Il “Museo Diocesano” di Susa espone una quarantina di opere del poliedrico artista borgognone
Dal 10 luglio al 10 ottobre Susa (Torino)
Fu pittore, miniatore, ma anche maestro vetraio nonché autore di disegni per ricami. Artista quanto mai poliedrico e itinerante, a lungo attivo in Piemonte, Antoine de Lonhy viene documentato per la prima volta nel 1446 in Borgogna e la sua morte si colloca nel 1490 nel ducato di Savoia. Dall’identità sconosciuta, messa in luce solo in anni relativamente recenti, grazie a lavori di ricerca condotti in parallelo da vari studiosi, de Lonhy era in precedenza indicato con diversi nomi convenzionali: dal “Maestro delle Ore di Saluzzo”, da un manoscritto miniato oggi conservato alla “British Library”, al “Maestro della Trinità di Torino” , da uno dei suoi principali dipinti custodito a “Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica” di Torino. E proprio in stretta complementarietà fra “Palazzo Madama” ed il “Museo Diocesano” di Susa è stata concepita ed organizzata (con il sostegno della Compagnia di San Paolo, la sponsorizzazione tecnica della Società Reale Mutua di Assicurazioni e il contributo della Città di Susa) la mostra “Il Rinascimento europeo di Antoine de Lonhy”, ospitata nel Museo segusino dal 10 luglio al 10 ottobre e a “Palazzo Madama” dal prossimo 23 settembre al 9 gennaio 2022. Non casuale la scelta della sede valsusina, ma motivata dal legame particolarmente stretto che l’artista di origine e formazione borgognona (a contatto soprattutto con la pittura fiamminga di Jan Van Eyck e di Rogier van der Weyden) ebbe con la Valle di Susa. L’unico documento savoiardo attualmente noto del pittore lo dice infatti residente nel 1462 ad Avigliana. Per non dire delle molteplici testimonianze dell’attività di de Lonhy legate alla Valle (come un frammentario polittico della “Sabauda” di Torino proveniente dalla frazione Battagliotti di Avigliana e presente in mostra così come gli affreschi dell’abbazia della Novalesa) o della sua bottega con tanto di stretti seguaci, di cui si conserva il polittico oggi presso la Parrocchiale della Novalesa e un ciclo di affreschi che orna la cappella della Madonna delle Grazie a Foresto (Bussoleno).
Curata da Vittorio Natale, l’esposizione al “Museo Diocesano” è incentrata su una quarantina di opere, alcune delle quali mai esposte al pubblico, provenienti da diverse collezioni pubbliche e private che, da una parte, focalizzano lo stretto legame di de Lonhy con la Valle di Susa e la Valle d’Aosta – dove nella collegiata di Sant’Orso del capoluogo si conservava un grandioso polittico scolpito, progettato e dipinto da Antoine per il priore Georges de Challant – mentre dall’altra evidenziano l’influenza esercitata da Antoine de Lonhy (attivo in Borgogna, a Tolosa e a Barcellona, prima di approdare nel ducato sabaudo) su altri artisti, fra cui pittori suoi seguaci o collaboratori e, soprattutto, scultori e plasticatori. Ecco il perché dell’articolazione della mostra in cinque sezioni che conducono il visitatore in un percorso di alto interesse storico-culturale che si avvia con le “aperture europee della Valle di Susa” e il suo naturale scambio con i territori oltralpini (documentato, fra le varie opere, da una rara “Madonna” allattante in pietra calcarea di un artista borgognone databile intorno al 1430) per proseguire con la narrazione dei “legami fra de Lonhy e la Valle d’Aosta”, rappresentati in particolare – ma non solo – dai numerosi elementi dipinti e scolpiti che componevano il grandioso “altare” della Collegiata di Sant’Orso ad Aosta, oggi dispersi in varie sedi.
