Sugli schermi riproposto per la seconda volta il romanzo di Agatha Christie
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
All’inizio, in un antico quanto eccellente bianco e nero, nell’ottobre del ’17, scoppi e proiettili, barelle e feriti, la macchina da presa che corre tra le trincee e ti pare di essere capitato per sbaglio all’interno di “1917” di Sam Mandes; poi il giovane soldato Hercule Poirot che tenta di mettere in salvo il suo capitano, una trappola esplosiva che al contrario lo fa secco e coinvolge pure il futuro detective, deturpandogli il viso.
Ecco come veniamo a sapere degli ampi baffi che gli ricopriranno come un ricamo in avvenire la parte inferiore del viso, ecco come ci appare il lato sentimentale del medesimo (tutto per dirci che i sentimenti dell’eterno raisonneur verranno coinvolti nella prossima inchiesta) che vede morire la giovane infermiera che s’è presa cura di lui. Fine del preambolo (inutile). Poi, nella bellissima fotografia a colori di Haris Zambarloukos, siamo catapultati vent’anni dopo, nel vero e proprio “Assassinio sul Nilo”, dove già s’intrecciano i destini del bello e squattrinato Simon Doyle innamoratissimo di Jacqueline de Bellefort la quale si dà la zappa sui piedi quando gli presenta la sua migliore amica, la straricca ereditiera Linnet Ridgeway, da sempre abituata a far suo quel che desidera: manco a dirlo, i due dopo sei settimane saranno già convolati a più (per loro) o meno (per la tradita) giuste nozze, con tanto di viaggio di nozze sul Nilo, con amici e parenti, tra fiumi di champagne, un po’ appartata Jacqueline, lì a rodersi e a meditar vendetta, imbucata come la Discordia alla cena dell’Olimpo.
Fin qui parrebbe tutto bene. Ma Dame Agatha Christie non saprà mai che cosa le ha combinato il bieco sceneggiatore Michael Green – già collaboratore dell’interprete e regista Kenneth Branagh nel precedente “Assassinio sull’Orient Express”: gran successo con i trecentocinquanta milioni che s’è portato a casa, traguardo certo non più raggiungibile, sia per i tempi grami in cui viviamo sia per la débâcle del prodotto, manco fosse un soufflé sgonfio – sconvolgendo e pasticciando il suo matematico romanzo. Non è che ci scandalizziamo (fino a un certo punto però: c’è una storia, perché non seguirla, non certo freddamente ma neppure prendendosi certe troppo spudorate libertà) se i due ribaldi accomunano tempi e luoghi, se mandano a quel paese personaggi per inventarne altri di sana pianta, se in obbedienza alle leggi hollywoodiane di oggi inventano personaggi di colore o mutano un semplice rapporto di datrice di lavoro e infermiera in una liaison di sapore lesbico da sempre taciuta, se il pacifico detective ci è mostrato mentre insegue e tenta di far fuori l’assassino con un’accetta. Veri birbaccioni, ma forse ancora perdonabili. Ma che direbbe se la terza vittima è un’altra rispetto a quello che lei, dame Christie, ha inserito per il lavorio delle piccole cellule grigie del suo detective? Se quel perfetto ingranaggio da lei scritto, con la narrazione che si srotola pagina dopo pagina e sempre più t’appassiona, con i personaggi che prendono corpo e s’impongono e sfuggono e si portano appresso sospetti, con le argomentazioni finali preziose come un intarsio, se quell’ingranaggio prendesse altre strade o diventasse anche motivo di noia, che direbbe dame Christie? I fatti narrati s’avvicendano l’uno dopo l’altro, senza mostrare decisive emozioni, senza un ritmo che le trascini, e la razionalità di Poirot pare non poche volte passare in secondo piano. Branagh si rifugia nella ricercatezza delle inquadrature, che hanno tuttavia il sapore del “guarda un po’ che cosa so combinarti io adesso”. Un po’ poco.

