A Torino il 4 ottobre per la Giornata del Dono,
sabato 5 e domenica 6 ottobre AISM in piazza per la lotta alla sclerosi multipla
Quest’anno “La Mela di AISM” celebra il suo 30° anniversario. Nato nel 1994, questo evento,
promosso dall’Associazione Italiana Sclerosi Multipla (AISM) ha raccolto oltre 61 milioni di
euro, sostenendo la ricerca e i servizi destinati alle persone con sclerosi multipla. Oggi
l’evento continua a finanziare la ricerca e a potenziare le prestazioni necessarie per chi
convive con sclerosi multipla, NMOSD, MOGAD e patologie correlate.
La Mela di AISM anche nelle piazze di Torino
Come ogni anno, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, in occasione della
Giornata del Dono, il 4 ottobre, e nel weekend del 5 e 6 ottobre, “La Mela di AISM” tornerà
nelle piazze di Torino. I volontari di AISM, offriranno sacchetti di mele verdi, gialle e rosse,
delle varietà granny smith, golden e noared a fronte di una donazione minima di 10 euro.
Per il 30° anniversario, ritorna la borsina rossa contenente un sacchetto da 1,8 kg di mele e
un pieghevole informativo e un QR code per accedere a ricette esclusive di Chef Alessandro
Borghese. È possibile prenotare la propria borsina di mele contattando le Sezioni Provinciali
AISM, il cui elenco è disponibile sul sito www.aism.it/mela.
Chef Alessandro Borghese: 10 anni al fianco di AISM
Per il decimo anno consecutivo, Chef Alessandro Borghese è il volto della campagna La Mela
di AISM. “Da 10 anni sono al fianco di AISM per combattere la sclerosi multipla e le patologie
correlate. Solo la ricerca scientifica può aiutarci a trovare una cura risolutiva. Per questo è
importante partecipare a La Mela di AISM: cucinare è un atto d’amore, proprio come la
solidarietà” dichiara Chef Borghese.
Al suo fianco, la madrina Antonella Ferrari, attrice e scrittrice, il ballerino Ivan Cottini e molti
altri amici e sostenitori si uniranno alla causa, rendendo ancora più speciale questa edizione
del 30° anniversario de La Mela di AISM.
I progressi nella ricerca in 30 anni di “La Mela di AISM”
Iniziata come una semplice raccolta fondi, l’evento ha contribuito significativamente ai
progressi nella ricerca sulla sclerosi multipla e a potenziare i servizi alle persone con SM sul
territorio. Grazie ai fondi raccolti, sono state sviluppate nuove terapie e trattamenti che
migliorano la qualità della vita delle persone con SM. “Grazie ai progressi nelle nuove
terapie ad alta efficacia, le persone recentemente diagnosticate con sclerosi multipla
possono guardare al futuro con maggiore ottimismo, senza temere cambiamenti
significativi nei loro programmi di vita a causa della disabilità. Gli obiettivi futuri includono
l’identificazione delle cause della sclerosi multipla e delle malattie correlate, lo sviluppo di
cure definitive, e la scoperta di terapie che possano arrestare la progressione della malattia
e ridurre la disabilità. I risultati ottenuti finora hanno significativamente migliorato la
qualità della vita dei pazienti, e il prossimo passo è trovare una cura definitiva”. Dichiara
Roberto Caboni, Presidente della Sezione Provinciale AISM di Torino.
Spazio Nonni alla Fondazione Paideia
Da sempre figure di riferimento nella crescita e nell’educazione dei bambini, i nonni di tutta Italia vengono festeggiati il 2 ottobre, con una ricorrenza divenuta nazionale nel 2005. Figure insostituibili nell’infanzia dei piccoli nipoti, i nonni costituiscono un aiuto imprescindibile all’interno del nucleo famigliare, e questo è doppiamente vero quando in famiglia è presente un bimbo con disabilità. La Fondazione Paideia, che da oltre trent’anni sostiene le famiglie con bambini disabili, evidenzia l’importanza di riconoscere un supporto specifico non solo ai bimbi ma anche all’intero nucleo famigliare, per questo nelle sue sedi di Torino e Milano organizza incontri di formazione, informazione e confronto dedicati a genitori, fratelli e nonni. A ottobre, in occasione della festa dei nonni, riparte il progetto Spazio Nonni, gli appuntamenti rivolti ai nonni di bambini e bambine con disabilità. Nascono per offrire, a partire da temi molto specifici, momenti di riflessione e confronto tra pari. Ogni incontro prevede un tema specifico, comunicazione, giochi pratici, uso della tecnologia e suggerisce alcuni strumenti per comprendere al meglio i propri nipoti.
Giuseppe e Luigia, nonni che da tempo frequentano il percorso, raccontano: ”Ci siamo resi conto presto che nostra nipote aveva qualcosa di diverso dagli altri bambini, ma non sapevamo esattamente di cosa si trattasse. Non avevamo mai sentito parlare di autismo prima della diagnosi. Confrontarci con gli altri nonni è servito per farci vedere i problemi come una opportunità, può essere anche un modo vicendevole di farsi coraggio. Oggi riflettiamo sul fatto che, conoscendo nostra nipote, ci sembra di aver conosciuto un altro lato degli altri. Quello che abbiamo capito della nostra storia è che conoscere di più fa bene. Fa cercare soluzioni nuove, capire come approcciarci ai nostri nipoti, immaginare strategie migliori per comunicare e entrare in contatto con i bambini. Abbiamo anche capito che bisogna dar spazio a questi argomenti affinché diventino parte del senso di inclusione quotidiana”.
