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Più senso di responsabilità per non ricadere nell’emergenza

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

La prima giornata arancione a Torino ha rivelato l’immaturità e l’insensatezza di troppi che hanno invaso il centro, creando vistosi assembramenti. Anche la signora Appendino era a passeggio con la figlia in via Garibaldi.

Di una situazione del tutto fuori controllo si è reso conto persino l’assessore regionale alla Salute Icardi, quello che ad ottobre andò’ in viaggio di nozze.

IAnche a me avrebbe fatto piacere fare una passeggiata in via Roma e iniziare con gli acquisti di Natale a cui certo non voglio rinunciare . Ma il senso di responsabilità in questi drammatici momenti, per nulla superati, lo sconsigliava. Ci sarà tempo per farlo prima di Natale con tutta calma.
Ma qui si ripropone in modo lampante il problema dei controlli che non ci sono stati o non hanno funzionato. Ricadere nell’emergenza assoluta e’ facilissimo. L’esordio della domenica ci offre un pessimo segnale. Troppi hanno già dimenticato ciò che è accaduto nel corso dell’estate.

Prefettura, Questura e Comune debbono mettere in atto un’azione preventiva e repressiva perché non si ripeta ciò che è accaduto domenica e che può portare ad un aumento dei contagi.
Se consideriamo l’esilarante protesta della ragazzina dodicenne che vuole tornare assolutamente a scuola senza considerare la mancanza di sicurezza e la inadeguatezza dei trasporti, abbiamo un quadro complessivo di evidente irresponsabilità . Sulla dodicenne hanno imbastito una speculazione politica contro Cirio che ha avuto il buon senso di non riaprire le scuole.

Anche se la didattica a distanza non soddisfa ,non possiamo dimenticare che la seconda ondata è proprio coincisa con l’apertura scriteriata delle scuole senza trasporti adeguati di cui non si parla neppure più . La nuova Greta torinese della riapertura ad ogni costo meriterebbe una strigliata da parte dei genitori e non la pubblicazione sui giornali delle sue immature proteste che rivelano ovviamente la non conoscenza dei problemi.

Da oggi occorre più fermezza nelle Autorità e soprattutto più responsabilità nei cittadini . Ieri non è stata una domenica arancione, ma una domenica nera che non fa onore ai torinesi.

Cinquant’anni fa la legge sul divorzio

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni      Il 1° dicembre 1970, cinquant’anni fa, il Parlamento italiano votò la legge sul divorzio chiamata anche “Fortuna –  Baslini“ dal nome dei deputati che stesero il testo. Loris Fortuna era un socialista riformista, mentre Antonio Baslini era un liberale malagodiano. Fu cosa difficile introdurre in Italia una legge sullo scioglimento del matrimonio perché  i vari tentativi fatti negli anni successivi all’ Unità d’Italia  vennero bloccati sul nascere dalla forte opposizione della Chiesa cattolica e di forze cattoliche e conservatrici