Un neo, e non da poco, le tante facce sconosciute che circolano attraverso il film, a cui oltretutto è sufficiente di mostrarsi in un modo molto anonimo. Anche Branagh non sa che pesce prendere con il suo Poirot, è debole. Pensate all’edizione del 1978, diretta da John Guillermin, con un impareggiabile Peter Ustinov al timone: c’erano Bette Davis, David Niven, Maggie Smith, Angela Lansbury e Mia Farrow, solo per citarne alcuni, tutto un altro divertirsi. Grossa delusione per la giallista più amata al mondo. Aspettiamo Branagh con il suo “Belfast” che esce in settimana, già vincitore ai Golden Globe per la miglior sceneggiatura (la scrittura è tutta sua) e che con le sue sette candidature agli Oscar lo lascia ben sperare. E sarebbe un buon modo per farci scordare il brutto, imbarazzante passo falso.

Il mondo dello spettacolo, un gruppo di ragazze e ragazzi, aspiranti attori e cantanti, ballerini, in un continuo alternarsi di successi e piccole delusioni. Il mondo dei provini e delle audizioni, dei talent che possono aprire ogni porta, di un successo improvviso che ti potrebbe imporre come stella di prima grandezza, una scommessa all’estero che potrebbe farti fare un bel salto nel mondo internazionale. Un gruppo dove circolano affetti e amicizia, storie d’amore che si sgonfiano come sono sbocciate o avventure che mescolano improvvisazioni e sesso, quando si arriva al dunque cui tutti aspirano. Magari anche un briciolo più o meno grande di invidia, ti verrebbe da pensare. Al centro del gruppo è “Il fidanzato di tutte” – autori Francis Jackets e Jérôme Dagneau (viene il dubbio che, almeno in buona parte, qualcuno si nasconda dietro questi nomi, qualcuno vicino a Torino Spettacoli? e poi: quanto c’è di aggiornato o di autobiografico nelle parole di Luca e dei suoi compagni?), regia di Girolamo Angione, in scena all’Erba sino a domenica 20 -, ovvero quel Luca, bello, spigliato, rubacuori, “dongiovanni mordi e fuggi”, casanova senza freni, che cerca di far innamorare tutte le ragazze che gli capitano a tiro, avventure sui due mesi e niente più, sicuro di far breccia ma sempre lasciato a bocca asciutta: e così, con tutta la debolezza che fa da contraltare alla spudorata esistenza di ogni giorno, si rifugia nei consigli di una invisibile quanto ironica psicologa (il lettino delle confessioni è al centro della scena firmata da Gian Mesturino), o tenta di fare suoi i face time che il primo amore, un’attrice più grande di lui ormai ritiratasi lontano dai palcoscenici, nella tranquilla casa in riva al lago, gli elargisce, pieni di ricordi e di speranze verso il futuro soprattutto, con il grande e materno comandamento di abbracciare in maniera definitiva e seria il teatro. Nel tentativo di rimettere ordine nella sua vita sentimentale e di dar corso ai suoi progetti di lavoro, Luca dovrà anche accorgersi che i sentimenti più autentici gli vengono da un amico del gruppo, che forse per troppo tempo se ne è rimasto zitto.

Sopra tutto e sopra tutti, sovrasta imperiosa la figura del capitano Achab, con la sua presunzione, con la propria tracotanza, con la violenza ardita che usa nel confronto degli altri e di se stesso, Nei confronti della natura: e quanto si dimostri attuale il testo lo testimoniano le tragedie che l’uomo ha saputo costruire attorno a sé. Elio De Capitani, riprendendo dopo decenni il testo wellesiano mai più rappresentato e creandone un capolavoro (in special modo nel secondo atto c’è da inchinarsi alla poesia – crudele sì, sanguigna, ma sempre poesia – che invade il palcoscenico del Carignano per questa produzione targata Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale, nella traduzione in versi sciolti di Cristina Viti, in replica sino a domenica 20), ricopre, come già l’autore, quattro ruoli (Achab, Re Lear, padre Mapple e il capocomico), uscendo dall’uno per entrare nell’altro, in una immedesimazione che è uno dei punti più alti dello spettacolo, in un suggestivo alternarsi di parole e di azioni, di rabbia e di sentimenti, di correzioni e di nuovi indirizzi interpretativi. “Continuiamo a generare odiatori, novelli Achab”, sottolinea De Capitani: forse l’area di pace la si può ritrovare nel teatro, sulle tavole di un palcoscenico, “adesso potete tirare chiudere il sipario”.

