STORIA

Dopo tre secoli il Legnanino torna negli Appartamenti dei Principi di Palazzo Carignano 

20 dicembre 2025 – 6 gennaio 2026

 

Dal 20 dicembre al 6 gennaio, gli Appartamenti dei Principi di Palazzo Carignano accolgono nuovamente, dopo più di tre secoli di assenza, il dipinto Belisario chiede l’elemosina di Stefano Maria Legnani, detto Legnanino (Milano, 1661-1713) che affronta un tema inconsueto nella pittura barocca, rappresentando il generale romano Belisario caduto in miseria e reso cieco. La scelta iconografica ha un evidente valore allegorico legato alla biografia del committente che ne ordinò la realizzazione: al destino del condottiero si accosta la vicenda di Emanuele Filiberto di Savoia-Carignano, detto “il Muto”, i cui aspri contrasti con Luigi XIV culminarono con l’esilio per il rifiuto di un matrimonio imposto con una nobile francese.

Le figure sono organizzate in una composizione teatrale, divisa in due gruppi dal gioco di luce e ombra, che combina solennità classica e vivacità cromatica, derivata dai pittori genovesi attivi alla corte sabauda.

 

L’opera, eseguita intorno al 1697 per volontà del principe Emanuele Filiberto, torna oggi nella sua sede originaria grazie a un articolato percorso di studi, ricognizioni archivistiche e collaborazioni specialistiche che ne hanno permesso l’identificazione e il recupero. Commissionata allo scorcio del Seicento per decorare una sala degli appartamenti, la grande tela (208 × 195 centimetri), probabilmente collocata in origine al centro di un soffitto a cassettoni, fu trasferita successivamente a Parigi dal figlio del principe, Vittorio Amedeo. Alla morte di quest’ultimo, l’opera venne dispersa in seguito alla vendita all’asta del 1743, scomparendo dalla storia documentata del palazzo.

Riemersa sul mercato antiquariale francese all’inizio del Novecento, la tela fu acquistata dal capostipite di una famiglia fiorentina, con un’attribuzione allora riferita a Luca Giordano. Rimasta nelle raccolte della famiglia fiorentina fino ai giorni nostri, è stato sottoposta a un approfondito intervento conservativo tra il 2020 e il 2021 che ne ha restituito leggibilità e integrità. Il 3 novembre 2025 è stato firmato il contratto di acquisto da parte delle Residenze reali sabaude.

Il ritorno del Belisario nella sua collocazione originaria rappresenta un momento di grande significato per la storia artistica e collezionistica di Palazzo Carignano, che è al centro di un grande cantiere che consentirà il prossimo anno di aprire un percorso del tutto nuovo nella splendida residenza, dotata di soluzioni museali all’avanguardia.

INFO

Palazzo Carignano, via Accademia delle Scienze 5, Torino

L’esposizione è inclusa nel biglietto di ingresso.

Prezzi: intero € 5; ridotto € 2; gratuito under 18; titolari di Abbonamento Musei, Torino+Piemonte Card e Royal Pass; persone con disabilità e relativi accompagnatori; ulteriori agevolazioni secondo le normative vigenti.

Giorni e orari di apertura: sabato e domenica 10-13 e 14.15-18 (ultimo ingresso ore 17). Mercoledì 24 e mercoledì 31 dicembre chiusura alle 17 (ultimo ingresso ore 16). Aperture straordinarie: venerdì 26 e lunedì 29 dicembre, venerdì 2, lunedì 5 e martedì 6 gennaio. Chiuso nei giorni giovedì 25 e martedì 30 dicembre, mercoledì 7 gennaio.

L’acquisto del biglietto può essere effettuato online su www.museiitaliani.it oppure tramite l’App Musei italiani. Domenica 4 gennaio 2026, in occasione della prima domenica del mese a ingresso gratuito (visita libera) la prenotazione è obbligatoria e viene effettuata tramite l’acquisto anticipato online del biglietto.

I “chiodini” intelligenti della Quercetti

Ovviamente i giochi si sono evoluti, ma quel che conta e che fa la differenza è che l’impronta è la stessa data dal fondatore 67 anni fa. Giochi tradizionali, manuali, intelligenti

 

Caro Alessandro, i “plonini” hanno compiuto sessantacinque anni. Sette in più del tuo papà, più del doppio dei tuoi. Ma sono sempre quelli, di plastica colorata, che infilavi nei buchi per disegnare figure”. Così scriverei a mio figlio, in una ipotetica lettera, ricordando il tempo in cui giocava con i chiodini della Quercetti. Sì, erano quelli i “plonini” ( i bimbi tendono a reinventarsi i nomi; anche Snoopy era diventato “Stuyng” e i Puffi si erano ritrovati come d’incanto ad essere dei “fuppi” ) che nel 1950 uscirono dalla fabbrica torinese di Corso Vigevano,25. Esattamente 67 anni fa, Alessandro Quercetti, diede vita a uno fra gli esempi più longevi dell’industria del giocattolo in Italia. E, nonostante il paese sia cambiato dall’inizio del secondo dopoguerra e almeno tre generazioni di italiani hanno giocato con quei chiodini di plastica, sembra che per la “Quercetti & C.” il tempo si sia fermato. Certo, la fabbrica è più grande, moderna e tecnologica, ma il nome sulla porta è sempre lo stesso ed a  guidarla è sempre la stessa famiglia: Andrea, Alberto e Stefano Quercetti, i figli di Alessandro. L’azienda torinese rappresenta uno degli esempi più longevi dell’industria del giocattolo in Italia, un comparto che, nella maggior parte dei casi, ha dovuto arrendersi allo strapotere dei produttori asiatici.

Ovviamente i giochi si sono evoluti, ma quel che conta e che fa la differenza è che l’impronta è la stessa data dal fondatore. Giochi tradizionali, manuali, intelligenti. E il “pezzo forte” dell’azienda è sempre lui, il mitico “Chiodino“, intuizione straordinaria che ha reso il marchio “Quercetti” e i suoi giochi riconoscibili in tutto il mondo. La gamma dei giochi nel tempo è decuplicata, e sono cambiati materiali e tecnologie produttive: ai chiodini, si sono aggiunti biglie, costruzioni, aerei, magneti. Ma ogni pezzo viene realizzato ancora oggi in Italia, nello stabilimento di Torino, dove la Quercetti  può vantare di essere una delle pochissime realtà con un controllo diretto dell’intera filiera produttiva. Tutto il lavoro, a partire dalla progettazione del giocattolo fino al confezionamento del prodotto finito è interamente realizzato in Corso Vigevano. L’intero ciclo di produzione, dall’idea al prototipo, dallo sviluppo del prodotto alla costruzione degli  stampi, dallo stampaggio al confezionamento fino alla spedizione è svolto in Italia, sviluppando un indotto sul territorio. Così, nel tempo, la Quercetti  ha mantenuto la sua identità e non è mai scesa a compromessi. Perché per fare giocattoli, per essere in grado di offrire ai bambini una ricca gamma di esperienze, per realizzare un prodotto che non si limiti ad attrarre ma che stimoli l’intelligenza dei bambini. Rispettandola e coltivandola nel tempo, chiodino dopo chiodino.