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Il Governo Zanardelli ai primi del ‘900 fu promotore di un disegno di legge che venne battuto in Parlamento da 400 voti contrari. Giolitti di fatto bloccò ogni tentativo divorzista perché  la sua politica, volta a trovare l’appoggio dei cattolici, e il patto Gentiloni in particolare, impedirono di procedere su quella strada, malgrado lo statista di Dronero fosse laicissimo. L’ Italia aveva conosciuto il divorzio solo durante la dominazione napoleonica. Il fascismo, che firmò il Concordato con la Chiesa cattolica, mise il divorzio in soffitta. Solo con la ripresa della democrazia il deputato socialista  Luigi Sansone tentò di riaprire il discorso in Parlamento con una legge relativa al “piccolo divorzio“ che naufragò miseramente. Il deputato Loris Fortuna riprese le fila  di quella battaglia e dopo varie vicende  si giunse all’approvazione di cinquant’anni fa. Ad essere decisiva fu la battaglia ingaggiata fuori dal Parlamento dalla LID ( Lega Italiana per il Divorzio), dal partito radicale e soprattutto da Marco Pannella. Fu una battaglia fondata sul confronto civile di opinioni e sulla considerazione difficilmente contestabile che uno Stato laico non possa considerare il matrimonio un sacramento indissolubile, ma un contratto. Ernesto Rossi disse allora che non si poteva andare in Paradiso accompagnati dai Carabinieri, evidenziando che una scelta religiosa non può essere imposta da una legge dello Stato. Certo ad ingarbugliare la materia fu il matrimonio concordatario celebrato, con effetti civili, in chiesa. Lo stesso Papa Paolo VI si schierò contro la legge sul divorzio, vedendola come un “vulnus” al Concordato. Il partito comunista, per quanto impegnato in linea di principio per il divorzio, fu molto esitante perché anche lui interessato a stabilire un buon rapporto con i cattolici, come già  dimostrò il voto all’articolo 7 della Costituzione che inseriva in essa in Patti Lateranensi. Non fu facilissimo spiegare che non si trattava di una riforma “borghese, ma che già allora  riguardava mezzo milione di coppie “ irregolari “ conviventi. La legge Fortuna –  Baslini era una legge austera e severa che nulla aveva a che vedere con certi divorzi all’americana. Se al Senato passò per pochi voti con la mediazione del cattolico liberale Giovanni Leone e con il voto del senatore a vita Eugenio Montale, fu perché essa era una legge seria e meditata.
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Io giovanissimo partecipai a quella battaglia (come poi negli anni successivi a quella del referendum per impedirne l’abrogazione) insieme a Zanone  Magnani Noya, Segre  accusato come avvocato di volersi accaparrare futuri clienti), Pannella e il coraggioso magistrato Mario Berutti. Con Pannella e Zanone allora nacque un’amicizia destinata a durare tutta la vita. Furono giorni entusiasmanti di volantinaggio e di comizi appassionati, anche se io scelsi fin da allora il confronto pacato delle posizioni laiche  con il mondo cattolico, una scelta che portò ad un grande risultato al referendum del 1974: la nascita dei cattolici del No con gli amici Passerin d’Entréves e Traniello. A Torino va anche ricordato, tra gli altri, Francesco Proietti Ricci che fu il segretario della LID e seppe operare con moderazione ed equilibrio nel rispetto delle convinzioni cattoliche , pur in un confronto dialettico appassionato. Proietti Ricci si diceva cattolico e affermava che non avrebbe mai fatto uso della legge sul divorzio che non era un obbligo ma una scelta di libertà. Vincemmo e andammo a festeggiare con una grande cena  con Mario Berutti che divenne anche lui mio grande amico. Il Presidente Saragat firmò subito la legge che però non ebbe immediata attuazione a causa della lentezza degli Organi giudiziari nel creare le apposite sezioni a cui rivolgersi per il divorzio. Era stabilito un termine minimo di 5 anni tra separazione e divorzio , poi ridotto a tre. Non sarebbe onesto se non riconoscessi che quella legge giusta e necessaria ebbe anche come conseguenza quella di matrimoni affrontati più alla leggera e culminati spesso nel divorzio. Era il tema che stava a cuore ai giuristi cattolici preoccupati degli effetti  sulla tenuta delle famiglie. Non ci furono però  gli sconvolgimenti intravisti e molti cattolici fecero ricorso al divorzio, persino chi lo aveva combattuto come il missino Giorgio Almirante e tanti altri.
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Poi negli anni Duemila si volle un divorzio all’americana, molto facile e immediato che addirittura si può ottenere attraverso gli uffici anagrafici . E’ stata una scelta che non ho condiviso perché era giusto un periodo di ripensamento e di tregua dopo un naufragio matrimoniale. Il matrimonio è una cosa seria. Chi non si sente di accedervi può convivere o scegliere l’unione civile che non riguarda solo i gay. Lo scioglimento del matrimonio così come è oggi finisce di provocare delle inevitabili conseguenze sulle famiglie. Lo scardinamento di ogni vita morale – anche laica – ha creato delle situazioni di sfaldamento sociale oltre che famigliare. Uomini rigorosi ed austeri come Croce e Salvemini che condussero laicamente vite esemplari, non sarebbero d’accordo con l’attuale legge perché  esistono diverse moralità laiche con delle regole precise, come ci ha insegnato Bobbio. Essere laici non significa essere libertini , come pensava Scalfari prima dell’incontro con Papa Francesco. Il mondo attuale, creato ed incoraggiato  da certi programmi TV a dir poco “disinvolti”, è devastato e a sua volta  devastante . Sicuramente non è laico, ma profano, anzi fa pensare in piccolo a Sodoma e Gomorra. Il <<s’ei piace, il lice >>, di cui scrisse l’animo tormentato del Tasso, non può trovare nelle feste più o meno eleganti  il suo volgare ed avvilente corrispettiv , che troppo spesso sfocia nel dramma e nella tragedia . Il clima di trasgressione attuale è cosa totalmente diversa dal modo di interpretare laicamente e seriamente la vita di chi cinquant’anni fa volle il divorzio. Basta rileggere il resto di quella legge per comprendere qual era lo spirito che mosse Fortuna e Baslini : fu in anteprima un lib – lab ,rafforzato da Pannella. Un qualcosa che sarebbe piaciuto anche a Mario Pannunzio.
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Sindaco cercasi

