SPETTACOLI

Petrenko alla Rai: quando la bacchetta diventa linguaggio

Di Renato Verga

Non serve cercare un filo rosso tra i brani del secondo concerto della stagione sinfonica Rai: il vero
tema della serata era uno solo, Kirill Petrenko. È per lui che l’Auditorium Toscanini di via Rossini
si è riempito in ogni ordine di posti. È per lui che il pubblico torinese, da giorni in fermento, si è
lasciato trascinare in una nuova, magnetica lezione di direzione orchestrale. Otto volte sul podio
dell’Orchestra Sinfonica Nazionale Rai in più di vent’anni, Petrenko ha con questa formazione
un’intesa speciale, costruita sulla fiducia reciproca e su un linguaggio condiviso che non ha bisogno
di parole.

Il pubblico sarebbe accorso anche se in programma ci fosse stato Fra Martino campanaro. Ma, per
fortuna, la serata offriva ben altro: un viaggio nel Novecento mitteleuropeo e un ritorno luminoso al
classicismo di Beethoven.

Janáček e Bartók, il folklore senza confini

La prima parte del concerto accosta due autori lontani solo in apparenza. Leoš Janáček e Béla
Bartók guardano entrambi alle radici popolari, ma senza indulgere nei colori pittoreschi o nel
nazionalismo accademico di Smetana e Dvořák. Per loro il folklore non è cartolina, ma linguaggio:
una grammatica nuova con cui ridisegnare la musica dopo la crisi della tonalità.
Nelle Danze lachiane, Janáček distilla il canto moravo fino a renderlo struttura viva. Petrenko lo
accompagna con una delicatezza sorprendente, come se accarezzasse le pieghe di una lingua
arcaica. Il tono pastorale della prima danza, il lirismo tenero della seconda, la rude energia della
terza — il “martellare del fabbro”, come lo chiamava il compositore — vengono disegnati con
precisione millimetrica, ma mai fredda. L’orchestra risponde con un suono terso e flessibile, i legni
chiacchierano come in una scena di villaggio, gli archi danzano con leggera ironia. Nella sesta
danza, la musica esplode in un tripudio di ritmo e luce: Petrenko la fa vibrare con gioia quasi fisica,
trasformando la sala in un paesaggio sonoro di colline e vento.

Poi, di colpo, il quadro bucolico svanisce. Con la suite da Il mandarino meraviglioso di Bartók, il
direttore ci trascina in un’altra dimensione: quella oscura e febbrile della città moderna. Il racconto
di Melchior Lengyel – sesso, denaro, morte – trova nella musica un corrispettivo visivo e viscerale.
Petrenko dirige con lucidità chirurgica: ogni dissonanza, ogni contrazione ritmica ha un senso
preciso. Il suono è barbarico ma non brutale, illuminato da una tensione interiore che ne svela la
logica. Il clarinetto seduce, gli ottoni esplodono, le percussioni feriscono. E poi, nel finale, la
trasfigurazione: le dissonanze si sciolgono in una luce impalpabile, quasi un perdono. Petrenko
riesce a rendere questo passaggio con una spiritualità rarefatta, sospesa tra dolore e redenzione.

Beethoven: la chiarezza come emozione

Dopo tanta energia tellurica, serve un intervallo per respirare. Ma il ritorno in sala è una rivelazione:
la Seconda Sinfonia di Beethoven, che sotto la bacchetta di Petrenko diventa un inno alla vitalità,
alla costruzione lucida, alla gioia come forma di resistenza.

Il direttore ridisegna la partitura come un prisma di luce. L’introduzione lenta è un respiro
trattenuto, l’Allegro con brio un turbine di idee. Tutto è controllato ma mai ingessato: le
modulazioni insolite, tanto criticate dai contemporanei, diventano per Petrenko un terreno di

scoperta. Il dialogo fra le sezioni è un esercizio di equilibrio miracoloso: legni che cantano come in
Mozart, timpani che punteggiano con eleganza, archi che respirano insieme, come un organismo
unico.

Lo Scherzo è un piccolo prodigio: ironico, leggero, ma sempre sotto tensione. Petrenko lo
costruisce con mani d’orafo, misurando ogni dinamica come un regista della parola musicale. E
quando arriva il Finale, la sinfonia diventa un’esplosione di energia controllata: un gioco ritmico in
cui la chiarezza si fa emozione, e la gioia non è mai superficiale.

Il gesto del direttore – asciutto, preciso, magnetico – traduce il pensiero in suono con una
naturalezza che dovrebbe essere studiata nei conservatori. Ogni movimento delle mani ha un senso,
ogni sguardo accende una risposta immediata nell’orchestra. Alla fine, il pubblico esplode in un
applauso al calor bianco, ma sono gli stessi musicisti, con il loro sorriso riconoscente, a dire la
verità più profonda: con Petrenko sul podio, suonare è un atto di felicità.

