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Morti di serie B
La tragedia di ieri giovedì 4 settembre a Pianezza, dove all’interno di un’azienda per la lavorazione di materie plastiche si è sviluppato un incendio di proporzioni enormi, impone una riflessione su più fronti.
Dopo aver assistito inermi alle numerosi morti sul lavoro, nelle varie tipologie possibili, e alle successive grida allo scandalo provenienti da più parti, ecco che una tragedia come quella di Pianezza ci disorienta, non sapendo dove collocarla.
I social, sempre pronti a dare fiato a notizie di ogni genere, spesso inutili se non dannose, ha giustamente puntato il dito sul danno ambientale, che peraltro nessuno sa identificare né quantificare.
L’ARPA Piemonte ha ribadito il consiglio di tenere chiuse le finestre, forse per evitare che qualcuno vedendo quella colonna di fumo aprisse le finestre per respirare a pieni polmoni.
La diossina, che nel 1974 tenne in scacco Seveso, è ormai soltanto un lontano ricordo; la legislazione attuale è, o dovrebbe essere, molto più attenta a certe tematiche rispetto a 50 anni fa.
Ma quanti si sono soffermati a valutare quale possa essere il rischio ambientale? Umberto Eco ha sottolineato come internet abbia dato diritto di parola agli imbecilli, e di ciò abbiamo prove evidenti ogni giorno.
Quali problemi potrebbe creare questa tragedia, o tragedie analoghe?
Fermo restando che ancora non sappiamo se e quali sostanze si siano sviluppate nella combustione, è evidente che anche vi fossero stati filtri, questi siano andati distrutti nell’incendio; ma a quali danni ha pensato la popolazione?
L’aria che respiriamo, sicuramente, è la prima ad essere coinvolta; l’assenza di vento forte ha, per fortuna, evitato che la nube traslasse orizzontalmente raggiungendo località distanti ma, per contro, la pioggia ha portato le particelle contenute nella nube nel terreno. Da qui si sviluppano due possibili scenari: l’erba che è venuta in contatto con la nube e che potrebbe essere mangiata dagli animali erbivori consentirà a tali sostanze nocive di arrivare all’uomo, attraverso la sua alimentazione (latte e carne). Inoltre, è possibile che, penetrando nel terreno, tali sostanze giungano nelle falde acquifere con ciò che ne consegue.
Non dimentichiamo, inoltre, che a poca distanza dal luogo dell’incendio, scorre la Dora Riparia che, pochi chilometri dopo, affluisce nel Po; immaginate le eventuali particelle tossiche fin dove possono arrivare.
Ovviamente, non conoscendo le analisi effettuate sul luogo possiamo solo ipotizzare tutto ed il contrario di tutto, ma un suggerimento mi sorge spontaneo elargirlo.
Anziché promulgare norme che impongono di mantenere indivisibile il tappo dalle bottiglie d’acqua, i sacchetti biodegradabili che profumano di cadavere e riciclare le plastiche (il che implica continuare a produrle), perché non si studiano veramente dei sostituti alla plastica nelle sue varie forme? 50 anni fa la plastica nell’automotive era usata molto meno di ora, acqua ed altre bevande erano vendute nel vetro (innocuo e riciclabile).
Qualcuno obietterà che i costi di produzione e il prezzo finale al consumatore aumenterebbero enormemente; nessuno ha mai fatto il conto di quanto, invece, questa politica dissennata del risparmio a scapito della salute costi alla comunità? La cura delle patologie derivanti dall’uso della plastica (microplastiche in circolo, ecc.) ha un costo economico enorme, come pure avvelenamento da diossina, tumori dell’apparato respiratorio, leucemie, tumori alla vescica (sono solo alcuni esempi) potrebbero essere evitati e con il denaro risparmiato investire in ricerca e produzione di impianti innocui o molto meno nocivi.
Certo è che se conosciamo a memoria la formazione della squadra per cui tifiamo ma non i nomi dei nostri Ministri, se l’ultima cosa che abbiamo letto è il libretto di istruzioni dello scacciazanzare, se pensiamo che diossina sia una nuova divinità femminile non lamentiamoci poi di essere sudditi, anziché cittadini.
Nessuno Governo può riuscire a governare correttamente se da parte dei cittadini non vi è la volontà di partecipare, la voglia di fare e aiutare a correggere, di aiutare a decidere.
Ovviamente chi non è andato a votare nelle varie istanze (Comune, Regione, Parlamento) non ha diritto di dire la sua.
Sergio Motta
Ha scritto discorsi, scelto giacche, evitato gaffe, lanciato programmi tv e politici. Monica Macchioni era ovunque — senza esserci mai. Ora rompe il silenzio. Con stile.
