STORIA

Quando s’andava in tram da Intra a Omegna

Per più di tre decenni, dal 1910 al 1946, era possibile raggiungere il lago d’Orta dal lago Maggiore viaggiando comodamente in tram. Questo grazie alla tramvia Intra-Omegna, linea a scartamento normale  che copriva il tragitto di venti chilometri con nove fermate ed era gestita dalla Savte, la “Società Anonima Verbano per la Trazione Elettrica”. Il materiale rotabile era stato ricavato dalle motrici usate per la ferrovia sopraelevata costruita per l’Esposizione del 1906 di Milano, che collegava – a sette metri d’altezza e per poco più di un chilometro e mezzo – le due aree principali: il Parco Sempione e la Piazza d’Armi (l’attuale zona Fiera). Infatti, terminata l’Esposizione che – in omaggio al traforo del Sempione, inaugurato l’anno prima – era stata dedicata ai trasporti, gran parte di quel  materiale venne acquisito dalla Savte che aveva in programma l’ambizioso progetto della tranvia tra i due principali centri del Cusio e del Verbano.

Impresa di tutto rispetto che, divisa in vari tronchi , si concretizzò  nel giro di alcuni anni. Il progetto iniziale prevedeva un collegamento tra la stazione ferroviaria di Fondotoce e la città svizzera di Locarno. Vari enti, tra cui la Banca Popolare di Intra, s’impegnarono dal punto di vista finanziario ma il progetto venne ripensato, realizzandolo solo parzialmente e con grande ritardo, tra Pallanza a Fondotoce. La tranvia fece il suo primo viaggio su questo tragitto il 16 Ottobre 1910. Ma si trattava , come scrissero i giornali dell’epoca, dell’attuazione “di una minima parte del grandioso programma che la Spett. Società Anonima Verbano ha tracciato e si ripromette di esaurire non oltre l’autunno prossimo“. In realtà, il secondo tratto fino ad Omegna fu aperto nel gennaio del 1913 e , successivamente, furono posati i binari per il proseguimento da Pallanza all’imbarcadero di Intra. L’ipotizzato prolungamento fino a  Cannobio, a ridosso del confine con l’elvetico Canton Ticino, non fu però mai realizzato. La giornata della tranvia era articolata con 22 coppie di corse tra i due capolinea e alcune limitate al segmento Gravellona – Omegna. Nel ’39 la Savte si rese conto della necessità di operare un restauro delle infrastrutture e dei tram, ma lo scoppio del secondo conflitto mondiale rese impossibile la fornitura dei materiali per la necessaria manutenzione. Terminata la guerra i problemi legati al funzionamento della tranvia si palesarono in tutta evidenza e la Savte immaginò di abbandonarla per privilegiare il trasporto su strada. Fu ipotizzata la trasformazione in filobus, ma la linea venne definitivamente chiusa nei primi anni’50, sostituendola “in via provvisoria” con il trasporto automobilistico. E, come tutte le cose provvisorie, la scelta della “gomma” diventò definitiva e segnò il tramonto della tranvia. Le uniche rotaie su cui sferragliarono ancora dei convogli fino ai primi anni ‘80, seguendo il vecchio tracciato per un breve tratto, collegarono la ferriera  omegnese della Pietra, ex Cobianchi, alla stazione ferroviaria di Crusinallo.