“Il Treno dei Desideri” in scena a Rivara

Domenica 19 ottobre, alle ore 16, presso il teatro di Rivara, andrà in scena lo spettacolo “Il Treno dei Desideri”, scritto e interpretato dalla bravissima Roberta Belforte, che sta riscuotendo data dopo data un importante successo.

Alle 15.30, mezz’ora prima dell’inizio, il pubblico è invitato a partecipare a una dedica, da parte del teatro di Rivara, a una persona speciale.
“Il Treno dei Desideri” accompagna Linda, interpretata dalla Belforte, in un viaggio tra ricordi, incontri inattesi e soste sorprendenti. Tra partenze e ritardi, ogni tappa della pièce invita a scegliere, a confrontarsi con il passato e a guardare dritti verso il futuro con coraggio e un pizzico di follia.
Linda, come ognuno di noi, cerca risposte: salirà su un treno diretto a Napoli per ricucire con un amore ormai prigioniero del passato. Ogni tappa lungo il tragitto andrà a simboleggiare il carico emotivo che il futuro chiede per trasformarsi in realtà, ogni incontro determinerà nuove consapevolezze lungo il suo cammino.
Roberta Belforte, attrice, autrice e voce versatile, intreccia energia e sensibilità in ogni scena, portando esperienza teatrale, cinematografica e televisiva in un racconto che resta nel cuore.
Teatro di Rivara – via Bartolomeo Grassa 9, Rivara
Info e prenotazioni: 371 1420624
Gian Giacomo Della Porta

La simpatia e la passione di una avanzata terza età

Nel cartellone del Festival delle Colline

Bien sympa!, potrebbe essere il giudizio da dare a “La vie secrète des vieux” visto al Festival delle Colline, una fitta coproduzione tra tante realtà teatrali, a cominciare dal Festival d’Autumne di Parigi o dal Théâtre National Wallonie di Bruxelles, dal Festival d’Avignon o dalla Comédie de Genève, una sorta di Villa Arzilla dove un gruppetto sempre meno fitto di orgogliosi vegliardi si mette a informare un pubblico – alla fine divertitissimo – delle proprie ancora prodezze sessuali. Dico “meno fitto” dal momento che da una precedente distribuzione si contavano, “in ordine di longevità” capace di superare il secolo, ben tredici rappresentanti mentre l’altra sera, sul vasto palcoscenico dell’Astra, sgambettavano soltanto più in sei, qualcuno sicuramente perso per la strada, con conseguente differenza di durata dello spettacolo, una visibile su un piccolo schermo, ex annunciatrice di una qualche tivù, un paio, Anna e Georges, deceduti negli ultimissimi anni, i compagni pronti di lui a mettere in bella mostra l’urna delle ceneri perché sia ancora lì a prendere parte in qualche modo allo spettacolo.

Ed eccoli lì allora, guidate e guidati dall’affetto (e dalla realizzazione) di Mohamed El Khatib, sotto le cure e le altrettante narrazioni e attenzioni di una giovane accompagnatrice, che terminerà a cantare come Céline Dion sul ponte del Titanic in uno slancio canoro e non soltanto, affettuoso ognuno all’insegna del the show must go on, i vari Micheline Chille Jean-Pierre Annette Jean Paul, a dire dei propri corpi che non sono più quelli di un tempo, di quel vicino di stanza per cui una passione rimane, del primo orgasmo avuto a 65 anni, dei baci rubati su una panchina, del piacere di una sauna (con tanto d’indirizzo, tra i presenti non si sa mai…) con quei ragazzi che possono trovare piacere con un vecchio e lui con loro, di una serie d’amori etero felicemente stabilizzati in una relazione lesbica. Il desiderio che si può vestire di nuovi abiti, il reinventare la propria sessualità, intimità, chiacchiere, affettuosità, amori, divertissements solitari che coinvolgono l’uno e l’altro sesso, sorrisi e risate, allegria e confessioni aperte, fragilità e ribellioni pronte a combattere contro la cerchia familiare, gli “attori” (ma una sola lo è di professione, tutti gli altri non hanno nessun curriculum alle spalle) a divertirsi e a divertire, non esclusi canzoni e passi di ballo: vita vissuta o almeno crediamo presa a prestito, un documentario di parole, esperienze da trasmettere, tutto molto simpatico, dicevamo all’inizio. Non abbiamo partecipato a una serata “teatrale” ma ci siamo divertiti.

