STORIA- Pagina 12

La Cartolina postale… che storia, ragazzi!

In mostra, alla “Palazzina di caccia” di Stupinigi “I Savoia in cartolina, dal 1900 al 1915”

Dal 4 marzo al 6 aprile

In rassegna troviamo anche, assoluta rarità (dal valore affettivo inestimabile, per i più agguerriti collezionisti), la “prima Cartolina postale”italiana datata 1874 e indirizzata “All’Ill.mo Signor Sindaco del Comune di Fivizzano (Prov. Di Massa Carrara)”; cartoncino rigido di 11,4 x 8 cm. col profilo del primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II stampigliato in alto a sinistra e la dizione “Cartolina postale”, il valore dell’affrancatura in lettere e lo “Stemma Sabaudo” centrati in alto. Oggi in un’era del digitale, che di più non si può, a qualcuno verrà pure da sorridere, se non da ridere, di fronte a quello sconosciuto “reperto archeologico”. Se ai nostri figli o – per chi come me ha qualche anno di più sulla gobba – ai nostri nipoti, si dovessero mai citare, pur sillabandole, quelle due paroline “car-to-li-na / po-sta-le”, penso che l’effetto sarebbe lo stesso che farli assistere al surreale atterraggio di un “UFO” in pieno centro città. Bocca aperta e occhi sgranati! Car-to-li-na / po-sta-le?. E subito a cercare on line. Per carità, lasciamo stare!

Comunque sia, per quanti ben conoscono e hanno vissuto quelle due semplici semplici paroline, ma anche (e perché no?) per tutti gli ignari, per gli appassionati e i tanti collezionisti, si sappia che la “Palazzina di Caccia” di Stupinigi, nel “Corridoio di Levante”, mette in bella mostra, da martedì 4 marzo a domenica 6 aprile, ben 270 “Cartoline illustrate” in cui si racconta la storia, italiana ed europea, ripercorrendo le vicende umane, politiche, militari e dinastiche comprese nel periodo 1900 – 1915.

Ecco, dunque, le immagini di Margherita di Savoia (prima Regina consorte d’Italia) e in seguito quelle del figlio Vittorio Emanuele III, stampate sulle cartoline postali del “Regno d’Italia”, raccontare i primi incontri con il presidente della Repubblica Francese Loubet,Edoardo VII d’Inghilterra, lo Zar di Russia Nicola II, e ancora la guerra italo-turca, l’iconografia sabauda del tempo con le raffigurazioni del Re d’Italia nei suoi molteplici impegni istituzionali, fino ad arrivare alla “satira” che colpirà Umberto I, tra il 1914 ed i primi del 1915, quando il monarca sabaudo rifiutò di entrare in guerra accanto alle potenze della “Triplice Alleanza”, alleate mai amate dallo stesso ed in seguito responsabili del primo grande conflitto mondiale della storia.

Certo è che quel pezzo di “cartoncino illustrato”, conosciuto più semplicemente come “intero postale”, cambiò drasticamente il mondo dell’informazione (ogni epoca ha, in ciò, i suoi strumenti!) e dei rapporti interpersonali.

L’idea rivoluzionaria per i tempi, di permettere a tutti di poter inviare missive brevi, evitando di acquistare il classico foglio di carta, la busta ed il francobollo, sostituiti da un piccolo cartoncino già tassato, venne in primis proposta dal “Consigliere delle Poste” prussiano Heinrich von Stephan nel 1865 al suo stesso governo, il quale ignorò il progetto giudicato “immorale” da una nutrita truppa di parlamentari conservatori.

A “copiare” l’idea fu, invece, il professore diEconomia all’“Accademia Militare Teresiana”, l’austriaco Emanuel Hermann, che trovò al contrario favorevole riscontro nelle “Poste Viennesi”. Era il 25 settembre 1869.

Il “Regno d’Italia” introdusse l’“intero postale-cartolina” nel 1873, così qualche mese più tardi, nel gennaio 1874, anche gli italiani poterono sperimentare l’utilità del nuovo provvedimento, di cui si stavano ormai dotando tutti gli Stati del mondo. Ma, da noi,  la “vera rivoluzione artistica postale” avvenne nel momento in cui la parte del cartoncino dedicato fino ad allora alla scrittura, venne sostituita con le immagini, in bianco e nero, a seconda del tema scelto dall’editore romano “Danesi”. Il vero, grande successo arrivò però quando apparvero le prime cartoline postali con immagini a colori che concentrarono, in Italia, molto tipografie sull’avvenimento più importante di quel tiepido ottobre del 1896, ovvero le nozze tra il Principe di Napoli ed  erede al trono Vittorio Emanuele III e la principessa Elena del Montenegro (“la gigantessa slava”), che sarebbero saliti all’altare il 24 dello stesso mese.