Marco Travaglini

Salesiani in Argentina, il sogno di don Bosco

Si scappava dall’Italia 150 anni fa, c’era povertà diffusa, chi poteva se ne andava, si imbarcava verso lidi lontani in cerca di fortuna e di un lavoro. L’emigrazione degli italiani era un fenomeno di massa e l’Argentina era diventata una terra promessa. Fra i tanti italiani che lasciarono la propria terra c’erano anche i missionari salesiani inviati da don Bosco in sud America. Lo stesso don Bosco abbracciò commosso, uno a uno, i primi dieci missionari salesiani che al porto antico di Genova si stavano imbarcando sul piroscafo francese Savoie che li avrebbe portati nella lontana Argentina, la Terra del Fuoco. Bisognava trasmettere il Vangelo ai giovani e ai poveri di Buenos Aires anche se uno dei primi consigli dati dal sacerdote fu quello di “interessarsi e seguire i figli degli immigrati italiani” che erano già oltre 30.000.
Era l’11 novembre 1875, cominciava la grande avventura dei salesiani in America Latina. Sono passati 150 anni e proprio dal porto antico di Genova i missionari hanno iniziato a festeggiare in questi giorni l’anniversario della prima spedizione salesiana in Argentina. Istruiti e formati a Valdocco dal fondatore della congregazione, i salesiani giunti nella capitale argentina si occuparono dell’assistenza spirituale degli immigrati italiani gestendo quella che in seguito venne chiamata “la chiesa degli italiani”. Don Bosco vide così realizzarsi il sogno che ebbe all’età di nove anni, fondare le prime missioni salesiane in Patagonia, Cina, Stati Uniti ed Egitto. Un secolo e mezzo dopo, oltre 11.000 salesiani sono stati inviati in terra di missione e l’opera educativa si è diffusa in 136 Paesi dei cinque continenti. Per celebrare il 150° anniversario della partenza dei primi sacerdoti per l’America Latina è nato il “Museo delle spedizioni missionarie” aperto all’Opera Don Bosco nel quartiere di Genova-Sampierdarena, il “Valdocco” di Genova. È sempre stato intenso il legame tra il religioso astigiano e la “Superba” e si può dire che da 150 anni “il Don Bosco” vive in simbiosi con Genova. Il futuro santo è stato in città 49 volte e ha organizzato qui le spedizioni missionarie. Nel nuovo Museo si vedono i suoi oggetti personali, il cappello di viaggio, i primi libri stampati in quel periodo, le foto dei missionari partiti da Sampierdarena per l’Argentina, i paramenti liturgici, la croce missionaria, una serie di pannelli che illustrano la lunga storia missionaria della Famiglia Salesiana e altre testimonianze della grande amicizia tra San Giovanni Bosco e il capoluogo ligure. Altre due stanze ricordano il capo della prima spedizione missionaria, il cardinale salesiano Giovanni Cagliero e il primo direttore dell’Istituto don Bosco di Genova, don Paolo Albera. Ampio spazio viene dedicato alle attuali missioni in 136 nazioni con oltre 10.000 missionari. Il Museo, inaugurato dal Rettor maggiore dei salesiani Fabio Attard, undicesimo successore di don Bosco, si trova all’interno dell’Opera don Bosco a Sampierdarena e per visitarlo si può telefonare al numero 010-6402601
Filippo Re
nelle foto, Istituto don Bosco a Genova-Sampierdarena e missionari salesiani in partenza per l’Argentina

“Capolavori di Torino”, un racconto corale al Centro Storico della FIAT

In esposizione negli spazi di via Chiabrera, testimonianze, immagini, oggetti e documenti che restituiscono le esperienze delle scuole allievi FIAT e Lancia

Il Museo Nazionale dell’Automobile apre al Centro Storico FIAT la mostra “Capolavori di Torino”, realizzato insieme all’Associazione Ex Allievi FIAT, che restituisce, attraverso un racconto corale, la straordinaria esperienza novecentesca delle scuole FIAT e Lancia, fatta di teoria, pratica, disciplina ed eccellenza tecnica. Il progetto, ideato e curato dall’artista Nicola Nunziata, è articolato su tre componenti: la call to action partecipativa, la mostra e la pubblicazione, e si distingue per una combinazione unica di cittadinanza attiva, ricerca attiva e metodo partecipativo. “Capolavori” è il termine che definisce gli oggetti che gli allievi realizzavano come prove tecniche durante il loro percorso formativo, a dimostrazione delle capacità acquisite, oggi riletti nel progetto come manufatti simbolici e fossili di lavoro individuale. In occasione di questa mostra, il termine si dilata accogliendo un’idea più ampia di eccellenza e impegno, in un gioco di parole che congiunge il gesto operaio alla dimensione museale, e conferisce il titolo all’intero progetto di ricerca e sperimentazione attraverso il quale, il Museo Nazionale dell’Automobile attiva un dialogo con la cittadinanza, recuperando materiale diffuso tra i cittadini, per raccontare una vicenda storicamente importante. L’obiettivo è rintracciare e acquisire attraverso la raccolta, la digitalizzazione e la catalogazione quella parte di archivi privati invisibili, considerati complementari al materiale ufficiale, diffusi nel tessuto urbano torinese e non ancora emersi.

“Con ‘Capolavori di Torino’, l’archivio del Centro Storico FIAT, in particolare le scuole di FIAT e Lancia – afferma Nicola Nunziata – diventa materiale di partenza per la creazione di nuove opere d’arte. Un censimento pubblico estende il campo d’azione artistica, trasformando la ricerca d’archivio in un processo partecipativo. ‘Ex allievi cercasi’ è una call to action rivolta ai cittadini di Torino con l’obiettivo di ampliare la documentazione esistente con i materiali dei loro archivi privati, finora latenti, per costruire insieme una mostra al Centro Storico FIAT. L’istituzione culturale riafferma la propria natura di laboratorio di produzione s sperimentazione attivando un dialogo diretto tra artisti e cittadini. Questi ultimi si riappropriano degli spazi museali, riconoscendoli come luoghi accessibili e di trasformazione. Emerge uno scenario in cui ricerca artistica, umanità e tecnologia, complice la memoria, cooperano per accogliere un futuro dove l’arte è bene comune, accessibile e condiviso.

La storia delle scuole aziendali FIAT e Lancia (1923-1983) è storia novecentesca. Di quel secolo ha ereditato le asprezze, la disciplina imposta da due guerre mondiali, la povertà diffusa prima del boom e le promesse di una vita per i figli migliore di quella dei padri. Entrambe le scuole rappresentavano molto più di un semplice avviamento al lavoro: il motto della scuola allievi FIAT era: “Prima educare, poi istruire”, e l’obiettivo era quello di formare giovani che per eccellenza professionale e senso di appartenenza costituisse la spina dorsale di aziende capaci di crescere senza perdere la loro identità, in un processo di crescita che sembrava non dovesse finire mai.