Elio Rabbione

La pièce “Salām/Shalom. Due padri” apre la stagione del Baretti

Si inaugura sabato 18 e domenica 19 ottobre 

La stagione 2025/2026 del teatro Baretti si inaugura sabato 18 ottobre, alle ore 21, (sold out) e domenica 19 ottobre, alle ore 16, con la pièce “Salām/Shalom. Due padri”, uno spettacolo di e con Massimo Somaglino e Alessandro Lussiana, dal romanzo “Apeirogon” di Colum McCann, per l’adattamento di Paolo Fresa. Si tratta di una produzione  del Teatro Stabile d’Innovazione del Friuli Venezia Giulia e Festival Vicino-Lontano Premio Terzani.

In un periodo così doloroso e complesso per ciò che sta accadendo in Medio Oriente, la stagione teatrale “Aurea Familia” del teatro Baretti, con la direzione di Sax Nicosia, sceglie di aprire con un segnale forte per la pace, “Salām/Shalom. Due padri”. Una storia che intreccia vite, affetti e scelte, storie contemporanee, verità e paure. Tratte dal romanzo “Apeirogon” di Colum McCann, straordinaria opera che ha vinto il Premio Terzani nel 2022, lo spettacolo è una testimonianza necessaria davanti all’orrore in Palestina. L’autore, McCann, ha raccolto nei milleuno frammenti che compongono il romanzo i brandelli di un conflitto apparentemente senza soluzione, già da prima dell’ormai tristemente noto 7 ottobre, e che oggi ha dato luogo al genocidio cui stiamo assistendo. Infiniti sono i lati del poligono chiamato Apeirogon, da cui il libro prende il titolo, come infiniti sono i punti di vista da cui due padri, l’israeliano Rami e il palestinese Bassam, persone reali che McCann ha conosciuto, cercano di comprendere una realtà troppo complessa per essere osservata e giudicata da un unico lato. Due padri, portati sulla scena da Massimo Somaglino e Alessandro Lussiana, sono uniti dallo stesso strazio indicibile per la perdita delle loro bambine, uccise dalla guerra dell’altro; due padri che hanno avuto il coraggio di diventare uomini di pace e di imbracciare come unica arma il loro dolore contro la tentazione della vendetta e la trappola dell’odio.
Abbracciarsi, tenersi la mano, guardarsi negli occhi, ascoltarsi, piccoli gesti normali per tempi normali. Per tempi di pace. Gesti eroici, quando il tempo della guerra devasta le vite degli uomini. Infiniti gli sguardi, come mutevoli sono le cose del mondo, luogo del caos e del rischio. Dentro questo caos vi sono due padri con lo stesso dolore e la stessa forza, che cercheranno di trasformare le parole dell’odio in parole di pace. Nella geometria dell’Apeirogon ogni luogo è raggiungibile, ogni punto può essere toccato anche quando sembra impossibile.

Lo spettacolo è uno degli appuntamenti del progetto artistico e umano “Come ali sulle radici”, che unisce teatro e comunità, mettendo al centro la persona nelle relazioni, realizzato nell’ambito di “Torino che Spettacolo !”. Le attività ideate da Baretti ETS, Alma Teatro e Scuola Popolare di Musica intrecciano trasmissione intergenerazionale, integrazione culturale e dialogo inclusivo. Il progetto propone un teatro vivo, accessibile, capace di accogliere il nuovo senza perdere il legame con la memoria e le sue radici.

Cineteatro Baretti – via Baretti 4, Torino

Informazioni e biglietti su www.cineteatrobaretti.it

Gian Giacomo Della Porta

Diego Pleuteri, giovane scrittore, primo direttore artistico junior dello Stabile

Complice in questi giorni al Carignano, con il compito di adattatore e traduttore, del progetto “Amleto” con il regista Leonardo Lidi, Diego Pleuteri (classe 1998) – da quest’anno già drammaturgo residente dello Stabile – è stato nominato dal Consiglio di Amministrazione della Fondazione del Teatro Stabile di Torino nel ruolo di direttore junior. Per la prima volta, nuovo festeggiamento per il settantenario del Teatro, affiancherà il direttore artistico Valerio Binasco “nello sviluppo di quella parte di programmazione dedicata alla ricerca di nuovi artisti nazionali e internazionali e nuovi spettacoli da proporre al pubblico, con una particolare attenzione ai talenti emergenti e ai nuovi linguaggi delle arti formative, favorendo così il ricambio generazionale.”