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Nella storia di Torino la città difficilmente ha avuto sindaci e podestà  inadeguati. L’ esempio di Chiara Appendino è una rara  eccezione. Ha avuto sindaci più bravi come Valentino Castellani ed Amedeo Peyron e sindaci meno bravi. Ma un livello minimo è sempre stato salvaguardato. Persino un sindaco per caso come Giorgio  Cardetti non è stato male.

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Oggi dopo il ritiro del rettore del Politecnico  dalla candidatura a Sindaco  nel centro sinistra su cui espresse già delle riserve Castellani, ritornano in pista nomi di scarso significato che non rappresentano nulla di significativo  a livello politico e neppure amministrativo. Per avere un’idea adeguata  di paragone bisogna riandare a Piero Fassino che fu segretario nazionale dei ds e due volte ministro. Nel 2011 stravinse. Aveva anche il pregio di aver fatto da giovane il consigliere comunale a Torino prima di diventare deputato. Il deficit accumulato da Chiamparino impedì a Fassino di realizzare il suo programma. Il centro- sinistra dovrebbe guardare ad un modello del genere che in effetti non possiede e impedire a Chiamparino di continuare a lavorare dietro le quinte come sta facendo. C’è chi parla di Laus come ad una grande risorsa che risolverebbe tutti i problemi. Ma verrebbe voglia di domandarsi chi sia politicamente il sen. Laus per pretendere di candidarsi a sindaco di Torino. Il suo curriculum è molto povero anche i termini culturali e resta nell’ambito delle vecchie clientele meridionali del passato che dominarono nella Dc e nel Psi. L’unico nome di grande prestigio ed autorevolezza è quello del prof. Mauro  Salizzoni, medico di fama internazionale che ha appena terminato il suo impegno di direttore del Reparto Trapianti di Fegato delle Molinette e che quindi potrebbe dedicarsi a tempo pieno alla sua città. Le mezze figure dei politicanti  sono inconciliabili con i problemi di una Torino abbandonata  a sé stessa da Appendino. Nel fronte del centro – destra appare come unica risorsa l’imprenditore di successo Paolo Damilano che ha simpatizzato in passato  per  lo schieramento opposto. Lo stesso Salvini ha capito che un leghista  candidato lo condannerebbe ad una sconfitta sicura perché  non ha figure qualificate nella Lega torinese. Sicuramente i resti di “Forza Italia“ non possono avere l’impudenza di riproporre come cinque anni fa Napoli, un cognome a priori inadatto a fare il sindaco di Torino, ma non è solo il cognome a renderlo tale. Il giovane Marrone sta dimostrando grinta e capacità, ma non penso sia adatto a guidare una coalizione che deve guardare a Torino soprattutto ai moderati. Il centro- destra avrebbe una grande risorsa nell’ex presidente della Regione Piemonte Enzo Ghigo, l’unica figura politica che questo schieramento ha  saputo esprimere  tra i tanti carneadi berlusconiani costruiti artificialmente a tavolino  in oltre vent’anni. Un confronto Salizzoni – Ghigo  riporterebbe  sui binari giusti il confronto elettorale di primavera, facendo voltare pagina rispetto al grillismo devastante della Appendino.
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La maestra e il dono d’amore tradito da un uomo indegno

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / La vicenda della maestra d’asilo e delle sue foto erotiche postate vigliaccamente dal suo ex fidanzato sul web si protrae da due anni ed è costata il lavoro alla maestra ventiquattrenne, definita dalla direttrice dell’ asilo una svergognata 

