radunata sulla riva della Senna, la pira era pronta e il cancelliere iniziò a leggere ad alta voce la lunga lista delle accuse di eresia, di sodomia e di adorazione ma il popolo non pareva ascoltarlo e gridava qua e là “sono innocenti”. Finita la lettura, il cardinale si mise davanti al Gran Maestro dei Templari e chiese: “avete qualcosa da dire in vostra difesa?”. Jacques de Molay, l’ultimo Gran Maestro, non gli rispose ma si rivolse alla folla proclamando l’innocenza sua e di tutto l’Ordine. Li legarono al palo, il Gran Maestro chiese di recitare le preghiere e poi gridò: “ecco, ora sarò giustiziato e Dio sa quanto ingiustamente”. Dopo quelle parole si appiccò il fuoco alle fascine che avvolsero subito i due corpi.
Colpi di tosse e urla, poi nulla più”. Durante l’epoca delle Crociate l’Ordine del Tempio, nato nel 1118-1119 sulla spianata del Tempio a Gerusalemme, divenne l’organizzazione religiosa- militare più potente della Cristianità. Guerrieri e religiosi al tempo stesso, i Templari nacquero con il compito di difendere i pellegrini che si recavano ai luoghi santi dagli assalti dei predoni musulmani. Poi parteciparono come soldati a tutte le Crociate e a decine di battaglie in Terra Santa e in tutta l’area mediterranea. Un’ordine di monaci-guerrieri famoso non solo per il coraggio dei suoi Cavalieri in difesa della Terra Santa ma anche per le sue ricchezze. Il Tempio divenne infatti il principale potere finanziario della Cristianità e più di un terzo delle entrate venivano reinvestite nella difesa della Terra Santa. Dopo la perdita di Gerusalemme nel 1187 i cavalieri si spostarono a San Giovanni d’Acri dove si svolse l’estrema difesa contro i musulmani. Sconfitti dai Mamelucchi d’Egitto nel 1291 i Templari furono costretti ad abbandonare la Palestina e a insediarsi a Cipro. Sull’isola e nel resto dell’Europa diventeranno una potenza economica e politica. All’inizio del Trecento la storia cambiò radicalmente. Sofferente per la grave crisi economica in cui versava la sua nazione, Filippo IV il Bello, re di Francia, se la prese con i Templari per impossessarsi delle loro ricchezze e dei loro beni e li accusò di eresia. Nel 1307 furono arrestati e portati davanti ai giudici. Il sovrano li accusò impietosamente mentre Papa Clemente V cercò di salvarli ma fu poi costretto a sospendere l’Ordine nel Concilio di Vienne nel 1312. Due anni più tardi, nel 1314, l’ultimo Gran Maestro Jacques de Molay fu arso vivo sul rogo. Quella dei Templari fu una storia gloriosa con una fine tragica. Il ruolo di papa Clemente V nella fine dell’Ordine è stato finalmente chiarito dalla storica Barbara Frale che nel 2001 ha scoperto la pergamena di Chinon. Si tratta dell’atto originale dell’inchiesta avvenuta a porte chiuse nelle celle del castello di Chinon, dove erano reclusi i Templari, rinvenuto dalla studiosa dopo settecento anni di oblio nell’Archivio Segreto Vaticano. L’inchiesta di Chinon si concluse con l’assoluzione dei capi templari dall’accusa di eresia e il loro reintegro nella chiesa cattolica. Completa il libro di Marco e Matteo Salvador un suggestivo “viaggio pittorico” con decine di acquerelli e disegni realizzati dal pittore inglese David Roberts a metà Ottocento che ci consentono di vedere alcuni dei luoghi dove i Templari agirono, da Gerusalemme a Giaffa, da Gerico a Hebron, da Ascalona a San Giovanni d’Acri, da Tiro a Sidone.                  Filippo Re

La Farina, il siciliano sabaudo

Alla scoperta dei monumenti di Torino Una nota curiosa per quanto riguarda il monumento è la presenza, sul lato posteriore della balaustra, di un pannello decorato con il simbolo della Trinacria