Marco Travaglini

Una Genealogia, dopo 60 anni di ricerche

Alla fine dell’estate 1964, compiuti i quindici anni, iniziavo le mie ricerche genealogiche. Oltre mezzo secolo dopo, non un bilancio ma alcune considerazioni sulla “piacevole arte”

Quando, coi pantaloni corti, varcai per la prima volta la porta dell’archivio parrocchiale di Agliè, nessun permesso speciale mi era stato concesso, ma mi si garantiva in sala la presenza di qualcuno pronto a soccorrermi, in caso di necessità. Il Concilio Vaticano II non era ancora concluso e la parrocchia, pur se di un piccolo comune e di grandezza minore, si avvaleva ancora di sacerdoti anziani che, soli,garantivano l’apertura al pubblico dei locali, mentre la presenza distudiosi pgrandi di me provava che ognuno avrebbe fatto le suericerche, senza obiezioni.

Recuperata da circa vent’anni la pace, l’Italia di allora aveva altri problemi che non interferire sullo studio della storia portato avanti negli archivi locali, e poiché, in mancanza di lauree specifiche, sopravvivevano degli appassionati “cultori di storia locale” che mettevano a portata di tutti gli esiti dei loro studi, dall’alto nessuno sembrava preoccuparsi di loro, poiché si considerava la loro materiauna sottoclasse inferiore” degna di poca attenzione. Intanto gli storicid’assalto, cioè quelli “moderni”, pronti a dire le loro verità più che non quella storica, ma convinti che la lettura del passato andasse filtrata dalle loro ideologie, dividevano la piazza, fuori degli atenei,con i lettori che leggevano il passato secondo la loro interpretazione.Insieme entrambi avrebbero fatto sì che la storia della famiglia e lagenealogia fossero addirittura stimate della “non storia” (tanto,nell’ultimo ventennio, io sentii affermare da uno di loro che, insediato in una biblioteca di provincia, era considerato un Marco Aurelio)!

L’argomento era tuttavia definito dal lemma: chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo, e soltanto gli sprovveduti potevano credere giusto cancellare dagli interessi umani quegli argomenti, tanto naturali quanto importanti, che definiscono la situazione dell’individuo in relazione con i suoi parenti, con il pretesto di dare a tutti una maggiorelibertà (purtroppo però la situazione attuale oggi risente molto dei danni causati da loro)! Ma siamo ancora in tempo per lottare con forza a favore delle nostre tradizioni culturali per difendere quegli argomenti. Infatti, cacciato dalla porta, l’interesse per la storia famigliare ritorna, non solo dalle finestre ma, da ogni interstizioattraverso il quale possa trapelare, poiché è parte della nostra storia. Tutti abbiamo parenti, anche se oggi molti sono pronti a negarlo! E questo è così vero che, in ambito legale, è tuttora prevista la ricerca di parenti per definire le pendenze ereditarie.

Democraticamente, si è detto, la genealogia è un’ambizione pericolosa, una perversione coltivata da chi aspira a titoli nobiliari: si tratta di un vizio da estirpare, perché indegno di questo mondo e, quando qualcuno affronta il tema, magari per dire della gente comune, sfrontatamente si sostiene che sia una sfrontatezza pensare che tutti abbiano un passato degno della storia e si impedisce che siaraccontato Così, se in altri Paesi, studi del genere da sempre sonodifesi e mantenuti vivi, il Bel Paese li ha confinati tra i retaggi oziosi ammessi solo per quegli appassionati che, senza regole e con poche consuetudini, li coltivano. Così si è continuato, senza sdoganarli, a mantenerli sotto l’etichetta che li definisce oggetti di uso unico ed esclusivo dei direttamente interessati perché in essi coinvolti.

Ma …. se i coinvolti non si interessano? Allora chi se ne occuperà?Dal momento che prodigiosamente gli interessi sono reali e comunque permangono, anche se ostacolati per questo sarà giusto parlarne e non credere che sia improprio, per questo in tanti, da tanto tempo e in tutto il mondo, si occupano ancora di questi argomenti… ma non sarà tutto facile e piano… no!

     

Ché incapperemo nelle affermazioni strabilianti di persone che, solo marginalmente, accettano che esista la genealogia, ma affermano che personaggi dallo stesso cognome, pur provenienti da comuni diversi della stessa provincia, non hanno nulla a spartire tra loro, e ci imbatteremo nelle affermazioni poco sensate di chi non ritiene possibile trovare in Piemonte cognomi di origine scandinava e, perciò,è convinto che non se ne debba parlare, se non ci sono documenti scritti …. Ma la genealogia è anche una ricerca degli ipotetici collegamenti tra lo scandinavo del Gotland e il Canavesano delle Valli, discendente diretto dal precedente, per via di un mercenario giunto in loco con una compagnia di ventura; o se personaggi dallo stesso cognome, sono presenti in regione, ma in valli tra loro non confinanti: infatti, come ignorare la gestione degli incarichi pubblici assegnati per concorso in passato, così come avveniva ancora dopo l’ultima guerra?

Davanti a tali dubbi esplicitati dagli scettici, non stupiremo, quando sentiremo, chi si atteggia a saputello, confondere la genealogia con l’araldica (pure questo si è dovuto sentire)

La vivacità delle storie umane, a prescindere da ciò che gli individui conoscono, può mettere a tacere il magistrato in pensione, che si presenta come studioso, ma ignora totalmente le vicende deiNormanni e sostiene che sono falsi i documenti degli archivi britannici, fondati da Guglielmo il Conquistatore (e, per sminuirlo,continuerà a dirlo bastardo), o che inattendibili, addirittura, sono gli scritti sui processi dei santi, raccolti dai padri bollandisti!

Ma torniamo a chi le genealogie le accetta, purché vengano tenute segrete e mai pubblicate, perché gli diremo di non temere perché lo strumento è già più che valido in ambito zoologico, laddove si parla di pedigree di cani, cavalli, vacche e canarini... Infatti, la società ha solo da avvantaggiarsi a sapere quali patrimoni di geni e di interessi portino avanti le generazioni umane! Ché, non c’è indiscrezione, in quello che si teme possano divulgare, ma, tra i pochi addetti, non cisono affatto segreti da tacere, infatti, come afferma la Bibbia, non c’è segreto che non sia poi udito proclamare dai tetti delle case! E c’è ben dell’altro, se solo potessi riferire dell’uno o dell’altro tra gli esempi che ho letto nelle carte (ma son cose cose che non si pensa di trovare scritte in atti religiosi e notarili): poiché la storia conserva memoria di tutto, basta saper cercare che si trova! E allora è meglio che chi sa,trovi le parole migliori per riferirne, ovvero, alludendo al passato, per raccontare la verità dei fatti!