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E’  intervenuta anche la Appendino, sostenendo che far l’amore non è mai reato, una giustissima osservazione che però non coglie i termini del problema. Innanzi tutto una domanda: può una maestra d’asilo avere una sua vita intima e dare sfogo al suo istinto sessuale in libertà ? Già Baudelaire scriveva che la donna e l’uomo devono poter trarre piacere del loro corpo “senza ansietà”.
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Essere scatenati nella passione erotica non significa affatto non poter essere una buona educatrice. Il problema è nato dall’arbitrio commesso dall’ex fidanzato che si è rivelato persona sleale e volgare. Pensare alla maestrina dalla penna penna rossa del libro “Cuore” di De Amicis  che forse non conobbe mai un uomo, è pura ipocrisia. L’unico aspetto positivo del ‘68 è stato quello di aver liberato il sesso  dall’ipocrisia. Si incominciò a scopare liberamente e le ragazze per prime volevano emanciparsi da  costrizioni, convenzioni e luoghi comuni superati. Questo non significava pensare alle comuni e all’amore di gruppo, versione moderna dell’orgia antica. Significava semplicemente godere liberamente del piacere del sesso. Anche la battaglia per la pillola anticoncezionale liberò  l’amore dalle ansie di un concepimento non voluto. Poi si passo’ all’aborto e li il problema assunse complicanze etiche molto gravi, se è vero che un laico come Bobbio non fu d’accordo con la sua liceità  etica. Lo stesso Papa Francesco  ha parlato del sesso come di un dono di Dio. La concezione cattolica di far l’amore solo  in funzione procreativa va rispettata , ma già Anatole France parlò del piacere della trasgressione. La maestra d’asilo nella sua intimità era padrona di fare ciò che voleva e nessuno aveva ed  ha il diritto di sindacare cosa avvenga sotto o sopra le coperte del suo letto. Non c’ è bisogno di essere Bertrand Russell per capirlo. Forse gli educatori debbono essere di per se’ casti e morigerati? Non possono avere una vita sessuale? Io so che una signora dell’alta borghesia torinese si fece fotografare in pose osé dal suo fidanzato d’allora che seppe mantenere la riservatezza del caso. La signora oggi è anziana, ma credo ricordi con piacere quella trasgressione pre-‘68 carica di erotismo e anche di complicità. La maestrina, al massimo, è stata poco prudente a fidarsi del fidanzato, anche se oggi il telefonino è diventato totalmente invasivo  fino da arrivare persino al “lettone” putiniano di Berlusconi. Non è stata affatto una svergognata ed andrebbe reintegrata nel suo posto di lavoro.
Chi la pensa diversamente non ha colto l’evoluzione dei tempi. Qui si sta parlando di un sano, naturale amore tra uomo e donna, quello esaltato  e praticato da Giosuè Carducci. Ci siamo abituati e rassegnati a tutte le patologie, perversioni  e le mostruosità sessuali. Per una volta che si tratta di una ragazza che ama il sesso istintivo  secondo natura che non lascia spazio alla ragione ma da’ sfogo all’istinto, bisogna gioire . Purtroppo la maestrina si era concessa ad una persona da poco che non ha saputo essere degna  del suo dono d’amore. Io ricordo che una ventina d’anni fa in un noto liceo torinese nel mese di settembre andava a tenere lezione di latino e di greco una professoressa in abiti succinti e provocanti. Ci fu una lettera su “Specchio dei tempi”, ma non successe nulla . Non era scandaloso, ma piacevole, vedere l’ombelico della prof., ma ci potevano essere ragioni di opportunità sull’abbigliamento da tenere a scuola. Ma questo è tutto un altro discorso, anche se la scuola dovrebbe avere delle regole che vanno rispettate da tutti, docenti e allievi. A casa propria invece, ciascuno ha il diritto di fare ciò che ritiene senza per questo suscitare giudizi di sorta.
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Lo sciopero è un diritto, ma ora è tempo di responsabilità

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Il 9 dicembre, giorno successivo alla festività dell’ Immacolata, i sindacati hanno annunciato uno sciopero del pubblico impiego.