Collocata all’interno di piazza Solferino, quasi all’altezza dell’intersezione con via Lascaris, la figura di La Farina è ritratta in piedi, appoggiata ad una balaustra. Le gambe sono leggermente sovrapposte in posizione rilassata ed indossa un cappotto chiuso dove sulla spalla sinistra, si dispiega un mantello che ricade sull’elemento architettonico. La Farina viene rappresentato mentre sta lavorando ad uno scritto: nella mano sinistra sorregge dei fogli che corregge con una penna stretta nella mano destra appoggiata anch’essa alla balaustra,mentre alle sue spalle un libro ferma alcuni fogli già letti. La balaustra presenta posteriormente un pannello decorato con il simbolo della Trinacria inquadrato tra due colonnine dal disegno complesso.

 

Nato a Messina il 20 luglio del 1815, Giuseppe La Farina fu un patriota, scrittore e politico italiano. Avvocato dalle idee liberali, sviluppò un interesse crescente per gli studi storici e letterari che lo portarono a pubblicare, lungo tutta la sua vita, numerosissimi scritti (tra i quali la Storia d’Italia dal 1815 al 1850) e a collaborare con giornali e riviste (è stato fondatore e collaboratore del giornale L’Alba che fu tra i primi a tendenza democratica-cristiana).

Nel 1837 cominciò a sostenere la causa per la liberazione della Sicilia, partecipando al primo movimento insurrezionale anti-borbonico. Dopo un periodo di esilio dall’isola, nel 1848 venne eletto deputato alla camera dei Comuni di Messina assumendo, in seguito, la carica di Ministro della Pubblica Istruzione; fece anche parte (assieme ad Emerico Amari) della missione incaricata di offrire la corona di Sicilia al Duca di Genova.

A seguito della riconquista borbonica della Sicilia, l’anno successivo si rifugiò in Francia da dove continuò la sua attività letteraria. Nel 1854 si stabilì a Torino e poco dopo fondò la “Rivista Enciclopedica Italiana”, il giornale politico “Piccolo Corriere d’Italia” e nel 1857 la Società Nazionale Italiana, un’associazione politica finalizzata a realizzare l’unità del Paese sotto la guida della Casa Savoia. La Società Nazionale Italiana aveva come presidente Daniele Manin e come vice presidente Giuseppe Garibaldi.

Dal 1856 venne chiamato a collaborare con Cavour che, nel 1860, gli affidò il delicato incarico di rappresentare in Sicilia il governo; dopo essere rientrato a Torino nel 1861, venne eletto al Parlamento italiano e nominato vice presidente della Camera dei Deputati. Muore a Torino il 5 settembre 1863. Subito dopo la sua scomparsa un comitato, composto da alcuni uomini politici, iniziò a sostenere l’erezione di un monumento alla sua memoria ma la proposta venne sospesa a causa dei lavori collegati al trasferimento della capitale da Torino a Firenze.

Nel novembre del 1866, grazie a Filippo Cordova (a quel tempo ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio), l’idea venne ripresa e fu aperta una pubblica sottoscrizione a livello nazionale; nel dicembre 1868 il Comitato promotore per l’erezione del monumento a Giuseppe La Farina, incaricòGiovanni Duprè, autorevole scultore toscano, della realizzazione dell’opera. Tuttavia fu solo dopo dieci anni e cioè nel 1878, che il progetto cominciò a prendere vita; Giovanni Duprè venne sostituito dallo scultore e scrittore palermitano Michele Auteri Pomar, che con le 24.000 lire raccolte, creò un monumento di una certa rilevanza.

Il monumento venne collocato nell’aiuola a mezzogiorno di piazza Solferino e fu inaugurato il 1 giugno del 1884, esattamente sedici anni dopo l’approvazione del progetto; il giorno precedente l’inaugurazione, i rappresentanti del Comitato promotore lo donarono con atto ufficiale alla Città di Torino.  Nel febbraio 1890, a seguito del progressivo distacco delle lettere bronzee che compongono l’epigrafe, il testo dell’iscrizione venne inciso sul fronte del basamento.