È l’inizio di un nuovo corso editoriale ed artistico che cambierà il modo di dialogare per iscritto tra gli italiani, con formati dell’“intero postale” che cambiarono diverse volte nel corso degli anni (quanti di noi se ne sono serviti!) e che, dopo una pausa dal 2014, fu ripreso da “Poste italiane” nel dicembre 2017.

Gianni Milani

“I Savoia in cartolina, dal 1900 al 1915”

Palazzina di Caccia di Stupinigi, piazza Principe Amedeo 7, Stupinigi-Nichelino (Torino); tel. 011/6200601 o www.ordinemauriziano.it

Fino al 6 aprile

Orari: da mart. a ven. 10/17,30: sab. dom. e festivi 10/18,30

 

Nelle foto: Cartoline Postali in mostra

C/Art l’arte di giocare con l’automobile in mostra al Museo Nazionale dell’Auto

Il Museo Nazionale dell’Automobile presenta in Project Room, dallo scorso venerdì 31 gennaio a domenica 18 maggio, la mostra dal titolo “C/ART. L’arte di giocare con l’automobile”, dove C sta per car e ART per arte.

L’esposizione, realizzata da Robert Kuśmirowski e curata da Guido Costa e Davide Lanzarone, consiste in un’installazione ambientale nella quale l’artista polacco, esponendo automobili giocattolo e vetturette provenienti da diversi musei e collezioni Italiane, crea un dialogo inedito tra arte e memoria storica automobilistica. L’opera è il risultato di un intenso lavoro di coprogettazione e collaborazione tra Kuśmirowski, i collezionisti e lo staff museale, e rappresenta una carta bianca concessa all’artista che è intervenuto nello spazio, recando una ricostruzione Immaginaria dello spirito del collezionista di automobili.

Il visitatore è accolto in uno spazio volutamente eccentrico e disordinato, con un eccesso di modelli incompleti, strumenti consunti e macchinari quasi dimenticati. Vecchie reti metalliche sostituiscono le tradizionali scaffalature, evocando l’atmosfera di una officina caotica di un bizzarro collezionista. Il percorso si sviluppa gradualmente verso l’idea di esposizione perfetta. Gli oggetti trovano ordine, senso, e celebrano il passaggio dall’infanzia a una forma di collezionismo maturo e consapevole. In questa trasformazione, si è immersi in una riflessione sulla memoria e sul significato dell’automobile come oggetto di culto. Da un accumulo appassionato e compulsivo tipico dell’età infantile a una sistematizzazione ordinata dei pezzi collezionati: la mostra esplora l’evoluzione del collezionista e del valore affettivo degli esemplari di cui va alla ricerca con dedizione.

“Ogni automobile giocattolo, sia essa a pedali, motorizzata – elettrica o con un piccolo motore a scoppio – realizzata in scala ridotta, è un piccolo capolavoro di ingegneria, con meccanismi che spesso consentono ai modelli di muoversi, di suonare o di attivarsi attraverso l’energia meccanica. Il valore di questi oggetti non è solo economico, ma anche storico, perché attraverso di essi è possibile riscoprire i gusti, le tendenze e le innovazioni tecnologiche di una determinata epoca “ afferma il curatore Davide Lorenzone.

Le vetture esposte coprono un periodo che va dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Novanta del Novecento. Tra i tantissimi modelli in mostra – circa duecento- la “ Lucciola di Piero Patria”, una vettura giocattolo con motore elettrico, prodotta a Torino tra il 1948 e il 1949, in soli duecento esemplari, la minuziosa riproduzione in scala – precisa in ogni singolo dettaglio- costruttivo e funzionale- di un trattore a vapore risalente agli anni Dieci del Novecento; la locomobile a vapore Marshall & Co, modello funzionante in scala 1:4, realizzato artigianalmente da Pietro Abbà nel secondo dopoguerra. Accanto a queste, una collezione più contemporanea di modelli di automobili sportive iconiche, modelli promozionali e ricostruzioni artigianali. Solo per citarne alcune, la Ferrari F1 della Toschi, che era vendita con una bottiglia di liquore al suo interno, la Lancia D 24 della Mercury di cui un esemplare è presente nella collezione del Museo, il modellino in legno del camion che pubblicizzava il CYNAR e i quattro modelli della Marklin ( Berlina, Coupé, auto corsa e autobotte), spettacolari e ancora oggi molto ambiti dai collezionisti.

 

Mara Martellotta

Alla scoperta delle figure femminili di Sant’Antonio di Ranverso

Sabato 8 marzo 

In occasione della Giornata Internazionale della Donna, sabato 8 marzo prossimo, è in programma alla precettoria di Sant’Antonio di Ranverso una visita alla scoperta delle figure femminili ritratte nei dipinti dell’abbazia. Partendo dai cicli di affreschi, uno dei più alti esempi di gotico piemontese, si scopriranno le storie di queste sante, in bilico tra avventura e fiaba, da Barbara a Marta, da Margherita a Maddalena.