Questo mio studio avrà un epilogo. Attualmente in fase di completamento un volume intero di oltre 300 (ma forse saranno 400) tavole, che conclude tanti approfondimenti e comprende tutte le genealogie che ho analizzato nel corso dei miei anni.

Carlo Alfonso Maria Burdet

(Dedico queste pagine a Isabella McKeefry, giovane neozelandesee ancora nostra cugina, che con noi divide, oltre lattenzione per genealogia e storia di famiglia, gli antenati del nostro nonnomaterno, contadini operosi sui campi, tra torbiera e brughiera, diSan Giovanni Canavese, una terra antica di palafitte e piroghe)

Accademia delle Scienze: 50 anni di scoperte archeologiche in Siria

 Tra il 16 e il 17 dicembre l’Accademia delle Scienze di Torino ospiterà studiosi e accademici internazionali per per celebrare cinquant’anni di scoperte archeologiche in Siria.

La due giorni dal titolo “E la Siria incontrò l’Egitto: 50 anni di scoperte in Siria” vedrà la partecipazione di relatori provenienti da Francia, Italia e Siria per fare il punto su mezzo secolo di ricerche archeologiche, che hanno rivoluzionato la conoscenza di questa civiltà.

Era il 1975 quando gli archeologi portarono alla luce gli archivi reali di Ebla, a 60 km da Aleppo. Le migliaia di tavolette cuneiformi rovesciarono completamente la visione che fino ad allora si aveva della Siria antica: non più una semplice terra di passaggio tra Egitto e Mesopotamia, ma una civiltà ricca e potente già nella seconda metà del III millennio a.C., con fiorenti centri urbani e intensi scambi commerciali.

Da allora oltre di 110 missioni archeologiche internazionali hanno lavorato in Siria, riportando alla luce città leggendarie: Ebla, Mari, Ugarit, Palmira, e soprattutto Aleppo, la città abitata ininterrottamente da più tempo al mondo, documentata già nel 2350 a.C. E’ progredita così la comprensione di una civiltà sviluppatasi a cavallo tra Asia centrale, Mediterraneo ed Egitto.

Dopo i saluti istituzionali del presidente dell’Accademia delle Scienze di Torino, Marco Mezzalama, di Stefano Ravagnan, Ambasciatore italiano a Damasco, di Mohammed Yassin Saleh, Ministro della Cultura di Siria, di Anas Zeidan, Direttore generale delle Antichità della Siria, interverranno studiosi dell’Università di Lione, del CNRS francese, della Sapienza di Roma, dell’Università di Torino, del Politecnico e del CNR di Catania.

Tra i momenti particolarmente attesi ci sono gli interventi del professor Stefano De Martino dell’Università di Torino su “Il regno di Mittani e l’Egitto in Siria nel II millennio a.C.: nuove evidenze degli ultimi 50 anni” e l’intervento conclusivo del dottor Ahmad Karbotly, studioso siriano rifugiato in Italia, che affronterà il tema della distruzione del patrimonio culturale siriano dal 2011 al recente cambio di regime dell’8 dicembre 2024, tracciando prospettive per la ricostruzione futura.

Il convegno è aperto al pubblico con ingresso libero.

Maria Vittoria a 150 anni dalla sua morte, primo evento a Reano

Maria Vittoria Dal Pozzo della Cisterna, ultima discente della famiglia originaria di Biella, consorte del Duca d’Aosta Amedeo di Savoia, muore a Sanremo l’8 novembre 1876. Per commemorare il 150° anniversario dalla sua morte è stato ufficialmente costituito un comitato che coordinerà un vasto programma di eventi nel corso del 2026.
Il comitato, al quale la Città metropolitana di Torino ha aderito attraverso un decreto del vicesindaco Jacopo Suppo, nasce su iniziativa del Comune di Reano e dell’Associazione Internazionale Regina Elena.
L’adesione della Città metropolitana sottolinea il profondo legame storico con la figura di Maria Vittoria. L’Ente, infatti, custodisce nel suo patrimonio Palazzo Cisterna, sede aulica dell’Ente e antica dimora della famiglia Dal Pozzo.
L’antico complesso situato a Torino, nella centralissima via Maria Vittoria 12, esempio architettonico di notevole pregio, è attualmente oggetto di un progetto di restauro e valorizzazione. Questo ampio progetto di restituzione di spazi della città alla città ha già avuto inizio nell’aprile 2025 con la riapertura al pubblico del giardino del palazzo.
L’obiettivo del Comitato è conservare e trasmettere alle nuove generazioni il patrimonio spirituale, morale, culturale e storico dell’edificante opera di Maria Vittoria.
Il Comitato è presieduto dal sindaco del Comune di Reano, Piero Troielli, mentre la vicepresidenza è stata affidata alla Città metropolitana di Torino. Ne fanno inoltre parte, con un ruolo operativo, Nadia CappaiAndrea Carnino dell’Associazione Regina Elena e la Proloco di Reano.
Consorte del Principe Amedeo di Savoia, terzogenito di Re Vittorio Emanuele II, Maria Vittoria divenne Regina di Spagna dal 1871 al 1873. Nonostante la breve permanenza sul trono, si distinse per la sua instancabile attività filantropica e sociale. A Madrid, promosse la costruzione di asili infantili per i figli delle lavandaie e finanziò l’edificazione di un ospedale per ciechi e una mensa per i poveri. Fu inoltre promotrice di un atto rivoluzionario per l’epoca: l’abolizione della schiavitù nelle colonie spagnole di Cuba e Portorico.Scomparsa prematuramente a soli 29 anni, Maria Vittoria lasciò un ricordo indelebile, legato al suo atto di generosità finale, con cospicue elemosine a favore del Cottolengo e dell’Ospedale San Giovanni. Toccante fu anche l’omaggio delle lavandaie di Madrid, la cui corona è tutt’oggi accanto alla sua tomba nella Basilica di Superga.
Con un forte accento sulla sensibilizzazione delle nuove generazioni, il comitato ha avviato le sue attività a novembre. La prima è avvenuta nella scuola materna e primaria di Reano, dove, grazie al progetto C’era una volta una principessa, i bambini hanno realizzato una serie di disegni dedicati alla figura della Regina.
I lavori saranno premiati domenica 21 dicembre alle 11 nella chiesa di San Giorgio Martire, con una cerimonia ufficiale in cui verrà presentato, oltre alle iniziative già in corso, il calendario completo per il 2026 dei numerosi e significativi appuntamenti culturali e commemorativi, a Reano e nel giardino di Palazzo Cisterna a Torino, per mantenere viva l’eredità della Duchessa d’Aosta.

