STORIA

Il Tesoro di Marengo

Lucio Vero, Settimio Severo o Marco Aurelio? Quale imperatore fu trovato nei pressi di Marengo? Si è infatti molto discusso tra gli studiosi per dare un nome a quel busto di epoca romana e oggi l’ipotesi più probabile è che sia quello di Lucio Vero (161-169 d.C.). Ma che bella storia. Da una cascina, nell’alessandrino, saltò fuori un giorno, all’improvviso, il busto a grandezza naturale dell’imperatore Lucio Vero e, insieme all’illustre personaggio, un tesoro di oggetti d’argento d’età romana risalenti al II-III secolo dopo Cristo.
Un ritrovamento eccezionale. È noto come il Tesoro di Marengo conservato nel Museo di Antichità di Torino, ai Musei Reali, dal 1936. Venne trovato in modo del tutto casuale, da un giorno all’altro, in una cascina alle porte di Alessandria nel 1928 durante alcuni lavori agricoli presso un casolare lungo la strada Alessandria-Tortona, nei pressi di Marengo, sul terreno dove la cavalleria di Napoleone sconfisse gli austriaci il 14 giugno 1800, uno dei suoi più famosi trionfi militari. È un vero e proprio tesoro di età romana imperiale, nascosto nel casale dopo il furto compiuto in un tempietto privato o in un santuario. Sono 31 i reperti che lo compongono, alcuni dorati, altri decorati a sbalzo. Non si tratta di semplice vasellame da tavola ma un’insieme di argenterie antiche che fanno riferimento a simboli del potere imperiale e militare. Oltre al busto dell’imperatore Lucio Vero, che regnò insieme al fratello d’adozione Marco Aurelio dal 161 fino alla sua morte nel 169 dopo Cristo, sono state trovate fasce decorative con simboli del potere imperiale e soprattutto gli argenti e altri oggetti decorati in lamina d’argento, taluni con resti di doratura, tra cui una tabella con dedica alla dea della fortuna Melior, un calice a forma di capitello, una fascia con spighe di grano, una lamina con Eracle e Apollo, una testa femminile di divinità, un piccolo capolavoro in argento con un’acconciatura stile antica Grecia e un medaglione con busto femminile.
Il pezzo più importante è però il busto di un giovane eroico Lucio Vero, che secondo le fonti storiche, accentuava il biondo dei suoi folti capelli con pagliuzze d’oro. Quasi tutti i pezzi erano un po’ schiacciati e deformati e, in qualche caso, bruciati. Sottoposto a due restauri, negli anni Trenta e Ottanta, il Tesoro di Marengo è oggi conservato nel Museo di Antichità di Torino. Tra i numerosi pezzi esposti si ammirano anche una corazza ornata da una testa di Medusa stilizzata e vari esempi di decorazioni vegetali come un elegante vaso a forma di capitello corinzio decorato da foglie di acanto e di loto, un frammento di coppa con foglie di quercia e di ghiande e una ghirlanda di spighe ornata di nastri.     Filippo Re

Via Padova 5, l’inizio di tutto in Barriera di Milano tra fuliggine e profumo di biscotti

Sono nato in via Padova 5, alloggio in affitto.

Correva l’ anno 1957. Mia madre raccontava che era talmente piccola che incinta all’ottavo mese non riuscì più a rialzarsi perché incastrata tra il letto e l‘armadio. Stava facendo le pulizie. Non si perse d’animo e piano piano si rialzò. Abituata nel cavarsela da sola. A 10 anni andò a lavorare alla Marus che sarebbe diventata Facis in corso Emilia a due passi da Porta Palazzo.  Orfana. Mio nonno per soli tre mesi non aveva compiuto 40 anni. Non arrivo’ mai al fronte perché morì prima di pleurite. Faceva il decoratore. Raccontatomi da tutti come uomo mite. Vivevano in via Bra ed erano nati in via Cuneo.

Precisamente non  in piena barriera di Milano. Ma tant’è che , almeno in quegli anni  faceva un tutt’uno oltre piazza Crispi ed il Dazio.  Metà case e metà officine meccaniche ed artigianali.  Grandi Motori da un lato e Ceat gomme dall’ altra parte. La Wamar il corso Mortara. Sicuramente il ricordo è anche il misto d’odore tra fuliggine , colate di gomma ed il profumo dolciastro dei biscotti. Il mio primo ricordo in assoluto è all’eta di tre anni. Ci eravamo trasferiti in via Cherubini 64. Avevo un febbrone da cavallo e chiedevo ai miei di comprare il televisore. Lo fecero gli zii paterni. Ero unico erede della famiglia. Scuola materna in via Monterosa e elementari alla Gabelli. Li’ organizzai un esercizio. Proprio così. Facevo la colletta per contrattare tutta la farinata di Giacu che si presentava sempre alle 12, 30. In questo modo anche chi non aveva soldi poteva mangiare. Egualitarismo  ante-litteram. Poi qualcuno fece la spia e cazziatone prima della maestra e poi dei genitori.  Un mese senza televisione. Poi le medie alla Baretti. Tre anni di puro divertimento e di pochissimo studio. Nonostante ciò uscii con ottimo. Erano  ancora i tempi in cui bastava stare attento alle lezioni. In quegli anni il mio incontro con lo sport.

