STORIA

La grande estate partigiana

Martedì 19 novembre 2024, alle ore 17.00, presso l’Unione Culturale Franco Antonicelli ( via Cesare Battisti,4 – Torino) la Sezione ANPI Eusebio Giambone di Torino  presenta il documentario La grande estate partigiana ( Estate 1944: dalla formazione delle prime bande alle Repubbliche Partigiane. La storia di un’Italia che sceglie di resistere ). Realizzato dal regista Marzio Bartolucci, in collaborazione con gli autori Arianna Giannini Tomà e Andrea Pozzetta, il progetto è frutto della produzione di Lutea e dell’Associazione DomoMetraggi, con fotografia e montaggio a cura di Pixelpro Videoproduzioni. Il documentario offre uno sguardo approfondito sull’estate del 1944, un periodo cruciale nella storia dell’Italia, caratterizzato dall’emergere di numerose zone libere nel Centro-Nord, occupate dalle formazioni partigiane. Attraverso un mosaico di testimonianze, filmati d’epoca e fotografie, insieme a interviste a ricercatori e storici come Antonella Braga, Mirco Carrattieri, Chiara Colombini , Santo Peli e Andrea Pozzetta, il film ricostruisce una delle fasi cruciali della lotta di Liberazione mettendo in luce l’esperienza delle zone libere, vere e proprie anticipazioni di una democrazia che si affermerà con la sconfitta del nazifascismo ottant’anni fa. Alla presentazione del documentario saranno presenti il regista Marzio Bartolucci e gli autori, la giornalista Arianna Giannini Tomà e Andrea Pozzetta, responsabile scientifico del Centro di documentazione della Casa della Resistenza di Verbania Fondotoce.

La pieve di San Pietro a Pianezza. Uno dei tesori oltre la cintura di Torino

 

Eretta sulla sponda del Dora Riparia nel XII secolo in stile romanico lombardo, con il tetto a capanna, e dedicata a San Pietro, la pieve di Pianezza, a pochi chilometri da Torino, offre uno spettacolo unico e, probabilmente, inaspettato grazie ai suoi affreschi, un ciclo dipinto, quasi interamente, da Giacomo Jaquerio e altri artisti della sua scuola. Il pittore fu il rappresentante della pittura tardo-gotica in Piemonte e le sue opere, grazie al duca Amedeo VIII, arrivarono fino a Ginevra.

Sconsacrata oramai da molto, un tempo fu luogo di preghiera di pellegrini e viandanti, e venne costruita, con molta probabilita’, al posto di un tempio pagano; in origine era costituita da una sola navata, ma in epoca gotica (tra il 300 e il 400) ne furono aggiunte altra due piu’ piccole. La facciata, in un primo tempo poco curata, fu riqualificata a fine ‘300 con mattoni rossi romanici e materiali di recupero mentre l’entrata fu collocata nella parte laterale da dove si accede anche al presbiterio. Durante l’ultima fase dei lavori sono stati dipinti il Cristo in Croce, una santa non identificata sul pilastro di entrata ed un’altra vicina all’immagine di Santa Margherita. Molto belle anche le vetrate colorate, copie create nell’800, i cui originali di Antoine de Lonhy sono conservati al Museo Civico Torinese di Palazzo Madama.

I Provana, una tra le cinque famiglie feudali piu’ importanti del Piemonte, volle fortemente le decorazioni della Pieve di San Pietro, tra queste, oltre a quelle gia’ citate, abbiamo la raffigurazione degli Apostoli, l’Annunciazione e il dipinto dedicato a Santa Caterina; nella cappella che porta il loro nome, invece, troviamo il dipinto sulla vita di San Giovanni in cui si riconoscono anche i simboli della famiglia: il liocorno e i tralci di vite.

La Pieve di San Pietro si aggiunge alle moltissime opere in stile romanico del Piemonte (chiese, castelli, abbazie) che venivano edificate perlopiu’ sulle strade devozionali, come la via Francigena che portava i pellegrini dall’Inghilterra fino a Roma.

Normalmente non e’ aperta al pubblico, ma si può visitare contattando gli uffici comunali o i gruppi di volontari dedicati. In questa chiesa, inoltre, e’ possibile celebrare matrimoni civili assecondando cosi’ la volonta’ di valorizzare ancora di piu’ il patrimonio architettonico della citta’.

MARIA LA BARBERA

Apertura su richiesta; prenotazioni presso l’ufficio URP 011/9670211 oppure
presso UNECON: 3333903669 – 3394620103 – 3356171376
unecon2019@gmail.com

Luigi Canina: dalla Gran Madre di Torino a casa Borghese-Bonaparte di Roma 

Personaggi casalesi
 
L’architetto, archeologo e incisore Luigi Canina (Casale 1795-Firenze 1856) conseguì a Torino la laurea in architettura e il suo nome viene ricordato per l’importante contributo nella costruzione della chiesa torinese della Gran Madre di Dio. Le sue qualità furono notate dal marchese Evasio Gozzani di San Giorgio (Casale 1765-Roma 1827) sposato con Giuseppa, figlia del barone savoiardo Giuseppe Francesco Martin. Tramite l’intermediazione del Gozzani definito il marchese pazzo per la sua intraprendenza, ministro di Camillo Borghese (molto assente) e di Paolina Bonaparte (immersa nello sfarzo della vita mondana), fu elevato il prezzo delle opere che formavano la galleria d’arte Borghese da sei a dodici milioni di lire vendute dal cognato Napoleone al governo francese destinate al Louvre, rinnovando in seguito la mostra con un nuovo allestimento.