Una giovanissima età ma una carriera di tutto riguardo. Pleuteri, dopo aver frequentato il Corso di Scrittura per lo Spettacolo della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, si è diplomato alla Scuola per Attori del TST, allievo di Lidi. Ha già all’attivo numerosi testi, “Madri” (2019) vincitore del Premio Eurodram, “Come nei giorni migliori” (2023), testo di vasto successo, rappresentato anche a Roma e Milano, per la terza volta in programma nel corso della presente stagione (alle Fonderie Limone, dal 3 al 15 febbraio 2026; il testo è stato segnalato quest’anno al premio Carlo Annoni, è stato pubblicato dalla casa editrice SuiGeneris e nel ’26 verrà promosso nella versione in lingua bulgara dal Theatre 199 Valentin Stoychev di Sofia). Nel 2024 Pleuteri ha scritto “Appello all’Europa”, con debutto a Bad Ischl, in Austria, e l’anno prossimo l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi proporrà la rappresentazione di tre suoi testi, “Come nei giorni migliori”, “Tutto in me è amore” e “Madri”.

Nel prossimo mese di aprile, ancora per la stagione dello Stabile torinese, Pleuteri vedrà rappresentato l’ultimo suo testo, quel “Resteremo per sempre qui buone ad aspettarti” che per ora vede l’attrice Marta Malvestiti unica scritturata. La regia sarà ancora una volta affidata a Lidi. È la storia di Briciola, Luna e Wanda ovvero una cagnolina, una gatta e un pesce rosso di sesso femminile, improvvisamente sole, lasciate dal loro padrone uscito per recarsi sul posto di lavoro. Nell’attesa giocano, abbaiano e miagolano, girano in tondo, dormono e sognano, imparando a confrontarsi con un affetto che manca, con qualcuno che è assente e che li nutre. L’autore promette un testo che sotto la scorza della favola è altresì “una metafora della sopraffazione a cui si è sottoposti, a vari livelli, da una società fintamente empatica.”

Elio Rabbione

Nella foto di Estelle Valente, Diego Pleuteri.

“I Nomi e le Voci”, al teatro Erba il “Monstrum” della poesia di Roberto Mussapi

Nella serata di martedì 14 ottobre, presso il teatro Erba di Torino, è andato in scena “I Nomi e le Voci” di Roberto Mussapi, un grande e ispirato esempio di teatro-poesia prodotto da Torino Spettacoli. Sul palco, insieme all’iconica Miriam Mesturino, che con il suo personaggio Didone condivide fascino passione, i talentuosi e pieni di grazia Roberta Belforte e Matteo Anselmi, l’incantevole voce del soprano Danae Rikos sulle note al pianoforte di Andrea Bevilacqua e alcuni ragazzi e ragazze dei G.E.T. Germana Erba’s Talents (Matilde Dalla Verde, Gaia Del Papa, Elisa Frangelli, Miriam Iezzi Mammarella, Fiamma Laiolo, Angelo Marchianó, Simone Marietta e Matilde Tacconi) che, della poesia, tanto hanno rappresentato la sua infinita gestualità di volo e gioventù, sapientemente curata dal regista Girolamo Angione e dalla coreografa Laura Fonte.

Il protagonista assoluto di questo spettacolo, cifra stilistica riscontrabile in tutta l’opera di Roberto Mussapi, è quel “Monstrum”, inteso come prodigio, segno divino, di cui si nutre la poesia quando diventa catalizzatrice di eventi, sentimenti, passioni e personaggi che vivono grazie a questo ispirato e mostruoso centro d’energia universale. In letteratura, nei classici, dalla figura di Achille in avanti, ricorre spesso questa potente voragine associata al personaggio, che a sua volta metamorfizza in voce, gesto o strumento d’espressione della poesia stessa: viene naturale pensare al capolavoro di Melville, “Moby Dick”, il cui protagonista, Achab,  può essere cantato nelle sue gesta soltanto da Ismael, portatore della voce poetica, ma molto somiglianti in queste caratteristiche possiamo trovare Dracula di Bram Stoker, la cui sofferenza per il perduto amore lo condurrà alla grazia del perdono nell’incontro con Mina Murray, o ancora Don Giovanni. In Mussapi, chiaramente, questo “Monstrum” è la stessa poesia: un’ispirazione che si impossessa del poeta per far sì che ogni cosa intorno possa avere un nome, una voce.

Questo spettacolo sembra ripercorrere il concetto classico dell’universalità, nel tempo e nello spazio, legato alla poesia. Le immagini da essa evocate, che nella sola lettura possono essere sentite e percepite, sono diventate palpabili, “cinematografiche” (come a fine spettacolo le ha definite Mussapi stesso, presente in sala, riferendosi al Tuffatore di Paestum interpretato da Matteo Anselmi), un coro che ha unito il significato del suono a quello della parola, nell’armonia finale di voci diverse che la poesia ha saputo fondere in quella che il poeta portoghese Fernando Pessoa definì “una sola moltitudine”.

