STORIA- Pagina 14

Cocconato d’Asti borgo d’Italia

Sabato e domenica la latteria del paese viene presa quasi d’assalto, fuori c’è la coda  perché c’è più gente del solito che la vuole comprare ad ogni costo.

È la famosa robiola di Cocconato d’Asti, unica nel suo genere. È una piccola produzione locale ma, se l’assaggi, ne mangi subito due o tre di fila…quasi come le patatine. Fresca e gustosa, gli amanti del formaggio l’adorano e, per trovarla appena fatta, si arrampicano fin qui, sulle colline di Cocconato d’Asti, diventato da pochi giorni uno dei borghi più belli d’Italia per il suo splendore paesaggistico. Ebbene sì, la grande notizia è proprio questa: il borgo è il decimo più bello d’Italia, non tanto per la robiola Coconà e per il tradizionale Palio degli asini ma per lo straordinario panorama che si gode da queste colline, per la storia, le tradizioni del luogo e per i suoi monumenti. Lo ha decretato la trasmissione di Rai 3 “Il Borgo dei Borghi” che, dopo un concorso nazionale, ha visto trionfare Tropea, borgo calabrese, seguita da Baunei in Sardegna e Geraci Siculo in Sicilia. A rappresentare il Piemonte c’era Cocconato d’Asti diventato appunto il decimo borgo più bello di tutta la penisola. Tanto di cappello.. dopo Tropea e altri borghi costieri che si affacciano sui mari più strabilianti del mondo, paesi senz’altro più grandi e più conosciuti di Cocconato e che d’estate sono invasi da migliaia di turisti. Ma Cocconato, 1400 abitanti, noto come “La Riviera del Monferrato”, non è da meno e si fa bello soprattutto adesso con il fiorire della primavera. A 500 metri di altezza dista circa 30 chilometri da Asti e 50 da Torino. La storia di questo paese è strettamente legata a quella dei Conti Radicati, la stessa famiglia proprietaria del castello di Passerano Marmorito, distante pochi chilometri da Cocconato. Da vedere, come edifici e monumenti di interesse storico e artistico, ci sono la chiesa della Santa Trinità con una tela di Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, la chiesa di Santa Caterina del Quattrocento, una farmacia settecentesca, il palazzo comunale, Palazzo Martelletti, residenza nobiliare del Trecento, e la torre del Castello medievale.

Eretto in cima alla collina nel X secolo, il maniero fu distrutto durante le lotte tra Guelfi e Ghibellini, fu ricostruito alla fine del XV secolo e nuovamente demolito nel Cinquecento. Rimase solo la torre merlata dalla quale è possibile ammirare, nelle giornate più luminose, la catena delle Alpi e la fisionomia di alcune città del Piemonte. A questo punto non ci resta che attendere la zona gialla e poi una gita a Cocconato è più che consigliabile..                                       Filippo Re

Il marmo di Candoglia e il sigaro del signor Brusa

STORIE PIEMONTESI  a cura di https://crpiemonte.medium.com/

A monte della frazione di Candoglia nel comune di Mergozzo, sulla sinistra del fiume Toce, proprio all’imbocco della Val d’Ossola, si trovano le cave dalle quali proviene il marmo del Duomo di Milano

di Marco Travaglini

L’idea di usare quella pietra bianca, screziata di rosa, al posto del mattone per la costruzione della cattedrale fu di Gian Galeazzo Visconti che, per rifornirsi della materia prima, fondò la “Veneranda Fabbrica del Duomo”.

Image for post

Accendersi un sigaro

Il Signore di Milano, affascinato dalla bellezza cristallina del marmo, cedette in uso alla Fabbrica le cave di Candoglia, concedendo altresì il trasporto gratuito dei marmi fino al capoluogo lombardo, attraverso le strade d’acqua. Era il 24 ottobre 1387. E, da allora, per secoli, da quelle cave si è estratto il marmo che è servito a costruire il monumento simbolo del capoluogo lombardo, dedicato a Santa Maria Nascente, sormontato dalla madonnina che venne innalzata sulla guglia maggiore del Duomo negli ultimi giorni di dicembre del 1774.

Image for post

Il Duomo di Milano

Si trattava di un lavoro faticoso, ritmato da picconi, mazze, punte, cunei e palanchini. Così, partendo dall’impressionante caverna della cava Madre, la montagna è stata risalita, scavandola nel ventre, tagliando i blocchi di pietra con il filo in metallo. Il trasporto via acqua del materiale avveniva dal Toce al Lago Maggiore, lungo il Ticino e il Naviglio Grande per finire nel cuore della città fino alla darsena di S. Eustorgio, a Porta Ticinese. Così, grazie ad un ingegnoso sistema di chiuse, realizzato dalla “Veneranda Fabbrica”, il prezioso carico arrivava fino a poche centinaia di metri dal cantiere della Cattedrale. I barcaioli, per entrare in città senza pagare il dazio, utilizzavano una parola d’ordine — “Auf” — che in realtà era l’abbreviazione di Ad usum fabricae, cioè ad uso della Fabbrica, con la quale potevano passare senza versare il tributo imposto.