Il trentenne Canina, appoggiato dal Gozzani, fu inserito in casa Borghese succedendo all’architetto Asprucci. Nel 1830, dopo il Fontana, diventò architetto dei possedimenti del Borghese sotto l’amministrazione di Giuseppe Gozzani (Stroppiana 1790-Casale 1877) figlio di Evasio, ottenendo l’ufficio di architettura della Cassa di Risparmio di Roma. Progettò l’ingresso monumentale e l’ampliamento di Villa Borghese e si occupò degli scavi archeologici del Foro Romano, Tuscolana e Appia Antica. Progettò anche la palazzina a Fontanella Borghese dedicata a Giuseppe Gozzani, inserito nella nobiltà romana nel 1855 ed eletto presidente del Museo di Roma. Noti i progetti di riedificazione al santuario di Oropa e al Duomo di Torino, quest’ultimo non realizzato e nel 1849 fu insignito della Royal Gold Medal nel Regno Unito.

Numerose le pubblicazioni letterarie, storico-scientifiche e teoria architettonica su riviste europee e contribuì alla tutela dei monumenti come a Firenze per S.Maria in Fiore. Il suo intervento, unitamente a quello del filosofo Antonio Rosmini, fu decisivo per evitare l’abbattimento della Cattedrale di Casale per sostituirla con un nuovo edificio progettato dall’Antonelli. La riconoscente città casalese gli ha dedicato un monumento dello scultore carrarese Benedetto Cacciatori in piazza S.Stefano e la via dove sorge la sua casa natale dove è posta una lapide con epitaffio. Come i grandi di tutti i tempi, fu sepolto nella Basilica fiorentina di Santa Croce, meritatamente accanto a Foscolo, Michelangelo, Galileo, Alfieri e Rossini.
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Armano Luigi Gozzano 

Il Museo Nazionale dell’Automobile racconta i 125 anni di Fiat

Dal 15 novembre 2024 al 04 maggio 2025

Il Museo Nazionale dell’Automobile racconta i 125 anni della fabbrica torinese con una mostra che ne ripercorre più di un secolo di sperimentazioni. In esposizione opere pittoriche, manifesti, bozzetti, documenti d’archivio, materiali grafici, fotografici e audiovisivi d’eccezione: un caleidoscopio di immagini per raccontare 125 anni dell’azienda che ha rappresentato la via italiana alla modernità a partire dal patrimonio visivo che ha prodotto o ispirato.

Nove vetture iconiche completano l’esposizione: dalla mitica Eldridge Mefistofele del 1923 alla popolarissima Panda disegnata da Giorgetto Giugiaro nel 1982, dalla 508 Balilla del 1932 alla 124 Abarth del 1973, la mostra è un viaggio attraverso decenni di sperimentazione e innovazione.

 In occasione dell’anniversario dei 125 anni dalla fondazione della FIAT, il MAUTO – Museo Nazionale dell’Automobile presenta la mostra 125 VOLTE FIAT. La modernità attraverso l’immaginario FIAT che ripercorre la lunga e avvincente storia, unica nel contesto industriale novecentesco, della fabbrica automobilistica torinese, offrendone una rilettura che ne evidenzia l’impatto sociale e la produzione artistica. Il progetto espositivo, curato da Giuliano Sergio e realizzato in collaborazione con Centro Storico FIAT e Heritage HUB, è visitabile dal 15 novembre 2024 al 4 maggio 2025 negli spazi al piano terra del Museo.

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Nata nel 1899, la Fabbrica Italiana Automobili Torino ha saputo cogliere le opportunità della rivoluzione industriale e dell’unità nazionale italiana per imporsi quale principale interprete privato della modernizzazione del Paese nel secolo scorso. Attingendo al vasto patrimonio visivo prodotto o ispirato da FIAT, la mostra 125 VOLTE FIAT. La modernità attraverso l’immaginario FIAT ripercorre il legame che ha unito l’azienda automobilistica torinese allo sviluppo culturale, industriale ed economico dell’Italia. Un racconto – disseminato di approfondimenti su arte, cinema, comunicazione, design, architettura, pubblicità, musica e letteratura – che, attraverso la potenza evocativa degli oggetti e delle immagini, racconta oltre un secolo di storia e sperimentazioni, non solo in campo automobilistico, offrendo uno sguardo approfondito sul modello imprenditoriale unico di un’azienda che ha rappresentato la via italiana alla modernità, esplorando linguaggi, settori produttivi e ambiti geografici.

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Il percorso espositivo si sviluppa a partire da un approccio polidisciplinare, ben rappresentato dal team di co-curatori che hanno affiancato Giuliano Sergio: Davide Lorenzone e Ilaria Pani, rispettivamente Conservatore e Responsabile del Centro di Documentazione del MAUTO; Maurizio Torchio, Responsabile Centro Storico Fiat e Roberto Giolito, Head of Heritage Stellantis Italy. Insieme a loro, in qualità di esperti dei rispettivi campi d’indagine e autori dei saggi in catalogo: Clino Trini Castelli, Designer, Maurizio Cilli, Architetto e Artista, Mauro Coppini, Giornalista, Manuel Orazi, Architetto e Roberto Vaccà, Pubblicitario.