Sono in esposizione materiali d’archivio e manufatti d’epoca, in dialogo con videoinstallazioni, interviste e fotografie realizzate oggi agli studenti di un tempo. La mostra è un pretesto per la ricerca artistica e per interrogare l’archivio con il materiale da cui generare nuove opere d’arte, un campo d’azione dove la pratica artistica del riuso agisce per associazioni libere, attraverso l’ibridazione e la coesistenza di diversi linguaggi dell’arte. La mostra, aperta venerdì 21 novembre, si chiuderà domenica 22 marzo 2026 al primo piano del Centro Storico FIAT, Dirimpetto a quella che fu la scuola allievi di corso Dante 103, un modo per ancorare a un luogo la memoria di una delle più grandi esperienze formative mai temtate dall’industria italiana.

Mara Martellotta

Le mitiche origini di Augusta Taurinorum

Torino, bellezza, magia e mistero   Torino città magica per definizione, malinconica e misteriosa, cosa nasconde dietro le fitte nebbie che si alzano dal fiume? Spiriti e fantasmi si aggirano per le vie, complici della notte e del plenilunio, malvagi satanassi si occultano sotto terra, là dove il rumore degli scarichi fognari può celare i fracassi degli inferi. Cara Torino, città di millimetrici equilibri, se si presta attenzione, si può udire il doppio battito dei tuoi due cuori.

Articolo 1: Torino geograficamente magica
Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Articolo 3: I segreti della Gran Madre
Articolo 4: La meridiana che non segna l’ora
Articolo 5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche
Articolo 6: Dove si trova ël Barabiciu?
Articolo 7: Chi vi sarebbe piaciuto incontrare a Torino?
Articolo 8: Gli enigmi di Gustavo Roll
Articolo 9: Osservati da più dimensioni: spiriti e guardiani di soglia
Articolo 10: Torino dei miracoli

Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum

Nelle alte valli delle Alpi era usanza liberare una mucca prima di fondare una borgata; l’animale andava al pascolo tutto il giorno per poi trovare il punto in cui distendersi a terra e riposarsi. Quello sarebbe stato il luogo in cui i montanari avrebbero iniziato ad edificare il borgo: «la mucca può “sentire” cose che all’uomo sfuggono, se il posto è sicuro o meno e se di lì si irradiano energie benefiche o maligne».

Anche la fondazione di Torino potrebbe rientrare in una di tali credenze. Ma a questa versione, tutto sommato verosimile e riconducibile a qualche usanza rurale, fanno da controparte altre ipotesi, decisamente più complesse e letteralmente “divine”, poiché hanno come protagonisti proprio degli dei, Fetonte ed Eridano.  Avviciniamoci allora a queste due figure. Secondo il mito greco, Fetonte, figlio del Sole, era stato allevato dalla madre Climene senza sapere chi fosse suo padre. Quando, divenuto adolescente, ella gli rivelò di chi era figlio, il giovane volle una prova della sua nascita. Chiese al padre di lasciargli guidare il suo carro e, dopo molte esitazioni, il Sole acconsentì. Fetonte partì e incominciò a seguire la rotta tracciata sulla volta celeste. Ma ben presto fu spaventato dall’altezza alla quale si trovava. La vista degli animali raffiguranti i segni dello zodiaco gli fece paura e per la sua inesperienza abbandonò la rotta. I cavalli si imbizzarrirono e corsero all’impazzata: prima salirono troppo in alto, bruciando un tratto del cielo che divenne la Via Lattea, quindi scesero troppo vicino alla terra, devastando la Libia che si trasformò in deserto. Gli uomini chiesero aiuto a Zeus che intervenne e, adirato, scagliò un fulmine contro Fetonte, che cadde nelle acque del fiume Eridano, identificato con il Po. Le sorelle di Fetonte,, le Eliadi, piansero afflitte e vennero trasformate dagli dei in pioppi biancheggianti. Le loro lacrime divennero ambra. Ma precisamente, dove cadde Fetonte? In Corso Massimo d’Azeglio, proprio al Parco del Valentino dove ora sorge la Fontana dei Dodici Mesi.  In un altro mito, Eridano, fratello di Osiride, divinità egizia, era un valente principe e semidio. Costretto a fuggire dall’Egitto, percorse un lungo viaggio costeggiando la Grecia e dirigendosi verso l’Italia. Dopo aver attraversato il mar Tirreno sbarcò sulle coste e conquistò l’attuale regione della Liguria, che egli chiamò così in onore del figlio Ligurio. Attraversò poi l’Appennino e si imbatté in una pianura attraversata da un fiume che gli fece tornare alla mente il Nilo. Qui fondò una città, che dedicò al dio Api, venerato sotto forma di Toro.