La famiglia Leardi, genealogia. Eredità torinesi e monferrine 

 

Nella cultura monferrina del XIX secolo si distinse la contessa Clara (1782-1854), gentildonna di alto rango figlia del marchese Gian Giacomo Coconito Montiglio di Montiglio e di Vittoria Maria Gaspardone. Nel 1803 Clara si unì in matrimonio al conte Giulio Cesare Leardi (1765-1839), tenente colonnello al servizio di Sua Maestà il re di Sardegna, rimasto vedovo nel 1788 di Teresa Gambera, cugina di primo grado di Clara tramite la madre Paola Caterina Gaspardone, sorella di Vittoria Maria.

Fabrizio Gambera, padre di Teresa, conte di Mirabello, decurione e grande viaggiatore, aveva giurato fedeltà nel passaggio del Ducato di Monferrato ai Savoia unitamente al marchese Dalla Valle, entrambi residenti a Casale. Nel 1750 la giurisdizione annuale del territorio di Mirabello era suddivisa in 5 mesi per il feudo comitale e in 7 mesi per il feudo marchionale, parte ceduta nel 1775 da Gambera a Dalla Valle. Dopo il trattato di Aquisgrana del 1748 che espandeva i confini dei Savoia fino al Ticino, la potente famiglia Leardi, originaria della Lomellina residente a Pieve del Cairo e non ancora investita di titoli nobiliari, contraeva affari generando nuove parentele con le nobili e ricche casate del Monferrato.
Diego Giuseppe Leardi, padre di Giulio Cesare, residente a Casale e sposato con la damigella astigiana Isabella Angelieri di Incisa, nel 1780 fu investito da Vittorio Amedeo del feudo di Terzo a tre km ad ovest di Acqui, aggiungendo il nuovo cognome e la proprietà al titolo paterno e costruendo a Casale il palazzo di famiglia nel 1785. La freschezza intellettuale della nobildonna Claretta diventata contessa Clara Leardi Angelieri di Terzo e la conoscenza artistica del marito portarono molti benefici a Casale, lasciando in eredità cospicue donazioni agli istituti di beneficenza, le raccolte librarie del figlio collezionista d’arte Luigi e del cugino viaggiatore Carlo Vidua, scomparsi prematuramente.

Dal testamento di Clara stilato nel 1854, la città ricevette in legato il palazzo di famiglia per fondare un istituto con convitto per impartire lezioni di economia, commercio e diritto privato e stabilire la sede del primo museo civico della città, un capitale da gestire stimato in 220 mila lire. Nel 1858, nel palazzo Leardi situato nella omonima via a loro dedicata, fu inaugurato il primo istituto tecnico in assoluto nella storia d’Italia da Filippo Mellana, sindaco e deputato del collegio di Casale. Il conte di Conzano senatore Pio Gerolamo Vidua e Marianna, sorella di Teresa Gambera, erano i genitori di Carlo, il coraggioso cugino di secondo grado di Clara da lui chiamata affettuosamente Clarine.

Nel 1834, quattro anni dopo la morte di Carlo Vidua, l’amico conte Cesare Balbo ne pubblicò a Torino la vita in quattro volumi. Pio Gerolamo Vidua, sopravissuto a Carlo, donò alla Reale Accademia delle Scienze di Torino libri, stampe, documenti e rari oggetti raccolti durante i viaggi del gracile figlio, accompagnato dai Gozzani. Se Torino possiede la preziosa e unica raccolta di antichità egizie si deve in gran parte a Carlo Vidua e, per riconoscenza, la città gli ha dedicato una via in zona San Donato.

Fondamentale la genealogia primordiale dei conti Gambera del XVII secolo, origine dei consortili familiari dei marchesi Ricci di Cereseto e Fassati di Balzola, conti Pico Gonzaga di Uviglie, Avellani di Cuccaro, Callori di Vignale, Langosco di Langosco, Sordi di Torcello, Sannazzaro di Giarole e Gozzani di San Giorgio, ancora privi del titolo marchionale. Il marchese Giovanni Gozzani, edificatore dello splendido palazzo Treville di Casale con la moglie Lucrezia Gambera, rappresenta la continuità familiare dei cugini di secondo grado conte Pio Gerolamo Vidua e conte Giulio Cesare Leardi. La cappella gentilizia con lo stemma dei nobili Leardi è situata accanto a quelle dei cugini Scozia, Gozzani, Sordi e Langosco nel cimitero di Casale.
Armano Luigi Gozzano

La Torino di Napoleone

Breve storia di Torino


1 Le origini di Torino: prima e dopo Augusta Taurinorum
2 Torino tra i barbari
3 Verso nuovi orizzonti: Torino postcarolingia
4 Verso nuovi orizzonti: Torino e l’élite urbana del Duecento
5 Breve storia dei Savoia, signori torinesi
6 Torino Capitale
7 La Torino di Napoleone
8 Torino al tempo del Risorgimento
9 Le guerre, il Fascismo, la crisi di una ex capitale
10 Torino oggi? Riflessioni su una capitale industriale tra successo e crisi

 

7 La Torino di Napoleone

Levento che più di ogni altro segna il XVIII secolo è senzaltro la Rivoluzione Francese.
Il movimento parigino che si batte per i diritti delluomo riecheggia in tutta Europa e anche la nostra bella Torino non ne rimane indifferente, e non solo per ciò che riguarda gli alti ideali proposti ma soprattutto per via delloccupazione militare francese che, nel 1798, porta limpeto rivoluzionario allinterno delle stesse mura cittadine.
Nello stesso anno Carlo Emanuele IV di Savoia abdica e si ritira con la sua corte in Sardegna, lasciando la cittadinanza ad affrontare un periodo di forti trasformazioni politiche e sociali: Torino è pronta ad un ulteriore mutamento che presto la porterà ad assumere la forma di una moderna città borghese ottocentesca.
Il nuovo governo repubblicano prende il posto della monarchia, abolisce molti privilegi aristocratici e ridimensiona non di poco linfluenza della Chiesa.
Tale situazione tuttavia non ha vita lunga, la parentesi repubblicana termina appena un anno dopo, nel 1799, quando le armate austro-russe invadono il Piemonte, sconfiggono i Francesi e occupano la città.
Sarà necessario attendere larrivo di Napoleone, nel giugno 1800, per assistere ad una nuova riorganizzazione politica della penisola italica, assetto che vede il Piemonte riannesso al Primo impero francese e costringe i Torinesi a sottoporsi al Codice napoleonico, accettando di conseguenza di sottostare al  sistema giuridico e amministrativo francese.
Torino non è più la città-fortezza dei Savoia, e per sottolineare tale circostanza il generale di origini corse, protagonista indiscusso della prima fase della storia contemporanea, ordina lo smantellamento delle fortificazioni cittadine, rendendo lurbe una città aperta, dallimpianto più similare a quello urbanistico francese, giocato su unimpostazione ad ampio raggio. Il regime governante impone ai costruttori ledificazione di nuove piazze, strade e ponti, come ad esempio quello realizzato tra il 1810 e il 1813 sul Po, viene poi abolita lantica divisione in isolati della città a favore di unamministrazione basata su quattro distretti denominati Po, Dora, Moncenisio e Monviso, corrispondenti alla circolazione dellandirivieni da e verso il centro abitato.