“Qualche anno fa – speiga Fabrizio Zucca, psicologo e psicoterapeuta della Fondazione Paideia – abbiamo avuto modo di riflettere sulle esperienze dei nonni all’interno di un gruppo per famigliari; oltre ai papà, che sono stati i nostri primi destinatari, c’erano anche uno zio e due nonni, e abbiamo compreso quanto fosse delicato il ruolo dei nonni all’interno della famiglia di un bambino e di una bambina con disabilità. I nonni si ritrovano a ricoprire due ruoli, quello di genitore di un figlio che si ritrova a gestire l’impatto con la disabilità e quello di nonni di un nipote con disabilità, e dei suoi fratelli e sorelle. I nonni vorrebbero saperne di più , a volte sono molto preoccupati, ma cercano di restare un po’ in disparte per non invadere, sanno che bisogna dar tempo alla mamma e al papà a loro volta di capire meglio. Questo percorso nasce per dare ai nonni un sostegno pensato per loro, un’occasione in cui possono condividere esperienze con altri nonni dal vissuto simile”.
I prossimi appuntamenti dedicati ai nonni, alla Fondazione Paideia, sono il 23 ottobre, il 4 dicembre 202, il 19 febbraio, 9 aprile, 21 maggio 2025.
Orario: 9.30 – 11.30
Fondazione Paideia, via Moncalvo 1 Torino
Mara Martellotta
Torino sul podio: primati e particolarità del capoluogo pedemontano
Malinconica e borghese, Torino è una cartolina d’altri tempi che non accetta di piegarsi all’estetica della contemporaneità.
Il grattacielo San Paolo e quello sede della Regione sbirciano dallo skyline, eppure la loro altitudine viene zittita dalla moltitudine degli edifici barocchi e liberty che continuano a testimoniare la vera essenza della città, la metropolitana viaggia sommessa e non vista, mentre l’arancione dei tram storici continua a brillare ancorata ai cavi elettrici, mentre le abitudini dei cittadini, segnate dalla nostalgia di un passato non così lontano, non si conformano all’irruente modernità.
Torino persiste nel suo essere retrò, si preserva dalla frenesia delle metropoli e si conferma un capoluogo “a misura d’uomo”, con tutti i “pro e i contro” che tale scelta comporta.
Il tempo trascorre ma l’antica città dei Savoia si conferma unica nel suo genere, con le sue particolarità e contraddizioni, con i suoi caffè storici e le catene commerciali dei brand internazionali, con il traffico della tangenziale che la sfiora ed i pullman brulicanti di passeggeri “sudaticci” ma ben vestiti.
Numerosi sono gli aspetti che si possono approfondire della nostra bella Torino, molti vengono trattati spesso, altri invece rimangono argomenti meno noti, in questa serie di articoli ho deciso di soffermarmi sui primati che la città ha conquistato nel tempo, alcuni sono stati messi in dubbio, altri riconfermati ed altri ancora superati, eppure tutti hanno contribuito – e lo fanno ancora- a rendere la remota Augusta Taurinorum così pregevole e singolare.
1. Torino capitale… anche del cinema!
2.La Mole e la sua altezza: quando Torino sfiorava il cielo
3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici
4. Torino e le sue mummie: il Museo egizio
5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente
6. Chi ce l’ha la piazza più grande d’Europa? Piazza Vittorio sotto accusa
7. Torino policulturale: Portapalazzo
8.Torino, la città più magica
9. Il Turet: quando i simboli dissetano
10. Liberty torinese: quando l’eleganza si fa ferro
6. Chi ce l’ha la piazza più grande d’Europa? Piazza Vittorio sotto accusa
Progettata nel 1817 e terminata nel 1825, Piazza Vittorio Veneto, è uno dei luoghi più conosciuti e suggestivi di Torino.
Passeggiando per l’immenso spiazzo o camminando distratti sotto i portici mentre si osservano le vetrine, quasi non ci si accorge che l’atmosfera muta seguendo il sole: di giorno pare d’essere su un’immensa terrazza che si affaccia sul Po e sul verde della collina, di sera ci si ritrova in un salotto borghese, aggraziatamente illuminato dai “lampioni impero con braccio a cornucopia”, edificati negli anni Sessanta, e ridondande di risate e chiacchiericcio.
Chissà se anche i ragazzi e le ragazze che indossavano velette o redingote si rivolgevano alla zona con l’appellativo familiare di “Piazza Vitto”, ma quel che di sicuro non è cambiato da allora, sia che si tratti degli adolescenti del primo Novecento, o della giovanissima Gen Z, è che in questo enorme spiazzo porticato si veniva – e si continua a venire- per gozzovigliare e spettegolare.
Lo dimostrano i numerosi locali oggi presenti sul territorio, quali La Drogheria, Soho o il Tr3nd, perennemente strabordanti di ragazzi chiassosi e comitive spensierate, ma lo testimoniano anche i bar storici, molti dei quali non sono più presenti sul territorio, ma hanno accolto i grandi personaggi torinesi prima che il loro nome fosse impresso nella Storia, e chissà se Gioberti avrà mai pianto d’amore al Gran Corso o da Biffi, oppure se un serioso Gobetti avrà mai alzato troppo il gomito presso il Caffè del Gas, pioniere dell’illuminazione a idrogeno.
I tempi cambiano, le città si modernizzano, ma per fortuna certe cose non possono cambiare. Ce lo ricorda l’immortale Caffè Elena, aperto da circa 130 anni – dal 1889- interamente decorato in stile liberty, il famigerato bar in cui Giuseppe Carpano ha messo a punto la ricetta del suo Vermouth – motivo per cui sulla porta d’ingresso campeggia la storica insegna originale in vetro del Vermut Carpano dell’Ottocento-.
Tuttavia oggi non vi parlo, cari lettori, di Piazza Vittorio come luogo “più chiacchierato” di Torino, la nomino in questa lista di articoli perché tale località sfoggia un suo particolare primato, anche se non è quello che ogni ogni torinese ha sentito dire almeno una volta nella sua vita, ossia che Piazza Vittorio è la piazza più grande d’Europa.
Mi spiace deludervi, gentili compatrioti, ma non temete, c’è la soluzione anche per questa spinosa disputa.
La verità è che i primati sono questione di dettagli, come continua ad insegnarci questa società sempre più volta alla competizione ed al primeggiare ad ogni costo.