Image for post

Il naviglio grande di milano negli anni 50

In Lombardia, e non solo, è rimasta traccia di quell’usanza nell’espressione “A ufo” , intesa come “gratuitamente”. Chissà, poi, perché, a differenza del “gratis”, si è sempre più connotata con un profilo negativo, ma questa è un’altra storia… Il Cavalier Agenore Brusa, grossista di legname, proveniva da una delle famiglie che avevano, per generazioni, fornito il materiale alla Veneranda, un fatto che lo rendeva oltremodo orgoglioso. “Bei tempi quelli, caro Giovanni. Mio nonno, prima, e mio padre poi hanno lavorato per la Fabbrica di Candoglia tutta la vita. E ora, dopo che anch’io ho fatto la mia parte, tocca al mio Giulio tenere alto il buon nome dei Brusa” era solito ripetere all’amico Ambrogini.

Image for post

I sigari

Il ragionier Giovanni Ambrogini era il braccio destro del signor Brusa. Da oltre trent’anni, senza mancare un giorno dall’ufficio, teneva con scrupolo la contabilità della “Brusa & Figli”. Era diventato, per Agenore, quasi un fratello. E come tale lo trattava, chiedendo consigli e ascoltandone i punti di vista che, immancabilmente, teneva in gran considerazione. Per il resto, grazie all’impegno di tutti, la “Brusa & Figli” era un’azienda più che solida e al fidatissimo contabile l’anziano titolare garantiva un adeguato stipendio, commisurato ai suoi servigi. Da troppo tempo, per mille ragioni, il signor Agenore non si recava a Milano, in visita al Duomo. L’ultima volta, con uno sforzo di memoria, immaginò fosse stata quand’era nato il piccolo Giulio. Ma da allora, di anni n’erano passati ben trentadue. “Occorre andarci, a Milano”, comunicò al ragioniere. “E ci andremo insieme, caro Giovanni. Così vedrai anche tu come sono conosciuto in quella città. Devi sapere che è proprio grazie alla mia attività al servizio della Fabbrica del Duomo che mi hanno insignito del titolo di Cavaliere del Lavoro”.

Image for post

La cava madre del Duomo a Candoglia

Agenore teneva moltissimo a quel titolo e amava, come lui stesso affermava, “vestirsi con l’abito giusto”, quello “da Cavaliere”, una divisa che, per l’imprenditore, equivaleva a pantaloni e giacca di fustagno scuro, camicia bianca e corto cravattino nero, scarpe comode e, in testa, un vecchio “Panizza” di feltro al quale teneva molto, regalatogli dal padre Igino. I due partirono dalla stazione di Verbania-Fondotoce con il treno delle 6,29. Era un sabato e non faticarono a trovare posto a sedere sul treno mezzo vuoto, dato che gran parte dei pendolari che si recavano ogni giorno a Milano per lavoro avevano terminato la loro settimana. A Porta Garibaldi presero la linea verde della metropolitana fino a Cadorna e da lì, con la linea rossa, giunsero a destinazione alla fermata “Duomo”. Uscendo dalla metropolitana, in cime alle scale, si trovarono davanti l’imponente e gotica sagoma del Duomo. “Ah, che meraviglia”, esclamò estasiato il Cavalier Brusa, agitando la mano destra dove, tra indice e medio, teneva l’immancabile sigaro toscano. Il ragionier Ambrogini, estrasse dalla tasca un piccolo bloc-notes , leggendo i suoi appunti. “La quarta chiesa in Europa per superficie, dopo San Pietro in Vaticano, l’anglicana Saint Paul di Londra e la cattedrale di Siviglia ;la più importante dell’arcidiocesi milanese, sede della parrocchia di Santa Tecla..”. Il buon Giovanni, preciso come un ferroviere svizzero, si era documentato ben bene. Al Cavaliere quell’accuratezza, diligente e meticolosa, piaceva molto. In molti consideravano l’Ambrogini un pignolo, persino un po’ pedante, ma ciò che i più consideravano un difetto, per Agenore Brusa rappresentava una qualità. E che qualità: cura, scrupolo e rigore! Il massimo che potesse desiderare dal suo più stretto e fidato collaboratore.

Image for post

La Veneranda Fabbrica alle cave di Candoglia

Lo ascoltava, ammaliato, senza dimenticarsi di ricambiare — con un cenno di capo — al saluto che gli era stato rivolto da alcuni passanti. “Ci sono voluti cinque secoli per costruirlo, durante i quali si sono avvicendati nella Fabbrica del Duomo architetti, scultori, artisti e maestranze, provenienti da tutta Europa. Il risultato è un’architettura unica, una felice fusione tra lo stile gotico d’oltralpe e la tradizione lombarda. Con una decorazione impressionante di guglie, pinnacoli, cornici e un patrimonio immenso di oltre tremila statue. E sulla più alta delle 145 guglie, la celeberrima Madonnina che non è d’oro, ma ricoperta di fogli d’oro”. Il ragioniere era, come sempre, sintetico ed esauriente. A quel punto il Cavalier Brusa lo esortò a varcare il doppio portale in bronzo.