Info: precettoria di Sant’Antonio di Ranverso – località Sant’Antonio di Ranverso, Buttigliera alta, Torino

Sabato 8 marzo, ore 15 – costo:Oltre al prezzo del biglietto/ intero 5 euro – ridotto 4 euro – abbonamento musei prevede l’ingresso gratuito

Info e prenotazioni: da mercoledì a domenica 011 6200603 mail: ranverso@biglietteria.ordinemauriziano.it

Mara Martellotta

A Tortona rivive l’imperatore dimenticato

A volte i grandi personaggi della Storia finiscono sulle etichette dei vini, dal Barbarossa a Carlo Magno, tanto per citarne alcuni, ricordo un Federico I di Svevia stampato su una bottiglia di Freisa di una nota casa vinicola chierese mentre altri personaggi, meno conosciuti ma non per questo meno lodevoli, vengono riscoperti e rivivono attraverso i vitigni della città in cui sono stati sepolti. È il caso per esempio di Giulio Valerio Maioriano (Iulius Valerius Maiorianus) o Maggioriano, imperatore romano vissuto nel V secolo. Ma chi l’ha mai sentito nominare, ben pochi credo, forse nessuno. A questo punto scatta in noi la curiosità, prendiamo un libro sull’Impero romano o facciamo una ricerca veloce su internet.
Lo troviamo eccome il Maioriano e gli storici ne parlano bene perché è stato un buon imperatore anche se ha regnato per pochissimi anni al tramonto dell’Impero. Pertanto, ben vengano le etichette storiche sulle bottiglie di vino, come accade a Tortona, dove Maioriano, di ritorno da una spedizione militare, fu assassinato. Ma neppure a Tortona sanno chi fosse, eppure è stato ucciso proprio nell’antica Dertona romana nel 461 ed è sepolto, secondo la tradizione, in quello che un tempo era un mausoleo collocato nella canonica della chiesa di San Matteo. I tortonesi hanno pensato di farlo rivivere e oggi lo ricordano con una serie di bottiglie di vino e con un sito web. Siamo di fronte a un sovrano tutt’altro che secondario e gli storici lo definiscono addirittura l’ultimo grande imperatore che risollevò le sorti dell’Impero poco prima della sua caduta. Difese con successo la penisola dagli attacchi dei barbari, strappò le Gallie e la Spagna ai Visigoti, inflisse pesanti perdite ai Vandali di Genserico nel nord Africa e attuò importanti riforme per rendere più eque le tasse a Roma. Concesse infatti una temporanea esenzione dalle imposte a tutti i sudditi e avviò una revisione del sistema tributario per eliminare gravi abusi. Con altre leggi tentò di ripristinare la pubblica moralità. Parecchi secoli dopo ricevette il plauso di Edward Gibbon, il celebre studioso inglese dell’Impero romano (1737-1794) che nella sua “Storia del declino e della caduta dell’Impero romano” scrive che “la figura di Maggioriano presenta la gradita scoperta di un grande ed eroico personaggio, quali talvolta appaiono, nelle epoche degenerate, per vendicare l’onore della specie umana”. Imperatore romano d’Occidente per pochi anni, dal 457 al 461, non riuscì a completare la sua opera. Venne tradito e ucciso dal suo generale di origini barbare Ricimero. Aveva appena 41 anni.
 Filippo Re
nelle foto ritratto dell’imperatore Maiorianus
chiesa di San Matteo a Tortona

Alla scoperta del Castello degli Orsini di Rivalta

Il Castello degli Orsini, a Rivalta, si prepara a vivere un‘interessante stagione di valorizzazione del proprio patrimonio storico e artistico grazie al progetto intitolato “Il nostro castello – perché è come ce ne prendiamo cura ?”, promosso dalla Città di Rivalta, a cura di KEART KEEP AN EYE ON ART e sostenuto dal bando Restauro e Cantieri Diffusi 2023 di Fondazione CRT.

Partendo dai recenti ritrovamenti di decorazioni medievali, e dal loro imminente restauro, l’iniziativa si propone di offrire ai cittadini un’occasione unica per partecipare in prima persona alla cura di un bene culturale. L’obiettivo è stimolare un senso di appartenenza e responsabilità condivisa, sensibilizzando la collettività sull’importanza della conservazione della manutenzione del patrimonio artistico e architettonico. L’iniziativa prevede tre incontri tematici, ciascuno dedicato a un aspetto chiave della manutenzione del Castello degli Orsini. Gli eventi sono stati pensati per la partecipazione attiva di bambini dai 5 anni in su, insieme alle loro famiglie.

Il primo incontro, che si terrà l’8 marzo prossimo ha il titolo “Abbiamo trovato una chiave – tracce ritrovate” e sarà diviso in due turni, il primo alle 14.30 e il secondo alle 16.30. Un’esperienza esplorativa alla scoperta del Castello e della sua storia, guidata dal Signor Tempo, un esperto che racconterà le trasformazioni del maniero nei secoli. I partecipanti raccoglieranno indizi e scopriranno insieme ai volontari di Rivalta Millenaria come sia cambiato il Castello nel tempo.