La nostra “Piazza Vitto” -benché ampia 39.960 mq (360 metri di lunghezza e 111 metri di larghezza massimi)- non è né la più estesa d’Europa, né tantomeno la più vasta di Torino – il record appartiene a Piazza della Repubblica- il suo primato è più specifico: si tratta dello “slargo dotato di portici” più grande del Vecchio Continente.
Quindi, amici Torinesi, se qualcuno osasse mai contraddirci in tal senso, inneggiando alle mastodontiche dimensioni di altri luoghi, come ad esempio Piazza della Parata di Varsavia, Piazza Carlo di Borbone a Caserta, Place de la Concorde a Parigi o ancora Karlovo náměstí, la piazza più grande di Praga, siate pronti a replicare con puntualità.
Al di là dei record, ed evitando le ovvie quanto scontate battute sul sempiterno desiderio di gareggiare in dimensioni – aspetto tenuto in gran considerazione già dalle torri dei comuni medievali fino ai SUV oggi parcheggiati in seconda fila- è opportuno sottolineare il grande valore storico-artistico, ambientale e architettonico del luogo.
Piazza Vittorio Veneto, così nominata dal 1919, volendo onorare la località legata alla vittoria nella prima guerra mondiale -in origine intitolata a Vittorio Emanuele I- è un perfetto esempio di soluzione edilizia neoclassica, stile più che presente nell’estetica del capoluogo, oltre al Liberty e al Barocco.
La piazza rappresenta inoltre un brillante accomodamento progettuale atto a risolvere il problema del raccordo con l’esedra barocca di Via Po e il forte dislivello tra i due capi del medesimo spiazzo. È l’architetto Giuseppe Frizzi, a partire dagli anni Venti dell’Ottocento, a redigere un disegno ben strutturato, basato su cortili in comune tra più proprietà, ospitanti originariamente rimesse, scuderie, laboratori artigiani, progetto a cui dobbiamo l’attuale aspetto del luogo. Detto in modo più semplice, l’arguto architetto riesce a nascondere visivamente il fatto che, da via Po al ponte, esiste un dislivello di sette metri.
Quello che attualmente si presenta come uno dei cuori pulsanti della “movida” della città, nonché esempio di eleganza e sciccheria, sia a livello edilizio che di avventori, un tempo era un territorio poco salubre, destinato a barcaioli e lavandaie. Ma si sa “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascon i fior”.
Tutto ha inizio nel lontano 1663, con la costruzione della Contrada di Po, progetto che però non conduce a grandi miglioramenti; è necessario attendere i numerosi interventi che si succedono dai primi decenni dell’Ottocento, che interessano personalità come Claude-Yves Joseph La Ramée Pertinchamp, Ernesto Melano (1792-1867), per arrivare poi all’assetto definitivo, ideato appunto da Giuseppe Frizzi.
Altra peculiarità del luogo è il suo collegamento, tramite il ponte Vittorio Emanuele I, alla Gran Madre di Dio, uno dei principali luoghi di culto della città, costruito su esempio del Pantheon romano, anch’esso, come la dirimpettaia piazza, in stile neoclassico.
Per la gran parte del XIX secolo tuttavia la zona viene utilizzata principalmente per scopi prettamente militari, soprattutto in epoca fascista, quando l’ampio spazio è considerato più che opportuno per le adunanze dell’esercito.
Purtroppo è necessario ricordare anche i momenti meno gloriosi della storia: nonostante la bellezza del territorio e la valenza aggregativa per la cittadinanza, sappiamo che la violenza della guerra non ha scrupoli per niente e nessuno, così tra il 1942 e il 1943 i bombardamenti distruggono la maggior parte degli edifici, sia quelli abitatiti sia le strutture commerciali, che tuttavia verranno poi ricostruiti in epoca più recente.
Oltre alla gloria apportata dal suo primato indiscusso, la piazza si arricchisce di dettagli e aneddoti storici, che ne esaltano ulteriormente l’insito valore, come comprova il pilastro presente al numero civico 12, su cui è annotato il ricordo dell’astronomo Giovanni Plana, qui deceduto nel 1864, oppure la lapide situata al numero civico 23, posta in alto tra due finestre e dedicata alla rimembranza del soggiorno torinese del poeta romantico-risorgimentale Giovanni Prati.
Per diversi anni, prima che anche festeggiare divenisse qualcosa di così complicato, la piazza è stata sede centrale dei grandi Carnevali del capoluogo, capeggiati da Gianduja, la maschera torinese per eccellenza. Particolarmente noto resta l’anno 1886, quando si svolge il Terzo Congresso delle Maschere italiane, evento caratterizzato da giostre, padiglioni, cortei mascherati. La gran macchina delle feste resiste in piazza Vittorio fino agli anni Ottanta del Novecento, quando si inizia a decidere che la felicità può essere dannosa per l’arredo urbano, le grandi processioni dapprima vengono spostate, per valorizzare l’architettura del luogo, in seguito vengono quasi del tutto soppresse per altre motivazioni che non è il caso di approfondire.
Anche lo stesso “Farò” – o Falò– della Festa Patronale di San Giovanni un tempo si svolgeva qui, invece che nella sede attuale – altrettanto spettacolare- di Piazza Castello.
Restano lì in piazza –per ora- i fuochi artificiali accesi sempre durante la festa del Patrono, lungo il tratto del fiume Po, essi illuminano rombanti il Monte dei Cappuccini, il ponte, l’immensa Piazza Vittorio, accendono gli sguardi di chi ancora si vuole stupire dei colori che fluttuano nel cielo notturno, ravvivano una città unica nel suo genere, che, come tutte le dame, talvolta si fa impaurire dagli anni che passano, e si dimentica di difendere la sua sempiterna bellezza.