Ancora una volta, anche il potere ecclesiastico viene colpito duramente, nelle stessa Torino ben ventinove tra monasteri e conventi vengono chiusi, con conseguente confisca delle terre di cui disponevano gli stabilimenti.
La città pedemontana risponde ormai alle nuove procedure in voga nella Francia napoleonica: si introduce il concetto di uguaglianza tra cittadini, si esalta il valore dellautorità imperiale, del progresso razionale e del servizio pubblico.
La nuova legislatura torinese si basa sul Codice napoleonico, che riconferma labolizione dei privilegi della nobiltà, estende i diritti civili, amplia la tolleranza religiosa, specie nei confronti della comunità ebraica presente sul territorio piemontese e fatto che mi piace rimarcare in questi periodi così moderni–  considera il matrimonio più come un contratto civile di competenza statale che un sacramento religioso, logica che porta anche alla legalizzazione del divorzio.
Le nuove norme investono anche il campo amministrativo-commerciale. Napoleone ordina leliminazione delle corporazioni, cancella i dazi doganali e tutte le difficoltà che possono recare danno alle vendite, inoltre istituisce nuovi organi quali la Camera del commercio, la Borsa e il Tribunale commerciale, tutti enti appositamente pensati per promuovere rapporti di mercato tra i Torinesi e gli imprenditori francesi.
Questa generale spinta modernizzatrice investe le autorità di nuovi poteri, ad esempio il ruolo del sindaco acquisisce un maggior valore, si ampliano le mansioni dellamministrazione municipale, che ora si occupa anche del mantenimento dellordine pubblico, della sanità, dellassistenza ai bisognosi nonché della gestione degli ospedali.
Altro aspetto determinante del dominio napoleonico riguarda proprio lambito della cura alla persona, lassistenza medica rispecchia ora dei canoni moderni, in più gli stretti contatti  tra Torino e Parigi fanno sìche si crei una sorta di infrastruttura amministrativa interna che rende più veloci le mansioni burocratiche, snellendo il carico di lavoro che prima ricadeva su medici e infermieri, che ora possono dedicarsi quasi esclusivamente allo studio delle terapie. Il punto di riferimento per la sanità, nello specifico per le malattie non infettive e curabili, diviene lospedale San Giovanni, a cui è riconosciuto lo status di ospedale nazionale ed è posto sotto il diretto controllo del ministero degli interni di Parigi; si affiancano a tale struttura specifiche istituzioni con compiti precisi, ognuna appositamente dedicata ad una categoria di persone con criticità, quali orfani, poveri o donne che dovevano affrontare gravidanze indesiderate.
Lestrema attenzione alla questione sanitaria porta a due grandi vittorie: la prima riguarda limpedimento di consumare cibo avariato, attraverso controlli meticolosi e limposizione di rigide norme su mercati e macelli, la seconda invece concerne la (momentanea) sconfitta del vaiolo, una delle malattie più temute dellepoca, grazie ad una sorta di vaccinazione di massa attuata nei primi anni dellOttocento.
Lo Stato si impegna inoltre anche in campo sociale: vengono tutelati gli orfani, gli anziani e gli indigenti e anche le persone con disabilità.
Nondimeno Napoleone ha a cuore la diffusione della cultura allinterno della capitale piemontese. Diversi circoli letterari privati ricevono ingenti fondi monetari, come ad esempio accade allAccademia dei Concordi o ai Pastori della Dora. Anche alcuni personaggi ricevono lonore di essere sostenuti dal generale francese, come Prospero Balbo, diplomatico e intellettuale, nonché giovane rampollo di nobili origini, che, nel 1801, è nominato Rettore dellUniversità di Torino. Balbo, grazie a legami politici e a un innato atteggiamento avveduto, riesce a gestire non solo il polo universitario, ma anche lAccademia delle Scienze, lAccademia di Agricoltura, lOsservatorio astronomico e diversi Musei. Inoltre, il vero merito di Balbo e dei suoi collaboratori- sta nellessere riuscito a realizzare un primo effettivo progetto di collaborazione tra ricerca e istruzione a livello territoriale piemontese.
Tuttavia non è tutto ora ciò che luccica, infatti se da una parte il nuovo governo pare dare vita ad una città idilliaca, allinterno della quale vigono giustizia ed uguaglianza, dallaltra, limperatore teme di poter perdere il consenso nobiliare, motivo per il quale diverse famiglie illustri vengono favorite, attraverso lassegnazione di cariche pubbliche o ricoprendo ruoli di prima importanza allinterno delle diverse corti, come ad esempio quella assai ambita di Camillo Borghese, governatore francese di Piemonte, Parma, Liguria.
Si assiste dunque ad una lenta ma continua fusione tra aristocrazia e borghesia: si forma una nuova classe dirigente che occupa i piani alti del consiglio municipale e degli altri organi che reggono la città di Torino.

È poi opportuno sottolineare come agli immediati successi subentrino non poche difficoltà, legate a problemi economici, al brusco impatto dei repentini cambiamenti imposti dal regime francese alla cittadinanza e allapplicazione concreta delle riforme amministrative. Torino poi è certamente parte del generale rinnovamento, ma rimane in una posizione subordinata rispetto al resto dellimpero francese, fatto che implica diverse problematiche legate alla circolazione delle merci e alleconomia, anche landamento demografico riporta alcune criticità: nei primi ventanni dellOttocento la popolazione pare diminuire di un terzo rispetto al secolo precedente.
Torino si scopre dunque ad eseguire le nuove indicazioni in modo decisamente passivo e ben presto il malcontento si diffonde non solo tra la popolazione ma anche allinterno della classe nobiliare; chi partecipa alla vita pubblica lo fa senza esporsi eccessivamente, chi invece risente del taglio dei legami con la famiglia Savoia non puòche rimanere ostile al nuovo governo straniero. A livello lavorativo la modernizzazione non porta solo dati favorevoli, al contrario aumenta la disoccupazione e i nuovi ritmi di produzione si fanno ancora piùestenuanti senza la protezione delle corporazioni e dellatteggiamento paternalistico dellaristocrazia.
Quando l 8 maggio 1814 le truppe austriache entrano a Torino sotto la guida del del generale Ferdinand von Bubna-Littiz, la popolazione non si dimostra ostile nei confronti dei nuovi arrivati.
Non ci sono né giubili né azioni violente, solo un generale e livellato malcontento, perché il potere e il benessere sono di pochi, per i più la fame e la miseria rimangono sempre tali, indipendentemente dalle insegne che le ricoprono.
Nihil sub sole novum.