A seguire, le testimonianze del concreto influsso esercitato da de Lonhy scultore (con quel suo particolare modo di “panneggiare, soffice e voluminoso”) su artisti sabaudi come il cosiddetto “Maestro del Compianto di Chivasso” o nord-europei come il “Maestro della Madonna delle nevi” e, in genere, su alcuni grandi pittori del Ducato di Savoia: da Martino Spanzotti (suggestiva la serie dei quattro elementi di predella, prestati da un importante istituto bancario svizzero e presentati in mostra per la prima volta al pubblico) all’astigiano Gandolfino da Roreto, rappresentato da opere giovanili come una “Annunciata”, parte di uno sportello di altare proveniente da Genova e una “Maddalena” di collezione privata. A chiudere il percorso espositivo il privilegiato rapporto dell’artista con la Valle di Susa: dai frammenti di intonaco affrescato (recuperati in scavi archeologici) eseguiti per Giorgio Provana e provenienti dal Museo della Novalesa, alla “Pala di Sant’Agostino”, prestata da un generoso colleziosta privato. Certo è che alla fine del Quattrocento Antoine de Lonhy con la sua bottega doveva aver segnato profondamente la Valle, come testimoniano ancora un affresco staccato con la “Pietà” appartenente a Palazzo Madama, di cui si discute il riferimento ad Antoine o a uno stretto seguace, ma anche opere di artisti ancora anonimi, come l’autore di un “Breviario” miniato proveniente dalla Sacra di San Michele della Chiusa appartenente alla Biblioteca Nazionale di Torino.
Gianni Milani
“Il Rinascimento europeo di Antoine de Lonhy”
Museo Diocesano, via Mazzini 1, Susa (Torino); te. 0122/622640 o www.centroculturalediocesano.it
Fino al 10 ottobre
Orari: dal mart. al sab. 10/12,30 – 14,30/18: dom. e lun. solo pomeriggio
Dall’esposizione di souvenir regalati ai Savoia nei loro viaggi all’estero e ora raccolti nelle sale del Castello alla scoperta degli appartamenti “intimi” di Carlo Alberto aperti per la prima volta al pubblico, per finire con una salutare passeggiata nell’ampio parco, le novità sono tante e rendono ancora più bella e sontuosa Racconigi. Diciotto pezzi, 12 tra armi e armature e 6 manufatti etnografici, provenienti dai Balcani, dal nord Europa, Turchia, nord Africa, Brasile, India e Giappone, risalenti in gran parte al periodo tra Ottocento e Novecento ma anche molto prima, finora “nascosti” nei depositi della residenza, sono ora in bella mostra al Castello, rispolverati dall’Armeria Reale. Sono tutti doni ricevuti da Vittorio Emanuele III e dall’ultimo re d’Italia Umberto II nei loro viaggi all’estero. Un artigiano africano ha trasformato in una scatola un uovo di struzzo decorandolo con zampette d’argento, le corna di una renna fanno da custodia a un coltello usato dal popolo Sami nella penisola scandinava e regalato al “re di maggio”. Sempre Umberto II ricevette in regalo in Sudamerica nel 1924 un lancia dardi dell’Amazzonia e una statuetta bengalese raffigurante una civetta cavalcata da una divinità femminile indù. Tutto ciò si trova nella mostra “Storie dal mondo in Castello” al Castello di Racconigi fino al 3 ottobre. C’è anche un pezzo molto più antico, di una bellezza strepitosa, il “Migfer”, un elmo a forma di turbante turco, di produzione ottomana, esposto insieme a spade anatoliche e lance. Dai Balcani provengono alcuni coltellacci e una cintura che veniva indossata sia dai militari sia dalle donne albanesi come corredo dell’abito nuziale mentre dal Paese del Sol Levante giungono due spade, una lancia e un’armatura. E ancora, dall’Etiopia uno scudo di cuoio a forma conica mentre dal Marocco è arrivata una coloratissima fiasca per la polvere da sparo. Gli orari per visitare la mostra, da giovedì a domenica, dalle 9.00 alle 19.00. Biglietto 5 euro, visite guidate con prenotazione obbligatoria. Ma