COSA SUCCEDEVA IN CITTA’ / La genialità si “annida” in tutte le attività dell’uomo. Inventare qualcosa che prima non c’era e che dopo cambia radicalmente la prospettiva. Don Bosco è annoverabile in questa categoria di uomini
Torino Capitale del pensiero e dei Salesiani. Soprattutto azione concreta con gli oratori e con la formazione. Oratori in tutta la città: il Martinetto San Luigi, ovviamente Valdocco con una città della solidarietà all’interno di Torino.
Rebaudengo al San Paolo ed il più grande in assoluto, Giovanni Agnelli fondatore della Fiat. Come il più piccolo San Gaetano. Per noi l’oratorio per eccellenza era il Michele Rua o dir si voglia l’ Oratorio Monterosa. Cuore pulsante, i cortili. Si entrava in un altro mondo. Apertura alle 14,30 e chiusura alle 19. In estate pure al mattino, e si usciva alle 20. Tre spiazzi. Nel primo cortile la facevano da padrone le “Gamale” in ferro che avevano un palo su cui ruotavano dei triangoli in cui ci si sedeva roteando: ameni giochi e come basi i fazzoletti. Sempre presente Don Martano, vigile ed attento. Eravamo convinti che avesse 100 anni. Il campo di calcio, dove giocarono anche delle ragazze al baseball. Lo sport femminile fu un evento memorabile. Tre cortili con i campi di basket, precisamente dove giocavamo a pallacanestro tutti i sacrosanti giorni. Se poi pioveva, nessun problema, ci trasferivano sotto i portici. Il canestro era bassissimo. Pazienza, bastava non tirare da fuori, ma ci si divertiva. Osceno il pallone che Don Martano ci dava: liso che la camera d’ aria usciva da un buco.
Ma con le figurine Panini vinsi un pallone, socializzato immediatamente. Giocavamo sull’asfalto. Vinsi persino un titolo nazionale a Rimini, categoria Ragazzi, Polisportiva Giovani Salesiani. Scoprii che gli oratori Salesiani era sparsi in tutta Italia. Dalla Puglia a Milano passando da Napoli e Caserta. Sicuramente una potenza nel settore giovani. C’ era anche il dovere del catechismo. Lì, almeno io, sono stato debolissimo. Una lezione e poi non mi hanno più visto. Nessuno è perfetto. Anni ’70 vento anche di politica per i Salesiani. Qualcuno di loro virava a sinistra. Don Bosco non si sarebbe stupito, lui che del sociale ne faceva un vanto. Gli spararono perfino. Uomo scomodo e uomo di Chiesa, quella Romana per capirci che, nel secolo diciannovesimo non brillava per lungimiranza ed apertura. Probabilmente gli spararono i primi socialisteggianti a cui dava fastidio per il suo intervento nel sociale. Lui di fatto preso in mezzo tra Savoia ed il Papato. Lui che voleva essere fedele a tutti e due con una spiccata propensione per Roma. Tornando agli anni ’70, arrivò Don Giorgio, giovane, appassionato di Basket e per quel che mi ricordo già di sinistra.
L’ amico Renato ha corretto questo mio ricordo: “Diciamo, Patrizio, vicino alle esigenze del mondo del lavoro”. Renato è sempre stari puntiglioso. Don Giorgio era arrivato nel posto giusto. Barriera di Milano capitale storica della classe operaia. Cosi nel cinema parrocchiale il cineforum organizzato da ex Giovani studenti Salesiani. Dopo, l’ immancabile dibattito, ed i nostri interventi per orientare a sinistra il pubblico presente. Non si spostava un voto perché erano tutti orientati ma ci si riconosceva capendo che eravamo nello stesso corso d’acqua. E non solo. Una delle primissime Coop sociali a Torino si chiama Valdocco fondata proprio nell’Oratorio Valdocco. Il centro del centro del mondo Salesiano. Così dal Basket all’impegno politico eravamo dentro un pezzo di Storia di Torino e, perché no, d’Italia.
Patrizio Tosetto
Foto Museo Torino
Volontario ma non troppo
Da circa cinquant’anni la figura del volontario, in Italia particolarmente ma non solo, è diventata parte integrante di ogni contesto sociale, dalle associazioni agli enti locali, dalla pubblica assistenza ad altri servizi essenziali.
La motivazione ufficiale è che il volontario sente il bisogno di offrire la propria opera, gratuitamente, a quanti ne abbiano bisogno: quella ufficiosa è che grazie ai volontari, le istituzioni risparmiano cifre da capogiro nonostante il gettito fiscale dei contribuenti permetterebbe, o richiederebbe, l’utilizzo di personale retribuito.
Ovviamente il volontario ha, rispetto ai dipendenti ed ai collaboratori retribuiti, una sola differenza: la retribuzione, appunto.
Per il resto è necessario sia assicurato contro gli infortuni, ed in alcuni casi contro patologie contratte in servizio, sia iscritto ad un apposito registro, venga periodicamente aggiornato e altro ancora.
Il problema è reperire le persone che vogliano, volontariamente appunto, offrire la loro opera: dopo alcuni decenni di sviluppo progressivo, il volontariato sta ora patendo la crisi dovuta ad alcuni fattori: in primo luogo il lockdown ha fortemente penalizzato le persone, volontari in primis, demotivandoli, disaffezionandoli dalla loro missione. La crisi di valore, poi, in cui la nostra società sta navigando ha fatto il resto: incapacità di socializzazione, di relazionarsi con altri, pigrizia diffusa, dipendenza da alcool rendono difficile mantenere gli impegni assunti, allontanando i volontari dall’ente in cui prestavano servizio.
Alcune associazioni, come i donatori di sangue, patiscono questa situazione in modo particolare: è palese che se il tuo stile di vita non è corretto non potrai donare il sangue, e questo è particolarmente vero per i giovani, nuove leve della donazione (a 65 anni non si può più donare).