Il Presidente del MAUTO Benedetto Camerana dichiara “125 anni di FIAT: è una data importante per tutti, per l’azienda come per il MAUTO da essa partecipato, ma lo è soprattutto per Torino, che si conferma una delle grandi motown globali. La mostra è una rilettura della storia FIAT dalla fondazione al futuro – non una, ma sei FIAT, come ho raccontato nella mia introduzione al Catalogo Skira – una miniera rivelata di sorprese e di produzioni non solo meccaniche e industriali in senso lato, ma anche artistiche, grafiche, architettoniche, letterarie, sociali, pubblicitarie, musicali. È la linea critica del MAUTO: ripensare l’automobile come punto di incontro di un sistema di valori, discipline, linguaggi e culture differenti. Il carico culturale dell’auto sta nella sua straordinaria capacità di evocazione, di riprodurre e comunicare memorie, sogni, viaggi, luoghi, emozioni, individuali e collettive. Ma la mostra va oltre il ‘’fenomeno’’ auto ed indaga la struttura organizzata della sua produzione: è il racconto dell’espressione e della modernità culturale di una grande industria del Novecento che si avvia al domani, alle battaglie dei prossimi decenni”.

Il Sindaco della Città di Torino Stefano Lo Russo dichiara: “Nel corso dei suoi 125 anni di storia Fiat ha rappresentato una pietra miliare della tradizione industriale italiana portando il nome di Torino nel mondo. Una storia nel corso della quale ha sempre saputo guardare al futuro anticipando stili, tendenze, tecnologie. Un patrimonio che certamente questa mostra valorizza al meglio offrendo uno sguardo su un percorso unico nel panorama dell’industria automobilistica e non solo. Il Museo Nazionale dell’Automobile offre così un’occasione per scoprire la storia industriale della nostra città alle tantissime persone che stanno arrivando e arriveranno a Torino per le Atp Finals, l’Assemblea Nazionale dell’Anci e i tanti eventi di questi mesi ricchissimi”.

“L’ambizione di questa mostra e del catalogo che la accompagna è di raccontare i 125 anni della Fiat attraverso un caleidoscopio di immagini, un turbinio di oggetti, una miriade di tracce e documenti inattesi – dichiara Giuliano Sergio, Curatore della mostra -. Vorremmo sorprendere un pubblico troppo avvezzo a considerare la Fiat come una semplice fabbrica di automobili e già pronto a ammirare la lunga e ordinata carrellata dei prodotti che hanno fatto la storia industriale italiana e internazionale. Dietro l’immaginario ufficiale e un po’ polveroso dell’ammiraglia nazionale dell’automotive si nasconde una storia sorprendente e mobile, la capacità che l’ha sempre contraddistinta di saper interpretare le tumultuose vicende storiche del Novecento per proiettarsi nel contemporaneo”.

“Siamo molto felici di collaborare con il Museo Nazionale dell’Automobile in occasione della mostra 125 volte FIAT. La modernità attraverso l’immaginario FIAT – dichiara la Prorettrice dell’Università di Torino Giulia Carluccio – La mostra rappresenta infatti un’opportunità unica per esplorare il patrimonio visivo prodotto e ispirato dalla FIAT raccontando la cultura e l’immaginario che hanno accompagnato l’industrializzazione italiana. Attraverso la partecipazione dei nostri docenti al ciclo di incontri con il pubblico, l’Università prosegue la sua missione di dialogo con il territorio e i suoi attori promuovendo il ruolo dell’Università come motore di sviluppo sociale e culturale attraverso la condivisione di competenze e energie per contribuire alla diffusione della cultura e alla crescita collettiva della società

L’ALLESTIMENTO E I MATERIALI ESPOSTI

In esposizione al MAUTO, nove vetture rappresentative della storia del celebre marchio italiano: la Eldridge Mefistofele del 1923 che, con la sua silhouette slanciata e la sua mole possente, segna uno dei primi esempi di vettura da record; la 508 Balilla del 1932, vettura compatta ed economica che rappresenta il passaggio dalla produzione di automobili per élite a un’idea di mobilità per le masse; la 500 A Topolino del 1936, rivoluzionaria nel design e pensata per offrire una soluzione di mobilità agile e scattante che avrebbe ispirato generazioni di city car; la 8V prodotta tra il 1952 e il 1954 per un pubblico esclusivo; la 600 del 1955, caratterizzata da un’architettura semplice ma innovativa e progettata per rendere la vita dell’utente più facile e piacevole; la 124 Abarth del 1973 vettura che incarna l’essenza delle auto da competizione; la X1/23 prototipo del 1974, avanzata concept car elettrica a 2 posti che anticipa il futuro della mobilità sostenibile grazie alla sua propulsione a zero emissioni e al design leggero e ultracompatto; la Panda 30 del 1982, considerata, insieme alla 500, l’utilitaria italiana per eccellenza; la 500 Riva del 2016, un gioiello esclusivo per amanti del lusso dal design ricercato. “Special guest” la Nuova 500 “La Prima” cabrio, rilettura in chiave sostenibile e altamente tecnologica di un’icona senza tempo del design italiano.