Ginnastica artistica alla Palestra Sempione e pallacanestro all’oratorio Michele Rua. Poi un po’ di atletica, che non guasta mai. Dove  trovassi le risorse è ancora un mistero. Mi sono sempre piaciuti gli inizi.  Debbo confessare : deboluccio sulla lunga distanza.  Del resto non si puo’ avere tutto dalla vita. Sono gli anni in cui la frase più ricorrente era: non abbiamo dubbi sull’intelligenza di suo figlio, ma non si applica.

Destino cinico e baro. Addirittura mia madre mi portò all’Onmi.  Istituita dal fascismo e non abrogata dalla Repubblica. Una specie di consultorio famigliare vecchia maniera. Tecnicamente ragazzino difficile. Test attitudinali con relativa diagnosi: instabile psicomotorio con evoluzione intellettiva di un anno avanti rispetto alla media. In altre parole birichino ma intelligente. Tutto ma proprio tutto in Barriera. Ero decisamente sbordante anche perché decisamente grosso. Alle medie ebbi la prima cotta.  Ricordo ancora il nome: Lucia.  Fatale la festicciola di fine anno. Il classico scantinato con il classico mangia dischi e patatine e popcorn e Coca- Cola.

Non l’avrei più rivista ma quelle ore restano  indelebili nella memoria. Gli ardori sessuali rinviati al Liceo scientifico Albert Einstein.  Via Pacini, ovviamente in Barriera.  Forse tra i primi licei in Barriera e due diverse compagnie di amici.

I  giardini di via Mercadante e il basket dell’oratorio Michele Rua alias Auxilium Basket Monterosa. Devo al gioco della Pallacanestro le prime incursioni fuori Barriera.  Domenica si giocava. Una partita in casa ed una partita fuori casa . Oratorio San Luigi in via Ormea o al Martinetto al fondo di via San Donato. Fino all’altra parte della città, all’Oratorio Giovanni Agnelli,  il tempio del Basket.  Impossibile non ricordare la Crocetta in via Piazzi.  All’Agnelli ci giocai per tre anni. Praticamente tutti i giorni sul tram 10 tra allenamenti e partite.

Anche qui mi vennero d‘aiuto gli zii regalandomi il vespino 5o. Brigavo in giro cercando di rimorchiare.  Faceva la differenza. Poi si bighellonava nelle panchine dei giardini o sulla scalinata della chiesa. Giusto per turar tardi per la cena. Si studiava anche, vi assicuro.  Chi più chi meno. Qualcosa però si studiava. Magari non eravamo secchioni ma sì, qualcosa si studiava. La summa erano i campionati studenteschi. Addirittura andai a Roma per le finali dei giochi della Gioventù. Potremmo dire : dalla Barriera con furore, sfiorando la felicità e la spensieratezza.  Quel profumo di libertà che oggi non sento più. Libertà di conquistare quello a cui si ambiva. Sicuramente non era tutto facile. Ma era tutto possibile. Possibile ciò che era lecito. Piccoli valori e piccole morali che si trasmettevano nei reciproci comportamenti.

Piccole felicità nel fare quel canestro vincendo la partita  e piccole felicità  con quella ragazzina che  al cinema appoggiava la resta sulla tua spalla facendoti sembrare adulto. Tutto questo crescendo, tutto questo in Barriera di Milano.

Patrizio Tosetto

San Giovanni e la Famija turineisa che compie cent’anni

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

La festa di San Giovanni venne ripristinata nel 1973 dalla Famija turineisa, il sodalizio fondato cent’anni fa da un gruppo di torinesi che ebbe a capo il giornalista  Gigi Michelotti  e l’avv. Giulio Colombini. Era il 1925, l’anno dopo il delitto Matteotti, Torino non era stata ancora fascistizzata interamente. La Famija nacque come un’associazione apolitica e tale ha saputo rimanere. Il suo giornale “Caval ‘d brons“ uscì allora e continua oggi  con una costanza ammirevole. In pochi anni i suoi soci diventarono cinquemila. E’ questo uno dei motivi che portò  nel 1932 il regime allo scioglimento del sodalizio, malgrado l’appoggio e la stima manifestata dal Principe ereditario Umberto di Savoia. Nel 1945 fu nuovamente l’avvocato Colombini a far rinascere l’associazione.  La sua sede storica in via Po resta un luogo ideale anche per il Carnevale che si teneva in piazza Vittorio ed aveva un Gianduja espresso dalla Famija turineisa . Poi Andrea Flamini creò la sua Associasiun piemonteisa fortemente sostenuta dalla Regione Piemonte che vide in lui l’alfiere della cultura piemontese all’estero con l’organizzazione di tanti spettacoli folcloristici in cui Flamini divenne il Gianduja più conosciuto. Egli era anche l’anima della festa di San Giovanni con il suo “farò“. Ma quest’anno per la festa di San Giovanni va  soprattutto citata la Famija che compie cent’anni sotto la guida sagace dell’editrice Daniela Piazza e di Giancarlo Bonzo. Da giovane la frequentai e ne fui anche socio, poi gli impegni mi impedirono una partecipazione che ritengo importante perché mi ha dato la fierezza di essere e di sentirmi torinese. Senza campanilismi fuori luogo, ma consapevole della storia di Torino che fu promotrice del Risorgimento e prima capitale d’Italia. Valdo Fusi, autore di “Torino un po’”, amava molto la Famija che mi invitò a ricordarlo insieme al Presidente Torretta e a Luigi Firpo.