Vi sono ovviamente alcune meritevoli eccezioni: i c.d. figli d’arte (figli di volontari del pubblico soccorso, dei Carabinieri o della Polizia di Stato) che prestano servizio volontario presso le varie Croce Verde, Rossa o Bianca, o l’Associazione Nazionale Carabinieri o della Polizia di Stato, orgogliosi di proseguire una tradizione ereditata; allo stesso modo alcuni ragazzi, di entrambi i sessi, capiscono l’utilità di prestare servizio presso questo o quell’ente, non soltanto per il senso civico connesso ma perché può di essere di aiuto nella carriera di studi.
Spesso, invece, si assiste a scimmiottature di volontariato in associazioni tipo proloco o che organizzano eventi di paese, che dovrebbero essere il fulcro di quell’evento, la macchina organizzatrice, ma sono soltanto un coacervo di elementi scarsamente produttivi, spesso in lite tra di loro, che creano solo confusione anziché risultati.
Anche in questo caso torniamo all’incapacità di relazione tra i giovani (che, diventando adulti, non la acquisiscono di sicuro), alla scarsa motivazione trasmessa dei genitori (e dagli altri educatori a seguire) che portano i ragazzi ad essere egoisti (nell’accezione originale del termine) o che qualsiasi cosa serva “c’è papà che paga”.
Fin dai tempi dello scoutismo ho percepito il lavoro di squadra, non solo in senso sportivo, come un vantaggio che ognuno di noi ha perché ci permette di valutare le nostre capacità e confrontarle con quelle degli altri, di paragonare le conoscenze ed acquisirne di nuove e, unendo le forze, moltiplicare il risultato atteso.
Ogni qual volta ho partecipato come volontario a qualche evento (terremoto in Irpinia, incendi in Liguria, frane in Piemonte o altro) ho percepito la mia partecipazione come un contributo, minimo, erogato alla comunità in cui ero in quel momento, senza riferimenti a denaro, etnie, ceti sociali o simpatie.
Ho valutato che queste persone, questi luoghi necessitassero di un intervento per scongiurare il peggio o per arginare il problema, e mi sono impegnato per quanto era in mio potere.
Consiglio ai genitori di far aderire i figli, fin da piccoli, a qualche forma di volontariato, dalla distribuzione di vestiti in chiesa alla raccolta di cibo nei supermercati, dallo scoutismo alla pubblica assistenza alla protezione civile o alla donazione di sangue: i bambini non si spezzano, non si ammalano più di chi sta tutto il giorno sulla poltrona, anzi, e non perdono di valore; gli adolescenti, poi, rischiano di diventare individui sociali, che sanno relazionarsi con i propri simili, che agiscono di concerto per la vita in società.
Ma il rischio maggiore è che diventino Persone con la P maiuscola e che possano essere migliori delle ultime generazioni.
Sergio Motta
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Torino Over
Non c’è un età giusta per chiudere con l’attività lavorativa e riprendersi la vita, ma c’è un’età anagrafica che fa da barriera, quella soglia che ti fa sentire vecchio ma che ti dà anche dei vantaggi e non solo economici.
Da qui l’idea di creare una rubrica per segnalare le opportunità per chi ha raggiunto questo traguardo e godersi oltre il vantaggio di poter dire, traguardo raggiunto, anche tutte quelle piccole soddisfazioni di poco conto ma che sembrano coccole o attenzioni e non guastano.
Nella nostra rubrica andremo a scoprire le aziende più sensibili ai cosiddetti “anziani” anche se noi preferiamo usare il termine “over”.
Andremo a caccia di consigli ed occasioni e se vorrete collaborare segnalandoci iniziative saremo ben lieti di pubblicare le vostre segnalazioni ed esperienze scrivete a Iltorinese.TorinoOver@gmail.com, per ora a nome della redazione vi auguriamo buone vacanze
L ‘appuntamento è per la prima settimana di settembre.
Gd
Torino sul podio: primati e particolarità del capoluogo pedemontano
Malinconica e borghese, Torino è una cartolina d’altri tempi che non accetta di piegarsi all’estetica della contemporaneità.
Il grattacielo San Paolo e quello sede della Regione sbirciano dallo skyline, eppure la loro altitudine viene zittita dalla moltitudine degli edifici barocchi e liberty che continuano a testimoniare la vera essenza della città, la metropolitana viaggia sommessa e non vista, mentre l’arancione dei tram storici continua a brillare ancorata ai cavi elettrici, mentre le abitudini dei cittadini, segnate dalla nostalgia di un passato non così lontano, non si conformano all’irruente modernità.
Torino persiste nel suo essere retrò, si preserva dalla frenesia delle metropoli e si conferma un capoluogo “a misura d’uomo”, con tutti i “pro e i contro” che tale scelta comporta.
Il tempo trascorre ma l’antica città dei Savoia si conferma unica nel suo genere, con le sue particolarità e contraddizioni, con i suoi caffè storici e le catene commerciali dei brand internazionali, con il traffico della tangenziale che la sfiora ed i pullman brulicanti di passeggeri “sudaticci” ma ben vestiti.
Numerosi sono gli aspetti che si possono approfondire della nostra bella Torino, molti vengono trattati spesso, altri invece rimangono argomenti meno noti, in questa serie di articoli ho deciso di soffermarmi sui primati che la città ha conquistato nel tempo, alcuni sono stati messi in dubbio, altri riconfermati ed altri ancora superati, eppure tutti hanno contribuito – e lo fanno ancora- a rendere la remota Augusta Taurinorum così pregevole e singolare.
1. Torino capitale… anche del cinema!
2.La Mole e la sua altezza: quando Torino sfiorava il cielo
3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici
4. Torino e le sue mummie: il Museo egizio
5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente
6. Chi ce l’ha la piazza più grande d’Europa? Piazza Vittorio sotto accusa
7. Torino policulturale: Porta Palazzo
8.Torino, la città più magica
9. Il Turet: quando i simboli dissetano
10. Liberty torinese: quando l’eleganza si fa ferro
5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente
Ci si affacciava dalla palina della fermata, si osservava la strada dilungarsi verso l’orizzonte, poi si guardava l’orologio, poi ci si rivolgeva indietro, verso la tabella degli orari, ed infine si scambiavano sguardi sconsolati con gli altri astanti.