Image for post

La Veneranda Fabbrica del Duomo

Forza, Giovanni. Andiamo a vedere anche all’interno com’è stato magistralmente lavorato il nostro marmo! A proposito, hai visto che persone ben educate? Salutano, cortesemente. Si vede che anche qui conoscono i Brusa, con tutto quello che abbiamo fatto per Milano, eh?”. Spento il toscano sotto la suola della scarpa e riposto in tasca il resto del sigaro ( Brusa era un parsimonioso e il suo motto era “non si butta via niente”), entrarono in Duomo, rimanendo a bocca aperta davanti alle cinque navate. Quella centrale, poi, era davvero ampia e alta e ai lati si potevano ammirare magnifiche vetrate istoriate che raffiguravano scene religiose. Una di esse, superba, rappresentava il Giudizio Universale. Il Cavalier Brusa, informato dal fedele Giovanni, di ciò che conteneva la teca sopra il coro, voleva a tutti i costi ammirare quel chiodo che si riteneva provenisse della croce di Gesù e si avviò in quella direzione con ampie falcate. Mentre camminava, s’accorse degli insistenti sguardi da parte delle persone che incontrava.

Image for post

Una targa commemorativa della visita di Paolo VI alla cava

Alcuni sgranavano gli occhi, altri si davano di gomito. Mentre avanzava impettito, gli venne incontro un sacerdote in chiaro stato d’ansia, visibilmente affannato. Il prelato , rivolto al Cavaliere, ripeteva concitato la stessa breve frase, in milanese: “ Sciur, al Brüsa”, “Sciur, al Brüsa”, “Sciur, al Brüsa”. Agenore Brusa, voltandosi verso il ragionier Ambrogini, disse soddisfatto: “Vedi, Giovanni. Qui mi conoscono tutti”. Solo in quel momento il povero ragioniere s’accorse che la marsina del suo principale stava andando in fiamme. Evidentemente il toscano non era stato spento bene e si era ravvivato nella tasca. Il prete, sicuramente lombardo e certamente alterato, aveva lanciato l’allarme rivolgendosi al Cavaliere in dialetto meneghino e quel “Sciur, al Brüsa”, più che ad una individuazione dell’identità del signor Agenore equivaleva all’allarmante fumo che proveniva dal vestito del medesimo, ignaro, visitatore del Duomo. Così, spento l’incendio, i due lasciarono la cattedrale e Milano, frastornato e ammutolito, Giovanni Ambrogini, contrariato e scuro in volto, il Cavaliere che, una volta tanto e suo malgrado, era stato costretto a venir meno al suo principio del “non buttar via niente”, lasciando in un bidone della spazzatura la giacca bruciacchiata e quel resto di sigaro che aveva tenuto per il viaggio di ritorno.

La berlina carrozza di gala di Napoleone è tornata restaurata alla palazzina di Caccia di Stupinigi

È ritornato in loco, nel suo luogo originale, la Palazzina di Caccia di Stupinigi, la berlina di gala napoleonica recentemente restaurata.

Il manufatto, appartenuto anche a Gustavo Rol, rappresenta una testimonianza significativa della presenza napoleonica in Italia, che verrà narrata da due appuntamenti promossi dalla Fondazione Ordine Mauriziano.

Domenica 15 settembre, alle 15.45, è in programma un viaggio nel periodo napoleonico con “life istantanee di corte” , l’evento d Living History che rievoca la vita quotidiana di quel momento storico particolare in cui la Palazzina era luogo di svago della Corte Imperiale di Napoleone e della sorella Paolina Borghese Bonaparte. Sarà  possibile per il pubblico interagire con i figuranti.  Giovedì 17 ottobre, alle 16, si terrà una visita guidata a cura di Alessia Giorda, che indagherà il rapporto tra Napoleone e il Piemonte, seguita da una conferenza di Paolo Palumbo, che narrerà le vicende di Camillo Borghese, cognato di Napoleone, e il cerimoniale legato a Stupinigi.

La carrozza fu fatta costruire intorno al 1805/10 e realizzata dal carrozziere Jean Ernest Auguste Getting, uno dei massimi fornitori delle scuderie imperiali napoleoniche.

È probabile che la carrozza abbia fatto parte del corteo che condusse Napoleone a Milano per l’incoronazione a Re d’Italia, con tappa intermedia a Stupinigi. La carrozza passò poi alla seconda moglie di Napoleone, Maria Luigia d’Austria, dal 1816duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla. Fu nel 1845 che la  carrozza venne acquistata dal farmacista Antonio Delavo, che la inserì in un museo fatto allestire nella sua villa dedicato alla battaglia di Marengo. Alla vendita della villa, nel 1947, la carrozza fu lasciata senza particolari cure in un magazzino dell’antiquario di Novi Ligure Edilio Cavanna. Venne poi acquistata da Gustavo Rol e il 3 giugno 1955, per intervento della Sovrintendenza alle Gallerie del Piemonte nella persona di Noemi Gabrielli, passò di proprietà all’Ordine Mauriziano e fu destinata alla Palazzina di Caccia di Stupingi. Di recente è stata restauratanel 2021dal Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale”.