Ci sono sicuramente delle valide motivazioni perché il pubblico impiego sia in agitazione perché esso è stato costantemente sacrificato dai diversi governi e gli stipendi sono fermi da troppi anni. Ma il momento che vive oggi l’Italia fa sì che si possa definire l’impiegato pubblico un privilegiato che è passato indenne dalla grande crisi economica provocata dal Covid  Molti pubblici dipendenti godono anche del privilegio di lavorare da casa senza che il lavoro possa subire adeguati controlli perché l’informatizzazione in molti settori pubblici è ancora in alto mare. Questo lavoro da casa inoltre danneggia il cittadino nei suoi rapporti quotidiani con la pubblica amministrazione.
Noi non siamo tra quelli che disprezzano in modo qualunquistico i pubblici dipendenti perché la gente che lavora seriamente nella pubblica amministrazione, c’è da sempre. E non siamo neppure tra quelli che condannano la burocrazia come un inciampo da eliminare perché le regole e il rispetto delle medesime sono alla base della pubblica amministrazione e del buon governo.
Siamo invece fortemente critici verso i politici e gli amministratori che abbiamo e che hanno accumulato molte colpe, sicuramente anche nei confronti dei pubblici impiegati.
Il Travet di cui scriveva Bersezio e che Soldati portò nel cinema, esistono anche oggi.
Ma c’è una differenza abissale che si è determinata con il Covid e che ha costretto intere categorie a chiudere. C’è gente che è già fallita o che rischia di fallire entro il 31 dicembre a causa di un governo menzoniero che non ha mantenuto le promesse. Ci sono interi settori come quello del turismo e della ristorazione che sono alle corde.
In questo contesto drammatico e del tutto inedito chi ha avuto finora lo stipendio versato per intero, ha almeno dei doveri morali verso la comunità. Scioperare il 9 dicembre , magari sperando anche di fare un ponte, non fa onore ai sindacati. E’ un atto che offende e rivela forte irresponsabilità sociale.
Il diritto di sciopero è un diritto costituzionale, ma non possiamo dimenticare come altri diritti costituzionali siano stati sospesi dal Governo in questi mesi senza neppure passare attraverso il Parlamento.
Quando c’è un’emergenza i distinguo non valgono. Occorre disciplina e senso di responsabilità.
I Docenti che si sottopongo al massacro di una scuola allo sbando, stanno dando, ad esempio, un segnale di civismo che va citato.
La parola sciopero per una categoria oggettivamente finora protetta suona in modo maldestro.
Ci fa pensere agli scioperanti del 1917 quando l’Italia era in guerra. Anche oggi siamo in guerra, anche se i nostri odierni vertici “militari” si rivelano confusionari e controproducenti.

Solo un De Gaulle potrebbe salvarci. A 50 anni dalla morte del Generale

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni Il generale Charles De Gaulle morì nel novembre di 50 anni fa.  

Oggi si parla poco di lui, ma De Gaulle è  un gigante della storia, un generale e uno statista di eccezionale levatura che salvò due volte la Francia: dopo la sconfitta del 1940 ad opera della Germania nazista e durante la crisi della IV Repubblica e la crisi d’Algeria.  Essere statisti e militari e’ virtù molto rara nella stessa persona. Non era un politico , ma fu uno statista e soprattutto un patriota,  un uomo di inesausta passione civile e di limpida onesta’. Capi’ la crisi della governabilità in atto nella IV Repubblica dilaniata dai politicanti e diede vita ad una nuova Repubblica che ancora oggi garantisce democrazia ed efficienza.Fu un anticipatore. Quando senti’ che i Francesi non avevano più fiducia in lui, si ritirò a vita privata due volte. Oggi l’Italia andrebbe totalmente liberata dai politicanti incompetenti e ladri che stanno definitivamente mandandoci in rovina anche a causa del COVID che non hanno saputo fronteggiare. Il piccolo De Gaulle italiano fu Randolfo Pacciardi che si rivelò un inetto, per non dire dell’ex ambasciatore golpista Sogno, un personaggio da operetta, se non politica mente mitomane.  Era un uomo simpatico per una partita a scopa,  ma nulla di più.  Aveva ben operato come partigiano,  ma poi tu tto il resto fu un fallimento e un pasticcio. Tutti e due opacizzarono il nome di De Gaulle , dandone un’idea del tutto errata. Anche la Francia di oggi avrebbe bisogno di lui perché Macron non è adeguato ai tempi duri. Una grande riforma dello Stato e del metodo elettorale per una Repubblica presidenziale forte e democratica,  sarebbe indispensabile . Sarebbe anche necessario spazzare via le regioni che si sono rivelate inutili, costose, controproducenti e ricettacolo di corruzione molto evidente. Andrebbe rifondato lo Stato , cacciando gli inetti. Peccato che De Gaulle sia morto 50 anni fa e che ne’ in Francia ne’ in Italia ci sia qualcuno che possa essere a lui paragonato. Forse in Italia avremmo una donna molto decisa, capace, onesta e controcorrente che potrebbe salvarci . Una sorta di Giovanna d’Arco o di Veltro dantesco perché nella situazione in cui ci troviamo non bastano le mezze figure che sono sulla scena. Tanto per essere chiari, non mi riferisco alla donnina delle borgate romane che proviene dal MSI che parla spesso a vuoto e si è anche un po’ montata la testa. Occorrerebbe invece gente di specchiata tradizione democratica e di alto profilo intellettuale come lo fu  il grande Generale che senti ‘ la Patria come ragione di vita. Fu l’ultimo Re di Francia , ma un Re capace di fare dei passi indietro . Un esempio unico nella storia del ‘900. Peccato che la sua grande eredità politica sia stata sprecata in Italia da uomini ambiziosi e incapaci. Richiamarsi a De Gaulle oggi avrebbe un senso profondo perché De Gaulle fu un uomo di Stato nel senso più alto e nobile , un qualcosa di molto raro sia nella storia di Francia che in quella italiana. Io gli perdono anche il tentativo che fece dopo la guerra di annettersi l’italianissima Valle d’ Aosta.