Un giorno Eridano partecipò ad una corsa di quadrighe, purtroppo però, quando già si trovava vicino alla meta, il principe perse il controllo dei cavalli che, fuori da ogni dominio, si avviarono verso il fiume, ed egli vi cadde, annegando.  In sua memoria il fiume venne chiamato come il principe, “Eridano”, che è, come abbiamo detto, anche l’antico nome del fiume Po, in greco Ἠριδανός (“Eridanos”), e in latino “Eridanus”.  Questa vicenda ci riporta alla nostra Torino, simboleggiata dall’immagine del Toro, come testimoniano, semplicemente, e giocosamente, i numerosissimi toret disseminati per la città. Storicamente il simbolo è riconducibile alla presenza sul territorio della tribù dei Taurini, che probabilmente avevano il loro insediamento o nella Valle di Susa, o nei pressi della confluenza tra il Po e la Dora. L’etimologia del loro nome è incerta anche se in aramaico taur assume il valore di “monte”, quindi “abitanti dei monti”. I Taurini si scontrarono prima con Annibale e poi con i Romani, infine il popolo scomparve dalle cronache storiche ma il loro nome sopravvisse, assumendo un’altra sfumatura di significato, risalente a “taurus”, che in latino significa “toro”. È indubbio che anche oggi l’animale sia caro ai Torinesi, sia a coloro che per gioco o per scaramanzia schiacciano con il tallone il bovino dorato che si trova sotto i portici di piazza San Carlo, sia a quelli vestiti color granata che incessantemente lo seguono in TV. C’è ancora un’altra spiegazione del perché Torino sorga proprio in questo preciso luogo geografico, si tratta della teoria delle “Linee Sincroniche”, sviluppata da Oberto Airaudi, che fonda, nel 1975, a Torino, il Centro Horus, il nucleo da cui poi si sviluppa la comunità Damanhur. Le Linee Sincroniche sono un sistema di comunicazione che collega tutti i corpi celesti più importanti. Sulla Terra vi sono diciotto Linee principali, connesse fra loro attraverso Linee minori; le diciotto Linee principali si riuniscono ai poli geografici in un’unica Linea, che si proietta verso l’universo. Attraverso le Linee Sincroniche viaggia tutto ciò che non ha un corpo fisico: pensieri, energie, emozioni, persino le anime. Il Sistema Sincronico si potrebbe definire, in un certo senso, il sistema nervoso dell’universo e di ogni singolo pianeta. Inoltre, grazie alle Linee Sincroniche è possibile veicolare pensieri e idee ovunque nel mondo. Esse possono essere utilizzate come riferimenti per erigere templi e chiese, come dimostra il nodo centrale in Valchiusella, detto “nodo splendente”, dove sorge, appunto, la sede principale della comunità Damanhur. Secondo gli studi di tale teoria Torino nasce sull’incrocio della Linea Sincronica verticale A (Piemonte-Baltico) e la Linea Sincronica orizzontale B (Caucaso).Vi sono poi gli storici, con una loro versione decisamente meno macchinosa, che riferiscono di insediamenti romani istituiti da Giulio Cesare, intorno al 58 a.C., su resti di villaggi preesistenti, forse proprio dei Taurini. Il presidio militare lì costituitosi prese il nome prima di “Iulia Taurinorum”, poi, nel 28 a.C, divenuto un vero e proprio “castrum”, venne chiamato, dal “princeps” romano Augusto, “Julia Augusta Taurinorum”. Il resto, come si suol dire, è storia.
Queste le spiegazioni, scegliete voi quella che più vi aggrada.

Alessia Cagnotto

“Monferrato Decorato”, alla scoperta delle volte degli edifici antichi

Venerdì 21 novembre, alle ore 17, partirà il tour artistico e culturale, da piazza Gherzi a Lu, noto come “Monferrato Decorato”, alla scoperta delle volte degli edifici antichi di Lu – Cuccaro Monferrato

Venerdì 21 novembre, a Lu – Cuccaro Monferrato, vi sarà un percorso luese alla scoperta dei soffitti colorati. Il tour artistico e culturale rappresenta un viaggio alla scoperta del patrimonio colorato monferrino, il paese di Lu – Cuccaro Monferrato, e si terrà venerdì 21 novembre, alle ore 17, con appuntamento a Lu, in piazza Luigi Gherzi. L’evento, ideato da Anna Maria Bruno, è promosso dalla Fondazione Ecomuseo della Pietra da Cantoni, e si propone di far conoscere il patrimonio artistico e decorativo, che nella storia ha determinato la storia di numerose abitazioni monferrine, indipendentemente dalla classe e dal ceto sociale. La prima tappa sarà a Casa Signorini, incantevole dimora situata nel borgo Monferrino, custode di fascino e bellezza. A seguire l’itinerario proseguirà nell’eleganza di palazzo Paleologi, al cui interno sono attivi il relais palazzo Paleologi e il ristorante Daimon. Quindi, il tour si allungherà in un’ala del ristorante Antico Monastero, il cui soffitto a cassettoni rimanda a suggestioni ancestrali.