Una nota curiosa per quanto riguarda il monumento è (come già ricordato prima) la presenza, sul lato posteriore della balaustra, di un pannello decorato con il simbolo della Trinacria. Questo antico simbolo (Triscele per i greci e Triquetra per i romani), raffigura una testa gorgonica, con due ali, dalla quale si dispongono in giro simmetrico tre gambe umane piegate. La sua presenza sul monumento ricorda non solo le origini siciliane del personaggio, ma anche l’impegno da lui profuso nella lotta per l’indipendenza della Sicilia, durante la quale il bianco vessillo gigliato dei Borboni fu sostituito dal tricolore che recava al centro il simbolo triscelico.

 

Avendo già accennato la storia riguardante Piazza Solferino, grazie alle precedenti opere di cui abbiamo parlato, aggiungerò semplicemente che il monumento commemorativo a Giuseppe La Farina, dopo essere stato inaugurato nel 1884 all’interno dell’aiuola centrale meridionale, vi rimase fino al 2004, anno in cui la statua fu spostata per permettere alla piazza di ospitare i padiglioni Atrium per i Giochi Olimpici Invernali 2006. Il monumento fu provvisoriamente ricoverato all’interno di un deposito comunale per poi essere ricollocato, all’interno della piazza, il 16 giugno 2013. Oggi il monumento si erge in tutto il suo splendore all’interno di piazza Solferino.

 

Anche per oggi il nostro viaggio in compagnia delle opere di Torino termina qui. L’appuntamento è sempre per la prossima settimana per la nostra (mi auguro) piacevole passeggiata “con il naso all’insù”tra le bellezze della città.

 

 

Simona Pili Stella

C’era una volta Marianini il colto re dei flaneur

Lo vidi una sera attraversare trafelato e furtivo tra Corso Duca degli Abruzzi e Corso Luigi Einaudi Gianluigi Marianini e come in un confronto all’ americana, tra la mia memoria semantica televisiva e    l’osservazione    diretta, lo riconobbi con certezza probatoria, dal suo vestire    eccentrico fuori stagione abbinato alla fisionomia occhialuta e    vagamente cavouriana.

Una volta interpellato dal Mike nazionale a    ‘Lascia o Raddoppia’ (1956) di delucidarlo sui suoi studi teologici    ed    esoterici, affermò sfoderando tutta la sua icastica ironia, che avrebbe    voluto prendere i voti ma vi rinunciò ‘ad limina’ perché la sua incurabile astemia, gli avrebbe impedito l’uso del calice durante    l’offertorio. Al suo dotto inquisitore ( così appellava Mike Bongiorno)    che gli faceva notare l’uso dei guanti in trasmissione, Marianini lo    corresse definendoli aulicamente chiroteche e così rafforzando la    ”leggenda metropolitana” che lo voleva appartenente alla    massoneria.    Flaneur e perdigiorno non svolse mai una professione ufficiale e stabile nonostante fosse trilaureato in filosofia, giurisprudenza e diritto    canonico. Fu professore di filosofia dell’inventore del telequiz    all’Istituto Rosmini, dove osava apparire dietro la cattedra vestito di    una finta talare, quando Bongiorno soggiornò con sua madre a Torino    durante gli ultimi anni della guerra. Fu membro dell’ Ordine dei    Templari, esperto di occultismo, spiritismo e demonologia divenendo    consulente di Paolo VI sul fenomeno delle sette sataniche anche nell’area    torinese. Disse una volta di potersi permettere di ”vivere libero    e    alla giornata seguendo interessi puramente ideali”. Era una buona    forchetta e divenne gastronomo ”col pretesto di poter mangiare a  scrocco”. Estroso, poliedrico, geniale scrisse anche una serie di   poesie che raccolse nel volume che ha per titolo Apophàntica (1941,    editrice Le Collane) dove compare il componimento    assertivo ”Dichiarazione a Torino” sua città prediletta e    musa    ispiratrice. Partecipò anche al Laureato di Piero Chiambretti su Rai    Tre. E’ mancato nel 2009 a 91 anni a Vicoforte nel cuneese e riposa a    Mondovì accanto al sua amata moglie Ornella.  Anima fluttuante della  Magica Torino.
Aldo Colonna