L’omaggio di Torino a Giuseppe Mazzini

Alla scoperta dei monumenti di Torino / Oggi il plumbeo monumento si erge fiero in mezzo a quella che è diventata una delle piazzette pedonali della città più “bazzicate” dai giovani, che hanno fatto della maestosa scultura e dei gradoni perimetrali del suo basamento, uno spontaneo ed appartato punto di ritrovo

 

Collocato in via Andrea Doria, angolo via Dei Mille, precisamente sullo spiazzo di confluenza tra le due vie, Giuseppe Mazzini viene raffigurato in una scultura bronzea, seduto in atteggiamento pensoso, avente una mano poggiata a sostenere il capo e l’altra su un pastrano adagiato sulle gambe. Il piedistallo lapideo è ornato da simboli della classicità rappresentati superiormente da due tripodi, collocati ai lati della statua e inferiormente, da pannelli bronzei disposti in sequenza. Nel pannello centrale è rappresentata la lupa capitolina nell’atto di allattare i gemelli, in riferimento alla Repubblica Romana, mentre sui restanti prospetti figurano corone di lauro che circondano i nomi dei principali sostenitori di Mazzini. Il sottostante basamento presenta, anteriormente, dei gradini simmetrici in ascesa verso la scultura. Nato a Genova il 22 giugno 1805 (quando Genova era ancora parte della Repubblica Ligure annessa al Primo Impero Francese), Mazzini è stato un patriota, uomo politico, filosofo e giurista italiano. Costituì a Marsiglia nel 1831 la Giovine Italia, fondata sui principi di “Dio e popolo” e “pensieri e azioni” volti a promuovere l’indipendenza della penisola dagli stati stranieri e la costituzione dell’Italia fondata sui principi della repubblica. Anche se osteggiato dal protrarsi dell’esilio forzato e dai contrasti in patria con la ragione di stato (promossa da Camillo Benso Conte di Cavour e da Giuseppe Garibaldi), Mazzini perpetuò il suo impegno politico che contribuì in maniera decisiva alla nascita dello Stato Unitario Italiano.

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Nello stato riunificato risiedette nell’ultimo decennio della sua vita come “esule di patria”, sotto falso nome; morì a Pisa il 10 marzo del 1872. In Torino come in altre numerose città della nazione, quale atto di riconoscimento al suo impegno, fu eseguito postumo il monumento in suo onore. Per quanto riguarda la città di Torino, nell’intenso programma delle manifestazioni svolte nella città per il giubileo dell’Unità d’Italia, nel 1911, venne istituito un apposito Comitato per erigere un monumento in memoria di Giuseppe Mazzini, distintosi come uno dei principali rappresentanti del Risorgimento italiano. L’iniziativa, promossa dalla Sezione Repubblicana Torinese, sorse in concomitanza alla ricorrenza del quarantesimo anniversario dal decesso del patriota genovese, di cui erano in corso i preparativi per le celebrazioni. Il Comitato sottopose all’Amministrazione comunale la domanda di aderire all’iniziativa ma la proposta venne osteggiata in quanto, si affermava, fosse avanzata da un gruppo partitico; per non pregiudicare l’esito della richiesta venne costituito un nuovo Comitato dichiarante l’estraneità ad ogni questione politica. Nel 1913 l’istanza di questo nuovo Comitato venne favorevolmente accolta dal Consiglio Comunale. Assunse l’incarico per l’ideazione del complesso scultoreo, Luigi Belli, docente presso la regia Accademia Albertina di Belle Arti ed esecutore di significative opere nella città. Belli accettò l’incarico senza richiedere alcun compenso per la sua attività (consapevole forse che sarebbe anche stata la sua ultima opera data l’avanzata età) ma domandò unicamente il rimborso per le spese sostenute nella realizzazione della proposta.

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Nonostante la rinuncia dell’artista, il bozzetto dell’opera venne approvato stimando un importo considerevolmente superiore a quello stabilito per l’esecuzione del monumento, quindi per arginare i limiti economici incorsi, l’Amministrazione concesse una agevolazione per il pagamento del dazio sui materiali, contrattò con il Ministro della Guerra in Roma per l’acquisizione del bronzo necessario ad un prezzo agevolato, mentre il Comitato promosse una pubblica sottoscrizione presso municipi, istituti civili e militari nazionali. Successivamente i modelli in creta a scala reale della statua e di un altorilievo, furono inviati alla fonderia scelta dal Belli, con sede presso Milano, per eseguirne la fusione in bronzo; la statua bronzea ed il relativo modello in gesso, vennero recapitati a Torino, su un carro ferroviario atto al trasporto speciale, l’11 maggio 1917. Il complesso scultoreo fu posto in opera, nonostante fosse privo dell’altorilievo rappresentante la “Libertà” (non consegnata forse a causa di un compenso non corrisposto dal Comitato), figurando ugualmente come un altare alla repubblicana libertà. L’inaugurazione della scultura commemorativa dedicata a Mazzini si svolse il 22 luglio 1917. La cerimonia del monumento si celebrò in presenza di autorità nazionali e cittadine, in una città dall’atmosfera poco festosa a causa della popolazione mobilitata sui fronti della Prima Guerra Mondiale. Oggi il plumbeo monumento si erge fiero in mezzo a quella che è diventata una delle piazzette pedonali della città più “bazzicate” dai giovani, che hanno fatto della maestosa scultura e dei gradoni perimetrali del suo basamento, uno spontaneo ed appartato punto di ritrovo.