“Per la prima volta a Lu, con ‘Monferrato Decorato’, potremo farci sorprendere dalle meravigliose volte di due edifici antichi, che ancora oggi trasudano di arte, bellezza e storia – commenta il Presidente Corrado Calvo – con Anna Maria Bruno riscopriremo risvolti meno noti e avremo il privilegio per un giorno di ammirare i bellissimi ambienti decorati e i loro diversi stili”.

La partecipazione è gratuita, ma è richiesta la prenotazione al numero 348 2211219 – chebisa@virgilio.it

Mara Martellotta

I marchesi Scozia. Dal Monferrato alla Campania

Il feudo astigiano di Calliano, elevato a marchesato dai Gonzaga di Mantova, fu affidato dopo lunghe vertenze al primo marchese Carlo Bernardino Scozia, padre della contessa Maria Anna Caterina, moglie del marchese di San Giorgio Antonino Felice Gozzani. Giunti in Italia nel XIII secolo, gli Scozia si inserirono nel territorio napoletano nel 1550 provenienti dal Monferrato. Nello Stemmario delle Famiglie Italiane del 1780, manoscritto in sei tomi di Gaetano Montefuscoli conservato nella Biblioteca Universitaria di Napoli, è stato ritrovato lo scudo araldico dei nobili Scozia di Somma Vesuviana. Le partiture dello stemma rappresentano a sinistra don Pietro Antonio Scozia, marito di Sanchez de Luna e a destra la croce nera di Cornelia Marzano, moglie di Scipione Scozia. Della nobile e ricca famiglia che possedeva a Somma Vesuviana una residenza estiva secolare con palazzo e masserie con vigneti, conosciamo antiche memorie specialmente della scrittrice e filosofa Costanza Scozia che frequentava i migliori salotti letterari napoletani e di lei restano oggi pochi sonetti e qualche scritto filosofico conservati dal gesuita Mattia Doria.

L’insigne poetessa visse l’infanzia con la sorella donna Carlotta nel tempio degli Escorziati di Napoli, il conservatorio per nobili fanciulle e per le due sorelle entrambe nate a Somma Vesuviana. Ultimo discendente degli Scozia napoletani fu Pasqualino, morto senza figli nel 1838, marito di donna Teresa Rogadei, abitanti all’Infrascata di Napoli. Pasqualino era figlio di Michele Scozia e Maria Celaja, pronipote ed unico erede di Costanza. La relazione tra le famiglie Scozia monferrine e napoletane è emersa grazie alla collaborazione di Alessandro Masulli, giornalista pubblicista Ordine Giornalisti della Campania, editore e redattore del Mediano di Napoli e archivista del Comune di Somma Vesuviana che ha ritrovato i processi familiari dell’epoca presso l’Arcidiocesi napoletana. L’ultima Scozia di Calliano fu la marchesa Tarsilla, moglie del principe don Francesco Guasco,  marchese di Bisio, Verduno, Gavi e nuovo signore di Murisengo, fondamentale genealogista alessandrino. Il castello cuneese di Verduno fu in parte ricostruito dall’architetto Juvarra e ceduto agli ospedali San Giovanni e Carità di Torino, acquistato dal re Carlo Alberto e utilizzato per lunghi periodi di soggiorno da Oddone, figlio di Vittorio Emanuele II e Maria Adelaide. Lo stemma gentilizio di casa Scozia fu abbellito con “due rostri di nave nelle antiche memorie chiamati anche scogli”, dal motto “A bon rendre”.
Armano Luigi Gozzano

Il Toret: quando i simboli dissetano

 

Malinconica e borghese, Torino è una cartolina daltri tempi che non accetta di piegarsi allestetica della contemporaneità.
Il grattacielo San Paolo e quello sede della Regione sbirciano dallo skyline, eppure la loro altitudine viene zittita dalla moltitudine degli edifici barocchi e liberty che continuano a testimoniare la vera essenza della città, la metropolitana viaggia sommessa e non vista, mentre larancione dei tram storici continua a brillare ancorata ai cavi elettrici, mentre le abitudini dei cittadini, segnate dalla nostalgia di un passato non così lontano, non si conformano allirruente modernità.
Torino persiste nel suo essere retrò, si preserva dalla frenesia delle metropoli e si conferma un capoluogo a misura duomo, con tutti i pro e i controche tale scelta comporta.
Il tempo trascorre ma lantica città dei Savoia si conferma unica nel suo genere, con le sue particolarità e contraddizioni, con i suoi caffè storici e le catene commerciali dei brand internazionali, con il traffico della tangenziale che la sfiora ed i pullman brulicanti di passeggeri sudaticcima ben vestiti.
Numerosi sono gli aspetti che si possono approfondire della nostra bella Torino, molti vengono trattati spesso, altri invece rimangono argomenti meno noti, in questa serie di articoli ho deciso di soffermarmi sui primati che la città ha conquistato nel tempo, alcuni sono stati messi in dubbio, altri riconfermati ed altri ancora superati, eppure tutti hanno contribuito e lo fanno ancora- a rendere la remota Augusta Taurinorum così pregevole e singolare.