 

Mara   Martellotta

“Le ossa della Terra. Primo Levi e la montagna”

 

Al “Museo Nazionale della Montagna Duca degli Abruzzi”, una mostra dedicata al grande cantore della Shoah e al suo profondo amore per la montagna

Dal 26 gennaio al 13 ottobre

La montagna come totale libertà. Come luogo miracoloso capace di darti forza, ancor più forza, dopo l’ennesima caduta. Di spingerti a ignorare e a sfidare le più terribili ingiustizie e nefandezze concepite dal genere umano. Libertà che in pianura te la sogni, manco a pagarla a peso d’oro. Eppure sarà proprio fra le tanto amate montagne della Vallée che il grande Primo Levi, dopo l’armistizio dell’8 settembredel ’43, perderà la sua libertà. Una trappola mortale che lo segnerà per tutta la vita. “In montagna – annotava il chimico-scrittore in “Piombo” da ‘Il sistema periodico’è diverso, le rocce, che sono le ossa della terra, si vedono scoperte, suonano sotto le scarpe ferrate ed è facile distinguere le diverse qualità: le pianure non fanno per noi”. Parole di totale abbandono e confessione d’amore per quelle “terre alte”, che Primo Levi (Torino, 1919 – 1987) continuerà a frequentare e a raccontare fino agli ultimi suoi giorni in terra.

 

Una passione narrata oggi, con saggia intelligenza, nelle sale del “Museomontagna” di Torino, in una rassegna (programmata fino a domenica 13 ottobreprossimo) con cui la struttura museale di Piazzale Monte dei Cappuccini inaugura insieme due importanti eventi: la celebrazione dei suoi primi 150 anni di vita e la “Giornata della Memoria”, in calendario, come ogni anno, il prossimo 27 gennaio. Il percorso espositivo (a cura di Guido Vaglio con Roberta Mori e sviluppato in collaborazione con il torinese “Centro Internazionale di Studi Primo Levi”) invita a scoprire il legame ancora poco conosciuto tra lo scrittore torinese e la montagna, nato negli anni dell’adolescenza e tragicamente legato al destino dello scrittore. Fu infatti in Valle d’Aosta, nel villaggio di Amay sul Col de Joux, che fu arrestato dalla milizia fascista, insieme ad altri due compagni della piccola banda di “Giustizia e Libertà”, nel dicembre del ’43, per essere  trasferito, come ebreo e partigiano, nel Campo di Fossoli prima e successivamente ad Auschwitz, in Polonia. All’indomani dell’8 settembre 1943, l’espressione “andare in montagna” era infatti diventata sinonimo di una precisa scelta di campo, quella di aderire alla “lotta partigiana”. Sopravvissuto al lager (in quella perfetta tempesta di improbabile “casualità” raccontata nell’iconico “Se questo è un uomo”) e tornato a Torino nell’ottobre del ’45, sarà ancora una volta la montagna a favorire e a consolidare l’amicizia di Levi con altri due protagonisti del nostro Novecento: Mario Rigoni Stern e Nuto Revelli, testimoniata in mostra dalla “pietra” con incisione della poesia“A Mario e a Nuto”, proveniente dalla “Fondazione Nuto Revelli” di Cuneo.

Levi fece incidere la poesia su una pietra di fiume per suggellare una sorta di patto “di cui la montagna, da cui quella pietra veniva, costituiva in qualche modo il testimone – scrive Marco Revelli nel catalogo della mostra –come se la montagna rappresentasse l’occasione di un nuovo inizio”. Particolare curioso, troviamo anche in mostra, per la prima volta esposto al pubblico – fra fotografie storiche, oggetti, documenti, volumi,manoscritti ed estratti video provenienti da archivi pubblici e privati, oltre che dai familiari dello scrittore, dal “Centro Primo Levi” e dallo stesso “Museo” – un paio di sci di Primo Leviche testimonia la sua breve esperienza partigiana, lasciati dallo scrittore ad Amay e poi utilizzati dal partigiano Ives Francisco per fuggire in Svizzera.

I documenti “Le cronache di Milano” eI Libri segreti” provenienti dall’archivio di Massimo Gentili-Tedeschi forniscono invece uno spaccato inedito del 1942, periodo in cui Levi trovò un impiego alla fabbrica “Wander” di Crescenzago e si trasferì a Milano, ospite della cugina Ada Della Torre. Qui trascorse, con altri sei giovani torinesi, un breve ma intenso periodo di vita in comune, testimoniato da disegni, caricature, filastrocche e vignette che raccontano la vita di quel periodo con leggerezza e ironia, pur nella consapevolezza della situazione in cui si viveva, il cui esito tragico non avrebbe tardato a manifestarsi.