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(Foto: www.museo.torino.it)

Simona Pili Stella

Il Mago Povero. Teatro di altri tempi

Il malessere socio-culturale emerso nel periodo della contestazione sindacale e studentesca del ’68, nato sull’onda della protesta giovanile americana, creò l’esigenza di diffondere una cultura a livello popolare al di fuori dei teatri stabili pubblici. Cercare un nuovo pubblico bisognoso di teatro nelle piazze, strade, cortili e tra gli emarginati fu l’intento del Collettivo Gramsci. Il gruppo amatoriale astigiano, nato nel 1971, fu ispirato dalle esperienze del teorico musicale e pioniere degli happening John Cage, unendo musica e poesia alle arti visive e dal teorico anarchico Julian Beck del Living Theatre, l’attore di Pasolini in Edipo re  influenzato da Artaud, il regista teatrale della crudeltà. La diffusione del teatro-documento  ottenne un notevole successo al Palasport di Torino nel 1972, momento storico denso di grandi scioperi per le riforme in piena strategia della tensione. Il linguaggio provocatorio, satirico e grottesco sui temi della salute e del lavoro in fabbrica rappresentò una prima evoluzione del Collettivo, dimostrando che questo strumento era più efficace del tipico comizio di propaganda. L’impegno sociale assunto nel 1973 dal Teatro del Mago Povero, nuova identificazione meno ideologica del precedente Collettivo, vide un allontanamento progressivo dalla cultura operaia utilizzando un linguaggio poetico ed estetico affidato al travestimento dell’attore, magia del mago e scienza del povero.
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L’animazione teatrale, utilizzata come nuova forma culturale in collaborazione con il comune di Asti, suscitò interesse nello spettacolo d’avanguardia allestito dal Mago Povero. Il Collettivo ospitò il Living Theatre,  teatro nomade andato in scena anche al Salone Tartara di Casale Monferrato, il Corpo di ballo delle Folies Bergéres, il Coro dell’Armata Rossa, Dario Fo con la giullarata del Mistero Buffo e l’onorevole Enrico Berlinguer. Spettacoli ed happening  andarono in scena al Théâtre du Chêne noir e nelle strade di Avignone, alla Comune di Milano, nella piazza Maggiore di Bologna, ad Aosta, Brera, Chieri, Moncalieri, al teatro Gobetti di Torino, ad Asti Teatro che annovera Gassman e Sgarbi tra i direttori artistici, in un tour mensile in Sardegna, nel teatro di Alba e nell’ospedale psichiatrico di Volterra, dove un ricoverato partecipò alla recita. Nel 1978 il Mago Povero diventò professionista, il gruppo di base autogestito assunse il nome di Collettivo Teatro Musica e dopo anni di rappresentazioni drammaturgiche interne il gruppo si avvicinò ad autori contemporanei. Importante la collaborazione musicale di Paolo Conte, Gianni Basso al sax tenore e Pierangelo Bertoli, gli artisti astigiani Silvio Ciuccetti pittore e Valerio Miroglio, scultore e pittore, gli attori Alessandro Haber, Felice Andreasi e Athina Cenci, vincitrice di due David di Donatello e co-fondatrice del trio comico toscano Giancattivi con Alessandro Benvenuti e Francesco Nuti, sostituito da  Antonio Catalano del Mago Povero, ospite al Maurizio Costanzo Show.

Diversi gruppi musicali entrarono nella grande famiglia del Collettivo, il gruppo rock Viaggio di Alice, Canzoniere Cecilia per sole voci femminili con un collage di varie epoche, Musica Dulce con canti polifonici rinascimentali, barocchi e contemporanei diretto dalla maestra Rosalba Gentile. Dopo lo spettacolo d’esordio ‘Off Limits’ sulla guerra in Vietnam, fu portato in scena ‘Prendete una donna e bruciatela come strega’, il processo dell’uomo inquisitore impermeabile ai sentimenti e all’emancipazione femminile. Seguì ‘Vivo in gabbia e mi nutro di incubi’, provocazione ripetitiva gestuale, visiva e sonora sull’emarginazione che compiange il dolore della condizione umana. ‘Che fine farà la Donna Cannone?’, spettacolo clownesco di attualità politica su pista da circo con grande partecipazione di pubblico. ‘Sotto la pelle del principe’, tratto da Shakespeare e Machiavelli, fu dedicato al 40° della morte di Gramsci analizzando il rapporto tra potere e Stato con un dinamico gioco delle parti ricco di ironia. ‘Mounsù Travet’ di Bersezio, il classico impiegato modello del teatro piemontese fine ‘800 deriso da tutti. ‘Il signor Mockimpott’, incarcerato senza motivo di Peter Weiss e ‘Il re nudo’, fiaba comica sul vestito dell’imperatore tratta dal testo di Schwarz e dalla favola di Andersen, sono alcuni dei 68 spettacoli allestiti da entrambi i gruppi con una frequenza annuale di 100 rappresentazioni, comprese alcune fiabe per ragazzi.