prima di accedere alla cappella settecentesca per visitare la rassegna Racconigi svela gli ambienti privati di re Carlo Alberto, mai visti prima d’ora, restaurati grazie ai fondi dell’associazione Le Terre dei Savoia, dai bagni voluti dal sovrano alla biblioteca reale, dal fregio Palagiano restaurato alla cappella che ospita la piccola mostra di oggetti, esposta sopra, dell’Armeria reale. Molti tesori restano però confinati nei sotterranei della dimora. Solo una piccola parte dell’intero patrimonio conservato, appena il 25%, viene esposto mentre il restante 75% è nascosto e non rientra nei percorsi di visita. Il Castello si affaccia sul grande parco reale, un luogo carico di suggestioni, visitabile a piedi attraverso sentieri, prati e ponticelli che lambiscono il grande lago con l’isoletta. Negli anni scorsi era possibile girare per il parco con la carrozza ma oggi, purtroppo, le scuderie restano chiuse per motivi di sicurezza legati all’emergenza sanitaria. Ampliato e radicalmente trasformato nella prima metà dell’Ottocento, contemporaneamente ai lavori di restauro nella residenza, il parco fu utilizzato per lungo tempo come tenuta agricola e poi cadde in uno stato di totale abbandono durante la II guerra mondiale e nel dopoguerra. Oggi risplende nuovamente dopo una lunga serie di interventi e si presenta con lo stesso aspetto che aveva due secoli fa. Per visitare Castello e parco è necessaria la prenotazione al sito

Un residuo della vecchia Jugoslavia a cui venne tolto l’aggettivo possessivo e “affettivo“ il “nostro“. Una forma di propaganda tipica dei regimi totalitari e autoritari come dimostrano, ad esempio, le scritte Duce, Dux, Mussolini ecc. nell’Italia fascista. Il culto della personalità e’ tipico infatti di quei regimi e Tito fu un dittatore in piena regola. Sanguinario con gli Italiani di Istria e Dalmazia infoibati dai suoi partigiani , ma anche sanguinario con gli stessi slavi e altre popolazioni presenti in Jugoslavia durante il suo lungo periodo di governo in cui ebbe un potere dispotico ed assoluto. Un anno fa l’incontro tra il presidente italiano e il presidente sloveno sembrava aver posto fine alle residue ostilità ed aver soprattutto aperto una strada di amicizia e collaborazione che sotterrasse finalmente il passato. La presenza del presidente sloveno alla foiba triestina di Basovizza stava a dimostrare una presa di coscienza storica del dramma delle foibe. La Slovenia e’ nata dalla decomposizione violenta della Jugoslavia titina dopo una lunga e terribile guerra civile. Si può pensare ragionevolmente che i nostalgici di Tito siano oggi un ‘esigua minoranza, ma una certa ostilità verso gli Italiani che ebbe origine già con la dominazione austriaca di quelle terre, rimane. L’avevo colto io nel 2007 quando guidai un pellegrinaggio laico da Fiume a Trieste nel ricordo dei 15mila infoibati. Il permanere di quella immensa scritta Tito c’è da chiedersi che significato abbia oggi. Un cimelio del passato regime rimasto a testimoniare una qualche nostalgia e nel contempo un implicito pregiudizio antitaliano? Il nome di Tito resta un elemento divisivo che rende difficile guardare avanti, come sarebbe auspicabile, all’Europa unita come superamento di tutti gli odi novecenteschi che hanno reso la storia un mattatoio. Tito rappresento’ un’ideologia che mescolo’ insieme comunismo e nazionalismo, creando una miscela esplosiva. Il fatto che si sia distaccato da Stalin non cancella le sue gravi colpe storiche anche ciò fece comodo alle potenze occidentali. Quella scritta cubitale rivolta verso l’Italia non è certo un segno di superamento delle ferite legate al dramma del confine orientale italiano. Sarebbe bene rimuoverla. In Italia giustamente nessuno tollererebbe nulla di simile che riguardasse Mussolini.