“Attingendo dalla silloge ‘I Nomi e le Voci’ – ha raccontato il regista Girolamo Angione – si sono scelti alcuni altri monologhi in versi, prediligendo quelli ispirati a personaggi del mito o del mondo antico: accanto a Didone ed Enea, Arianna, Cassandra, la Ninfa Eco e il Tuffatore di Paestum. Ciascuno di loro, confinato come un’ombra nel regno dei morti evoca con toni a tratti dolenti e malinconici ma sempre profondamente umani, la propria esperienza terrena illuminata dalla forza vitale dell’amore. E di ciascun personaggio, ogni monologo esprime una profondità del sentire e una verità esistenziale che sorprende e avvince. Il verso a teatro è un lusso: per l’attore, anzitutto, che nel verso si astrae dal linguaggio prosastico e nella parola poetica trova la voce con cui dirla, l’emozione della musicalità, la misura del gesto, la vibrazione del corpo; e il disegno del personaggio, nel riverbero della poesia, s’arricchisce di nuove sfumature e rivela profondità insospettate e un respiro che dà nuova vita al suo nome stesso. Parola/Voce, Musica, Gesto: questi gli elementi di una messa in scena che si è voluta essenziale e figurata ad un tempo e in cui ciascuna componente mantiene e accresce, nella necessaria autonomia, il proprio valore assoluto; configurando però nel quadro composito d’insieme, un esito che ci proponiamo equilibrato ed armonico. La musica  (Ravel l’autore prescelto per il perfetto equilibrio formale tra emozione e intelletto) non prevarica mai la parola, ma ne amplifica, semmai, il senso più intimo, il portato affettivo e dei sentimenti. protagonista assoluto, personaggio invisibile, ombra tra le ombre nel suo viaggio di ricerca ed esplorazione, a più riprese invocato dalle ombre che anelano a lui, è il poeta; autentico demiurgo, con l’atto creativo della sua parola, il poeta riporta quelle ombre alla luce della memoria e, per tutti noi, ridà loro la vita e la voce sulla scena del teatro e della poesia. Per questo, per la straordinaria occasione che ci offre, a Roberto Mussapi vanno tutta la nostra riconoscenza e gratitudine”.

Gian Giacomo Della Porta

“Unicum”, la nuova rassegna teatrale di “Onda Larsen”

Al torinese “Spazio Kairos” di via Mottalciata

Dal 17 ottobre al 10 maggio

Titolo impegnativo, quello della nuova stagione teatrale organizzata dalla Compagnia Teatrale “Onda Larsen” (associata “Arci”, attiva in città e in  tutt’Italia dal 2008), allo “Spazio Kairos”, ex fabbrica convertita in teatro, in via Mottalciata 7, tra “Barriera di Milano” e “Aurora”, a Torino. “Unicum”! Come dire “pezzo unico”, opera particolarmente singolare, un “unico” nel suo genere! Impegnativa la scelta, dunque, non meno dell’esecuzione. In grado, però, di assolvere ad entrambi i compiti i componenti della “squadra attoriale” (che prende il nome da Søren Larsen, ingegnere danese che scoprì l’“effetto Larsen”, fenomeno acustico di “feedback” indesiderato, nel 1910 mentre era a servizio della “Marconi Company”), gli attori professionisti Riccardo De LeoGianluca GuastellaLia Tomatis e l’organizzatrice Chiara Agui.

Il cartellone ha in lista ben 27 spettacoli, selezionati in giro per l’Italia e proposti da Compagnie e artisti del panorama indipendente, che “spiccano per creatività e innovazione” proposte sul palco. Ecco il perché del titolo!

Si  inizia, venerdì 17 ottobre (ore 21) con “Dieci modi per morire felici” dell’Associazione teatrale emiliana “Autori Vivi” (con sede a Boretto – Regio Emilia) “Teatro ERT / Teatro Nazionale”, e con un testo molto apprezzato da pubblico e critica, scritto e diretto da Emanuele Aldrovandi e interpretato da Luca Mammoli.

Poi (andando per estrema sintesi), sempre dall’Emilia ma da Bologna, arriva Angelo Colosimo con il suo “A.s.p. Armata Spaccamattoni”, mentre da Milano giungono allo “Spazio Kairos” Fabrizio Martorelli, che propone “Canto di Natale” di Charles Dickens oltre a una “masterclass” dedicata a La parola dell’attore: agire e scrivere per la scena”, e  Massimiliano Loizzi, con “Fabulae – Un monologo sulla disparità di genere”.