Le vetture esposte sono corredate da una vasta selezione di opere d’arte, documenti d’archivio, materiali grafici, fotografici e audiovisivi d’eccezione che contribuiscono a definire l’immaginario visivo dell’azienda: dai manifesti e bozzetti pubblicitari di inizio secolo realizzati, tra gli altri, da Leopoldo Metlicovitz e Plinio Codognato – nei quali si compie il transito dalla cultura estetica liberty all’abbagliante potenza delle nuove possibilità tecniche e meccaniche che ispireranno il futurismo – alle opere pittoriche di Mario Sironi, Carlo Carrà e Felice Casorati che offrono una straordinaria rappresentazione della modernità immaginata da Fiat tra le due guerre; dai disegni di Marcello Dudovich e Giuseppe Romano che portano alla ribalta la figura femminile, protagonista della modernità degli Anni Venti, a una serie di fotografie scattate da Luigi Ghirri a Palazzo Grassi negli Anni Novanta.

 

E poi documenti – cartacei, audiovisivi e memorabilia – arricchiscono di dettagli questo racconto distribuito in 8 macrosezioni espositive:

 

• Manifesti e Bozzetti: vero e proprio portale di accesso all’immaginario FIAT – la sezione raccoglie oltre 50 bozzetti e manifesti realizzati tra il 1928 e il 1940;

• Terra Mare Cielo: citando il famoso slogan pubblicitario, la sezione racconta come l’azienda si sia cimentata, a partire dall’inizio del Novecento, nella produzione in tutti i settori della mobilità motorizzata, dall’aviazione ai motoscafi;

• Welfare Fiat: la sezione racconta il modello integrale delle politiche di welfare dell’azienda, che accompagna – a partire dal primo dopoguerra – i propri impiegati e operai dalle scuole di formazione alle colonie estive, dal dopolavoro ai sanatori;

• Design e Stile: la sezione racconta la continua ricerca di funzionalità ed economicità che ha caratterizzato l’identità Fiat definendo la qualità progettuale del suo prodotto e la forte componente innovativa del suo approccio;

• Visioni al futuro. Architettura, urbanistica, energia: una carrellata di progetti che raccontano l’impegno dell’azienda in vari settori, tra cui l’ingegneria civile, l’elettromeccanica, l’architettura e la costruzione di impianti complessi come raffinerie, centrali energetiche e stabilimenti industriali;

• Oltre l’auto: una rassegna dei più diversi oggetti targati Fiat – dalle biciclette ai ciclomotori, dalle forbici ai piatti, dai tostapane ai frigoriferi – testimoniano la strategia dell’azienda di espandere la sua presenza nel mercato italiano

• Cinefiat e Pubblicità: la sezione racconta l’attività di documentazione audiovisiva del dipartimento Cinefiat che produce non soltanto spot pubblicitari, ma anche film di vario metraggio, documentari, cinema d’animazione, musical e cinegiornali e proseguirà la sua attività fino agli anni Novanta del Novecento.

• Sport e Corse: la sezione racconta oltre un secolo di successi iridati Fiat e lo storico sodalizio con Pirelli, accompagnati da video storici.

 

Credits Cosimo Maffione

Viaggio nel Medioevo con Alberto Busca

Domani al Centro Pannunzio in via Maria Vittoria a Torino  si terrà un incontro con Alberto Busca, eclettico divulgatore di storia medievale, innanzitutto attraverso i suoi romanzi, ma anche come animatore di gruppi di rievocazione in costume e ristoratore titolare di una taverna tematizzata. Particolare attenzione sarà riservata all’ultimo suo romanzo, “Baldesar”, dedicato ad un personaggio vero, oggi poco conosciuto, che ha frequentato le corti di tutta Europa, importante allora forse più del contemporaneo (e amico) Machiavelli. Introduce Edoardo Massimo Fiammotto.

Cento anni fa nasceva Ugo Buzzolan

Cento anni fa nasceva Ugo Buzzolan, il più autorevole critico televisivo italiano. Generazioni di torinesi, e non solo, lo ricorderanno di certo, firmava la sua rubrica su “La Stampa” con una sigla divenuta celebre: ” u.bz.”. Inventore di un genere nuovo, destinato ad avere grande fortuna, viveva la sua funzione di critico quasi come una missione: puntuale, attento, acuto, nemico di ogni eccesso, si impose come il più onesto ed il più temuto dei cronisti televisivi.

Buzzolan portò avanti  numerose battaglie, denunciando già allora le straripanti interruzioni pubblicitarie, l’emarginazione del teatro in tv, la scomparsa degli spazi per le proposte culturali, dalla musica ai libri, e si faceva sovente portavoce di tutti i suoi lettori che per per anni non riuscirono a vedere la terza rete della Rai perché il segnale era irrangiungibile. Sapeva essere pungente ma sempre con garbo: su “La Stampa”, nel 1980, Ugo Buzzolan parlando dello sceneggiato televisivo italiano, osservava che ” abbiamo il primato assoluto delle riduzioni dei romanzi dell’Ottocento. I magazzini della Tv traboccano di tube, crinoline, cuffie e mustacchi, di lumi a petrolio, di occhialini e carrozze”.

Proprio lui che era stato il più innovativo già ai tempi della televisione sperimentale con i primi “originali televisivi”, opere scritte appositamente per il piccolo schermo, trasmesse dalla Rai ancora prima dell’annuncio ufficiale del gennaio 1954. Per il Centenario della sua nascita, mercoledì 13 novembre, alla Mediateca Rai di Torino, al Palazzo della Radio di via Verdi, verrà ricordato dai figli Arturo, Angelica e Dario con la visione di “Eravamo giovani”, un originale televisivo del 1955, dove tra l’altro, oltre a Antonella Lualdi e Franco Interlenghi, recita anche una giovane attrice, Cecilia Ciaffi, la moglie di Buzzolan.