Al nucleo originario fondato da Antonio Catalano, Luciano Nattino, Renzo Fornaca e Lorenzo Nisoli si aggiunsero Maurizio Agostinetto, Silvana Penna, Graziella Borgogno, Giulietta Miroglio, Giancarlo Ferraris, Ornella Boido e altri 94 artisti. La tragedia del 1983 sul Rocciamelone in Val di Susa vide la scomparsa del fondatore Renzo Fornaca, la sua ragazza Franca Ravera e Luisa Steffenino. Lo smarrimento degli increduli colleghi segnò la svolta alla ricerca di percorsi alternativi. Nel 1988 il lento declino degli ideali, splendido miraggio assopito, portò alla sostituzione del nome Mago Povero per identificarsi come Alfieri, segnando una definitiva frattura dal Gramsci iniziale. I nuovi portatori d’insegne, esploratori del rapporto uomo-natura in uno spazio fisico-mentale denso di speranze, ricercarono collaborazioni con attori e nuove compagnie, creando nel 1994 La Cascina degli Alfieri a Castagnole Monferrato, nuova residenza dell’associazione per la promozione culturale-artistica.
L’evoluzione culturale e la trasformazione artistica del Mago Povero rappresentò prima distacco e poi allontanamento da facili entusiasmi estremisti, precursori di atti illegali attribuiti ad altre organizzazioni contestatrici del sistema. L’attività musicale di Lorenzo Nisoli, già tecnico alla Fiat Lingotto e quadro dirigente alla Fiat Mirafiori, prosegue come contrabbassista nella Mandolinistica Paniati e come bassista nella Palmarosa Band, realizzando concerti nell’Italia del nord e in Germania alla rassegna Musiknacht. Amelia Saracco, docente di mandolino con il metodo Suzuki e componente dell’Orchestra Mandolinistica di Torino, musicista di spicco in entrambe le formazioni, faceva parte del celebre Open Quartet, attivo a Casale Monferrato nel 1997 con incisioni di musica etnica in forma cameristica. Oggi la nascita di nuovi gruppi teatrali, ormai distaccati dal sociale, si è interrotta. Lo spirito creativo del Collettivo, finalizzato al raggiungimento degli obbiettivi, fu la vera magia del loro teatro, nobile intento realizzato con passione, sacrificio e povertà dei mezzi.
Armano Luigi Gozzano

“I marmi del Re”, storia del restauro di Palazzo Madama

È stato presentato oggi, presso il Salone d’Onore della Fondazione CRT, il volume “I marmi del Re, dedicato allo straordinario intervento di restauro e consolidamento della facciata juvarriana di Palazzo Madama, simbolo identitario della città e patrimonio UNESCO, promosso dalla Fondazione Torino Musei e interamente sostenuto dalla Fondazione CRT, principale sostenitore privato del bene con 18 milioni di euro complessivamente stanziati.

La pubblicazione – curata dall’architetto Gianfranco Gritella, direttore dei lavori, ed edita da Electa – restituisce, attraverso parole e immagini, l’intero percorso tecnico, artistico e umano di questo complesso e innovativo intervento.

L’opera si concentra sull’intervento di consolidamento e restauro della sezione centrale della facciata realizzata tra il 1718 e il 1721 su progetto di Filippo Juvarra. attraverso un’indagine filologica e storica il volume esplora le vicende e le caratteristiche de i restauri attuati tra Ottocento e Novecento condotti da Alfredo d’Andrade.

Alcuni capitoli indagano l’impiego dei marmi provenienti dalle antiche cave delle Alpi Cozie, riscoperte ed esplorate puntualmente e rilevate con droni e specifiche tecnologie laser di ultima generazione, studiando i luoghi di estrazione, i metodi di lavorazione, trasporto e montaggio dei blocchi

L’indagine archeologica sull’architettura ha permesso, in maniera inedita, di ricostruire le tecnologie e le macchine utilizzate nel cantiere storico con disegni e rilievi che descrivono tutti gli elementi scultorei e lapidei che compongono la facciata.

Il restauro – avviato nel 2022 e concluso nel settembre 2024 – è stato interamente finanziato dalla Fondazione CRT, con un contributo straordinario di 2,9 milioni di euro, e promosso dalla Fondazione Torino Musei con la collaborazione della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Città metropolitana di Torino.

L’intervento ha riguardato il consolidamento strutturale dell’avancorpo centrale con “protesi” reversibili in acciaio, il restauro dei marmi e dei serramenti (11 finestroni barocchi, i più grandi del Piemonte), il recupero dei sotterranei e, in particolare, il delicato restauro delle quattro monumentali statue allegoriche del “Buon Governo” – Giustizia, Liberalità, Magnanimità e Abbondanza – dello scultore carrarese Giovanni Baratta, protagoniste di uno scenografico volo nel cielo di Torino durante la fase di smontaggio.

Si è trattato di una spettacolare, complessa e delicata operazione “chirurgica”, capace di “mixare” antiche tecniche artigianali e metodologie all’avanguardia, recuperando i marmi originali, accanto all’impiego di materiali contemporanei.

Tutto il restauro è stato preceduto da una complessa campagna diagnostica e di rilievi approfondita durante il cantiere con l’impiego di apparecchiature laser, georadar e indagini tomografiche mediante risonanza magnetica al fine di conoscere la consistenza interna dei blocchi lapidei di colonne e pilastri.

Un tratto distintivo del progetto è stato l’approccio partecipativo e inclusivo del cantiere: grazie all’ascensore allestito sul ponteggio e accessibile anche alle persone con disabilità, centinaia di visitatori hanno potuto vivere da vicino il cantiere, ammirando da un punto di vista inedito le architetture torinesi, dalla Mole Antonelliana a Superga. Un’esperienza unica di valorizzazione del patrimonio culturale che ha coinvolto la comunità.