Si inventavano degli strani riti urbani nella speranza di far comparire il desiderato bus, chi camminava veloce verso la fermata successiva, chi improvvisava fantasiosi conti matematici sui possibili passaggi, c’era persino chi si accendeva una sigaretta, nella credenza che il fantomatico arrivo del mezzo avesse un fantasmagorico collegamento con il tipico gesto d’attesa.
Era ovviamente una stupidaggine, il tram non si palesava, ma si diceva così, secondo gli eterni insegnamenti della Legge di Murphy.
Sembra di parlare di un lustro addietro, quando fumare era già nocivo ma decisamente ancora troppo di moda perché la gente ci credesse sul serio. Tutto ciò succedeva prima di aver preso la patente e prima della vera indipendenza, durante quella parte di vita scandita dal passaggio dei trasporti pubblici, dalle lotte a suon di zaino sulle spalle per prendere d’assalto il bus subito dopo scuola, dalle corse forsennate per salire a bordo dell’ultimo tram serale, e poi i biglietti, la paura del controllore –e dai che è successo a tutti almeno una volta!- il posto vicino al finestrino, la deviazione del tragitto, la scusa perfetta per noi ritardatari: “perdonami, non passava il pullman”.
Una porzione di esistenza segnata dall’incertezza e dagli imprevisti, e forse è anche grazie a questo che noi, di qualche anno fa, abbiamo imparato a cavarcela!
Tuttavia, ad un tratto, a toglierci da questo impiccio è venuta in nostro soccorso la Metropolitana, effettivo segno di avanzamento tecnologico che ci pareggia alle altre megalopoli europee, un mezzo pulito, lindo, efficiente, veloce, niente più estenuanti attese allle fermate, niente più ressa nelle carrozze.
E poi ve lo ricordate? Lo stupore iniziale, quando tutti volevano provare l’ebbrezza della modernità stando seduti “ai posti davanti”, quelli “panoramici” e riservati –ahimè- ai bambini.
Un inaspettato passo in avanti verso il conformismo moderno, verso l’impagabile comodità, aspirazione che ci rende sempre un po’ più schiavi.
In quanto a grandezza e numerosità, non siamo di certo i primi dell’elenco, si pensi a Londra, con le sue dodici linee, a Milano e alle sue 4 linee e 111 stazioni – la metro di Milano è la più grande d’Italia, superando per estensione quella di Roma- alle tre linee arzigogolate di Napoli e persino alle 14 linee parigine.
Eppure le nostre due orgogliose linee metropolitane vantano un indiscusso primato tutto piemontese: la metropolitana di Torino è la prima in Italia ad essere dotata del sistema automatico VAL 208, (Veicolo automatico leggero), che non prevede conducente, con conduzione automatica gestita da una centrale, aspetto che di fatto la rende la più moderna non solo a livello italiano ma anche europeo.
Il progetto ha radici assai antiche, tutto inizia tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, grazie a personalità quali Riccardo Gualino, imprenditore e promotore piemontese e Marcello Piacentini, a cui si deve la progettazione del percorso di transito al di sotto di via Roma, piano tutt’oggi rispettato.
Tuttavia affinché l’idea si concretizzi è necessario attendere gli anni Novanta- Duemila, quando, grazie alle Olimpiadi invernali svoltesi a Torino, hanno effettivamente inizio i lavori.
Sembra un po’ la storia del “ritenta, sarai più fortunato”.
Negli anni Sessanta, nel contesto delle innovazioni apportate dalle celebrazioni di Italia ’61, si divulga un progetto ispirato alla Monorotaia, ma l’idea viene accantonata; negli anni Ottanta invece, si propone la “metropolitana leggera”, ossia cinque linee diramate in superficie con corsie preferenziali a collegamento dei vari quartieri cittadini, ma anche questa volta il proponimento non vede la luce, in questo caso per mancanza di fondi; arrivano gli ottimistici anni Novanta, si costruisce la Linea 9 in occasione dei Mondiali ’90, ma il tutto viene trasformato in una ordinaria linea tranviaria, ad eccezione della Linea 4, di fatto unica “metropolitana leggera” a tutti gli effetti e realizzata già a partire dal 1982.
Sempre negli anni Novanta, intorno al 1970, viene studiato un sistema per connettere le zone di Lingotto e Mirafiori, ma nuovamente le finanze non sono sufficienti; è ormai dicembre del 2000, quando il mondo punta gli occhi sulla minuta e borghese Torino, proprio a motivo delle Olimpiadi, e le alte sfere territoriali sono costrette a rispondere alla chiamata del Progresso.
Avviene così, il 4 febbraio del 2006, l’inaugurazione del primo tratto Collegno – Porta Susa.
Seguono poi ulteriori modifiche, altre tappe si aggiungono al percorso, le cui aperture spesso avvengono in concomitanza con avvenimenti di grande rilevanza, come il vernissage dell’ultimo tratto di percorrenza – fino a Lingotto- che ha avuto luogo durante le celebrazioni del 150° anno dell’Unità d’Italia.
Ci tengo, a nome dei miei concittadini della prima cintura –ed in particolare dei compatrioti Nichelinesi-, a sottolineare la data del 23 aprile 2021, quando, alla presenza del Sindaco Chiara Appendino, si svolge l’inaugurazione delle due fermate che prolungano la Linea 1 da Lingotto: Italia 61 e Bengasi.
Anche chi si trova nella lontana periferia può sentirsi un po’ più vicino ai privilegi del centro città.
Oltre alla questione tecnologica e di facilitazione dei trasporti, ad interessare la Metropolitana torinese vi è un discorso artistico: ogni stazione è decorata dalle opere di Ugo Nespolo, uno degli artisti italiani più importanti del panorama contemporaneo, convinto sostenitore del binomio artista-intellettuale, come dimostrano i suoi interventi in ambito di estetica e del sistema dell’arte, nonché attivo in diversi ambiti disciplinari, quali la pittura, la scultura ed il cinema.