ALESSIA CAGNOTTO

I segreti della Gran Madre

Torino, bellezza, magia e mistero

Torino città magica per definizione, malinconica e misteriosa, cosa nasconde dietro le fitte nebbie che si alzano dal fiume? Spiriti e fantasmi si aggirano per le vie, complici della notte e del plenilunio, malvagi satanassi si occultano sotto terra, là dove il rumore degli scarichi fognari può celare i fracassi degli inferi. Cara Torino, città di millimetrici equilibri, se si presta attenzione, si può udire il doppio battito dei tuoi due cuori.

Articolo1: Torino geograficamente magica
Articolo2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Articolo3: I segreti della Gran Madre
Articolo4: La meridiana che non segna l’ora
Articolo5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche
Articolo6: Dove si trova ël Barabiciu?
Articolo7: Chi vi sarebbe piaciuto incontrare a Torino?
Articolo8: Gli enigmi di Gustavo Roll
Articolo9: Osservati da più dimensioni: spiriti e guardiani di soglia
Articolo10: Torino dei miracoli

Articolo 3: I segreti della Gran Madre

La città di Torino è tutta magica, ma ci sono dei punti più straordinari di altri, uno di questi è la chiesa della Gran Madre di Dio, o per i Torinesi, ël gasometro. La particolarità del luogo è già nel nome, è, infatti, una delle poche chiese in Italia intitolate alla Grande Madre. L’edificio, proprietà comunale della città, venne eretto per volontà dei Decurioni a scopo di rendere onore al re Vittorio Emanuele I di Savoia che il 20 maggio 1814 rientrò in Torino dal ponte della Gran Madre (la chiesa sarebbe stata edificata proprio per celebrare l’evento), fra ali di folla festante. Massimo D’Azeglio assistette all’evento in Piazza Castello. Il dominio francese era finito e tornavano gli antichi sovrani. Il passaggio del Piemonte all’impero francese aveva implicato una profonda trasformazione di Torino: il Codice napoleonico trasformò il sistema giuridico, abolì ogni distinzione e i privilegi che in precedenza avevano avvantaggiato la nobiltà, la nuova legislazione napoleonica legalizzò il divorzio, abolì la primogenitura, introdusse norme commerciali moderne, cancellò i dazi doganali. La spinta modernizzatrice avviata da Napoleone con il Codice civile fu di grande impatto e le nuove norme commerciali furono fatte rispettare dalla polizia napoleonica con un controllo sociale nella nostra città senza precedenti. Tuttavia il carattere autoritario delle riforme napoleoniche relegava i Torinesi a semplici esecutori passivi di ordini imposti dall’alto e accrebbe il malcontento di una economia in difficoltà. Quando poi terminò la dominazione francese non vi fu grande entusiasmo, né vi fu esultanza per l’arrivo degli Austriaci. L’8 maggio 1814 le truppe austriache guidate dal generale Ferdinand von Bubna-Littitz entrarono in città, e prontamente rientrò dal suo esilio in Sardegna il re Vittorio Emanuele I, il 20 maggio dello stesso anno. Il re subito volle un immediato ritorno al passato, ossia all’epoca precedente il 1789, abrogando tutte le leggi e le norme introdotte dai Francesi. Il nuovo regime eliminò d’un tratto il principio di uguaglianza davanti alla legge, il matrimonio civile e il divorzio, e reintrodusse il sistema patriarcale della famiglia, le restrizioni civili riservate a ebrei e valdesi e restituì alla Chiesa cattolica il suo ruolo centrale nella società. Il 20 maggio 1814 fu recitato un Te Deum nel Duomo di Torino per celebrare il ritorno del re, che si fermò a venerare la Sacra Sindone. L’autorità municipale festeggiò il ritorno dei Savoia costruendo una chiesa dedicata alla Vergine Maria nel punto in cui il re aveva attraversato il Po al suo rientro in città. A riprova di ciò sul timpano del pronao si legge l’epigrafe “ORDO POPVLVSQVE TAVRINVS OB ADVENTVM REGIS”, (“L’autorità e il popolo di Torino per l’arrivo del re”) coniata dal latinista Michele Provana del Sabbione.

La chiesa, di evidente stampo neoclassico, venne edificata nella piazza dell’antico borgo Po su progetto dell’architetto torinese Ferdinando Bonsignore; iniziato nel 1818, il Pantheon subalpino venne ultimato solo nel 1831, sotto re Carlo Alberto. L’edificio ubbidiva all’idea di una lunga fuga prospettica che doveva collegare la piazza centrale della città, Piazza Castello, alla collina. La chiesa è posta in posizione rialzata rispetto al livello stradale, e una lunga scalinata porta all’ingresso principale. Al termine della scalinata vi è un grande pronao esastilo costituito da sei colonne frontali dotate di capitelli corinzi. All’interno del pronao vi sono ai lati altre colonne, affiancate da tre pilastri addossati alle pareti. Eretta su un asse ovest-est, con ingresso a occidente e altare a oriente, essa presenta orientazioni astronomiche non casuali: a mezzogiorno del solstizio d’inverno, il sole illumina perfettamente il vertice del timpano visibile dalla scalinata d’ingresso. Il timpano, sul frontone, è scolpito con un bassorilievo in marmo risalente al 1827, eseguito da Francesco Somaini di Maroggia, (1795-1855) e raffigura la Vergine con il Bambino omaggiata dai Decurioni torinesi. Ai lati del portale d’ingresso sono visibili due nicchie, all’interno delle quali si trovano i santi San Marco Evangelista, a destra, e San Carlo Borromeo, a sinistra. Fanno parte dell’edificio due imponenti gruppi statuari, allegorie della Fede e della Religione, entrambi eseguiti dallo scultore carrarese Carlo Chelli nel 1828. Sulla sinistra si erge la Fede, rappresentata da una donna seduta, in posizione austera, con il viso serio, sulle ginocchia poggia un libro aperto che tiene con la mano destra, con l’altra, invece, innalza un calice verso il cielo. Spunta in basso alla sua destra un putto alato, che sembra rivolgersi a lei con la mano sinistra, mentre nella destra tiene stretto un bastone. Dall’altro lato si trova la Religione, raffigurata come una matrona imperturbabile e regale: stringe con la mano destra una croce latina e sta seduta mentre guarda fissa l’orizzonte, incurante del giovane che la sta invocando porgendole due tavole di pietra bianca. I capelli sono ricci, e sulla fronte, lasciata scoperta dal manto, vi è una sorta di copricapo, come una corona, su cui compare un simbolo: un triangolo dal quale si dipartono raggi. Spesso, con un occhio al centro del triangolo, il simbolismo è usato in ambito cristiano per indicare l’occhio trinitario di Dio, il cui sguardo si dirama in ogni direzione, ma anche in massoneria è un importante distintivo iniziatico. Perfettamente centrale, ai piedi della scalinata, è l’imponente statua di quasi dieci metri raffigurante Vittorio Emanuele I di Savoia. La torre campanaria, munita di orologio, venne costruita sui tetti dell’edificio che si trova a destra della chiesa nel 1830, in stile neobarocco.