Foto Perottino

Giugno 1855, Baudelaire e l’eresia dei fiori del male

 

Ma jeunesse ne fut qu’un ténébreux orage, traversé çà et là par de brillants soleils; le tonnerre et la pluie ont fait un tel ravage, qu’il reste en mon jardin bien peu de fruits vermeils ” (Non fu che fosca tempesta la mia giovinezza, qua e là solcata da rilucenti soli;il tuono e la pioggia ne han fatto un  tale strazio da lasciare nel mio giardino solo qualche vermiglio frutto). Versi potenti, tratti da L’ennemi, il nemico, una delle poesie che Charles Baudelaire raccolse nei suoi Les Fleurs du Mal. Era il 1°giugno 1855 quando, per la prima volta, la Revue des Deux Mondes pubblicò, con tanto di nota cautelativa per violenza, diciotto poesie di Baudelaire dal titolo I Fiori del Male, opera che subito destò scalpore e fu censurata. Ma la censura e la critica de Le Figaro non bastarono a celare l’opera e, infatti, il grande pubblico fu subito attirato dal lavoro.  Così I Fiori del Male sbocciano in quel lontano primo giugno, per poi essere pubblicati in prima edizione il 25 giugno del 1857, con 100 poesie suddivise in 5 sezioni e messi in vendita in circa 1100 esemplari, dagli editori Poulet-Malassis et De Briose. Le liriche di Baudelaire conobbero nuovamente e con più vigore l’asprezza della censura dei benpensanti, conseguenza naturale dello scalpore sollevato dall’audacia dei componimenti e dall’anticonformismo dei temi trattati che sconvolsero l’intero mondo letterario europeo. Il 20 agosto si celebrò a Parigi il processo penale contro l’autore e l’editore, accusati di pubblicazione oscena. Pubblico ministero era Ernest Pinard, lo stesso che qualche mese prima aveva pronunciato la requisitoria contro Madame Bovary di Flaubert. Baudelaire e Poulet-Malassis furono condannati a pene pecuniarie e alla soppressione di sei poesie. Negli appunti scritti per il suo avvocato per la difesa, Baudelaire diceva: “Il libro deve essere giudicato nel suo insieme: solo così si può coglierne la terribile moralità”. Il 30 agosto Victor Hugo gli scrisse: “I vostri Fiori del male risplendono e abbagliano come stelle […]”. E pensare che Baudelaire voleva intitolare la sua opera Les lesbiennes, le lesbiche, allo scopo di provocare quella gente che tanto disprezzava. Nonostante la censura e le critiche feroci che subì a quel tempo, il capolavoro di Baudelaire si diffuse in tutta Europa e ancora oggi i Fiori del Male è considerata una delle opere più innovative e influenti dell’Ottocento. Colpito da ictus, parzialmente paralizzato e divorato dalla sifilide ormai all’ultimo stadio morì ancora giovane a 46 anni il 31 agosto 1867 a Parigi dove venne sepolto nel cimitero di Montparnasse. E’ in quella tomba di famiglia senza alcun particolare epitaffio, insieme al detestato patrigno detestato e alla madre, morta quattro anni dopo, che riposa uno dei più famosi poètes maudits. Non mancano mai un fiore o un biglietto per l’autore dello Spleen di Parigi e vale sempre la pena di brindare al talento di Baudelaire, accompagnando il tutto con gli ultimi versi de Le osterie di Alda Merini che, ricordandolo, scriveva che in quei luoghi popolari “ci sta il nome di Charles scritto a caratteri d’oro”. À votre santé!

Marco Travaglini

Anei, Zini Lamberti, Torino

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

L’associazione nazionale ex internati ( Anei ) compie 80 anni e tiene a Torino in questi giorni il suo congresso nazionale anche in ricordo del suo primo presidente , l’avvocato Gaetano Zini Lamberti, ufficiale del “Nizza Cavalleria” e dopo la guerra noto esponente liberale. Gli Internati, tra i prigionieri italiani nel corso della II guerra mondiale , furono quelli che, deportati dopo l’8 settembre 1943, si rifiutarono di collaborare con i tedeschi e poi con i fascisti della Rsi. Il loro numero fu di 600-700 mila. L’associazione venne fondata a Torino  il 29 aprile 1945. È  giusto che il suo ottantesimo congresso  si tenga a Torino dove è  nata.
Giovannino Guareschi fu internato in Germania e scrisse in “Diario clandestino” la più toccante delle testimonianze. Anche Alessandro Natta fu un deportato, ma solo dopo tanti decenni scrisse un libro di memorie sull’altra Resistenza, un libro che Togliatti gli proibì di scrivere.  I deportati, per quanto siano stati resistenti dal ‘43 al ‘45, non vennero riconosciuti tali se non con molto ritardo.  Il fatto di essere soldati fedeli al giuramento prestato al Re velò in qualche modo il loro sacrificio per la Patria ,la dignità e l’onore dell’Esercito italiano caduto in basso dopo l’8 settembre. La figlia di Zini Lamberti Maria Pia mi ha scritto tra l’altro : “Mio padre aveva vissuto il dramma della deportazione e conosciuto la privazione della libertà per essersi rifiutato di collaborare con  le SS e con la Repubblica sociale italiana e una volta tornato volle che questa pagina di storia fosse conosciuta e non venisse dimenticata” . Il congresso di Torino è anche un doveroso omaggio a Zini Lamberti che fu tra i  fondatori del Centro Pannunzio. Peccato seguirlo da lontano, ma con animo presente, come diceva Spadolini.