“Chronos3 / Industria Scenica” di Brescia presenta, e siamo a giovedì 27 marzo“A casa lo sapevo”, mentre “Teatri d’Imbarco” di Firenze torna, giovedì 17 aprile, a Torino con “Quanta strada ha fatto Bartali!”.

Come sempre, anche quest’anno, non mancheranno i riflettori sulle “Compagnie torinesi”. Ricordiamo per tutte “LabPerm” che presenta un testo liberamente ispirato a “Istruzioni per rendersi infelici” di Paul Watzlawick, “Crab Teatro” con “Memoria del vuoto”, dall’omonimo romanzo di Marcello Fois, e la Compagnia “Operazione Miro” con “Oasi Kebab”.

La rassegna torna a proporre, anche per quest’edizione, in calendario da mercoledì 5 marzo, la settimana della “stand up comedy”, genere che riscuote sempre più interesse, soprattutto tra i più giovani. All’interno è previsto il debutto nazionale di “Jukebox comedy” di Giulia Pont“Recital” di Walter Leonardi, l’anteprima regionale di “Oh my gods” del torinese Francesco Giorda, e “Flusso d’incoscienza” con Paolo Faroni.

 La chiusura della stagione, a maggio, sarà invece affidata al debutto nazionale di “Onda Larsen”, ancora in fase di creazione. Venerdì 28 novembre, invece, viene riproposto “Una cena d’addio”, successo internazionale (scritto da Alexandre de la Patelière e Matthieu Delaporte, per la regia di Andrea Borini) di cui, in Italia, proprio “Onda Larsen” ha i diritti. Sul palco: Riccardo De LeoGianluca Guastella e Lia Tomatis.

Capitolo importante della Rassegna, quello dedicato ai bambini che prende il via domenica 2 novembre, con la proposta di 9 titoli. Tra questi, l’anteprima nazionale di “Sfavola – la non favola di tre non supereroi” scritto da Lia Tomatis e un appuntamento speciale, sabato 22 marzo, giorno in cui, in occasione della “Giornata Mondiale per  la Sindrome di Down” verrà presentato “Despresso” del “Collettivo Clochart” di Trento, scritto e diretto da Michele Comite, con protagoniste Viviana, una ragazza che sta vivendo la depressione e Giorgia, una ragazza con la “Sindrome di Down”.

Dice Riccardo De Leo, vicepresidente di “Onda Larsen”: “ ‘Unicum’ vuole richiamare fin dal titolo le realtà di  ‘teatro indipendente’ coinvolte: diverse tra loro, sperimentatrici in infinite direzioni e, dunque, uniche. Uniche’ perché, da sempre, grazie a queste loro peculiarità, rappresentano la più grande spinta al fermento creativo e innovatore del teatro”.

Per info e programma dettagliato: “Onda Larsen”, tel. 351/4607575 o www.ondalarsen.org

g.m.

Nelle foto: Scene da “Dieci modi per morire felici” e da “Una cena d’addio”