Si chiama “Museo nel Metrò”, il progetto che interessa l’artista di Mosso e che si sviluppa parallelamente alla costruzione della linea metropolitana a partire dal 2006. Cuore dell’ideazione è il legame visivo e simbolico che si instaura, fermata dopo fermata, tra il mezzo di trasporto e la città soprastante: con tratti essenziali e ilari, nelle vetrofanie vengono raccontati, sotto forma di dirette e colorate illustrazioni impattanti, i luoghi, i personaggi e gli avvenimenti più importanti della storia civile e culturale del capoluogo piemontese, come ad esempio nella Stazione “Fermi”, all’interno della quale Nespolo compone un’opera elegante e unica, attraverso semplici elementi grafici che rimandano al celebre fisico, alle formule matematiche ed al mondo della scienza. Un ulteriore esempio è la fermata “Rivoli”, la cui vetrofania si rifà al Castello e alla raccolta di opere contemporanee contenute al suo interno, tra cui si riconoscono i riferimenti agli elaborati di Gilberto Zorio, Mario Merz, Keith Haring e Nicola De Maria. Assai particolare è anche “XIII Dicembre”, la cui decorazione riguarda la tematica del lavoro, la rimembranza dei caduti del 18 dicembre 1922, attraverso la ripresa del quadro “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo, ridotto ad una manciata di siluette che avanzano sotto lo sguardo di esponenti della cultura torinese, tra cui Felice Casorati, Rita Levi Montalcini e Cesare Pavese.
Il tragitto non è tanto espanso, tuttavia non è nemmeno così breve da poter essere percorso in questa sede, fermata dopo fermata, per quanto ogni opera di Nespolo meriti un approfondimento adeguato.
I grandi lavori paiono a buon punto, anche se l’idea di ampliare il progetto c’è: ad oggi sono previsti diversi prolungamenti, tra cui, puntando verso ovest, la tratta Collegno – Cascine Vica -in cantiere, con tanto di lavori iniziati nel 2019-, altre tappe probabilmente riguarderanno Moncalieri, Rivoli e Rosta, San Mauro, Orbassano, con una certa attenzione verso alcuni luoghi fondamentali per la vita dei torinesi, come la FCA di Mirafiori, il Politecnico, l’ospedale San Giovanni Bosco e l’area industriale di Pescarito.
In sostanza, nessuno verrà lasciato a piedi, tanto più con l’ipotesi della Linea 3, che collegherà lo Juventus Stadium fino alla Reggia di Venaria Reale.
Insomma, cari amici ritardatari, un giorno non avremo più scuse per non essere puntuali, se non quella di essersi persi ad osservare le ipnotiche opere di Nespolo.
Alessia Cagnotto
Pochi, maledetti e subito
Nel film “Pochi, maledetti e subito” per la regia di Roberto Schoepflin, in una Firenze notturna, sotterranea assistiamo a storie di giovani marchettari, violenti, senza una forma mentale definita, senza punteggiatura.
Elemento comune a tutti loro è il non progettare, non programmare, non saper costruire un domani.
Incontro molto spesso giovani, nell’età che va dall’adolescenza alla maturità, e scopro sempre più la loro non propensione alla progettualità, a calcolare il rischio, a prevedere il prevedibile e non solo.
Cito spesso il discorso di De Andrè nel suo ultimo concerto, quando disse che non è vero che i giovani non abbiano valori:siamo noi, troppo attaccati ai nostri, a non riconoscere i loro; personalmente, specie a 25 anni dalla sua morte, mi permetto di dissentire almeno in parte dalle sue tesi.
I giovani sono scontenti del mondo del lavoro e, quindi, si rifiutano a priori di aderire alle richieste degli imprenditori; non sarebbe più costruttivo, almeno inizialmente, aderire alle regole e, ove possibile, cambiarle dopo averle conosciute e provate?
Si rifiutano di lavorare al sabato sera ma pretendono di trovare aperti tutti i locali nei quali scassarsi di alcool fino all’alba, sette giorni su sette.
Non voglio sembrare blasfemo, ma se i nostri ragazzi entrati in clandestinità dopo l’8 settembre, si fossero limitati a non accettare quel regime anziché combatterlo fino al 25 aprile, dove saremmo ora? Lamentarsi che gli imprenditori sfruttano i dipendenti, restando a casa con i genitori anziché lottare perché le cose cambino, non porta ad alcun cambiamento, positivo almeno.
Con alcuni collaboratori ho pubblicato alcune offerte di collaborazione dove, in poche parole, le ragazze dovevano registrare alcuni video su temi di utilità sociale, che sarebbero stati pubblicati su siti per abbonati ed il ricavato sarebbe stato diviso a metà con le attrici: nessuna ha accettato, sostenendo che volesseroun anticipo pari, indicativamente, ai primi 2-3 mesi di guadagno: stiamo parlando di possibili ricavi di 1500-2000 euro al mese. Da notare che l’impegno richiesto era di circa 10 ore al mese, che avrebbe consentito loro di proseguire un’altra eventuale attività o lo studio. Cosa si evince? Che non hanno propensione al rischio, né al risparmio e che preferiscono (è una metafora) andare tutti i giorni a mangiare in una trattoria dozzinale anziché risparmiare ed andare una volta alla settimana in un ristorante di ottimo livello.
Palese, poi, come la prima cosa che chiedano sia quanto si guadagni, anziché ascoltare prima in cosa consista il lavoro, che permetterebbe loro di comprendere se la ricompensa sia adeguata oppure no.