 

1. Torino capitale… anche del cinema!

2.La Mole e la sua altezza: quando Torino sfiorava il cielo

3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici

4. Torino e le sue mummie: il Museo egizio

5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente

6. Chi ce lha la piazza più grande dEuropa? Piazza Vittorio sotto accusa

7. Torino policulturale: Portapalazzo

8.Torino, la città più magica

9. Il Turet: quando i simboli dissetano

10. Liberty torinese: quando leleganza si fa ferro

 

9. Il Turet: quando i simboli dissetano

Eccoci quasi arrivati alla fine del ciclo di articoli sui primati torinesi, e come in tutti gli elenchi ho voluto lasciare “il meglio” per ultimo.
Lo sapete da dove deriva la parola “rubinetto”? Questa la definizione dal dizionario: “Dal fr. robinet, der. di robin, nome dato pop. ai montoni, perché le chiavette, in passato, avevano spesso la forma di una testa di montone •sec. XVI.” Si, l’etimologia fa riferimento ai “montoni”, forse proprio per questo motivo le fontane costruite tra il Quattrocento e il Cinquecento hanno spesso forma di testa di animale, tale tradizione svanisce tuttavia nel corso dei secoli, per lasciare spazio a costruzioni più semplici e lineari. Questo accade quasi dappertutto, tranne che in una città, indovinate quale?
Il record di cui vorrei raccontarvi oggi è assai peculiare, nonché decisamente riconducibile alla nostra urbe, mi riferisco ai famosi “torèt”.
Credo che per noi abitanti del luogo, tale dettaglio urbano, sia qualcosa di “abituale”, una presenza quasi scontata e banale, perché come tutti siamo anestetizzati e distaccati nei confronti dei beni che già possediamo, mentre tutto il nostro desiderio si rivolge costantemente alle meraviglie che si trovano dall’altra parte del mondo.
Quando re-impareremo a guardare, ci accorgeremo del minuzioso incanto delle fontanelle che pullulano tra le nostre piazze e le nostre vie, mi riferisco a quelle strutture a forma di “torèt” che i turisti si fermano a fotografare, spesso divertiti e stupiti, giacché non capita in molte altre metropoli di imbattersi in simili fonti d’acqua.


Anche il numero di tali impianti è sbalorditivo: sono 800 i “piccoli tori” che si occupano senza sosta di dissetare gratuitamente la cittadinanza e i visitatori.
È bene ricordare che la comunità pedemontana continua a costruire le proprie sorgenti cittadine, sempre con tali sembianze, da più di centosessant’anni, rifacendosi all’antica tradizione che associa per assonanza – e altre motivazioni relative alla mitologia- l’effige del toro e la denominazione “Torino”.
Si sa, l’acqua corrente non è sempre stata disponibile presso le abitazioni del popolo. Nell’Ottocento le persone prelevavano l’acqua dai pozzi dislocati nei vari cortili o in quelli artesiani, dove le acque sotterranee emergevano naturalmente, senza bisogno di specifici strumenti di estrazione. Tale abitudine comportava però problemi igienico-sanitari, annessi ad esempio all’inquinamento delle fonti o alle eventuali contamizioni delle falde.
La città sabauda allora – che ci piaccia o meno- si ispira ad un progetto diffusosi nelle capitali della Francia, ossia
un sistema idrico costituito da fontanelle che forniscono acqua 24 ore su 24. Per differenziarsi dai nemici-amici gallici i torinesi ideano una specifica forma, tutta nostrana, per sorgenti urbane: ecco la nascita del “torèt”.


Grazie a tali invenzioni, anche nel capoluogo piemontese, diventa possibile ovviare alle numerose difficoltà quotidiane incontrate dalla popolazione. Intorno al 1859, viene progettato il primo acquedotto che irrori svariate fontanelle pubbliche, inoltre, nel 1861 – dopo un mese dall’unità d’Italia- la Giunta Comunale individua ben 81 zone da predisporre proprio come “punti d’acqua” potabile.
Un anno dopo vengono presentati i famigerati progetti delle “fontanelle”, tali e quali a quelli che tutt’ora possiamo visionare passeggiando per le strade. Da subito vengono redatte delle mappe per rendere più facilmente trovabili queste costruzioni, all’inizio si contano ben 45 “torèt”, poi nel tempo, il numero delle fontane aumenta sempre più, fino a raggiungere la moltitudine da record odierna.
Il primo esemplare viene edificato all’angolo tra via San Donato e via Balbis, nei pressi di Piazza Statuto; oggi però la struttura appare piuttosto nuova, questo perchè dopo più di cent’anni di onorato servizio il piccolo toro originale è stato sostituito, la collocazione però è rimasta la medesima.
Il “torèt” si presenta sempre uguale in ciascuna delle sue copie: forma parallelepipeda di circa un metro d’altezza, l’estremità superiore è arcuata, con una griglia di scolo in basso, spesso dotata di una conca centrale da cui possono bere anche gli amici a quattro zampe. Il materiale utilizzato è la ghisa, il colore che ricopre la lega ferrosa è un particolare tono di verde, facilmente definibile “verde bottiglia”. E poi c’è ovviamente l’elemento distintivo:
il rubinetto a forma di testa di toro.