I Walser di Campello Monti

Campello Monti ,l’ultimo centro abitato della Valle Strona a milletrecento metri d’altitudine, è un piccolo e  antico villaggio walser che conserva gelosamente le sue origini, le tradizioni, la cultura e alcune bellezze architettoniche come la settecentesca Parrocchiale di San Giovanni Battista, di epoca tardo barocca, ricca di arredi e paramenti preziosi. A custodire le radici walser del paese è la Walsergemeinschaft Kampel, l’associazione walser di Campello, presieduta dall’infaticabile e vulcanico Rolando Ballestroni. Il sodalizio, da oltre trent’anni, promuove iniziative culturali e ricerche con l’intento di valorizzare e far conoscere questa realtà importante. Tra queste la serie di convegni denominata “Campello e i Walser”, che si tiene solitamente tra la fine di luglio e i primi di agosto, vede incontrarsi ogni anno numerosi studiosi e cultori di storia locale.

 

Il filo conduttore degli incontri è la storia delle comunità alpine e quindi anche di quelle walser, discendenti da un popolo alemanno penetrato nell’alto medioevo a ridosso delle Alpi centrali che, dopo essersi acclimatati alle grandi altitudini dell’alto Vallese, a partire dalla seconda metà del XIII secolo,  colonizzarono le zone più elevate delle Alpi e in particolare le valli intorno al Monte Rosa, dando vita alle comunità di Alagna, Gressoney, Issime, Rimella, Rima, Campello Monti, Macugnaga e Ornavasso. Oltre, ovviamente, agli altri che, attraverso il passo del Gries, conquistarono la Val Formazza e da lì raggiunsero successivamente Bosco Gurin, nell’elvetico Canton Ticino. Campello Monti è immersa tra le verdi pendici della vallata e le alte cime delle montagne, rappresentando anche un’ottima base di partenza per suggestive escursioni dirette ai laghi alpini di Capezzone e Ravinella e ai sentieri che portano al monte Capio e all’Altemberg. Ritornando alle sue radici va detto che la traccia lasciata dai walser è nettissima, tanto da aver segnato e modellato la stessa fisionomia topografica del paese. Già nella prima fase, quella della primitiva nascita dell’insediamento umano stabile a quelle quote, gli esponenti del “piccolo popolo” dovettero esaminare, valutare e interpretare i “segni” che il territorio mostrava loro. Per queste ragioni la scelta di interrogarsi e studiare sul modo migliore per riscoprire la montagna equivale a percorrere un lungo viaggio sulla genesi di una cultura materiale basata sull’individualità dei luoghi, sulla cultura e le tradizioni alpine, La Walsergemeinschaft kampel” è un’associazione senza fine di lucro, ufficialmente costituita il 23 dicembre del 1991, riconosciuta e iscritta all’ associazione internazionale dei Walser con sede in Briga, in Svizzera. Tra gli obiettivi che l’associazione guidata da Ballestroni si prefigge vi è innanzitutto la volontà di consolidare una memoria che, con il passare del tempo, tende a sbiadire, organizzando mostre e convegni, promuovendo ricerche storiche sulla lingua, le relazioni con altre comunità, l’arte e la cultura, le pratiche legate all’agricoltura di montagna, le tradizioni culinarie e le esperienze formative, la religiosità e l’immaginario narrativo. Un lavoro enorme che è stato raccolto negli atti dei convegni dal 1994 fino ai giorni nostri, intessendo e rafforzando  contatti, rapporti e scambi con tutte le comunità walser del Piemonte e della valle d’Aosta. Quest’estate, Campello Monti ospiterà il 33° Convegno e il 24 agosto la quarta festa delle comunità Walser valsesiane con Rimella, Rima, Carcoforo e Alagna.

Marco Travaglini

Il Duca d’Aosta: sei ore per trasportarlo

Alla scoperta dei monumenti di Torino / La statua in bronzo fu  trasportata, nel giugno del 1900, dalle fonderie Sperati (corso Regio Parco) al Parco del Valentino e per compiere quel tragitto di circa tre chilometri furono necessarie più di sei ore a causa appunto delle ingenti dimensioni del monumento

Il monumento è situato all’interno del Parco del Valentino, in asse con corso Raffaello e nel centro del piazzale nel quale confluiscono i viali Boiardo, Ceppi e Medaglie D’Oro. La statua che raffigura, sul cavallo ritto sulle zampe posteriori, il poco più che ventenne Amedeo di Savoia Duca d’Aosta durante la battaglia di Custoza, è posta su un dado di granito che poggia a sua volta su un basamento contornato da una fascia di coronamento in bronzo,rappresentante (in altorilievo) 17 figure tra cui numerosi personaggi celebri della dinastia sabauda. Ai gruppi di cavalieri si alternano vedute paesaggistiche come la Sacra di San Michele, il Monviso e Torino con il colle di Superga sullo sfondo.Sul fronte del basamento, poggiata sulla chioma di un albero al quale è appeso lo stemma reale di Spagna, un’aquila ad ali spiegate regge tra gli artigli lo scudo dei Savoia.Nato il 30 maggio 1845 da Vittorio Emanuele (il futuro re Vittorio Emanuele II) e da Maria Adelaide Arciduchessa d’Austria, Amedeo Ferdinando Maria Duca d’Aosta e principe ereditario di Sardegna, crebbe seguendo una rigida educazione militare.Nel 1866 gli venne affidato il comando della brigata Lombardia e partecipò alla battaglia di Custoza nella quale, nonostante fosse stato ferito da un proiettile di carabina, continuò a battersi distinguendosi così per il suo coraggio ed il suo valore.In seguito alla rivoluzione del 1868 e alla cacciata dei Borboni, in Spagna venne proclamata la monarchia costituzionale e nonostante la situazione risultasse molto difficile, Amedeo di Savoia accettò l’incarico così, il 16 novembre 1870, venne eletto Re di Spagna con il nome di Amedeo I di Spagna.Ma la situazione politica risultò ancora più instabile di come lui se la fosse prospettata e davanti a rivolte e congiure (nel 1872 sfuggì miracolosamente ad un attentato), nel 1873 abdicò rinunciando per sempre al trono.Tornato in Italia, venne nominato Tenente Generale e Ispettore Generale della Cavalleria; si spense il 18 gennaio 1890 a causa di una incurabile broncopolmonite.