Il secondo incontro, dal titolo “Incontriamo il restauratore – il Castello prende vita”, è previsto per il 12 aprile prossimo e avverrà su due turni, il primo alle 14.30 e il secondo alle 16.30. Si tratta di un’opportunità per scoprire da vicino come lavora un restauratore e le sfide legate alla conservazione dei beni culturali. I partecipanti potranno interagire con i restauratori della ditta Consorzio San Luca e osservare da vicino i lavori in corso, immaginando insieme, in un’attività guidata da KEART KEEP AN EYE ON ART come avvenga il consolidamento e l’integrazione di un’antica decorazione.

Il terzo incontro, dal titolo “Anch’io proteggo il mio castello”, è calendarizzato il 10 maggio prossimo ed è diviso in 2 turni, alle 14.30 e alle 16.30. Si tratta di un workshop interattivo dedicato alla manutenzione del Castello e del suo parco. Con il supporto di esperti, i partecipanti esploreranno il sito individuando segni di degrado. Scatteranno delle fotografie sullo stato di conservazione e immaginerai possibili soluzioni per la manutenzione.

L’iniziativa è organizzata dalla Città di Rivalta, in provincia di Torino, è da KEART KEEP AN EYE ON ART con il supporto di esperti, mediatori culturali e realtà associative locali, per garantire un’esperienza coinvolgente e formativa per tutti i partecipanti. Al termine del primo turno e all’inizio del secondo verrà offerta una merenda a tutti i bambini che parteciperanno all’attività.

Ingresso libero su prenotazione fino ad esaurimento posti

Sito web: www.keart.it – email: hello@keart.it

Per prenotazioni whtasapp: 338 4716770

Mara Martellotta

Collodi e l’invenzione di Pinocchio

Collodi, all’anagrafe Carlo Lorenzini, nacque a Firenze il 24 novembre del 1826 e divenne celebre come autore del romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino. Il padre Domenico era un cuoco e la madre, Angiolina Orzali, una domestica, entrambi a servizio dei marchesi Ginori. Angiolina era originaria di Collodi , frazione di Pescia, nel  pistoiese.

Fu proprio il nome del paese natale della madre ad ispirare a Carlo lo pseudonimo che lo rese famoso in tutto il mondo come autore di Pinocchio. A diciotto anni il giovane Lorenzini  entrò in contatto con il  mondo dei libri come commesso nella libreria Piatti a Firenze e un anno dopo, nel 1845, ottenne una dispensa ecclesiastica che gli permise di leggere l’Indice dei libri proibiti . La passione per la lettura lo indusse a cimentarsi con la scrittura e iniziò a redigere recensioni e articoli per La Rivista di Firenze.

Allo scoppio della Prima guerra d’indipendenza, nel 1848, Lorenzini si arruolò volontario combattendo contro gli austriaci al fianco di altri studenti toscani a Curtatone e Montanara. Tornato a Firenze fondò una rivista satirica Il Lampione che subì ben presto la censura, cessando le pubblicazioni. La passione non venne meno, impegnandolo in un’intensa attività culturale nel campo dell’editoria e del giornalismo, dove si occupò di letteratura, musica e arte. Trentenne, nel 1856, durante la sua collaborazione con la rivista umoristica La Lente, iniziò a firmarsi con lo  pseudonimo di Collodi e a pubblicare i primi libri. Allo scoppio della Seconda guerra d’indipendenza non si tirò indietro, partecipandovi come soldato regolare piemontese nel Reggimento Cavalleggeri di Novara. Terminata la campagna militare fece ritorno a Firenze, occupandosi di critica teatrale. Invitato dal Ministero della Pubblica Istruzione a far parte della redazione di un dizionario di lingua parlata, il “Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze”, si impegnò con slancio e  passione in questa nuova impresa culturale. Il suo approccio al mondo delle favole iniziò all’alba dei cinquant’anni quando ricevette dall’editore Paggi il compito di tradurre le fiabe francesi più famose. Collodi non si limitò ad una pura e semplice opera di traduzione, effettuando anche l’adattamento dei testi integrandovi una morale. Un lavoro di grande interesse che venne poi pubblicato sotto il titolo I racconti delle fate. Nel 1877 apparve Giannettino, il primo di una lunga serie di testi per l’educazione dei più giovani che spaziavano dalla geografia alla grammatica e all’aritmetica .

