“C’è un cadavere in giardino” sino a domenica al Gioiello
Prolifico scrittore, Norm Foster è considerato a ragione l’erede del (forse) più celebre Neil Simon, spunti indovinati e ricca di sorpresa, scrittura vivacissima, personaggi che spremono sino in fondo tutta l’allegria – come anche le confessioni amare – con cui lo scrittore li ha costruiti. Nella versione di Pino Tierno e Consuelo Versace, arriva oggi da noi “C’è un cadavere in giardino”, per la regia tutta sprazzi e divertimento di Silvio Giordani, fino a domani al Gioiello (stasera alle ore 21, domenica alle ore 16).

Con un titolo che avrebbe fatto la felicità della maestra Agatha Christie, è la storia di una coppia di attori cresciuti nella mediocrità che un giorno ha fatto il gran salto del successo e del benessere. Come? Improvvisandosi, ma accalappiando un numero più che consistente di pubblico, guru dell’”auto-aiuto” (“Self Help” suona il titolo originale), ovvero come scrivere manuali di poco conto, spandere consigli da quattro soldi, mantenere quel tenore di vita, grandi alberghi limousine conferenze e vendite, che fa gridare subito al miracolo. Ma la dabbenaggine di troppi, cronache neppur troppo antiche ce lo hanno raccontato, non aspetta altro. Tutto procede a gonfie vele e in una traballante serenità, se si escludono gli improvvisi furori erotici della signora: che un bel giorno coinvolgono l’appetitoso giardiniere di casa. Sino al decesso di costui. C’è da sbarazzarsi del cadavere, mentre in casa circolano una cameriera che ha fatto dei loro insegnamenti la propria ragione di vita, eccentrica, tutta precisina, leggermente fuori di testa; una press agent a cui non pare vero di scorgere, all’occasione, un certo realistico riavvicinamento tra i padroni di casa, lui ha subodorato tradimenti e per un bel periodo ha perso ogni interesse verso la consorte; un giornalista d’assalto dedito alle inchieste e desideroso più di ogni altro di svelare i tanti lati oscuri della coppia; un tenente della polizia distrattamente alla ricerca del morto.
Il cadavere che “passeggia” per il palcoscenico nascosto in un tappeto e raggiunge le stanze come nascondiglio, il giardino come ultimo, sempiterno rifugio, porte che s’aprono e si chiudono (scena di Mario Amodio gustosamente alla Feydeau), ficcanasi impenitenti, tutto ha bisogno di ritmo e soprattutto di veder mantenuto quel marchingegno a orologeria, senza se e senza ma, che l’autore gli ha impresso, tra l’inquietante e il divertente, veloce e quasi ossessivo.
Le promesse sono mantenute, la girandola di situazioni e di battute (i temi sessuali sono imperanti) che strappano la risata, i doppi sensi a manciate che rallegrano, i campanelli e gli squilli dei citofoni di casa, le incursioni satiriche, il clima di complicità che si stabilisce tra il pubblico e gli attori, ogni cosa fa bene alla serata. Se s’intravede qualcosa di scontato o di ripetitivo qua e là, tutto è prontamente rimesso in riga dal gran mestiere di tutti gli attori in scena, da Miriam Mesturino, fiammeggiante padrona di casa, tutta ardori e terrori, solo per un attimo pronta a rifugiarsi nella scalcagnata quanto tranquilla vita di un tempo, a Sergio Muniz, marito troppo comprensivo e sonnacchioso, affaccendato a ristabilire equilibri e abituale trantran, eccellente dispensatore d’ironia, da Valentina Maselli a Luca Negroni a Giuseppe Renzo, alla divertentissima, applauditissima Maria Cristina Gionta, cameriera dei signori. Un successone.
Elio Rabbione
La più eterea stella del cinema italiano, l’altera e sognante Caterina Boratto, torinese, classe 1915, nata in un edificio Liberty in corso Francia, è sempre stata una donna di una bellezza classica, di un’eleganza innata, altera, un pò malinconica, e con lo sguardo da regina; per il grande regista Federico Fellini, “una donna dalla regalità completa”. Dopo aver frequentato il liceo musicale, su segnalazione di Evelina Paoli, una delle maggiori attrici teatrali del primo Novecento, cliente della pellicceria della mamma, nel 1937 esordisce inaspettatamente a soli 22 anni nel cinema come protagonista del film “Vivere!” di Guido Brignone, nella parte della figlia del celebre tenore Tito Schipa. Un successo nazionale e internazionale che le spiana la strada per Hollywood, dove frequenta Joan Crawford, Lana Turner, Spencer Tracy, Judy Garland e persino il grande scrittore Francis Scott Fitzgerald. Ma il suo debutto viene continuamente rinviato. E come tutti i sogni, allo scoppio della guerra, dopo tre anni di lavoro preparatorio negli studios per il debutto, il sogno s’infrange e con un viaggio di ritorno per mare, durante il quale Caterina viene scambiata per una spia, a causa dei timbri tedeschi di Berlino dove era andata a presentare “Vivere!”, rientra in Italia, a Torino. Sposa nel 1944 Armando Ceratto, uomo della Resistenza che riunisce il Comitato di Liberazione Nazionale nella sua clinica privata, la Sanatrix, una delle più importanti d’Europa per l’eccellenza di medici come Achille Mario Dogliotti, il chirurgo torinese dei casi disperati. E per circa una decina di anni la Boratto si ritira a vita privata e riprende a dare concerti come soprano. A ripescarla negli anni Sessanta è Federico Fellini che aveva conosciuto nel 1943 sul set di “Campo de’ Fiori”, il film con Aldo Fabrizi e Anna Magnani, l’ultimo girato prima del suo lungo distacco dal mondo del cinema. L’incontro avviene a Roma, Fellini la nota casualmente per strada mentre lei sta uscendo da un grande magazzino in una traversa di via della Croce. Caterina su suggerimento del regista Guido Sacerdote indossa un grande cappello marrone perché a Roma nessuna donna portava il cappello. Fellini, la nota, la riconosce, si fermano a parlare e l’istinto, così spesso decisivo, lo porta a chiederle di interpretare la parte della misteriosa ed elegante signora che appare in più di una scena del capolavoro “8½”. Nel 1974 avviene il folgorante incontro con Pier Paolo Pasolini che vuole la Boratto a tutti i costi in “Salò, le 100 giornate di Sodoma”; si dedica diretta da Filippo Crivelli anche all’affascinante esperienza dell’Operetta; interpreta Madama Pace in “Questa sera si recita a soggetto” per la regia di Giuseppe Patroni Griffi; nel 1987 partecipa al film di Luciano De Crescenzo “32 dicembre” e nel 1990 arriva l’incontro con Gigi Proietti per la realizzazione della situation-comedy “Villa Arzilla”. Un periodo di grande allegria, serenità e spensieratezza per il suo ritorno a Torino, dove negli 800 metri dello Studio 1 del Centro di Produzione Rai di via Verdi, il regista ricostruisce quattro ambienti ed un salone dove gli arzilli, sorridenti e vivaci protagonisti, i grandi Ernesto Calindri, Giustino Durano, Marisa Merlini e Fiorenzo Fiorentini si incontrano e scontrano per il divertimento dei telespettatori. La Boratto è la Greta Garbo di “Villa Arzilla”, un’ex attrice che non abbandona mai i suoi atteggiamenti da Diva.