Scritto da Alessio Tommasi Baldi il . Pubblicato in Voci Aperte.
Intervista esclusiva rilasciata a ConsulPress
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Una demiurga tra salotti, ministri e silenzi: il ritorno sottovoce di Monica Macchioni
Torino e le sue donne
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Con la locuzione “sesso debole” si indica il genere femminile. Una differenza di genere quella insita nell’espressione “sesso debole” che presuppone la condizione subalterna della donna bisognosa della protezione del cosiddetto “sesso forte”, uno stereotipo che ne ha sancito l’esclusione sociale e culturale per secoli. Ma le donne hanno saputo via via conquistare importanti diritti, e farsi spazio in una società da sempre prepotentemente maschilista. A questa “categoria” appartengono figure di rilievo come Giovanna D’arco, Elisabetta I d’Inghilterra, Emmeline Pankhurst, colei che ha combattuto la battaglia più dura in occidente per i diritti delle donne, Amelia Earhart, pioniera del volo e Valentina Tereskova, prima donna a viaggiare nello spazio. Anche Marie Curie, vincitrice del premio Nobel nel 1911 oltre che prima donna a insegnare alla Sorbona a Parigi, cade sotto tale definizione, così come Rita Levi Montalcini o Margherita Hack. Rientrano nell’elenco anche Coco Chanel, l’orfana rivoluzionaria che ha stravolto il concetto di stile ed eleganza e Rosa Parks, figura-simbolo del movimento per i diritti civili, o ancora Patty Smith, indimenticabile cantante rock. Il repertorio è decisamente lungo e fitto di nomi di quel “sesso debole” che “non si è addomesticato”, per dirla alla Alda Merini. Donne che non si sono mai arrese, proprio come hanno fatto alcune iconiche figure cinematografiche quali Sarah Connor o Ellen Ripley o, se pensiamo alle più piccole, Mulan. Coloro i quali sono soliti utilizzare tale perifrasi per intendere il “gentil sesso” sono invitati a cercare nel dizionario l’etimologia della parola “donna”: “domna”, forma sincopata dal latino “domina” = signora, padrona. Non c’è altro da aggiungere.
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8. Una vita in prima linea: la storia di Ada Gobetti
Dopo l’annuncio dell’armistizio, l’ 8 settembre 1943, le donne aprono le porte delle loro abitazioni ai soldati allo sbando, stravolti dal conflitto bellico. È il primo atto di resistenza femminile. Secondo i dati ufficiali dell’epoca, le donne partigiane sono state 35mila e le stime successive arrivano a contarne almeno 2 milioni. Eppure le partigiane non sfilano nei cortei insieme agli uomini, le foto mentre imbracciano i fucili per molto tempo rimangono nascoste, così come il loro coraggioso operato. È una strana contrapposizione di pensiero immaginare sul campo uomini e donne sulla stessa linea, spalla a spalla, e veder riconosciuto il valore più degli uni che delle altre, eppure, alla fine, al di sopra di ogni cosa valgono le azioni, l’unico modo che l’essere umano ha per dimostrare quanto vale. Ada Gobetti ha agito e combattuto tutta la vita e nessuno potrà mai mettere in ombra il suo mirabile e costante impegno. Ada Gobetti nasce a Torino il 23 luglio del 1902, da un commerciante di frutta svizzero originario della Valle di Blennio e da una casalinga torinese. Brillante studentessa al liceo classico Vincenzo Gioberti di Torino, collabora attivamente alle riviste “Energie nove”, “la Rivoluzione liberale” e “il Baretti” di Piero Gobetti. Con quest’ultimo si sposerà nel 1923 e da lui avrà nel 1925 il figlio Paolo. In quegli anni con Piero, Ada è testimone delle rivolte operaie del biennio rosso torinese, alle quali guardano entrambi con vivo interesse e per cui esprimono fin da subito una appassionata solidarietà. Nel 1925 Ada si laurea in Filosofia e in seguito si dedica all’insegnamento, continuando ad approfondire studi letterari e pedagogici. Nello stesso anno la rivoluzione liberale viene soppressa dal regime mussoliniano. Nel 1926 Piero Gobetti è costretto a emigrare a Parigi, dove morirà nel febbraio dello stesso anno, in un ospedale di Neuilly sur-Seine, a causa di problemi di salute aggravati da una violenta aggressione squadrista, che aveva subito due anni prima a Torino, mentre usciva dalla sua abitazione, che era anche sede della sua casa editrice. Di grande esacerbato dolore le parole vergate da Ada sul suo diario per la morte del marito: «Non è vero, non è vero: tu ritornerai. Non so quando, non importa, non importa. Ritornerai e il tuo piccolo ti correrà incontro e tu lo solleverai tra le tue braccia. E io ti stringerò forte forte e non ti lascerò più partire, mai più. È un vano sogno, tutto questo, una prova di fronte a cui hai voluto pormi: tu mi vedi, mi senti: e io saprò mostrarmi degna del tuo amore. Quando ti parrà che la prova sia durata abbastanza, tornerai per non più lasciarmi. Saranno passati molti anni ma immutati splenderanno i tuoi occhi e ritroverò le espressioni di tenerezza della tua voce. Mio caro, mio piccolo mio amore, ti aspetterò sempre: ho bisogno di attenderti per vivere».