Questa serie di libri faceva parte della Biblioteca Scolastica dell’editore Felice Paggi: un libro era venduto a due lire e, se era legato in tela con placca a oro, il prezzo saliva a tre. Sia questa serie che il successivo Minuzzolo anticiparono di fatto la nascita di Pinocchio. Il 7 luglio 1881, sul primo numero del periodico per l’infanzia Giornale per i bambini (praticamente l’archetipo dei periodici italiani per ragazzi) uscì la prima puntata de Le avventure di Pinocchio con il titolo Storia di un burattino. Due anni dopo, raccolte in volume e arricchite dalle illustrazioni di Enrico Mozzanti, le vicende del burattino che voleva diventare un bambino in carne e ossa vennero pubblicate quasi in contemporanea con la sua nomina a direttore del periodico che ne aveva anticipato il testo. Carlo Lorenzini, ormai per tutti Collodi, morì a Firenze nel 1890 dove riposa nel cimitero delle Porte Sante. Pinocchio, nonostante abbia compiuto il suo 140° compleanno, è ben vivo e vegeto: pubblicato in 187 edizioni, tradotto in 260 lingue o dialetti, protagonista di film, cartoni animati e sceneggiati, riprodotto in mille maniere. In molti hanno provato a catalogarne significati e morali per spiegarne l’incredibile longevità e freschezza. Per Italo Calvino Pinocchio è stato l’unico vero protagonista picaresco della letteratura italiana, proposto in forma fantastica; le sue avventure rocambolesche, a volte scanzonate, a tratti drammatiche, rimandano alla letteratura di genere che ebbe origine in Spagna con  Lazarillo de Tormes e il Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, l’opera che segnò la nascita del moderno romanzo europeo.

A noi che lo incontrammo da piccoli e che imparammo ad amarlo piace pensarlo all’Osteria del Gambero Rosso, seduto in compagnia del Gatto e della Volpe, mentre fugge con Lucignolo nel paese dei Balocchi e finisce per trasformarsi, dopo cinque mesi di cuccagna, in un asinello. Mastro Ciliegia, Geppetto, il Grillo Parlante, Mangiafuoco e la Fata Turchina lo accompagnano fin quando smette di essere un burattino e diventa un ragazzo in carne ed ossa. Pinocchio è ben più che un libro per bambini perché ci aiuta a non perdere il contatto con la fantasia, nutrendo la creatività. Come ricordava Gianni Rodari, non vi è nulla di più sbagliato che etichettare la fantasia come “roba da bambini”; al contrario, dovremmo accoglierla, svilupparla ed utilizzarla per conoscerci e vivere meglio.

Marco Travaglini

“All’Arme, all’arme. I priori fanno carne!”

Il professor Barbero ha pubblicato nel 2023 un testo centrato sulle rivolte medievali in Europa.

Come nel consueto stile del noto storico torinese, viene tracciato un dettagliato affresco delle condizioni del cosiddetto Uomo Medioevale, sospeso tra la definitiva scomparsa del mondo classico ma non ancora lanciato verso le luci del Rinascimento.

Durante il XIV secolo il continente fu interessato da molte rivolte. L’autore ne inquadra però quattro, probabilmente le principali: in Francia la cosiddetta Jacquerie (da Jacques Bonhomme, appellativo spregiativo che la nobiltà dava ai tanti contadini del regno, senza nome), la rivolta dei Tuchini, nel nostro canavese (il termine deriva da precedenti sommosse dei Tuchins nella Francia meridionale di Alvernia e Linguadoca), il tumulto a Firenze del 1378 dei Ciompi e tre anni dopo, la drammatica insurrezione dei Commons in Inghilterra.

Prima di entrare nei fatti narrati, importante sarà un chiarimento semantico fra Rivolta e Rivoluzione.

La prima è un movimento spontaneo, di massa, non sempre controllato da vertici, anche perché spesso non esistono. La rivolta è violentissima, arriva all’improvviso e si spegne in breve tempo, spesso nel sangue.

La Rivoluzione assomma le caratteristiche iniziali della Rivolta, ma che poi si organizza, diventa organica e rovescia vittoriosamente gli equilibri del potere precedente. Se non si arriva a un nuovo Ordine Costituito non si potrà parlare di Rivoluzione.

Casi eclatanti che hanno addirittura cambiato il mondo sono la rivoluzione americana, la francese e, secoli dopo, quella russa. In scala ridotta, anche la vittoriosa impresa di Garibaldi, dalla Sicilia verso il nord Italia, si può incorporare come Rivoluzione.

I fatti narrati raccontano invece di improvvise sollevazioni popolari, violente, non etero-dirette e poi crudelmente, quanto velocemente, terminate.

In questo breve commento sottolineeremo il caso toscano, perché divergente rispetto agli altri. I Ciompi non sono contadini che si ribellano, ma incorporano una realtà lavorativa cittadina che lavora sotto padrone in attività produttive locali, soprattutto nell’Arte della Lana. Questi salariati non si ribellano alla nobiltà (come sempre capita dappertutto) ma a popolani come loro, poi arricchiti, che li utilizzano come forza lavoro.