Esemplari anche le “Citazioni” di Levi che accompagnano in mostra il visitatore. Otto parole-chiave in cui si traduce perfettamente l’essenza dell’amore dello scrittore per la montagna che era e sarà sempre per lui: Natura, Materia, Letteratura, Trasgressione,Riscatto, Amicizia, Scelta e Liberazione. In un’unica espressione: la “carne dell’orso”, di cui parla nel bellissimo capitolo “Ferro” da “Il sistema periodico”, quale frase a lui rivolta dal grande amico di vita e di scalate, Sandro Delmastro, durante un rischioso bivacco in quota in pieno inverno. “Il peggio che ci possa capitare – così Sandro – è di assaggiare la carne dell’orso”. Quella carne, molti anni dopo, rimpianta da Levi “poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino”.

Gianni Milani

“Le ossa della Terra. Primo levi e la montagna”

Museo Nazionale della Montagna, Piazzale Monte dei Cappuccini 7, Torino; tel. 011/6604104 o www.museomontagna,org

Fino al 13 ottobre

Orari: dal mart. al ven. 10,30/18; sab. e dom. 10/18

Nelle foto, da “Centro Studi Primo Levi”, “Fondazione Nuto Revelli” e “Famiglia Levi”: “Prmo Levi sul tetto del Rifugio Sella” (Cogne, aprile 1940), “Sci”, “Pietra di fiume Po” e “Primo Levi al Pian de la Tornetta” (31 luglio 1983)

 

Antonio Baratta. Un giornalista battagliero nella Torino ottocentesca

Fu giornalista battagliero e poeta nella Torino dell’Ottocento, scrisse sulla “Gazzetta di Torino”, sul “Messaggiere Torinese” e pubblicò un suo quotidiano “Il Torinese”. Nato a Genova ma torinese di adozione Antonio Baratta è un bel personaggio che andrebbe rivalutato. Peccato che Torino l’abbia dimenticato

Per trovare notizie su di lui bisogna sfogliare i libri sull’Impero Ottomano o su Bisanzio o avere la fortuna di trovare qualche rara biografia. Nato nel capoluogo ligure nel 1802 Antonio Baratta fu giornalista, diplomatico, poeta, scrittore di epigrammi e vivace contestatore.

Compagno di scuola di Giuseppe Mazzini si laureò velocemente in legge e a vent’anni si trasferì a Torino dove fu nominato direttore delle Regie Dogane. Incassava un buon stipendio ma il suo sogno era quello di entrare in diplomazia e servire la patria in Oriente. E così fu, divenne allievo console e partì per Costantinopoli nel 1825. La sua vita fu un continuo susseguirsi di avventure cavalleresche e spericolate. Fin dall’inizio, quando durante il viaggio verso Istanbul prese parte all’attacco di una nave pirata nel porto libico di Tripoli. Il coraggio dimostrato gli valse la nomina a Cavaliere dell’Ordine Mauriziano. Aveva un carattere esuberante ed era un po’ troppo rissoso. Un improvviso duello con un funzionario dell’ambasciata francese costrinse il console generale piemontese a cacciarlo dalla città. Lasciò a malincuore Costantinopoli nel 1831 ma rimase in Oriente recandosi nei Paesi arabi dove lavorò in diversi consolati. Amò la “seconda Roma” e la sua ammirazione per la cultura turca lo spinse a scrivere alcuni libri sulla capitale imperiale ottomana e sulle bellezze del Bosforo. I suoi volumi ci forniscono la descrizione di luoghi e costumi con dettagliate informazioni sulla vita politica e amministrativa dell’Impero dei sultani. Baratta è uno dei tanti osservatori stranieri che hanno soggiornato e lavorato nel Paese della Mezzaluna nella prima metà dell’Ottocento, durante il periodo del “Tanzimat”, la fase delle prime riforme mirate a modernizzare la Turchia e ad aprirla alla civiltà europea e occidentale, avviato dal sultano Mahmud II. A Torino fa il giornalista, un giornalismo di battaglia, e sui giornali attacca autorità e potenti con veemenza e coraggio ironizzando sulla vita politica del Regno. Si farà notare per il pessimo modo di vestire, quasi sempre senza camicia, e soprattutto per gli epigrammi pungenti che Baratta scrisse a Torino in varie occasioni e che dopo la sua morte divennero oggetti da collezionismo. Nelle città in cui visse non tenne sempre una condotta seria e impeccabile e gli scandali non mancarono. Contrasse debiti e una volta sparò addirittura a un funzionario dell’ambasciata francese a Istanbul per un litigio riguardante un orologio d’oro e ad Alessandria d’Egitto faceva la corte alle mogli dei connazionali rischiando la carriera. Antonio Baratta lo troviamo citato nel prezioso “Romanzo di Costantinopoli, guida letteraria alla Roma d’Oriente” di Silvia Ronchey e Tommaso Braccini. “Per i suoi epigrammi, scrivono gli autori del libro, fu paragonato anche a Dante e a Rabelais, a Voltaire e a Lafontaine. Qualcuno vide in lui, l’immagine rediviva dei grandi genii che apparvero sulla terra nelle epoche di sociali rivolgimenti”. Carlo Alberto Piccablotto, profondo conoscitore della storia torinese, scomparso alcuni anni fa, gli ha dedicato la biografia “ Antonio Baratta. Gli immortali epigrammi del Cavaliere senza camicia”. Nella nostra città Baratta trascorse anche gli ultimi anni della sua vita che avrebbe potuto essere ben più lunga. Passeggiando al Valentino gli cadde in testa una quercia. Morì schiacciato a 62 anni. Strano che Torino non gli abbia dedicato neanche una via o una piccola statua… magari al Valentino…