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Nel 1928 Ada vince la cattedra di Lingua e Letteratura inglese, insegna per alcuni anni a Bra e a Savigliano. Dal 1936 è docente presso il ginnasio del Liceo Cesare Balbo di Chieri (TO). In quegli anni rafforza la propria amicizia con Benedetto Croce, che la sprona a proseguire gli studi e a compiere le prime traduzioni dall’inglese, con le quali introdurrà in Italia gli scritti di Benjamin Spock. Negli anni precedenti l’8 settembre 1943, la casa di Ada Gobetti costituisce un punto di riferimento per l’antifascismo intellettuale e per gli ambienti legati al movimento Giustizia e Libertà. Nel 1937 si risposa con Ettore Marchesini, tecnico dell’ EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche). Ada continua ad essere una donna forte e decisa, politicamente attiva e schierata; nel 1942 è tra le fondatrici del Partito d’Azione (PdA), mentre nel 1943, durante la Resistenza, coordina le Brigate Partigiane e fa la staffetta in Val Germanasca e in Val di Susa, dove è attivo il figlio Paolo. Mai stanca di battersi anche su più fronti, nel 1943 è fondatrice dei Gruppi di Difesa della Donna e si prodiga per la nascita del Movimento Femminile. Terminata la guerra, il suo coraggio viene formalmente riconosciuto e viene insignita della medaglia d’argento al valore militare. Dopo la Liberazione è la prima donna a venire nominata vicesindaco di Torino, designata dal CLN, (Comitato di Liberazione Nazionale), in rappresentanza del PdA. Ricopre la carica sino alle elezioni del 1946, interessandosi e occupandosi particolarmente di istruzione e assistenza. Negli anni Cinquanta scrive su molte testate comuniste, tra cui l’Unità, sempre negli stessi anni affianca al costante impegno letterario l’interesse per la pedagogia e nel 1955 entra nella redazione di “Riforma della Scuola”. Nel 1957 fa parte della prima delegazione femminile italiana nella Repubblica Popolare Cinese. Nel 1959 fonda e dirige la rivista “Il giornale dei genitori” a cui collabora, tra gli altri, Gianni Rodari. Dopo una lunga vita avventurosa e dai molteplici interessi politici e culturali, Ada Gobetti muore il 14 marzo del 1968 nella sua casa nella frazione torinese di Reaglie È sepolta nel cimitero di Sassi a Torino, città per cui si è sempre impegnata, che ha tanto amato e che, di rimando, la ringrazia, proteggendola nel suo grembo di terra.
Alessia Cagnotto
Teresa, la ragazza che ama saltare in alto
Reportage di vita, sogni e coraggio
“Le persone entrano nella tua vita per una ragione, una stagione o una vita intera.” La frase di Brian A. “Drew” Chalker sembra scritta per lei: Teresa Belluco. Perché, nonostante il poco tempo, la sua presenza ha inciso come una traccia indelebile.
Teresa aveva 15 anni, viveva in provincia, apparteneva a quella generazione Gen Z che spesso immaginiamo immersa nei social e distratta dai libri. Ma Teresa era diversa: un concentrato di energia e curiosità, con mille passioni e amici, che riempivano le sue giornate. Amava la ginnastica artistica, il salto in alto, i libri, e soprattutto i gatti — “se potesse, riempirebbe la casa di felini”, raccontava sorridendo la mamma Lucia.
Poi la diagnosi: un sarcoma raro. Una parola pesante, che avrebbe potuto schiacciarla. E invece Teresa ha deciso di viverci dentro appieno. Non si è chiusa, non ha rinunciato ai suoi sogni. Come lei, sono grintosi, tutti i bambini e gli adolescenti oncologici ancora oggi. Che cadono e si rialzano. Teresa ha scelto, poi, di partecipare volontariamente a un trattamento sperimentale in fase iniziale, negli Stati Uniti, contribuendo alla ricerca medica.