Firenze nel medioevo era un faro di progresso rispetto ad altre realtà agricole europee, tutte umiliate da classi nobiliari unicamente guerriere, rapaci, latifondiste. A Firenze si respirava altra aria, arricchita da una forte componente di banchieri, mercanti, imprenditori, soprattutto dell’industria di lana, tessuti e altre merci esportate in ogni dove.

I ciompi sono quindi sostanziale parte salariata del tessuto produttivo di una realtà emergente, che però li angaria sotto il proprio potere economico. Questo potere è espresso dai Priori (dei quali fa parte il Gonfaloniere di Giustizia Alamanno de’ Medici), tutte figure che arrivano dal basso della società e che, proprio per questo, nei governi fiorentini dovrebbero difendere i diritti del popolo.

Sia i primi, che i secondi, sono in qualche maniera condizionati dai Magnati, la classe aristocratica dei cavalieri, considerati come i veri parassiti della città (seppur temuti e potentissimi).

Questi tre strati sociali indirettamente – e con doppi e tripli giochi sotterranei fra loro – creeranno tutti insieme la Rivolta dei Ciompi.

Un po’ criptico il significato del titolo: All’Arme, all’arme. I priori fanno carne!

Fanno carne vuol dire: ammazzano la gente…. Ma vuol anche dire, poveretti: armatevi poveri voi, se no, siete tutti morti”.

Non si possono riassumere decine di pagine di socio-politica trecentesca in poche righe, ma questo testo vale, vale tanto in quanto portatore di profonde riflessioni su chi siamo noi ora e da quali realtà (lontane e contemporaneamente vicinissime) tutti proveniamo.


Alessandro Barbero,
All’arme! Allarme! I priori fanno carne! Edizioni La Terza, 2023, Roma, costo 18 euro, 163 pagine

 

FERRUCCIO CAPRA QUARELLI

Open Day nella sala Gonin di Porta Nuova, dove il re aspettava il treno

  • sabato 1 e domenica 2 marzo dalle 10 alle 18
  • ingresso libero e visite guidate nella storica sala reale

La Fondazione FS Italiane ha organizzato una serie di Open Day, giornate di apertura a ingresso libero, per consentire a chiunque di ammirare la bellezza di alcuni ambienti di stazione che, da Torino fino a Messina, conservano affreschi, sculture, manufatti e arredi originali che hanno segnato diverse epoche e stili del viaggiare.

Seconda tappa di questa iniziativa, che segue quella di Firenze Santa Maria Novella, sarà Torino Porta Nuova che, dalle 10 alle 18 di sabato 1 e domenica 2 marzo, aprirà ai visitatori le porte della elegante Sala Gonin. Durante gli orari di apertura, sarà possibile apprenderne la storia grazie alla presenza di guide che accompagneranno i partecipanti.

La lussuosa sala fu progettata nel 1864, in puro stile barocco, per essere destinata a ospitare la famiglia reale durante l’attesa del treno. È decorata con opere degli artisti preferiti di Casa Savoia, tra cui Francesco Gonin, da cui pende il nome, e con suggestivi affreschi realizzati con la tecnica del trompe l’oeil che lasciano intravedere il cielo tra colonne e capitelli. Agli angoli della grande ed elegante stanza sono invece visibili angeli che reggono carte geografiche con i quattro continenti. Non mancano pregevoli quadri che raffigurano personaggi mitologici dipinti per rappresentare allegoricamente gli elementi della Natura.

Degni di nota sono gli splendidi mobili, i rivestimenti settecenteschi in legno e un imponente lampadario in raffinato vetro di Murano.

Gli ampi spazi, i lussuosi arredi, le boiseris e i dipinti che impreziosiscono l’ambiente contribuiscono a conferire alla struttura, nel suo insieme, un aspetto maestoso e sontuoso, facendone un vero e proprio piccolo museo che ora la Fondazione FS preserva e gestisce. L’obiettivo è quello di mettere al servizio dei cittadini e del turismo luoghi che meritano di essere scoperti anche con attività culturali, eventi e mostre.

Il Direttore Generale della Fondazione FS e Amministratore Delegato di TTI, Treni Turistici Italiani, Luigi Cantamessa, ha dichiarato: “Dopo il recupero e la valorizzazione dei treni e delle linee ferroviarie storiche e turistiche, le Sale storiche rappresentano la nuova sfida della Fondazione FS per rendere questi gioielli di arte e architettura parte di una esperienza capace di offrire un’occasione di arricchimento per lo spirito e l’intelletto.”