Entrando nella chiesa ci si ritrova in un ampio spazio tondeggiante e sobrio, c’è un’unica navata a pianta circolare, l’altare maggiore, come già indicato, è posto a oriente, all’interno di un’abside semicircolare provvista di colonne in porfido rosso. Numerose sono le statue che qui si possono ammirare, ma su tutte spicca la figura marmorea della Gran Madre di Dio con Bambino, posta dietro l’altare maggiore, il cui misticismo è incrementato dalla presenza di raggi dorati che tutta la circondano. Nelle nicchie ai lati, in basso, vi sono alcune statue simboliche per la città e per i committenti della chiesa, cioè i Savoia. Oltre a San Giovanni Battista, il patrono della città, anch’egli con una grande croce nella mano sinistra, S. Maurizio, il santo prediletto dei Savoia, Beata Margherita di Savoia e il Beato Amedeo di Savoia. La cupola, considerata un capolavoro neoclassico piemontese, sovrasta l’edificio ed è costituita da cinque ordini di lacunari ottagonali di misura decrescente. La struttura è in calcestruzzo e termina con un oculo rotondo, da cui entra la luce, del diametro di circa tre metri. Sotto la chiesa si trova il sacrario dei Caduti della Grande Guerra, inaugurato il 25 ottobre 1932 alla presenza di Benito Mussolini. La bellezza architettonica dell’edificio nasconde dei segreti tra i suoi marmi. Secondo gli occultisti, la Gran Madre è un luogo di grande forza ancestrale, anche perché pare sorgere sulle fondamenta di un antico tempio dedicato alla dea Iside, divinità egizia legata alla fertilità, anche conosciuta con l’appellativo “Grande Madre”. Iside è l’archetipo della compagna devota, per sempre fedele a Osiride, simbolo della consapevolezza del potere femminile e del misticismo, il suo ventre veniva simboleggiato dalle campane, lo stesso simbolo di Sant’Agata. Si è detto che Torino è città magica e complessa, metà positiva e metà maligna, tutta giocata su delicati equilibri di opposti che sanno bilanciarsi, tra cui anche il binomio maschio-femmina. Questo aspetto è evidenziato anche dalla contrapposizione tra il Po e la Dora che, visti in chiave esoterica, rappresentano rispettivamente il Sole, componente maschile, e la Luna, componente femminile. I due fiumi, incrociandosi, generano uno sprigionamento di forte energia. Altri luoghi prettamente maschili sono il Valentino e il Borgo Medievale, che sorgono lungo il Po e sono anche simboli di forza; ad essi si contrappone la zona del cimitero monumentale, in prossimità della Dora, legata alla sfera notturna e femminile. L’importanza esoterica dell’edificio non termina qui, ci sono alcuni che sostengono ci sia un richiamo alle tradizioni celtiche con evidente allusione a un ordine taurino nascosto tra le parole della dedica: se leggiamo l’iscrizione a parole alterne resta infatti la dicitura: Ordo Taurinus. Ma il più grande mistero che in questa chiesa si cela è tutto contenuto nella statua della Fede. Secondo gli esoteristi, la donna scolpita in realtà sorreggerebbe non un calice qualunque ma il Santo Graal, la reliquia più ricercata della Cristianità, e con il suo sguardo indicherebbe il luogo preciso in cui esso è nascosto. Allora basta capire dove guarda la marmorea giovane -secondo alcuni la stessa Madonna – e il gioco è fatto! Sì, peccato che chi ha scolpito il viso si sia “dimenticato” di incidervi le pupille, così da rendere l’espressione della figura imperscrutabile, e il Graal introvabile. Se non per chi sa già dove si trovi.

Alessia Cagnotto

A lezione di storia con il Museo Diffuso della Resistenza

Il Museo Diffuso della Resistenza, in collaborazione con il Polo del ‘900, presenta “I difficili anni del dopoguerra”, un ciclo di 4 incontri dedicato alle trasformazioni politiche, giuridiche e istituzionali che hanno segnato l’Europa e l’Italia tra la fine della seconda guerra mondiale e l’immediata ricostruzione. Si tratta di 4 appuntamenti con studiosi ed esperti di livello nazionale che affronteranno questioni cruciali: sui nuovi confini europei, le migrazioni forzate, la nascita del diritto internazionale e la rinascita democratica della Città di Torino. Il primo incontro si terrà mercoledì 10 dicembre dalle ore 18 alle ore 20 presso il Polo del ‘900. Relatori lo storico Antonio Ferrara e Niccolò Pianciola, professore associato presso l’Università di Padova, coautore del volume “L’età delle migrazioni forzate – esodi e deportazioni in Europa 1853-1963”. Fra gli anni Cinquanta del diciannovesimo secolo e la metà di quello successivo, decine di migliaia di persone vennero espulse e collocate altrove, o costrette a emigrare, solo per he classificate come membri di uno specifico gruppo etnonazionale o religioso. Il fenomeno interessò quell’Europa di mezzo, divisa fino alla prima guerra mondiale tra gli imperi zarista, tedesco, asburgico e ottomano, e si concentrò soprattutto nel periodo tra le guerre balcaniche e il consolidamento dei regimi comunisti nell’Europa Centrorientale. L’incontro, con un ampio raggio d’osservazione, affronta le connessioni nel periodo tra il 1945 e il 1961, tra le migrazioni forzate che ebbero luogo nell’Europa Centrorientale dopo la conclusione della seconda guerra mondiale e quelle che coinvolsero palestinesi ed ebrei, e che si verificarono in Medioriente successivamente alla creazione dello Stato di Israele.

Il secondo incontro si terrà giovedì 18 dicembre, dalle 18 alle 20, con Alberto Perduca, già magistrato, e si concentra sulla giustizia penale internazionale, che si occupa dei crimini più gravi riconosciuti dal diritto: crimini di guerra, contro l’umanità, genocidio e crimine d’aggressione. L’obiettivo è perseguire gli abusi che, continuati su vasta scala nel Novecento, la comunità internazionale, dalla fine della seconda guerra mondiale, ha ritenuto necessario reprimere. Per dare applicazione come,età a questo principio di responsabilità sono nati tribunali e corti internazionali il cui percorso negli ultimi ottant’anni ha segnato passi importanti.

Il terzo incontro si terrà lunedì 22 dicembre, dalle 18 alle 20, sempre al Polo del ‘900, presso lo spazio Incontri. Protagonisti Antonella Finiani, insegnate e ricercatrice del Centro Studi Piero Gobetti, e Gianni Bissaca, drammaturgo, regista e attore. L’incontro sarà dedicato al biennio 1945-1946, la prima Giunta Comunale a Torino dopo la Liberazione, che operò in una situazione di sofferenza e difficoltà. Ada Prospero Gobetti, dopo la Liberazione, fu nomjnata Vicesindaca di Torino, incaricata dal Comitato di Liberazione Nazionale in rappresentanza del partito d’Azione. Ricoprì tale carica sino all’elezione del 1946, occupandosi in particolare di istruzione e assistenza. La realtà che emerge rappresenta una testimonianza preziosa di ritorno alla vita, in cui cura e politica sono assunte a dimensioni fondative del tessuto democratico. La riflessione ne ricostruisce la figura di politica e partigiana nel delicato passaggio tra la liberazione e la ricostruzione. Questa difficile fase della storia della città sarà oggetto nella primavera del 2026 di un’azione teatrale che il museo organizzerà in collaborazione con il Consiglio Comunale.