Oggi la sua voce non è scomparsa. Vive tra le pagine di un libro che porta il suo nome: Io sono Teresa Belluco. Una storia vera, un viaggio tra Italia, America e Olimpiadi 2024. Di Terry&Lucy. Edizione EBS print. Un romanzo-verità nato dalla penna della madre, ma costruito come un grande diario dalla voce narrante di Teresa, arricchito dai ricordi, emozioni vere, dei compagni di classe, degli insegnanti, dalle amiche più scatenate, degli allenatori e allenatrici. Dentro ci sono i suoi temi scritti sui banchi di scuola, i messaggi vocali inviati di corsa, le foto un po’ sbiadite, i video improvvisati e i frammenti di social che ogni adolescente lascia in giro.
Il risultato è sorprendente: 364 pagine intense, ma capaci di farsi leggere d’un fiato. Non solo da chi la conosceva, ma anche da chi inciampa nella sua storia per caso. E si affrontano temi importanti e delicati.
Diceva con tenacia: “Se non è per me, sono informazioni mediche per progredire e migliorare nella cura di altre persone”.
La magia di Teresa è proprio questa: unire mondi diversi. C’è la nonna Paola, novant’anni compiuti, che per la prima volta ha imparato a leggere un e-book pur di seguire la storia di una ragazza che ha conosciuto per un attimo attraverso uno schermo, grazie al figlio Alberto. Ma che ha amato subito. Ci sono ragazzi e ragazze che di solito non leggono, ma che hanno passato notti d’estate a sfogliare il libro, a seguire le disavventure pazze di Teresa; incuriositi anche dai QR code inseriti nei capitoli. Ci sono genitori che ancora non riescono a toccarlo: “Troppo dolore, non siamo pronti”, confessano. E va bene così. Ognuno ha il suo tempo.
Lucia, la mamma, racconta che scrivere è stato come tenere viva una promessa: “Non volevo che Teresa fosse ricordata solo per la malattia. Lei era molto di più. Una ragazza piena di vita, di sogni, di futuro. Era ed è, un’ anima, da Vispa Teresa”.
E così, Io sono Teresa Belluco diventa non solo un libro, ma una testimonianza. Un invito a non lasciare mai in sospeso i propri sogni, a non rinunciare a saltare in alto, come Teresa faceva in pedana.
Oggi il volume è disponibile su tutte le principali piattaforme online, in versione cartacea, eBook e audiolibro, con la voce intensa e vibrante di Giada Sabellico. Ma le emozioni non finiscono con la lettura: su Spotify prende vita la playlist “Io sono Teresa Belluco”, che raccoglie le canzoni citate nel libro e quelle che Teresa portava nel cuore, trasformando le pagine in note e le parole in melodia.
Il percorso continua anche sul sito www.hopeforteresa.it, dove è possibile, scoprire iniziative e sostenere progetti in Italia e all’estero. Tra questi spicca il podcast “Una zebra in corsia”, ideato da Chiara Pennuti, già in preparazione con la sua seconda stagione. Un lavoro di squadra, nato per diffondere conoscenza in team, ricerca e soprattutto speranza insieme.
E poi ci sono loro: i ragazzi e le ragazze con Sarcoma che hanno conosciuto Teresa, condividendo con lei un tratto di strada, un frammento di vita, un sorriso. Geremia, Nora, Angela, Yinuo, Alberto, Mia, Vittoria, Seth, Callan, Connor, Alberica: nomi che diventano storie, voci che si intrecciano in un unico coro, quello della resistenza e della bellezza.
Così, tra parole, musica e testimonianze, Io sono Teresa Belluco diventa molto più di un libro. Diventa un invito a credere nella vita, nei sogni, nella forza di una comunità che non smette di cercare la luce.
Lucia Manzinello
Chi di noi non ricorda il film “Ecco noi per esempio”, dove Clic (Adriano Celentano) scatta fotografie in qualsiasi situazione giungendo, durante una rapina, a perdere un occhio perché preso di mira mentre scattava?
Un altro film, “Paparazzi” in chiave diversa mostra anch’esso come alcuni soggetti, per lavoro, fotografino di continuo qualsiasi scena si pari loro davanti, con tutto ciò che questo comporta.
Ho scritto volutamente “per lavoro” perché per alcuni versi potrebbe essere un’attenuante, un giustificativo del fatto che questi professionisti fotografano ogni situazione da loro ritenuta interessante, vendibile, adatta al gossip senza preoccuparsi di cosa ne pensi chi viene fotografato.