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Signorilmente affabile con tutti, sempre pronto a prodigarsi per il bene della sua amata città, fu (anche durante il periodo della sua sovranità in Spagna) un personaggio molto popolare e ben voluto tanto che, neanche una settimana dopo la sua morte, la città di Torino costituì un comitato promotore per l’erezione di un monumento a lui dedicato, sotto la presidenza del conte Ernesto di Sambuy. Venne aperta una sottoscrizione internazionale alla quale, la stessa città di Torino, partecipò con la somma di L. 25.000 e in seguito, il 6 marzo 1891, venne bandito un concorso tra gliartisti italiani per stabilire chi sarebbe stato l’autore dell’imponente opera. Tra i ventinove bozzetti presentati ne furono scelti sei che vennero esposti nei locali della Società Promotrice di Belle Arti, in via della Zecca 25 ed in seguito, tra i sei artisti vincitori, venne bandito un nuovo e definitivo concorso che vide come vincitore (nel dicembre del 1892) Davide Calandra. La decisione, secondo le parole della Giuria, fu motivata “dal poetico fervore immaginoso della concezione, dall’eleganza decorativa dell’insieme, dalla plastica efficacia del gruppo equestre e dalla vivace risoluzione del difficile motivo della base“. Inizialmente l’ubicazione del monumento avrebbe dovuto essere, secondo la proposta del Comitato Esecutivo approvata dalla Città di Torino nella seduta del Consiglio Comunale dell’11 giugno 1894, il centro dell’incrocio dei corsi Duca di Genova e Vinzaglio, ma a causa delle dimensioni maestose del basamento si decise che fosse necessario uno spazio più ampio per ospitare l’opera. Dopo avere effettuato delle prove con un simulacro di grandezza naturale in tela e legname (costato alla Città la somma di L. 2480), si decise di collocarla nel Parco del Valentino sul prolungamento dell’asse di Corso Raffaello, presso l’ingresso principale dell’Esposizione Generale Italiana tenutasi del 1898: il 9 novembre 1899 il ConsiglioComunale approvò la scelta della Giunta di tale ubicazione.

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La statua in bronzo fu dunque trasportata, nel giugno del 1900, dalle fonderie Sperati (corso Regio Parco) al Parco del Valentino e per compiere quel tragitto di circa tre chilometri furono necessarie più di sei ore a causa appunto delle ingenti dimensioni del monumento. Il monumento venne inaugurato il 7 maggio 1902, in occasione della Prima Esposizione Internazionale di Arte Decorativa e Moderna di Torino, durante la quale lo scultore fu anche premiato per aver inserito nell’opera elementi di “Art Noveau”. Nel corso dell’inaugurazione il conte Ernesto di Sambuy, a nome del Comitato, consegnò l’opera al Sindaco di Torino. Originariamente il monumento venne circondato da una cancellata in ferro dell’altezza di circa 130 centimetri, disegnata dallo stesso Calandra, che venne rimossa probabilmente a causa delle requisizioni belliche durante la Prima Guerra Mondiale. Nel 2004 il monumento è stato restaurato dalla Città di Torino. Per fare un piccolo accenno al Parco del Valentino, di cui certamente parleremo in modo più approfondito prossimamente, bisogna ricordare che ilmonumento ad Amedeo di Savoia è situato nell’area nella quale, fra Ottocento e Novecento, si tennero a Torino alcune tra le più importanti rassegne espositive internazionali. Nel 1949, proprio a fianco del monumento, sorse il complesso di Torino Esposizioni, un complesso fieristico progettato da Pier Luigi Nervi che, durante le Olimpiadi Invernali di Torino 2006, ha ospitato un impianto per l’hockey su ghiaccio dove sono state giocate circa la metà delle partite dei tornei maschili e femminili. Al termine delle Olimpiadi, la struttura è tornata all’originario uso abituale ripredisponendo un padiglione come palaghiaccio per i mesi invernali. Cari lettori anche questa ennesima passeggiata tra le “bellezze torinesi” termina qui. Mi auguro che il monumento equestre ad Amedeo di Savoia vi abbia incantato ed incuriosito proprio come ha fatto con me; nel frattempo io vi do appuntamento alla prossima settimana alla scoperta o meglio “riscoperta” della nostra città.

(Foto: www.museo.torino.it)

Simona Pili Stella