Igino Macagno

Al San Giuseppe il convegno del “Pannunzio” su Giovanni Gentile

Lunedì 11 novembre alle ore 15 al Collegio San Giuseppe (via San Francesco da Paola, 23) il Centro “Pannunzio” organizza un Convegno dal titolo “Giovanni Gentile: delitto politico o giustizia partigiana?” a 80 anni dall’assassinio del filosofo, a cui parteciperanno gli studiosi Hervé A. Cavallera, Carla Sodini, Valter Vecellio, Gianni Oliva, Pier Giuseppe Monateri, Nino Boeti, Luciano Boccalatte, Maria Grazia Imarisio e Giuseppe Parlato. Con il patrocinio del Ministero della Cultura, della Regione Piemonte, del Consiglio regionale del Piemonte, della Città metropolitana di Torino, del Comune di Torino. Ingresso libero.

Torino tra architettura e pittura. Felice Casorati

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7  I Sei di Torino
8  Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

 

6) Felice Casorati (1883-1963)

Lungi da me sostenere che esistono periodi artistici di facile e immediata comprensione, ogni filone, ogni movimento e ogni tipologia d’arte necessita di un’analisi approfondita per penetrarne il senso, tuttavia mi sento di affermare che da una certa fase storica in poi le cose sembrano complicarsi.

Mi spiego meglio: siamo abituati a considerare “belle opere” le architetture classiche, così come le imponenti cattedrali gotiche o ancora i capolavori rinascimentali e gli spettacolari chiaroscuri barocchi; il comune approccio alla materia rimane positivo ancora per tutto il Settecento, ma poi, piano piano, con l’Ottocento le questioni si fanno difficili e lo studio della storia dell’arte inizia a divenire ostico. I messaggi di cui gli artisti sono portavoce diventano maggiormente complessi, entrano in gioco le rappresentazioni degli stati d’animo dell’uomo, del suo inconscio, si parla del rapporto con la natura e d’improvviso l’arte non è più quel “locus amoenus” rassicurante a cui ci eravamo abituati. La sensazione di spiazzante spaesamento raggiunge il suo apice con le opere novecentesche, le due guerre dilaniano l’animo degli individui e la violenza del secolo breve si concretizza in dipinti paurosi che di “bello” non hanno granché. I miei studenti, giunti a questo punto del programma, sono soliti lamentarsi e addirittura dichiarano che “potevano farli anche loro quei quadri” o che “sono lavori veramente brutti” e ci vuole sempre un lungo preambolo esplicativo prima di convincerli a seguire la lezione senza eccessivo scetticismo.
Nel presente articolo vorrei soffermarmi su di un autore che si inserisce nel difficile contesto del Novecento, un autore le cui opere sono cariche di inquietudine e rappresentano per lo più immote figure silenziose, come imprigionate in atemporali visioni oniriche.  Sto parlando di Felice Casorati, uno dei protagonisti indiscussi della scena novecentesca italiana, attivo a Torino, dove si circonda di ferventi artisti volenterosi di proseguire i suoi insegnamenti.


Ma andiamo per ordine e, come mi piace sempre ribadire in classe, “contestualizziamo” l’artista, ossia inseriamo l’artista in un “contesto” storico-culturale ben determinato per meglio definire il senso e il portato dell’opera.
Nei primi anni Venti del Novecento, grazie all’iniziativa della critica d’arte Margherita Sarfatti, si costituisce il cosiddetto gruppo del “Novecento”, di cui fanno parte sette artisti in realtà molto differenti tra loro: Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi. Le differenze stilistiche sono più che evidenti poiché alcuni sono esponenti vicini al Futurismo, altri invece si dimostrano orientati verso un ritorno all’ordine, altri ancora hanno contatti con la cultura mitteleuropea. La definizione di “Novecento”, con cui tali pittori sono soliti presentarsi, allude all’ambizione di farsi protagonisti di un’epoca, di esserne l’espressione significativa. Il gruppo si presenta alla Biennale di Venezia del 1924 come “Sei pittori del Novecento”(Oppi presenzia all’avvenimento con una personale). L’esposizione viene felicemente acclamata dalla critica, tanto che, sulla scia del successo ottenuto a Venezia, la Sarfatti si impegna ad organizzare in maniera più incisiva il movimento, quasi con l’intento di trasformarlo in una “scuola”. I risultati si manifestano chiaramente: nel 1926 al Palazzo della Permanente di Milano viene organizzata un’esposizione con ben centodieci partecipanti. Il movimento “Novecento” si è ormai allargato tanto da comprendere gran parte della pittura italiana: fanno parte della cerchia quasi tutti gli artisti del momento, da Carrà a De Chirico, da Morandi a Depero, da Russolo allo stesso Casorati.  Tra i soggetti prediletti rientrano la figura umana, la natura morta e il paesaggio. Presupposti comuni sono il totale rifiuto del modernismo e un continuo riferimento alla tradizione nazionale, soprattutto a modelli trecenteschi e rinascimentali.