Filippo Re

Il Castelletto di Buriasco tra platani e scuderie

Un castelletto di frontiera, nel luogo che un tempo segnava il confine tra il Ducato dei Savoia e la Francia. È il Castelletto di Buriasco, si chiama così, in realtà è una grande villa immersa nella campagna di Buriasco al confine con Pinerolo. Un lungo affascinante viale reso splendido da 101 platani secolari conduce il visitatore all’ingresso dell’edificio di proprietà della famiglia Sciolla che, d’intesa con il Fai, il Fondo per l’ambiente italiano, l’ha aperto ai turisti per un solo weekend, altrimenti, essendo proprietà privata, è chiuso al pubblico.
Un avvertimento: se non conoscete la zona e vi affidate al navigatore specificate Castelletto di Buriasco, se scrivete invece Castello di Buriasco finite la corsa al castello-ristorante del paese, peraltro chiuso da tempo. Il Castelletto è un’antica residenza signorile del Settecento, il cui nucleo originario risale però al Quattrocento, collocato nella pianura pinerolese, teatro di grandi battaglie tra i Savoia e i francesi nel Cinquecento e nel Seicento. Come la battaglia della Marsaglia nel 1693 che si concluse con la vittoria dei francesi del maresciallo Catinat contro Vittorio Amedeo II di Savoia. Il palazzotto si divide tra la parte nobile con gli appartamenti dei proprietari e un secondo nucleo per le attività agricole e zootecniche.
Fino a qualche secolo fa c’era il ponte levatoio: sulla parete nord dell’edificio sono ancora visibili le aperture per le catene che sostenevano il ponte poi rimosso nell’Ottocento così come il fossato che è stato riempito. Quando la proprietà fu comprata da Luigi Sciolla nel 1830 dai conti Valperga Santus il castelletto fu molto ristrutturato.
Da notare il loggiato sulla facciata che serviva per la coltivazione del baco da seta mentre in seguito è stato usato per alloggiare le truppe. Nel “nucleo aulico” della villa si trova l’abitazione dei proprietari con tante sale, del biliardo, da pranzo, la biblioteca con libri antichi, il salone con gli affreschi e la vecchia selleria. Non mancano le scuderie, qui i fratelli Piero e Raimondo D’Inzeo, pluricampioni olimpici nell’equitazione, erano di casa, grandi amici dei Sciolla, e le carrozze da concorso.
                                                                                       Filippo Re

San Giacomo di Stura, Abbazia dimenticata

Viandanti, mercanti, pellegrini e crociati affollavano le strade della penisola che portavano a Roma e ai porti d’imbarco per la Terra Santa.

Era l’epoca della II Crociata, a metà del Duecento: si andava a combattere in Anatolia, Palestina e in Egitto mentre tanti altri pellegrini stipavano le galee per raggiungere la Città Santa, appena riconquistata dai crociati, per pregare nei luoghi santi del cristianesimo. Si partiva da ogni città dell’Europa occidentale, dalla Francia, dalla Germania, dall’Italia, il cammino era lungo e faticoso e non privo di pericoli. Lungo strade e sentieri si incontravano locande e piccoli ospedali che offrivano assistenza, cibo e cure. Una meta sospirata dai pellegrini dopo aver percorso centinaia di chilometri. Uno di questi luoghi fu individuato in un monastero-ospedale costruito dai monaci vallombrosani di San Benedetto di Piacenza al di là del fiume Stura nel torinese. Nel 1146 il giurista Pietro Podisio, appartenente a un importante famiglia torinese, donò ai religiosi dei terreni per edificare un “hospitalem”, fuori le mura di Torino, allora piccolo borgo di poche migliaia di abitanti, al fine di prestare assistenza e alimenti a chi si fermava per riposarsi in attesa di riprendere il cammino. Si diedero un gran daffare i monaci che oltre ad aiutare senza risparmio poveri e ammalati gestirono anche il servizio di traghetto sulla Stura ed è da qui che deriva il nome del quartiere torinese “Barca”. Nacque così un convento-ospedale situato lungo i tragitti della via Francigena diretti a Roma e verso i porti pugliesi dove ci si imbarcava per il Levante. Il complesso religioso è diventato l’Abbadia vallombrosana di San Giacomo di Stura, uno dei più importanti monumenti storico-artistici del Medioevo torinese la cui storia è raccontata nel libro “San Giacomo di Stura, la storia dell’Abbadia vallombrosana alle porte di Torino, vestigia “dimenticate” del Medioevo subalpino”, Neos edizioni, dal poeta, traduttore e medievista Roberto Rossi Precerutti. Il periodo di massima fioritura non durò molto e già nel XIII secolo iniziò il declino del monastero che nel Quattrocento fu unito alla mensa vescovile di Torino e poi nel Settecento divenne una parrocchia intitolata a San Giacomo. Nel Novecento la chiesa fu circondata da cascinali e fabbricati industriali sorti lungo la strada che mette in comunicazione Torino e Settimo. Danneggiata dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale fu dichiarata inagibile nel ’54 e negli anni Sessanta fu sconsacrata e ceduta ai privati. Nel giugno 1972, inoltre, un incendio distrusse la galleria del coro e gli affreschi. Oggi l’Abbadia di San Giacomo è assai mal ridotta e versa in stato di abbandono dagli anni Cinquanta. Resta la chiesa con il sagrato e il perimetro del chiostro. La speranza è che i lavori di restauro della chiesa e dello spettacolare campanile, alto 24 metri, iniziati alcuni anni fa, possano presto restituire alla comunità questa preziosa testimonianza storica medioevale. Il libro di Roberto Rossi Precerutti è accompagnato da una serie di tavole di Emilia Mirisola che illustrano lo splendore del monastero nei secoli passati.
Filippo Re