Atteso ritorno del maestro Kirill Petrenko

 Per il secondo concerto della Stagione Sinfonica dell’Orchestra Nazionale della Rai di Torino
Il secondo concerto della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, in programma mercoledì 15 ottobre alle ore 20, presso l’Auditorium Rai Arturo Toscanini di Torino, segna l’atteso ritorno di Kirill Petrenko, il grande direttore russo naturalizzato austriaco, attualmente a capo dei Berliner Philarmoniker. La serata verrà replicata giovedì 16 ottobre, alle ore 20.30, con trasmissione in diretta su Rai Radio 3, e venerdì 17 ottobre, alle 20.30, all’Auditorium Manzoni di Bologna, nell’ambito del cartellone di Bologna Festival.
Petrenko vanta un rapporto più che ventennale con l’Orchestra Rai, che diresse per la prima volta nel 2001, debuttando in Italia con un memorabile “Il Cavaliere della Rosa” di Richard Strauss, per tornare altre sei volte nel corso delle stagioni successive, toccando i repertori più svariati. Il concerto di ottobre è il suo ottavo con la compagine Rai, l’orchestra italiana che ha diretto maggiormente. Sul podio dell’OSN Rai, Petrenko proporrà Lachische Tänze (danze lachiane), prima opera matura del compositore Leoš Janáček. Una serie di arrangiamenti di danze popolari che attingono alla tradizione della terra di provenienza del musicista.
Le Danze Lachiane erano originariamente intitolate Danze Valacche, dal nome della regione della Valacchia Morava. Janáček cambiò in seguito il titolo, quando mutò anche il nome della regione, perche rifletteva i canti popolari di quell’area specifica. A seguire la Suite da Concerto tratta dal balletto “Il mandarino meraviglioso” di Béla Bartók. Si tratta di un’esplosione incandescente di vitalità ritmica e timbrica, eseguita per la prima volta da Ernö von Dohnányi, a Budapest, nel 1928, due anni dopo lo scandalo della rappresentazione integrale del balletto, avvenuto a Colonia. Scabroso infatti il soggetto di Menyhéert Lengyel: una sordida vicenda che ha per protagonisti tre malviventi, una ragazza di cui si servono per adescare clienti e poi depredarli, e un enigmatico mandarino che arde di desiderio per lei e che le darà la caccia scatenando forze sovrannaturali.
Chiude la serata la Sinfonia n.2 in re maggiore op.36 di Ludwig van Beethoven, composta nei primissimi anni dell’Ottocento. Fu composta tra il 1800 e il 1802, e fu eseguita per la prima volta il 5 aprile 1803 al Theater an der Wien, diretta dallo stesso compositore e dedicata al Principe Karl Lichnowsky. Beethoven trascorse diversi mesi a Heiligenstadt, oggi uno dei quartieri settentrionali del distretto di Döbling, a Vienna, ma all’epoca località di campagna nella quale recarsi d’estate in villeggiatura, e lì compose la Sinfonia. Con i suoi contenuti estroversi ed eloquenti, la pagina segna un passo significativo nella conquista di uno stile tutto nuovo e originale da parte del compositore, adottando per la prima volta, nel terzo movimento, la forma dello Scherzo il luogo del Minuetto.
Biglietti: da 9 a 30 euro – in vendita sul sito dell’OSN Rai e presso la biglietteria dell’Auditorium Rai di Torino.
Info: 011 8104653
Mara Martellotta

Amleto in parrucca, una tragedia piena di divertimento

Nell’anniversario dei 70 anni dello Stabile torinese

Era l’inizio di novembre 1955 quando Anna Maria Rimoaldi – che sarebbe divenuta anni dopo la preziosa collaboratrice di Maria Bellonci nella guida del Premio Strega e presidente lei stessa alla scomparsa della scrittrice – metteva in scena De Musset e Goldoni per il Piccolo Teatro della Città di Torino, sotto la direzione per un paio di stagioni di Nico Pepe. Due anni dopo cambio d’etichetta e nuova denominazione in Teatro Stabile di Torino, Gianfranco De Bosio a guidarlo per dieci anni. Tanto e tanti si sarebbero avvicendati, sino a questo nostro anno che meritatamente celebra un anniversario e tante direzioni e tanti capolavori che restano nella memoria di chi lo ha seguito. La compagine Bianchi/Fonsatti/Binasco spegne felicemente il copioso gruppo di candeline con una delle tappe cardine del teatro dei tempi e del mondo, quell’”Amleto” shakespeariano che “solo” nel maggio del ’19 il buon Binasco aveva inscenato alle Fonderie Limone, Mario Pirrello racchiuso in un paio di piccoli ruoli e oggi, in quel dramma variegato di felicissima commedia che Leonardo Lidi ha approntato per il palcoscenico del Carignano, capace d’esplodere in una padronanza e in una variegatura di intenti e di risultati per chi scrive queste note davvero da applauso incondizionato.

Giudizio che abbraccia strettamente da vicino quello per Lidi (ricordiamolo, regista residente del TST e per il trienno 2024-2027 affidatario della direzione della Scuola per Attori, di recente insignito del Premio Hystrio per la regia, “che approccia i classici con rispetto e un poco di sfacciataggine”, è scritto tra l’altro nella motivazione), passato sin qui tra Garcia Lorca e Molière, tra la “Medea” euripidea e la “Gatta” di Williams, attraverso la trilogia cecoviana che, per molti tratti, meno ci aveva convinto. Qui diverte e s’è divertito a mettere la sordina al dramma e – siccome, dice lui, l’unico teatro che conosce è “quello che non si accontenta di ripetere il passato come una reliquia”: per cui anche l’inizio del monologo più famoso al mondo verrà slungato e storpiato – ecco che si butta sulle note del divertimento, persino scendendo giù per i gradini del più becero avanspettacolo (con una serie sonora di piccoli peti, come avrebbe potuto fare un tempo l’ultimo dei guitti, per prendersi l’ennesima risata), pur non tralasciando una velatura di tristezza, a cominciare da un Amleto con la parrucca e l’atteggiamento da Pierrot triste, con la sua pancia posticcia e spropositata e una voce tra cantilena e dolore portato appresso, pur non tralasciando la fine di un regno e di una recita, dove la scena immacolata inventata da Nicolas Bovey (bianchi anche i costumi di Aurora Diamanti, unico in rosso il Claudio del sempre eccellente Nicola Pannelli), quella scalinata e quel sipario disceso, il trucco sul viso degli attori all’inizio lucente e biancastro, ogni cosa s’è disfatta. Amleto che dice “farò il pazzo” mentre qualcuno gli risponde “c’è del metodo in questa pazzia”. Come c’è del metodo, quantomai irriverente, all’insegna decisamente convincente (abbiamo scoperto l’altra sera quanto si possa andare oltre senza perdere l’assennatezza dei “pedibus plumbeis” di scolastica memoria!) del “to play” e del “jouer”, quando nella scena della recita sono coinvolti due ignari rappresentanti del pubblico, meritevoli ogni sera di entrare in locandina, istruiti a rappresentare il re e la regina assassini e infingardi, con l’intera sala che tifa per loro.