Con il passare degli anni il gruppo si fa sempre più numeroso e l’organizzazione del movimento si trasforma, la direzione delle iniziative artistiche ricade anche nelle mani di artisti di prima formazione quali Funi, Marussing e Sironi, insieme a personalità conosciute come lo scultore Arnolfo Wildt e i pittori Arturo Tosi e Alberto Salietti. Diventano via via numerosi i contatti con centri espositivi internazionali; alcuni artisti italiani trasferitisi all’estero si fanno appassionati organizzatori di “mostre novecentesche”, come dimostra ad esempio l’iniziativa di Alberto Sartoris, architetto torinese residente in Svizzera, il quale si occupa di organizzare nel paese di residenza un’ampia esposizione artistica del gruppo. Nel 1930, addirittura, il “Novecento” espone a Buenos Aires, avvenimento doppiamente importante, poiché grazie a tale iniziativa la critica Sarfatti riesce a ricapitolare nel catalogo della mostra le molteplici tappe del movimento. Espongono in Argentina ben quarantasei artisti, tra cui Casorati, De Chirico e Morandi.

 


Come è evidente, l’eterogeneità del gruppo manca di direttive e connotati chiari e univoci. Il tedesco Franz Roth conia appositamente per gli artisti di “Novecento” l’espressione “realismo magico”, che indica una rappresentazione realistica –domestica, familiare- ma al tempo stesso sospesa, estatica, come allucinata. Esemplificativo per esplicitare tale concetto è il dipinto di Antonio Donghi, “Figura di donna”, opera in cui domina una straniante immobilità incantata, la scena è immobile e l’osservatore percepisce che nulla sta per accadere e nulla è accaduto precedentemente.
Ed ecco che di “realismo magico” si può parlare anche per Felice Casorati (1883-1963), artista attivo nella prima metà del Novecento e docente di Pittura presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino.
Egli nasce a Novara, il 4 dicembre del 1883; il lavoro del padre, che è un militare, comporta che la famiglia si sposti spesso. Felice trascorre l’infanzia e l’adolescenza tra Milano, Reggio Emilia e Sassari, infine la famiglia si stabilisce a Padova, dove il ragazzo porta avanti la sua formazione liceale. A diciotto anni inizia a soffrire di nevrosi, ed è costretto a ritirarsi per un po’ sui Colli Euganei; proprio in questo periodo, Felice inizia a dedicarsi alla pittura. A ventiquattro anni -siamo nel 1907- si laurea in Giurisprudenza, ma decide di non proseguire su quel percorso, per dedicarsi all’arte, nello stesso anno parte per Napoli per studiare le opere di Pieter Brueghel il Vecchio, esposte presso il Museo Nazionale di Capodimonte.


Nel 1915, si arruola volontario nella Prima Guerra Mondiale, lo stesso fanno molti suoi contemporanei come Mario Sironi, Achille Funi Filippo Tommaso Marinetti, Carlo Carrà, Gino Severini, Luigi Russolo e Umberto Boccioni.
Nel 1917, dopo la morte del padre, Felice si trasferisce a Torino, dove attorno a lui si riuniscono artisti e intellettuali della città. Tra questi vi è Daphne Maugham, che diventerà sua moglie nel 1930 e dalla quale avrà il figlio Francesco, anche lui futuro pittore.
Casorati a Torino ha molti allievi nella sua scuola e presso il corso di Pittura dell’Accademia Albertina. Gli artisti più noti legati al suo insegnamento sono riuniti nel gruppo “I sei di Torino”, tra questi Francesco Menzio, Carlo Levi, Gigi Chessa e Jessie Boswell.
La sua ascesa artistica è sostenuta da diverse amicizie, tra cui il critico d’arte Lionello Venturi, la critica milanese Margherita Sarfatti, gli artisti di Ca’ Pesaro, il mecenate Riccardo Gualino e l’artista di Torinese Gigi Chessa insieme al quale partecipa al recupero del Teatro di Torino.
L’artista non lascerà più il capoluogo piemontese, e qui morirà il 1 marzo del 1963 in seguito ad un’embolia.
L’autore è da considerarsi “isolato”, con un proprio personalissimo percorso, pur tuttavia incrociando talvolta le proprie idee con altre ricerche artistiche di gruppi o movimenti a lui contemporanei.
Secondo alcuni critici, le opere di Casorati sono intrise di intimità religiosa. Lo stile pittorico dell’autore si modifica nel tempo, i primi lavori sono infatti decisamente realistici e visibilmente ispirati alle opere della Secessione Viennese; negli stessi anni si può notare l’influenza di Gustav Klimt, che porta Felice ad abbracciare per un breve periodo l’estetica simbolista. L’influsso klimtiano è particolarmente evidente in un’opera del 1912, “Il sogno del melograno”, in cui una donna giace dormiente su un prato fiorito. Il prato intorno alla fanciulla è cosparso di una moltitudine di fiori di specie differenti, mentre dall’alto pendono dei grossi grappoli di uva nera. I riferimenti all’artista viennese sono concentrati nella figura della ragazza, con chiari rimandi ai decorativismi delle “donne-gioiello” protagoniste di raffigurazioni quali “Giuditta” (1901), “Ritratto di Adele Bloch-Bauer”(1907) o il celeberrimo “ll bacio” (1907-08).
La figura del soggetto ricorda inoltre le opere preraffaellite, nello specifico l’ “Ofelia” di Sir John Everett Millais.