A me succede spessissimo, soprattutto durante eventi religiosi o caratterizzanti aventi luogo nel Comune che amministro, o in quelli dove vengo invitato come Amministratore, dove i cittadini (particolarmente le donne, ad onore del vero) fotografano ciò che forma oggetto dell’evento (ciclisti, processione, alpini, auto d’epoca, ecc) ma anche chi si trova nei paraggi, così per essere sicuri di non perdersi nulla.
A me personalmente, anche in ossequio al fatto che i personaggi pubblici sono fotografabili (in ambito pubblico) senza particolari restrizioni, non da fastidio, anzi è bello potersi rivedere negli scatti poi pubblicati, ma non sarebbe un’idea malvagia chiedere se una persona gradisca essere fotografata o no.
Ricordo che un anno, alla parata del 2 giugno a Torino, mentre mi accingevo a fotografare i reparti in formazione (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, ecc.) chiedendo ad alcuni poliziotti il consenso, una di essi mi fece segno che non gradiva essere fotografata e, doverosamente, la esclusi dall’inquadratura.
E’ pur vero che se ho qualcosa da nascondere non vado in un luogo affollato, specie in un Comune dove si conoscono tutti, ma è pur vero che vorrei sapere quale fine faranno gli scatti che mi riprendono, per quale motivo tu stia scattando.
Solitamente, se non si tratta di personaggi pubblici (politica, spettacolo), o per motivi di ricerca scientifica o per diritto di cronaca, la pubblicazioni di foto e video deve essere autorizzata da una liberatoria che il soggetto fotografato rilascia al fotografo e/o a chi diffonderà l’immagine. Va notato che, anche in presenza di una liberatoria, l‘immagine non può ledere l’onorabilità di una persona: se mi fotografi con i pantaloni macchiati e metti, come didascalia, “così povero da non avere i soldi per il detersivo” è palese che tale foto mi stia offendendo e, dunque, potrà partire da parte mia una richiesta di risarcimento.
E’ anche vero che ultimamente le persone hanno un livello di litigiosità mai visto in precedenza, per cui se uno pensa di essere fotografato, pur in un contesto più ampio, prima si infuria e, eventualmente, solo dopo chiede di visionare gli scatti fatti (ledendo a sua volta la privacy del fotografo).
Sostengo che, in ogni ambito, la tolleranza e l’educazione sono in grado di dirimere il 90% delle contestazioni, usando buon senso, empatia, ironia e autoironia e, in ultima analisi, non pensando che gli altri vogliano sempre fregarti o che siano tutti più scemi di te, perché spesso chi ti dimostra il contrario è alto 2 metri e picchia come un fabbro.
Se io dovessi impedire ai miei amici di pubblicare le foto che mi scattano in gita, in vacanza, a cena ridurrei a tutti il piacere dirivivere l’evento anche nei giorni successivi, magari ridendo dell’espressione ebete di qualcuno o dei chili in più di qualcun altro, me compreso si intende.
Questo, a mio parere, si inserisce in un quadro molto più ampio di intolleranza in generale che nasce dal non sopportare il cane che abbaia 3 volte di fila, spazientirsi se la comanda al ristorante tarda 5 minuti, passa per il cartello “Divieto di giocare nel cortile” che va di moda da alcuni anni nei condomini, per arrivare alle aule giudiziarie intasate di cause, promosse quasi sempre da chi non conosce la legge e si stupisce, dopo anni di iter, che il giudice gli abbia dato torto.
Sicuramente “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria non è stato letto a sufficienza; di certo è ora di riscriverlo. 260 anni fa il libro venne inserito nell’indice dei libri proibiti a causa della distinzione che esso indicava tra reato e peccato. Ora il vero peccato è fomentare i reati.
Sergio Motta
Sul finire degli anni Settanta, con la legge 833 del 1978, venne istituito il servizio sanitario nazionale. In seguito a quella che, a buon diritto, è ricordata come la vera e grande riforma sanitaria italiana, cominciarono a circolare una marea di piani sanitari regionali e locali infarciti di frasi ripetitive, roboanti e, come capita spesso, incomprensibili ai più.
Due professori, dotati di uno spiccato senso dell’ironia, ribellandosi a quest’alluvione di parole e di frasi inutili, inventarono il GAPS, acronimo che stava per “Generatore Automatico Piani Sanitari”.Il professor Marco Marchi dell’Istituto di Biostatistica ed Epidemiologia dell’Università di Pisa e il prof. Piero Morosini, direttore di laboratorio dell’Istituto Superiore di Sanità, grazie alla notizia della loro “invenzione” si guadagnarono la prima pagina del Corriere della Sera.