Un “Passepartout” alla Palazzina di Stupinigi

La juvarriana “Palazzina di Caccia” ritorna ad aprire le porte dei suoi spazi più segreti normalmente chiusi al pubblico

Da sabato 1° marzo a sabato 25 giugno

Saranno visite guidate “straordinarie”. Quattro i mesi di tempo per poterne approfittare, soddisfacendo curiosità impossibili da appagare in altri mesi dell’anno. E curiosità che appartengono a molti, se si giudicano i totali sold out registrati in tutte le precedenti edizioni dell’iniziativa. Così, anche per quest’anno, la “Fondazione Ordine Mauriziano” torna a confermare le “visite guidate straordinarie” alla “(ri)scoperta” degli spazi segreti, normalmente chiusi al pubblico, della “Palazzina di Caccia” di Stupinigi. Dal prossimo sabato 1° marzo a sabato 28 giugno, saranno attivati i “due percorsi” che raccontano la storia della “Palazzina”, dal 1997 “Patrimonio dell’Umanità UNESCO”, nelle sue diverse fasi abitative e il progetto architettonico juvarriano (1729) alla base della sua costruzione.

“Passepartout” (nome “chiave”, è proprio il caso di dirlo, dell’iniziativa) conduce dietro le “porte segrete” della nobile residenza sabauda pensata per la caccia e le feste della famiglia reale, fino agli “ambienti nascosti della servitù”, ai “passaggi” e ai “corridoi” ricchi di fascino e di storia e permette di raggiungere la “sommità della cupola juvarriana”, per camminare lungo i suggestivi “balconi concavi/convessi” che affacciano sul grandioso “salone centrale”, ammirando da vicino il “tetto a barca rovesciata”, dalla complessa orditura in legno, e dall’alto, dopo aver percorso i 50 scalini di una stretta scala a chiocciola, un panorama unico che si estende a 360 gradi sotto il “Cervo”, copia dell’originale “Statua del Cervo”, realizzata nel 1766 (in bronzo, rame e foglia d’oro) da Francesco Ladatte, oggi sistemata nell’atrio di fronte alla biglietteria e simbolo della stessa “Palazzina.

Due, si diceva, i percorsi proposti: “Dietro le porte segrete” e “Sotto il Cervo” (Orari: 10,30/12 e 14,30/16)

Per il primo, la visita è in programma sabato 1, 15 e 29 marzo, 12 aprile, 17 e 31 maggio, 14 e 28 giugno. Il percorso guiderà fino agli ambienti della servitù, ai passaggi e ai corridoi segreti usati per divincolarsi nel dedalo di stanze e raggiungere discretamente le sale e gli appartamenti privati, proprio dietro le “porte segrete”, negli spazi nascosti dove si muoveva la servitù e dove si trova ancora il quadro dei “campanelli automatici” che permette di comprendere da vicino il funzionamento di una residenza come quella di Stupinigi.

“Sotto il cervo”, in programma sabato 8 22 marzo, 5 aprile, 10 e 24 maggio, 7 e 21 giugno, è invece una visita “in verticale” al meraviglioso “ambiente ligneo” che ospita la cupola del padiglione centrale, realizzato da Filippo Juvarra, con una vista mozzafiato a 360 gradi sul paesaggio circostante. Dal grandioso salone centrale ovale a doppia altezza si percorrono 50 gradini per raggiungere la caratteristica balconata ad andamento concavo-convesso e infine arrivare, attraverso una stretta scala a chiocciola di ulteriori 50 scalini, alla sommità della cupola juvarriana per ammirare il particolare “tetto a padiglione” e riconoscere dall’alto il grandioso progetto architettonico di Juvarra che con perfette geometrie, lungo un asse longitudinale che porta con lo sguardo fino a Torino, realizza un impianto scenografico straordinario per l’epoca.

Per partecipare alle visite guidate è obbligatoria la prenotazione.

Vista la particolarità dei luoghi oggetto della visita, normalmente non accessibili al pubblico, i visitatori saranno dotati di “caschetto di protezione” e, proprio per questo motivo, possono accedere solo gli adulti e i ragazzi al di sopra dei 12 anni di età ed i gruppi non possono essere superiori alle 10 persone. Per partecipare è necessario essere in condizioni fisiche tali da permettere di salire, a piedi, alcune rampe di scale. È vietato l’accesso con borse e/o zaini ingombranti, visto che il percorso è piuttosto impegnativo. A causa degli spazi limitati, non agibili a persone con disabilità, e della stretta scala a chiocciola, i due percorsi sono sconsigliati a chi soffra di claustrofobia o di vertigini e, in generale, a chi non sia in buono stato di salute.