Negli elaborati degli inizi del Novecento, invece, sono evidenti i riferimenti a capolavori italiani del Trecento e del Quattrocento; nello stesso periodo l’autore si concentra su una generale semplificazione del linguaggio e sullo studio di figure sintetiche. Intorno agli anni Venti del secolo scorso impronta il suo stile a una grande concisione lineare, anche se è nel primo dopo-guerra che egli definisce il suo stile peculiare, caratterizzato da figure immobili, assorte, rigorosamente geometriche, quasi sempre illuminate da una luce fredda e intensa. Appartengono a questi anni alcuni dei suoi capolavori, come “Conversazione platonica” o “Ritratto di Silvana Cenni”. Per quest’ultima opera Casorati si rifà al celebre capolavoro rinascimentale “Sacra Conversazione” di Piero della Francesca, di cui riprende l’atmosfera sospesa, quasi metafisica, ottenuta grazie alla rigidità con cui Felice ritrae la donna  –seduta, assorta e immobile-  alla resa scenografica del paesaggio e alla fittizia disposizione degli oggetti all’interno della stanza. Le figure di Casorati sono volumetriche, solide e immote, come pietrificate, l’artista ne esalta i valori plastici grazie al sapiente uso del colore tonale. Nelle ultime tele, le fanciulle ritratte risulteranno quasi geometrizzate, esito di una notevole sintesi formale.
L’illuminazione risulta artificiale e per nulla realistica, effetto sottolineato dal fatto che Casorati non mostra quasi mai il punto di provenienza della luce; il risultato finale è quello di un mondo sospeso, raggelato e senza tempo.
Negli anni Trenta Casorati si dedica a dipingere nature morte con scodelle o uova, soggetti che ben si prestano ad interpretare il suo linguaggio plastico semplificato; egli esegue inoltri diversi nudi femminili in ambienti spogli e alcune tele che presentano disturbanti maschere, tema a lui già caro, come testimonia l’opera “Maschere” del 1921.
Davanti ai lavori di Felice Casorati non possiamo che rimanere attoniti e pensosi, intrappolati nel suo mondo metafisico.
L’arte è così, lo vedo con i miei studenti, non finisce mai di metterci alla prova, continua a incentivare pensieri e confronti e per quanto possa essere “lontano da noi” essa è capace di stimolare discussioni su tematiche sempre inesorabilmente e meravigliosamente attuali.

Alessia Cagnotto 

Lerici, il Castello dei poeti

Girandosi indietro più volte lungo il sentiero che da Lerici porta a San Terenzo non seppe resistere alla tentazione. Preso dall’entusiasmo si fermò, tirò fuori la sua tavolozza e dipinse una veduta del castello San Giorgio di Lerici che gli apparve in tutta la sua maestosità e bellezza.
Fu scambiato per una spia del re di Sardegna, arrestato e rinchiuso nel maniero che due secoli prima imprigionò Francesco I, Re di Francia, sconfitto nella battaglia di Pavia (1525) dagli spagnoli di Carlo V. È quanto accadde a metà Settecento al pittore piemontese Francesco Belgini e al suo amico Giovanni Robert di Bordeaux. Erano due artisti, tutt’altro che spie, che rimasero semplicemente affascinati dallo splendore del castello che oggi attrae folle di visitatori e turisti provenienti da ogni parte del mondo che, per arrivare alla fortezza, percorrono una delle passeggiate più belle d’Italia che tocca alcuni luoghi straordinari come Portovenere, La Spezia, e appunto, San Terenzo, Lerici, Tellaro e il Golfo dei Poeti. Mille anni fa, dove oggi il castello domina il borgo, c’era solo una torre accanto alla quale fu poi eretto il maniero vero e proprio.
I Pisani sconfissero i Genovesi nella battaglia del Giglio (1241) e costruirono il primo nucleo della fortificazione che in seguito subì numerosi interventi di restauro. La battaglia della Meloria (1284), al largo di Livorno, sancì la supremazia di Genova sul Mediterraneo occidentale mentre Pisa perse la sua forza navale e commerciale. Il castello fu per secoli una prigione genovese e le celle hanno rinchiuso importanti prigionieri tra i quali Francesco I. Andrea Doria invece si trincerò al suo interno per difendersi dagli assalti della flotta francese che tentò di catturarlo quando il grande ammiraglio passò al servizio di Carlo V. Molti ribelli corsi furono imprigionati e condannati a morte. Il castello di Lerici è stato più volte elevato e fortificato per resistere agli attacchi con le armi da fuoco con una “scarpa” inclinata che in alcune parti supera lo spessore di sei metri. All’interno spicca la cappella di Santa Anastasia, costruita in forme gotiche. È un gioiello medievale, intatta dal 1200. La muratura di pietra è tipicamente medioevale con un’alternanza di fasce bianche e nere riproposte anche sul soffitto.
Nella chiave di volta compare San Giorgio con il drago mentre una croce templare domina il portale di ingresso. Il castello ospita mostre d’arte e ricorda che per secoli poeti, artisti e scrittori come l’inglese Mary Shelley, Lord Byron e tanti altri fino a Mario Soldati, hanno soggiornato varie volte nella baia di Lerici trovando nel fascino del castello e nello splendido tratto di costa sul golfo di La Spezia o golfo dei Poeti l’ispirazione per i loro romanzi. Il castello di Lerici è aperto dal martedì al venerdì dalle 10 alle 12,30 e dalle 15,00 alle 17,30, sabato e domenica con orario 10-12,30 e 15-18.
Filippo Re

La Crimea di Cavour e la nascita della Romania. Dai principi Drãculesti ai regnanti dei Balcani

Lo sciame sismico originato dall’emigrazione dei Gozzano di Luzzogno a Cereseto, Casale Monferrato e Agliè riaffiora nella regione balcanica durante il periodo della guerra di Crimea appoggiata da Cavour. La genealogia dei Gozani in Ungheria è rappresentata sul dipinto conservato nella casa del marchese di San Giorgio Monferrato Titus von Gozani e della moglie Eva Maria Friese, abitanti a Dusseldorf senza eredi maschi, fonte di inesauribili informazioni storiche sulla loro antica casata. Il diploma di nobiltà fu concesso ad ambo i sessi di questa famiglia dall’imperatore Franz I° nel 1817 a Vienna, da poco ritrovato con relativi sigilli nell’archivio provinciale di Marburg.