Pietro Micca, nel bronzo la storia di un eroe popolare

/

Nel 1863, dopo un primo e vano tentativo di fusione della statua, il fonditore francese Pietro Couturier portò a termine l’incarico assegnatogli; il Consiglio Comunale scelse quindi di innalzare la statua poco lontano dal luogo stesso dove un secolo e mezzo prima era successo il fatto, cioè di fronte al Mastio della Cittadella il quale, in onore dell’evento, venne opportunamente restaurato a carico del Ministero della Guerra

Il monumento è collocato all’angolo tra via Cernaia e corso Galileo Ferraris, nel giardino dedicato ad Andrea Guglielminetti. La statua ritrae Pietro Micca, posto sulla sommità di un alto basamento modanato, in posizione eretta con la divisa degli artiglieri presumibilmente nell’atto fiero e consapevole che precede lo scoppio delle polveri. Infatti, mentre nella mano destra tiene la miccia, la sinistra è serrata a pugno quasi a voler enfatizzare, unitamente alla tensione della leggera torsione, il momento decisivo che precede l’innesco delle polveri (in riferimento all’episodio eroico che lo rese celebre).

 

Pietro Micca nacque a Sagliano il 6 marzo 1677 da una famiglia dalle origini modeste. Arruolato come soldato-minatore nell’esercito del Ducato di Savoia, è storicamente ricordato per l’episodio di eroismo durante il quale perse la vita al fine di permettere alla città di Torino di resistere all’assedio del 1706, durante la guerra di successione spagnola.La tradizione narra che la notte tra il 29 ed il 30 agosto 1706 (e cioè durante il pieno assedio di Torino da pare dell’esercito francese) alcune forze nemiche entrarono in una delle gallerie sotterranee della Cittadella, uccidendo le sentinelle e cercando di sfondare una delle porte che conducevano all’interno. Pietro Micca, che era conosciuto con il soprannome di passepartout, decise (una volta capito che lui ed il suo commilitone non avrebbero resistito per molto) di far scoppiare della polvere da sparo allo scopo di provocare il crollo della galleria e non consentire il passaggio alle truppe nemiche. Non potendo utilizzare una miccia lunga perché avrebbe impiegato troppo tempo per far esplodere le polveri, Micca decise di impiegare una miccia corta, conscio del rischio che avrebbe corso. Fece allontanare il suo compagno con una frase che sarebbe diventata storica “Alzati, che sei più lungo d’una giornata senza pane” e senza esitare diede fuoco alle polveri.

Morì travolto dall’esplosione mentre cercava di mettersi in salvo correndo lungo la scala che portava al cunicolo sottostante; era il 30 agosto del 1706.Il gesto eroico del minatore-soldato sarà riconosciuto in seguito durante tutto il Risorgimento come autentico simbolo di patriottismo popolare, sino ad essere ricordato ai giorni nostri.L’idea di celebrare con un monumento l’eroe popolare, nacque già nel 1837 dal Re Carlo Alberto alla morte dell’ultimo discendente maschile del soldato ‘salvatore’ della Città. Modellato dallo scultore Giuseppe Bogliani, il busto di Pietro Micca (rigorosamente in bronzo) ritraeva l’eroe con il capo coronato di gramigna con accanto una Minerva-guerriera seduta con una corona di quercia. Il monumento però non sembrava rispondere completamente al concetto di popolare riconoscenza con cui si sarebbe voluto ricordare Pietro Micca e così venne per così dire abbandonato all’interno dell’ Arsenale di Torino. Dopo circa vent’anni, nel 1857, da parte di uno scultore dell’Accademia Albertina di Belle Arti, Giuseppe Cassano, venne ripresa l’idea di ritrarre Pietro Micca.