La Tecnogiocattoli Sebino, ditta bresciana famosa per aver prodotto il famoso bambolotto “Cicciobello” ( e anche i suoi fratelli multietnici: Cicciobello Angelo nero e Cicciobello Ciao-Fiù-Lin, dai tratti somatici tipicamente orientali) li contattò all’inizio degli anni ’80 per sviluppare l’idea e dar vita al Tubolario, riadattando le frasi del Gaps, sostituendo i termini ed i riferimenti squisitamente sanitari con la finalità di poterlo proporre in un linguaggio più “politichese”. La confezione che venne messa in vendita (su licenza dei due inventori) consisteva in una scatola contenente tre tubi con riferimento ad altrettanti temi : il linguaggio politico-sindacale, le frasi d’amore e un gergo sportivo (in particolare riferito al mondo del calcio). Di quei “tubolari” ne furono vendute migliaia di copie. In seguito, anche per problemi legati alla corresponsione dei diritti d’autore ( che furono negati a Marchi e Morosini per l’uso collaterale del tubo quale contenitore di cioccolatini) il rapporto con la fabbrica di giocattoli di Cologne si concluse senza lo sviluppo di altre versioni del gioco, com’era nelle intenzioni originarie. Durò poco la storia, ironica e dissacrante, del “Tubolario”, gioco intelligente che prendeva di mira l’abitudine assai diffusa ad esprimersi per frasi fatte, luoghi comuni, ed altre forme più o meno omologate di discorso che caratterizzano il linguaggio specialistico di politici, giornalisti ed altri personaggi che, spesso, gicano con le parole per comunicare senza dire niente che possa comprometterli.
Un esempio? Ecco una frase del “Tubolario”: “L’indicazione della base/ persegue/ il ribaltamento della logica preesistente/in una visione organica e ricondotta a unità /evidenziando ed esplicitando /in termini di efficacia e di efficienza / l’adozione di una metodologia differenziata”. Non male, vero? Eccone un’altra: “Il nuovo soggetto sociale/ presuppone/ un organico collegamento interdisciplinare/con criteri non dirigistici/fattualizzando e concretizzando/nei tempi brevi, anzi brevissimi/un indispensabile salto di qualità”. Le frasi,organizzate sotto forma di un discorso dall’apparenza logica, di fatto non esprimono un bel niente, ma danno la sensazione di volerlo fare. Il “Tubolario”, realizzato con l’uso di una settantina di brevi periodi stampati su sette cilindri rotanti, consentiva, a chi avesse deciso di utilizzarlo, di improvvisare un numero imprecisato di frasi ad effetto, senza mai dire niente di concreto. Nonostante ormai sia un oggetto di culto, sentendo alcuni dei protagonisti dei talk show televisivi (termine di lingua inglese che significa, tanto per essere pignoli, “spettacolo di conversazione o programma di parole”), parrebbe che non sia stato relegato nel baule dei ricordi ma venga tutt’ora usato con disinvoltura.
Marco Travaglini
Dal 12 settembre prossimo Palazzo Falletti di Barolo ospiterà, fino all’11 gennaio 2026, la mostra fotografica dedicata a Bruno Barbey, in collaborazione con Magnum Photos e l’archivio Bruno Barbey.
L’esposizione, che si intitola “Bruno Barbey. Gli Italiani” è prodotta da Ares e nasce da una selezione eseguita dallo stesso artista, nato in Marocco nel 1941 e deceduto a Parigi nel 2020, una selezione composta da un centinaio di fotografie in bianco e nero scattate tra il 1962 e il 1966.
Si tratta di una mostra di fotografie che raccontano l’Italia all’epoca del cosiddetto miracolo economico, immagini di un’Italia, quella degli anni Sessanta del secolo scorso, vista attraverso le istantanee di Bruno Barbey, fotografo francese di origini marocchine, uno dei maestri di Magnum Photos che, in oltre cinquanta anni di carriera, ha documentato conflitti internazionali e mutamenti sociali in tutto il mondo.
Tra il 1962 e il 1966, poco più che ventenne, Bruno Barbey ha esplorato la penisola italiana in tutta la sua estensione, al volante del suo maggiolino Volkswagen, documentando una società in completo mutamento, da una parte ancora fiaccata dalla guerra, ma dall’altra già rinvigorita da nuove speranze, con il Nord lanciato verso il sogno metropolitano e il Sud che procedeva a fatica nella ricostruzione.