Singolare la vicenda di Odo von Gozani figlio di Ludvik nobile dell’impero austriaco, marchese di San Giorgio Monferrato e fratello di Sidonia, di Ferdinando II° nonno di Titus e marito della baronessa Sophie Josephine Helene von Neustaedter di Zagabria. Odo, politico e capo ideologico nato nel 1885 a Lubiana, avvocato al servizio d’Austria come amministratore civile nella prima guerra mondiale, segretario di stato e inviato a Budapest come ministro degli interni, fu dimesso a causa delle sue idee nazionalistiche per aver esercitato una forte influenza sul movimento del fronte patriottico nel fallito colpo di stato austro-nazista. La paura di un atto di vendetta per falsa testimonianza davanti al tribunale militare di Vienna lo portò al suicidio.

Sidonia von Gozani, zia di Odo, sposò a Lubiana nel 1863 Joseph Maria Coleman Gerliczy, membro di una nobile casata d’Ungheria risalente al 1200 appartenente al patriziato onorario di Fiume nel 1600. Il diploma di nobiltà fu conferito loro nel 1626 dall’imperatore e re Ferdinando II° del litorale ungarico, confermato nel 1838 per tutti i discendenti di ambo i sessi. Le tre corone d’oro sugli elmi dello stemma del 1557, ufficializzato nel 1774, rappresentano la vicinanza all’autorità imperiale. Personaggio di spicco fu il cavaliere Giovanni Felice Gerliczy, bisnonno di Joseph, capitano e assessore al commercio, cancelliere della sanità e proprietario del palazzo barocco di Fiume nel 1750 ereditato dal fratello Giuseppe. Un disegno originale del palazzo, ex sede del teatro, si trova nell’archivio di stato austriaco.

Ferenc Gerliczy von Arany, pronipote di Giovanni Felice sposato con Gilda Fejèrvàry di Vienna, edificò la chiesa di Nostra Signora d’Ungheria accanto al loro castello di Desk. Il figlio Felix Vince Ferenc Gerliczy-Burian, nato a Oradea e morto a Nizza detto il conte Liechtenstein, acquisì notevole prestigio sposando la principessa Elsa Stirbey Bibescu di Cãmpina. A Oradea il cugino Szatarill Gerliczy, allievo del famoso pittore simbolista Gustav Klimt, edificò l’attuale Gerliczy Palace. Nel 1928 il castello di Desk fu venduto e trasformato in sanatorio infantile, oggi sede della clinica medica dell’università di Szedeg.
Barbu Stirbey, presidente del consiglio dei ministri e cugino della principessa Elsa figlia del principe Dimitrie Stirbey, possedeva uno dei patrimoni più grandi della Romania. Barbu era intimo confidente e amante della regina Maria Vittoria che lo soprannominò il principe bianco. Di bell’aspetto, elegante e raffinato nel comportamento era sposato  con la cugina principessa Nadeja Bibescu, pronipote di Napoleone Bonaparte. Elsa discendeva dal nonno Barbu Dimitrie Stirbey detto il dominatore, sovrano dal 1848 al 1853 in regime di statuto organico nel primo regno di Muntenia con capitale Bucarest e di Oltenia con capitale Craiova. Famoso il ritratto di Martha Lahovari Bibescu, nipote di Barbu e George Bibescu che abdicò nel 1848, eseguito da Giovanni Boldini nel 1911 che, come osserva la nostra critica d’arte Giuliana Romano Bussola, esercita le sue famose pennellate a sciabola per dare movimento e leggerezza. Martha, scrittrice e poetessa nata a Bucarest nel 1886 e morta a Parigi nel 1973, fu vestita per decenni dallo stilista parigino Christian Dior.

Barbu dovette fuggire a Vienna durante l’invasione russa in Crimea, rientrando dopo l’intervento del regno di Sardegna deciso da Camillo Cavour a fianco di Napoleone III° e della Gran Bretagna in difesa della Turchia. Dopo il trattato di Parigi, a seguito della disfatta dell’impero russo, Barbu sostenne nel 1856 la riunione dei principati di Moldavia e Valacchia sperando di diventarne principe, generando nel 1859 la nascita della futura Romania. Ma il suo mandato era scaduto, abdicò ritirandosi a Parigi e alla morte fu sepolto nella cappella Bibescu a Pére-Lachaise, il monumentale cimitero parigino dove riposano Balzac, Chopin, Callas, Edith Piaf, Jim Morrison e la nipote Martha Bibescu. Bellissimi i palazzi Stirbey Bibescu di Buftea, Brasov e Bucarest, quest’ultimo venduto dai discendenti per undici milioni di euro nel 2005. Quattro secoli prima, questi regnanti furono preceduti da Vlad II° Dracul detto il drago e dal figlio Vlad III° Tepes l’impalatore, famosi principi Drãculesti.
Armano Luigi Gozzano