Il Consiglio comunale, in seduta del 29 maggio 1858, approvò l’iniziativa ed il Re Vittorio Emanuele II espresse il desiderio che la statua del Micca venisse realizzata in bronzo ed eseguita nelle fonderie dell’Arsenale. In momenti differenti il Parlamento stanziò per il monumento L. 15.000 con le quali vennero pagate le sole spese di fusione; unitamente la sottoscrizione pubblica stanziò L. 2.200 (appena utili al rimborso dello scultore Cassano), L. 7.700 a Pietro Giani per la realizzazione del piedistallo e L. 2.000 per la posa in opera, arrivando così ad un costo totale di L. 26.900.

Nel 1863, dopo un primo e vano tentativo di fusione della statua, il fonditore francese Pietro Couturier portò a termine l’incarico assegnatogli; il Consiglio Comunale scelse quindi di innalzare la statua poco lontano dal luogo stesso dove un secolo e mezzo prima era successo il fatto, cioè di fronte al Mastio della Cittadella il quale, in onore dell’evento, venne opportunamente restaurato a carico del Ministero della Guerra. La sera del 4 giugno 1864 venne finalmente inaugurato il monumento ad onorare il gesto eroico del soldato-minatore di Sagliano.L’importanza dell’impresa di Pietro Micca è celebrata anche nel Museo che porta il suo nome, luogo dove è esposto il monumento a Pietro Micca del Bogliani del 1836.

 

Ed anche per questa volta la nostra “passeggiata con il naso all’insù” termina qui. Ci rivediamo per il prossimo appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere.

 

Simona Pili Stella

La triste e sfortunata vita di Emilio Salgari

L’incontro con Emilio Salgari, il papà di Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e del Corsaro Nero avvenne tanto tempo fa. E fu un amore improvviso, intenso. I primo due libri furono “I misteri della Jungla Nera” e “Le Tigri di Mompracem”, nelle edizioni che la torinese Viglongo pubblicò negli anni ’60.

 

Vennero letteralmente divorati. Toccò poi all’intero ciclo dei pirati della Malesia e a quelli dei pirati delle Antille, dei Corsari delle Bermude e delle avventure nel Far West. Mi recavo in corriera da Baveno a Intra, da una sponda all’altra del golfo Borromeo del lago Maggiore, dove – alla fornitissima libreria “Alberti” – era possibile acquistare i romanzi usciti dalla sua inesauribile e fantasiosa penna. Salgari, nato a Verona nell’agosto del 1862, esordì come scrittore di racconti d’appendice che uscivano su giornali  a episodi di poche pagine, pubblicati in genere la domenica ma, nonostante un certo successo,visse un’inquieta e tribolata esistenza. A sedici anni si iscrisse all’Istituto nautico di Venezia, senza però terminare gli studi.

 

Tornato a  Verona intraprese l’attività di giornalista, dimostrando una notevole capacità d’immaginazione. Infatti, più che viaggiare per mari e terre lontane, fece viaggiare al sua sconfinata fantasia, documentandosi puntigliosamente su paesi, usi e costumi. Scrisse moltissimo, più di 80 romanzi e circa 150 racconti, spesso pubblicati prima a puntate su riviste e poi in volume. I suoi personaggi sono diventati leggendari: Sandokan, Lady Marianna Guillon ovvero la Perla di Labuan, Yanez de Gomera, Tremal-Naik, il Corsaro Nero e sua figlia Jolanda, Testa di Pietra e molti altri. Nel 1900, dopo aver soggiornato alcuni anni nel Canavese ( tra Ivrea, Cuorgnè e Alpette) e poi a Genova, si trasferì definitivamente a Torino dove cambiò spesso alloggio, abitando nelle vie Morosini e  Superga, in piazza San Martino ( l’attuale piazza XVIII Dicembre, davanti a Porta Susa, nello stesso palazzo all’angolo nord dove De Amicis scrisse il libro “Cuore“), in via Guastalla e infine in Corso Casale dove, al civico 205 una targa commemorativa ricorda quella che è stata l’ultima dimora del più grande scrittore italiano di romanzi d’avventura. Schiacciato dai debiti contratti per pagare le cure della moglie, affetta da una terribile malattia mentale, con quattro figli a carico, si tolse la vita con un rasoio nei boschi della collina torinese.

 

Era il 25 aprile 1911. Ai suoi editori dell’epoca, che stentavano a pagargli i diritti, lasciò questo biglietto: “A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna“. Ai quattro figli scrisse: “Sono ormai un vinto. La malattia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie. Io spero che i milioni di miei ammiratori che per tanti anni ho divertito e istruito provvederanno a voi. Non vi lascio che 150 lire, più un credito di lire 600… Mantenetevi buoni e onesti e pensate, appena potrete, ad aiutare vostra madre. Vi bacia tutti col cuore sanguinante il vostro disgraziato padre“. I suoi funerali passarono quasi inosservati perché in quei giorni Torino era impegnata con l’imminente festa del 50° Anniversario dell’Unità d’Italia. La sua salma fu successivamente traslata nel famedio del cimitero monumentale di Verona. Un tragico e amaro epilogo per l’uomo che, grazie alle sue avventure, fece sognare tante generazioni di ragazzi.

Marco Travaglini