Fin dal principio tali gorghi mostrano un’estetica inconfondibile, divengono subito un caratteristico arredo urbano, tant’è che oggi sono addirittura acquistabili in formato di gadget-portachiavi, piccoli souvenir ideati dal Comune di Torino per promuovere l’immagine dell’antica città dei Savoia.
Dietro all’apparente frivolezza dell’oggetto si cela un’attenzione rivolta all’ambiente e alla salute, la manutenzione delle fontane è affidata alla SMAT (la Società Metropolitana Acque Torino), che si occupa di erogare agli avventori assetati acqua gratuita, di buona qualità e regolarmente controllata, il ricambio costante del flusso impedisce così la formazione di ristagni che potrebbero generare la proliferazione di batteri. È bene sottolineare inoltre che non vi è alcuno spreco idrico: l’acqua “non bevuta” ritorna infatti nelle falde sotterranee –
oltretutto in qualità ancora migliore rispetto a prima-.
Esistono anche dei “torèt” versione “ingrandita”, si tratta delle ironiche e bizzarre sculture realizzate da Nicola Russo a partire dal 2021. Il lavoro dell’artista nasce dall’idea che i piccoli tori possano rompere la fontanella che li tiene soggiogati, mostrandosi in tutta la propria possanza di mammifero artiodattilo. Le sculture possono apparire panciute e goffe, ma si sa, “noi del nord” non siamo noti per ilarità e autoironia, Nicola Russo ha così dovuto spiegare le proprie creazioni poste sul territorio cittadino: “il toret vede la sua amata città vivere un momento di difficoltà a causa del Covid e allora decide di uscire dal suo guscio in ghisa, per dare un segno di cambiamento e per spingere tutta la città a una rinascita.

 

Non importa se è panciuto e goffo, lui si mostra così com’è fatto per portare il suo messaggio di speranza. Il suo è quindi “un gesto di coraggio, perché senza coraggio non c’è futuro”.
È bene dunque superare lo scetticismo del primo sguardo, anche perchè l’iniziativa dello scultore ha un duplice intento virtuoso: da una parte egli si appoggia solo ad aziende piemontesi, in modo da incentivare una ricaduta economica sul territorio, dall’altra lo scultore ha deciso di devolvere parte dei ricavati alla Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro Onlus di Candiolo.
Anche stavolta mi viene da terminare con un “ Ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι ” (“la favola insegna che”). Mai fermarsi alle apparenze, perché dietro la semplicità si cela sempre la preziosità di un grande insegnamento e nella goffaggine di un sorriso si può trovare la forza per proseguire ciascuno nel proprio percorso.

Alessia Cagnotto

Che storia i caffè di Torino!

C’è un primato poco noto che Torino condivide con Vienna. È quello dei caffè storici, che nel capoluogo piemontese eccellono per numero, bellezza e storia: sono veri e propri salotti cittadini, anzi crocevia, ai cui tavolini si incontravano (e talvolta si incontrano ancora) intellettuali, giornalisti, aristocratici. Proprio a questo intreccio di cultura e sapori sarà dedicato l’appuntamento in programma lunedì 24 novembre alle 18.30 allo storico Caffè Pepino, in piazza Carignano 8 a Torino. L’occasione è la presentazione della monografia “Caffè & Locali storici di Torino”, ottavo volume della collana “Bellezze di Torino, blësse ‘d Turin” (edizioni Inspire Communication). L’incontro è promosso dall’Associazione Monginevro Cultura insieme all’Associazione Caffè Storici di Torino e del Piemonte, presieduta da Edoardo Cavagnino. Il libro, bilingue in italiano e piemontese, racconta in immagini e parole i caffè simbolo dell’eleganza sabauda: locali ancora in attività o scomparsi, ma rimasti impressi nella memoria cittadina. A condurre la serata sarà Sergio Donna, coordinatore del progetto editoriale, affiancato da alcuni coautori e dai fotografi Carla Colombo, Beppe Lachello e Vittorio Greco. Ad accompagnare il pubblico nel viaggio tra passato e presente ci saranno letture, aneddoti e poesie, impreziosite dalla presenza di figuranti in abiti d’inizio Novecento. Protagonista dell’aperitivo sarà naturalmente il vermouth di Torino, il vino aromatizzato che è diventato, negli anni, il simbolo dei caffè storici torinesi. La degustazione, al costo di 15 euro, è su prenotazione: segreteria@monginevrocultura.net, 011 0437207.