Il costo del biglietto per accedere a “Dietro le porte segrete” è 22 euro (12 euro biglietto di ingresso + 10 euro visita guidata), ridotto 18 euro

Per accedere a “Sotto il cervo”, il costo del biglietto è, invece, di 25 euro (15 euro biglietto di ingresso + 10 euro visita guidata), ridotto 22 euro

Per i possessori di “Tessera Abbonamento Musei”: 10 euro (ingresso gratuito alla Palazzina)

Per info: “Palazzina di Caccia” di Stupinigi, piazza Principe Amedeo 7, Stupinigi (Nichelino-Torino); tel. 011/6200601 o stupinigi@info.ordinemauriziano.it

G.m.

 foto: La “Palazzina di Caccia”

Quando le armi da fuoco sconfissero la cavalleria, 500 anni fa a Pavia

C’era una fitta nebbia attorno a Pavia il 24 febbraio 1525, come accade spesso nel pavese, d’inverno. Carlo V, l’imperatore, non c’era, era rimasto nella sua Madrid, a letto, colpito dalla febbre. Festeggiava, proprio quel giorno, il suo venticinquesimo compleanno ma non sapeva ancora nulla di quanto era accaduto nella pianura padana. La battaglia di Pavia attorno al parco Visconteo durò un paio d’ore. Le truppe imperiali, assediate in città da Francesco I, re di Francia, escono dalla fortezza e prendono alle spalle i nemici massacrandoli tutti. La battaglia di Pavia di cinque secoli fa è l’avvenimento principale del lungo conflitto tra Francesco I e Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero, due giganti che si contendevano il dominio in Europa e in Italia dove il Ducato di Milano era nelle mani dei francesi e il regno di Napoli era sotto gli spagnoli. Lo scontro segnò la fine delle ambizioni francesi nella penisola e consolidò il dominio asburgico sulla penisola. Il re di Francia puntava al regno di Napoli mentre il suo rivale, appena eletto imperatore, regnava già su Spagna, Italia del sud, Sardegna e Sicilia ma governava anche i Paesi Bassi e sognava la Borgogna e il Ducato di Milano. La nobile e famosa cavalleria pesante del re di Francia Francesco I venne falcidiata dal fuoco dell’artiglieria imperiale. Gli archibugi usati dagli spagnoli contro le spade dei francesi decisero le sorti della battaglia che non sancì solo il passaggio della Lombardia dalla Francia ai domini spagnoli ma cambiò il modo di affrontare il nemico e combatterlo. Il sovrano francese, circondato dagli archibugieri, fu ferito, catturato e condotto in Spagna. Quel giorno le armi da fuoco fecero la differenza contro le spade dei cavalieri. I francesi lasciarono sul campo di battaglia oltre 10.000 uomini, tra i quali il generale Bonnivet e il maresciallo di Francia Jacques de La Palice (quello della verità “lapalissiana”).
Gli imperiali persero 500 soldati. Due settimane dopo la battaglia i messaggeri imperiali portarono al sovrano di Spagna la notizia della vittoria e della cattura del re di Francia, il suo grande avversario. Dopo aver ascoltato il racconto dei corrieri, Carlo V ringraziò il Signore e si ritirò a pregare in solitudine nella sua cappella ma il giorno dopo assistette con tutta la Corte a una solenne messa di ringraziamento nella cattedrale madrilena. L’esercito francese è vicino al crollo e l’epoca della cavalleria è sul punto di concludersi di fronte alla schiacciante superiorità della fanteria e delle armi da fuoco. È famoso il grande arazzo, conservato nel Museo di Capodimonte a Napoli, che racconta e celebra la storica battaglia del 1525 combattuta tra le armate francesi e svizzere guidate da re Francesco I e dall’esercito imperiale di Carlo V, composto dalla fanteria spagnola e dai lanzichenecchi tedeschi, comandato sul campo da Carlo di Borbone e dal condottiero italiano Fernando Francesco d’Avalos. Al centro dell’arazzo un cavaliere imperiale colpisce con la lancia un fante svizzero mentre i soldati vengono spinti verso il Ticino, i civili terrorizzati e in preda al panico cercano di fuggire. É l’epilogo di uno scontro epico che cambiò la geopolitica europea di quell’epoca. La Spagna iniziò a consolidare la sua supremazia nel continente e dal punto di vista militare la battaglia di Pavia rappresentò un’autentica svolta. La fanteria spagnola, con i moderni archibugi, sgominò la cavalleria francese, simbolo del potere aristocratico. Gli arazzi di fattura fiamminga, in lana, seta, filo d’oro e d’argento, opere di Bernard van Orley, Jan e William Dermoyen, realizzati a Bruxelles pochi anni dopo l’evento, tra il 1528 e il 1531, sono sette e illustrano la battaglia di Pavia. Con i suoi 40 metri quadrati, lungo quasi 8 metri per 5 di altezza, l’arazzo fiammingo di Dermoyen ferma la scena più importante dello scontro avvenuto nel parco Visconteo della città sul Ticino tra l’armata francese e quella spagnola. Si vedono a destra il ponte coperto sul Ticino e a sinistra il castello dei Visconti. È il momento decisivo, l’improvvisa sortita degli assediati spinge i soldati francesi e svizzeri nel Ticino in cui molti annegheranno. Sullo sfondo è raffigurata la città lombarda difesa dal comandante spagnolo Antonio de Leyva che per quattro mesi resistette all’assedio di Francesco I decretando il trionfo di Carlo V.           Filippo Re