Bruno Barbey costruisce un vero e proprio affresco visivo di un’Italia in via di trasformazione, sospesa tra modernità e tradizione, tra sviluppo economico e tensioni sociali. Il suo approccio, profondamente empatico e mai invadente, riesce a cogliere l’essenza vera degli italiani nel loro senso di comunità, nella loro teatralità, resilienza e gioia di vivere.
Attraverso i suoi ritratti di mendicanti, aristocratici, suore, bambini di strada, ci ha restituito uno dei reportage più vividi dell’Italia degli anni Sessanta.
“Gli Italiani” di Bruno Barbey rappresentano un documento prezioso, capace di far rivivere un passato recente con uno sguardo nuovo e di far riflettere sull’identità culturale del nostro Paese. Il centinaio di fotografie in bianco e nero che compongono la mostra sono state selezionate dall’artista poco prima della sua scomparsa.
Mara Martellotta
File di lampadine illuminavano la festa. I tavoli e le panche di legno, per l’occasione, erano stati rimessi a nuovo da Bepi Venier. Ripuliti, passati meticolosamente con la spessa carta vetrata e tonificati con una mano abbondante di essenza di trementina e poi di coppale, una resina dura, traslucida, delicata d’odore
La scelta del colore, un bel marrone carico, non era stata dettata da ragioni estetiche ma dalla necessità: erano le uniche due latte di vernice che Aquilino Bonello era riuscito a recuperare gratis da un suo vecchio cliente. Dunque, di necessità si fece virtù. La cucina, protetta da una struttura in tubi Innocenti, era stata montata su di un pavimento in mattonelle di ceramica posato da Teresio che in gioventù si era distinto come onesto artigiano piastrellista. Mariuccia era stata nominata, con il consenso di tutti, comandante in capo per le operazioni di cucina. Insieme a due amiche, Luisella e Adelaide, e a tre aiutanti a far da garzoni aveva predisposto un piano di battaglia adeguato. “Mettere insieme pranzo e cena per un oltre un centinaio di commensali per volta non è semplice”, ripeté per giorni, facendosi pregare. Maria era fatta così. Le piaceva fare la preziosa ma era solo scena; in fondo era ben contenta di farsi in due per la buona riuscita della prima festa dei pescatori del lago di Viverone, al campo sportivo di Azeglio. Lo specchio d’acqua dolce era il terzo lago più grande del Piemonte, situato tra l’estrema parte nord-orientale del Canavese e e l’estrema parte meridionale del Biellese. E quella festa era davvero molto importante. Così come il contributo di Maria. La sua era una presenza indispensabile. Senza i suoi consigli e, quando capitava, senza il suo tocco, non ci sarebbero state quelle cene a base di pescato del lago che ogni mese venivano organizzate all’Osteria del Coregone Dorato. Nell’occasione aveva deciso di chiudere per tre giorni il locale, trasferendosi alla festa. Gran cuoca, dal cuore generoso e senza un’ombra di avarizia, non vedeva l’ora di poter raccontare a tutti i segreti della sua cucina. Immaginiamo che possa apparire come una stranezza, visto e considerato che i cuochi, di norma, sono gelosissimi dei loro segreti. Ma la nostra Maria era convintissima di un fatto: a fare la differenza non erano solo ingredienti e tecniche ma il tocco, lamano. E su quello non temeva confronti. Un esempio, così a caso? La scorsa settimana, mentre si parlava del più e del meno, ci disse a bruciapelo: “Volete sapere come si fa la pastella per la frittura delle alborelle?” Non abbiamo fatto in tempo ad aprir bocca che stava già declinando la ricetta. “Dovete versare in una terrina duecentocinquanta grammi di farina. Ci aggiungete due cucchiai di olio extra-vergine di oliva e un pizzico di sale fino. Versate a poco a poco un bicchiere di birra chiara. Fatelo molto lentamente, sbattendo man mano con una forchetta, così evitate che si formino grumi. Con una quantità d’acqua sufficiente, a occhio, si ottiene una bella crema. Sapete montare gli albumi a neve? Bene. Ce ne vogliono sei. Quando sono pronti, li aggiungete alla pastella, mescolando ben bene dal basso verso l’alto. A questo punto non vi rimane che passarci i pescetti prima di tuffarli nell’olio bollente”. Tirò il fiato solo al termine della lezione,servendoci un gran piattone di quelle prelibatezze poichè Maria, mentre parlava, cucinava.