Tutto costruito e svolto in una trappola che si chiama teatro – Lidi incrocia per un attimo anche la Christie e quell’attimo diventa una trappola per topi -, un teatro che si fa società civile, “un teatro che sia luogo di coscienza collettiva” (s’è unito nelle proprie note Diego Pleuteri, adattatore e traduttore), asservito a “smascherare la corruzione del re”, utile per poggiare sui visi le tante maschere nude: per cui bisogna “trattare bene gli attori, perché sono l’essenza di un’epoca”, e Lidi e Amleto hanno il terrore che ce ne dimentichiamo e lo fanno ripetere più volte alla platea, in un crescendo collettivo. La bellezza salverà il mondo e il teatro è tanta bellezza. Lidi fa completamente suo questo “capolavoro inesauribile” e lo rende in una veste nuovissima, convinto com’è di quel “castigat ridendo mores” che è il perno della rilettura. Guardate a Rosencrantz (Alfonso De Vreese) e Guildenstern (un ottimo Christian La Rosa, anche nel maneggio di pupazzi irruenti e giudicanti e macabri e “io faccio voci” del fu Robin Williams quasi fosse un abilissimo ventriloquo), che già si ritagliarono il ruolo di protagonisti in Stoppard e qui rotolati giù, in miseria visiva, agghindati a due baldraccone da quattro soldi in un travestimento e mossette che avrebbe avuto l’applauso di Totò e Peppino. Si sarebbe tentati di pensare a una “festa” se il termine non suonasse privo di rispetto alle radici del grande Bardo, ma certo nei veloci 120’, dentro cui sono rimasti in pieno sudore sette soli attori a ricoprire dieci personaggi a confronto dei trenta e più che affollano il dramma, circola un’aria circense e uno splendente caos che rimandano al Fellini più leggero e pensoso: e ditemi, tanto per cominciare, se “quella” Guildenstern non somiglia alla Saraghina di “8 e mezzo”.

C’è gran libertà di rinnovata scrittura nella vicenda di un uomo (un ragazzo? non più) che si è fatto buffone, Lidi a gran piacimento sposta nello spazio e nel tempo (“il tempo ha smarrito il suo spazio”, e il caos continua) i momenti e le parole che abbiamo nelle orecchie, ogni frase d’importanza scivola come fosse un giocattolo rotto, ne fa un gioco che non è solo accattivante per catturare l’applauso – interverranno persino i Camaleonti di musicale ricordo – ma che è tutto in sottrazione, quasi sminuendo importanza e tragicità. Un gioco a cui s’adatta con vive lodi la prova di Pirrello, che scava, appollaiato su quel trampolino che s’affaccia in platea, nei gesti e nelle parole e nel modo stanco e ribelle allo stesso tempo di porgerle, con una fatica che ricade per la maggior parte sulle sue spalle e che lui porta con provatissima maestria. Una bella, corposa, scommessa vinta appieno. Compagni di viaggio ancora Rosario Lima come Polonio e Ilaria Falini come Gertrude, forse lasciata nella prima parte più in disordine; mi è soprattutto piaciuta Giuliana Vigogna, eccellente Ofelia, lontana dal romanticismo di un Rossetti preraffaellita ma estremamente vittima viva e palpitante, umanamente convincente, che tenta d’abbracciare gli ultimi istanti in quel nome dell’amato scritto nell’aria più e più volte. Anche per lei gli applausi senza se e senza ma di una platea che ha visto festeggiare come si deve un anniversario importante. Si replica al Carignano sino al 26 ottobre. Da vedere.

Elio Rabbione

Nelle immagini di Luigi Di Palma, alcuni momenti dello spettacolo diretto da Leonardo Lidi.