Ultimo incontro previsto, in programma il 23 dicembre dalle 18 alle 20, presso lo spazio Incontri del Polo del ‘900, è con Andrea Di Michele, docente ordinario dell’Università di Bolzano. Il titolo dell’incontro sarà “Confini”, e riguarderà la riorganizzazione dell’Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale, che per metà avviene portando o riportando regimi illiberali, mentre per l’altra metà ritrova la democrazia. La divisione dell’Europa è sempre stata vista sotto la prospettiva della Guerra Fredda, cioè del conflitto tra le due superpotenze nei rispettivi campi di influenza che si contrappongono. In Italia, come avvenuto alla fine e della seconda guerra mondiale, la questione dei confini si pone in particolare nel quadrante Nordorientale, con conseguenze drammatiche per le popolazioni. Con il passare dei decenni, la precarietà e le discussioni sui confini tornano d’attualità e interrogano le istituzioni internazionali faticosamente costruite nel dopoguerra.

Gli incontri si terranno al Polo del ‘900, presso Palazzo San Daniele.

Viglione, il socialista che amava il Piemonte

Il primo dicembre del 1988 perdeva la vita Aldo Viglione, vittima di un incidente stradale nei pressi di Moncalieri  Tra i tanti protagonisti del primo mezzo secolo della Regione un posto di rilievo spetta senz’altro a lui. Cuneese di Morozzo, socialista d’antico stampo, è stato come si usava dire un tempo un “politico di razza” dotato di realismo, grande concretezza e spiccata personalità. Un piemontese a tutto tondo, fiero della sua origine, capace di far emergere nella sua “piemontesità” non il sentimento campanilistico, ma la ferrea convinzione della capacità della regione e della sua gente di poter ancora “fare” la sua storia con dignità e coraggio. E tutto ciò riassumeva lo spirito che l’accompagnò nel far conoscere l’istituzione regionale, il suo ruolo, le competenze. Un impegno che fu tragicamente interrotto a sessantacinque in quella tragica notte di 37 anni fa.  Il Piemonte che auspicava Aldo Viglione era un territorio “forte della sua storia e del suo carattere; presente, attivo, partecipe e propositivo nell’ambito nazionale proprio attraverso la Regione”. Una personalità forte, attiva, profondamente antifascista. Teneva molto alla sua esperienza da partigiano sui monti del Cuneese, in valle Grana con Duccio Galimberti e Ignazio Vian. Era ancora studente in Giurisprudenza quando, tre giorni dopo l’annuncio dell’armistizio, raggiunse la Val Pesio e, col nome di battaglia di “Aldino”, divenne partigiano della Brigata Val Grana. “Aldino” si distinse subito tra i suoi compagni di lotta, tanto che il 15 dicembre 1944 ricevette il delicato incarico di commissario della Brigata Val Pesio della III Divisione Alpi. Mantenne la sua funzione sino alla Liberazione, anche se il 17 dicembre fu catturato durante un rastrellamento dai nazifascisti. Imprigionato nei Forti di Nava il giovane Viglione riuscì ad evadere dopo dieci giorni di carcerazione e a tornare alla testa della sua formazione. Nel 1945 alla Liberazione, si iscrisse al Partito Socialista che rimase per sempre il “suo” partito. Nel 1946 conseguì la laurea in Giurisprudenza, iniziando la professione forense. Quasi in contemporanea si dedicò all’impegno politico e amministrativo. Dopo l’elezione nel consiglio comunale di Boves, città simbolo della Resistenza piemontese e italiana, Aldo Viglione fece parte dell’amministrazione della “provincia Granda” che lo vide tra i protagonisti, appassionato e presente. Dal 1969 al 1972 venne eletto segretario della Federazione provinciale socialista di Cuneo. In quel periodo avvenne quello che potremmo definire il “grande incontro” con la neonata Regione. Eletto fin dalla prima legislatura, per diciotto anni – dal 1970 al 1988 – ricoprì varie cariche, identificando la sua stessa vita con l’Istituzione regionale. Nominato assessore della prima giunta regionale, divenne nel 1973 presidente del consiglio regionale. Nel quinquennio 1975-1980 fu chiamato a presiedere la Giunta di Palazzo Castello proprio nella fase di decollo dell’Ente, negli anni in cui si portava a compimento il trasferimento delle funzioni dallo Stato previste dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del luglio 1977. Per la Regione Piemonte furono gli anni della Legge di Riforma urbanistica, del primo Piano di sviluppo regionale, del Piano sanitario, dell’istituzione dei Parchi regionali, intesi come reale patrimonio della collettività, di una mirata politica del patrimonio che portò all’acquisizione di ville e dimore storiche come Palazzo Lascaris e i Castelli di Rivoli e Ivrea. In quel tempo, insieme a Dino Sanlorenzo e tanti altri, Aldo Viglione si impegnò a fondo sul versante della difesa della nostra democrazia negli anni bui del terrorismo. Se il nostro Paese è riuscito a sconfiggere il terrorismo molto deve a quegli uomini, tra i primi ad intuire che per isolare i violenti bisognava discuterne con la gente, mobilitare le forze sane, fare appello ai cittadini. Lo storico Giuseppe Tamburrano lo ricordò così, a dieci anni dalla morte: “Aldo Viglione è morto sul campo: in un incidente d’auto, reduce da una delle sue innumerevoli visite nei paesi, nei villaggi, nelle comunità del suo amato Piemonte, ove si recava, non solo per adempiere i suoi doveri di rappresentante delle popolazioni locali, ma vorrei dire soprattutto per rispondere ad un suo fortissimo bisogno di essere tra la sua gente, parlare con loro, sentire dalla loro viva voce le riflessioni, i suggerimenti, le attese, le critiche e trovare per tutti, non solo una parola buona, ma una parola giusta”. Un ritratto fedele di quello che fu un “autentico uomo del popolo di stampo antico” che con una punta di orgoglio ricordava di aver visitato tutti i 1206 comuni del Piemonte. Un uomo che seppe salire al più alto livello del potere locale e regionale dimostrando le sue qualità di amministratore senza mai dimenticare “le sue terre”. Come disse ancora Tamburrano è probabile che Viglione si sarebbe riconosciuto volentieri in questa frase di Pietro Nenni: “Vorrei che alla mia morte i lavoratori dicessero: è morto uno come noi, uno di noi”.

Marco Travaglini