“Bianco al Femminile”. In mostra sei secoli di autentici capolavori tessili

Appartenenti alle Collezioni di “Palazzo Madama”

Fino al 2 febbraio 2026

Occasione contingente, il riallestimento della “Sala Tessuti”. Da questa pratica incombenza, nasce una mostra di notevole valore culturale, storico e didattico che racconta, attraverso sei secoli di altissima arte tessile una storia che passa per ricami minuti e intricati e preziosi merletti, arrivando al più iconico degli abiti femminili di colore bianco, il colore naturale della seta e del lino: l’abito da sposa. Si presenta così la mostra dal titolo (non per nulla) di “Bianco al Femminile” curata da Paola Ruffino e allestita nella “Sala Tessuti” di “Palazzo Madama” fino a lunedì 2 febbraio 2026. In rassegna, trovano adeguato spazio cinquanta manufatti tessili, appartenenti alle Collezioni del Palazzo che fu “Casa dei secoli” per Guido Gozzano, di cui sei restaurati per questa precisa occasione e quattordici esposti per la prima volta: autentici capolavori nati dal sorprendente lavoro (più che artigianale) passato, per tradizioni secolari, attraverso “mani femminili” che hanno operato con minuta diligenza sul “ricamo in lino medievale”, così come sulla lavorazione dei “merletti ad ago” o “a fuselli” o ancora sul “ricamo in bianco su bianco”. Donne artigiane, donne artiste, donne “autrici, creatrici, nonché raffinate fruitrici e committenti di tessuti e accessori di moda”. Comune fil rouge, per tutte, il colore bianco, colore “in stretta connessione, materiale e simbolica, proprio con la donna”. E che trova il suo massimo apice in Francia e in Europa, sul finire del XVIII secolo, complice il fascino esercitato dalla statuaria greca e romana su una moda che guarda, affascinata non poco, all’antico. “Le giovani – si legge in nota – adottano semplici abiti ‘en-chemise’, trattenuti in vita da una fusciacca; il modello del ‘cingulum’ delle donne romane sposate, portato alto sotto al seno, dà avvio ad una moda che durerà per trent’anni. I tessuti preferiti sono mussole di cotone, garze di seta, rasi leggeri, bianchi o a disegni minuti, come le porcellane dei servizi da tè”.

Dal XIV – XV secolo fino al Novecento (dietro l’angolo) l’iter espositivo prende avvio dai primi “ricami dei monasteri femminili”, in particolare di area tedesca e della regione del lago di Costanza (lavorati su tela di lino naturale e poi diffusisi, per la povertà dei materiali e per la facilità di esecuzione, anche in ambito domestico – laico, per la decorazione di tovaglie e cuscini) per poi passare a documentare la lavorazione del “merletto” nell’Europa del XVI e XVII secolo che vide protagonisti i lini bianchissimi e la straordinaria abilità delle “merlettaie veneziane e fiamminghe”. In rassegna una scelta di bordi e accessori in pizzo italiani e belgi illustra gli eccezionali risultati decorativi di quest’arte “esclusivamente femminile”, che nel Settecento superò gli stretti confini della casa o del convento e si organizzò in “manifatture”. E proprio l’inizio della “produzione meccanizzata” causò, nel XIX secolo, la perdita di quell’insostituibile virtuosismo nell’arte manuale del “merletto”, che riemerse invece nel ricamo in filo bianco sulle sottili “tele batista” (in trama fatta con filati di titolo sottile) e sulle “mussole” dei “fazzoletti femminili”. Quattro splendidi esemplari illustrano l’alta raffinatezza raggiunta da questi accessori, decorati con un lavoro a ricamo che restò sempre un’attività soltanto al femminile, anche quando esercitata a livello professionale.

L’esposizione si conclude nel XX secolo con uno dei temi che più vedono uniti la donna e il colore bianco nella nostra tradizione, l’ “abito da sposa”, con un abito del 1970, corto, accompagnato non dal velo ma da una avveniristica cagoule (cappuccio), scelta non scontata “che ribadisce la forza e la persistenza del rapporto tra l’immagine della donna e il candore del bianco”.

La selezione di tessuti è accostata nell’allestimento a diverse “opere di arte applicata”, fra cui miniature, incisioni, porcellane e legature provenienti dalle Collezioni del “Museo”. 

In occasione del nuovo allestimento delle Collezioni Tessili, “Palazzo Madama” propone, inoltre, un laboratorio di cucitura in forma meditativa” a cura di Rita Hokai Piana nelle giornate di sabato 15 e 22 marzo, 5 12 aprile,  dalle ore 10 alle ore 13. Tutte le info su: www.palazzomadamatorino.it

Gianni Milani

“Bianco al Femminile”

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica, piazza Castello, Torino; tel. 011/4433501 o www.palazzomadamatorino.it

Fino al 2 febbraio 2026

Orari: lun. e da merc. a dom. 10/18; mart. chiuso

 

Nelle foto: “Sala Tessuti” (Ph. Studio Gonella); Caracò, Italia 1750-60; Corpetto, Germania sud-occidentale, 1750-75