Quando ero solo consigliere comunale non chiesi mai a quanto ammontasse l’emolumento per tale carica fin quando, in una seduta del consiglio, venne proposto un aumento; alla fine percepimmo 18 euro lorde per ogni seduta del consiglio comunale alla quale fossimo presenti (tutte le altre attività che non fossero la seduta non sono retribuite) e tale importo ci venne erogato solitamente in unica soluzione, per tutto un anno solare, circa due anni dopo: è evidente che la passione, il senso civico, il senso del dovere abbiano avuto, e tutt’ora hanno, la prevalenza sul mero guadagno.
E’ palese che, con tali presupposti, non ci si deve meravigliare seci sia ad ogni tornata elettorale una corsa alle posizioni privilegiate (Consiglio regionale, Parlamento italiano e dell’Unione europea) nella totale ignoranza di ogni legge, regolamento o disposizione perché ciò che conta è il guadagno ese il lavoro viene svolto male, o non svolto, pazienza.
Come ho avuto modo di scrivere altre volte, si sbandierano sempre i diritti ma, chissà perché, i doveri vengono accuratamentenascosti sotto il tappeto; anni fa avevo alcuni ragazzi che venivano ad effettuare stages presso di me, solitamente inviati dall’istitutodi istruzione o per passa parola. La maggior parte di questi ragazzi, invece di chiedere su cosa vertesse la mia attività, chiedevano subito se si lavorasse il sabato “[..] perché io il venerdì sera vado in discoteca…” e alla mia risposta che si lavorava sia il sabato che la domenica ed i festivi aggiungevano che “[..]la domenica è l’unico giorno in cui posso dormire”. Evidente quale potesse essere la mia risposta.
Quanti ragazzi sanno, e vogliono, sviluppare una manualità che consenta loro non soltanto di occupare il tempo in modo creativo ma anche, e soprattutto, di poter risparmiare e, perché no, guadagnare qualcosa (riparare una bici, tinteggiare un locale, restaurare un mobile, coltivare un orto o scattare foto)?
Ecco perché negli ultimi anni si assiste ad un abbassamento dell’età media della prostituzione, con ragazze appena ventenni autodefinite “[..] esperta” o “[..]nata per soddisfarti” che scelgono una via sicuramente redditizia per guadagnare, convinte di costruire un impero, non consapevoli dei rischi (non solo sanitari) cui si stanno sottoponendo.
Sergio Motta
Ferragosto di una volta e riflessioni sul presente
Non vorrei essere considerato eccessivamente pessimista. Ma non mi sembra che la situazione globale sia sotto controllo. Cerchiamo di rifugiarci nel ricordo che è sempre un ottimo antidoto per le miserie attuali. Ricordo dei mitici anni 70. Vero che la moda non era un gran che. I residenti a Torino superavano 1 milione e 250mila. Tutto era Fiat chiamata ” La Feroce ” epiteto tutt’altro che elusivo. O il giornale La Stampa, proprietà Agnelli, la Bugiarda, anche qui tutt ‘altro che elusivo. Tutto era cadenzato dall’ alto, soprattutto i tempi di vita di ognuno di noi. Dunque il 1 di Agosto tutti in ferie. 4 settimane secche. Il primo turno era il venerdì, alle 14 uscita ai cancelli Fiat. 850 stracolme di bagagli. Moglie e figli aspettavano i capofamiglia e poi obbiettivo casa e paese da dove si era emigrati. E si aspettava il ferragosto. Dopo il giro di boa verso la fine delle ferie di mio padre che coincidevano con la fine delle vacanze in Val di Lanzo a Viu. Dopo il 15 il tempo si mitigava ed il maglioncino di lana alla sera era d’obbligo. Quanti ferragosto, quanti ricordi. Dalle grigliate con gli amici di papà e mamma alle rarissime volte nell’osteria del paese. Niente di eccezionale. Pane e salame, agnolotti o l’immancabile buseca (il minestrone con trippa). Poi la toma di Lanzo. Mi piaceva finire le croste. La parte del formaggio più saporito. O di quel pane che sapeva di farina. Magari appena sformato. Ma ferragosto non era solo mangiare. Mio padre giocava a Tarocchi e mia madre con le amiche nel ricordare di quando, giovane sartina si sentiva un po’ più libera del presente che la costringeva a casa a fare la pantolonaia, in nero ovviamente. Ed io via con gli amichetti. Una delle poche volte che i giochi erano insieme maschi e femmine. Libertà e quel tanto di felicità che non guasta mai. E questa libertà mista a felicità che ci faceva già vivere nel futuro. Vietato essere pessimisti. Si intuiva che il boom economico si stava afflievolendo. Poco importava. Quel presente era ampiamente sufficiente per un domani sicuramente migliore del presente. Sto proiettando i miei sentimenti attuali per allora? Forse, capita ma non è peccato ricordare ciò che eravamo e soprattutto quello che avremmo voluto essere e quello che siamo diventati. E nel ricordo trovare la forza per “reggere” questo presente che, appunto, non ci aggrada. Tutto è diventato polemica. Persino queste belle olimpiadi sono diventate motivo di scontro. Strano questo ministro dello Sport che vuole cacciare Malago’ presidente del Coni. Sarebbe stato più elegante aspettare settembre. Ma si sa che l’eleganza non è da tutti. Come i soliti razzisti che hanno nel Vanacci il loro vate. Verissimo, non tutti gli italiani sono razzisti ma i razzisti sono sempre troppi. Ma bando alle tristezze per questo sciagurato presente. Almeno per Ferragosto cerchiamo di buttarci tutto dietro le spalle. Una giornata di tregua e di felice libertà. Al lago, in montagna, al mare e per chi è rimasto in città. Con il ricordo, con il presente e con un futuro incerto ma pur sempre futuro. Buon Ferragosto a Tutti. Anzi no, non a tutti. Non per Putin, non per i razzisti, non per odiatori seriali di destra o di sinistra. Buonista? Si sono un buonista che non sopporta urla e odio. Buon ferragosto. Un ferragosto che mi ricorda le speranze di una intera generazione. E soprattutto un buon ferragosto ai nostri figli e nipoti.
PATRIZIO TOSETTO