Gli architravi della nostra organizzazione, oltre a lei, erano Duilio e Giurgin. Per la scelta del vino occorreva un intenditore. Chi meglio di Jacopo di Piverone poteva vantare competenza e passione? Marcato stretto, evitando che si perdesse via in troppi assaggi, indicò nel vino da tavola di un produttore di Carema il migliore in assoluto. “Questo va bene per tutti i palati, anche per quelli più esigenti”, sentenziò, accompagnando le parole con un sonoro schiocco della lingua. Occorreva però una padella bella grande, larga quanto le braccia di Goffredo. Ma a questa aveva pensato Tomboli, che di nome faceva Mariano, operaio in un’impresa artigiana. L’aveva costruita un po’ per volta, sfruttando la pausa del pasto di mezzogiorno. Svuotata con quattro avide cucchiaiate la minestra della schiscèta, si metteva al lavoro. Batteva la lastra, ripiegando il metallo per ottenere un bordo abbastanza alto da non far schizzare fuori l’olio. Il fondo era doppio, robusto. Sul manico, saldato alla padella, aveva applicato un’impugnatura di legno, fissata con quattro viti. Per friggere i pesci in quantità era una cannonata. Se quella di Camogli rimaneva la padella per la frittura di pesce più grande d’Italia, quella di Mariano è la più capiente e robusta del lago di Viverone. Oreste si è fatto avanti per averne una uguale ma Mariano non aveva sentito ragioni. “Paganini non ripete. Non è questione di soldi o di tempo. E’ che una volta fatta una padella così, con tutta la passione che ci ho buttato dentro, non credo di poterne fare una uguale. Per non far brutta figura, rinuncio”. Così, tra mega padelle e tanta buona volontà, la festa di Azeglio si aprì con un successo da non credere: tanti, tantissimi in coda per le razioni di frittura dorata, sfrigolante nell’olio d’oliva. Gli amanti del pesce non avevano che l’imbarazzo della scelta, degustando alborelle, trote, salmerini, tinche, carpe, persici, lucci e soprattutto gli immancabili coregoni impanati e fritti, marinati in carpione, proposti in umido con le verdure e il bagnetto. Come tutte le associazioni che si rispettino, anche la Società Pesca Libera Lago Viverone – dall’impronunciabile e scivoloso acronimo SPLLV – aderiva ad un organismo che di tutela e rappresentanza come la Fips, la federazione della pesca sportiva. Così, nell’intenzione di fare le cose per bene, venne invitato il delegato provinciale, un tal Giampiero Nuvoloni di Chivasso, per un saluto.
Il delegato, un omone di oltre cento chili, dal colorito rubizzo e con una imponente zazzera di capelli sale e pepe, si presentò puntuale. Gli avventori riempivano i tavoli e in gran numero stavano già onorando la cucina di Maria. Lui, guardandosi attorno compiaciuto, si avviò verso il microfono con Giurgin , al quale era stata affibbiato l’incarico di cerimoniere. Schiarita la voce con un colpo di tosse, accingendosi a presentare il dirigente della Fips, Giurgin iniziò a sudar freddo. Si era scordato il nome di quest’omone che, alle sue spalle, pareva incombesse su di lui, basso e mingherlino, con tutta la sua mole. Un vuoto di memoria improvviso e imbarazzante. Come diavolo si chiamava? Nugoletti, Nivolini, Nuvolazzi? Oddio, che guaio. Che fare, a quel punto? Non aveva alternative. Decise di stare sul generico e quindi, con tutte le buone intenzioni, provò a dribblare la difficoltà del momento, pronunciando poche ma decise parole: “Amici, cittadini, pescatori. E’ un onore ospitarvi e un privilegio dare la parola al.. mio didietro”. Le risate, soffocate a malapena, si sprecarono. Il Nuvoloni, che si trovava alle spalle del povero Giurgin, si ritrovò in mano il microfono. Rosso in volto e schiumante di rabbia, lo avvicinò alla bocca quasi volesse morderlo o mangiarlo. L’altoparlante gracchiava di brutto e questo non aiutò la comprensione. Chi poté udire le parole dell’iracondo delegato Fips giurò in seguito che non fu un discorso particolarmente memorabile. Comunque, dopo meno di cinque minuti, il signor Giampiero, scuro in volto come il lago durante una tempesta, restituì il microfono e se ne andò, incavolato nero, senza guardare in faccia nessuno. Giurgin, affranto, piagnucolava: “Non l’ho fatto apposta. Ero in pallone e mi è venuta fuori così”. La sensazione che tutti ebbero era che, per un bel po’, difficilmente si sarebbe ancora visto da quelle parti il Nuvoloni e, molto probabilmente, anche gli altri della Fips. La festa azegliese, comunque, finì in gloria e allegria, consolando Giurgin con un allegro e chiassoso “prosit”!
Marco Travaglini