Dad insoddisfacente, ma il Covid impone spirito di sacrificio

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Diventa davvero difficile non condividere la posizione della preside del liceo classico “ Gioberti” di Torino Miriam Pescatore.

E’ una straordinaria dirigente scolastica laureata in ingegneria, che intende tutelare la salute e la sicurezza dei suoi alunni, alcuni dei quali vogliono con grande superficialità condurre davanti al liceo una bizzarra protesta contro la didattica a distanza, presentandosi davanti a scuola contro le vigenti disposizioni del Dpcm del 3 novembre.

Legittimamente e doverosamente la didattica a distanza va seguita in luoghi idonei come la casa e non il marciapiede, sostiene la preside. Anche la prof. Pescatore è consapevole dei limiti della Dad, ma sente tra i suoi dovere far rispettare le norme in un periodo in cui la disciplina dovrebbe essere una regola per tutti, nessuno escluso. Sappiamo tutti molto bene cosa ha rappresentato la movida di giovani nel corso dell’ estate e che conseguenze drammatiche ha avuto. Sappiamo altrettanto bene la scelta avventurosa di voler riaprire le scuole senza la dovuta sicurezza.

Una preside che si assuma pienamente le sue responsabilità deve essere ringraziata pubblicamente per il suo civismo. Appartiene alla storia dei grandi presidi del glorioso liceo torinese da Luciano Perelli ad Angela Suppo. Quella scuola fu lasciata per anni allo sbando anche per la eccessiva vicinanza a Palazzo Nuovo e per la pavida incapacità dei suoi dirigenti e, in alcuni casi, di alcuni suoi docenti ammaliati dalle ubriacature sessantottine.

Questo è un passato che va archiviato . Oggi praticare la disciplina significa tutelare la propria vita è quella degli altri. E‘ un richiamo che anche il Presidente Mattarella ha evidenziato più volte. I giovani fanno bene a non essere soddisfatti della Dad, ma oggi non ci sono alternative e le polemiche devono cessare subito. I tempi drammatici che viviamo non lo consentono e Miriam Pescatore sta facendo il suo difficilissimo lavoro con passione, competenza e spirito di sacrificio senza alcun dubbio encomiabili.

(Nella foto di copertina Miriam Pescatore)

Il richiamo di Mattarella

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni/ Il Presidente della Repubblica Mattarella per la prima volta dopo tanti mesi difficili
ha alzato la voce, richiamando con chiarezza e fermezza gli Italiani e le forze politiche al senso di responsabilità richiesto dalla gravità del momento che viviamo

Nelle parole del Presidente, in versione aggiornata, ho risentito lo stesso pathos di Vittorio Emanuele III dopo la sconfitta di Caporetto. Era mesi che molti attendevano una parola forte che facesse sentire la voce della Nazione rispetto a quella delle fazioni e della mediocrità propria di una politica responsabile di gravissimi errori. Prima del Presidente della Repubblica solo la Presidente del Senato Casellati si era espressa con coraggio nei confronti di una situazione insostenibile.

Giustamente il Capo dello richiama gli Italiani alla disciplina, al buon senso, alla difesa di se‘ stessi.
Questo appello dovrebbe tradursi in un un messaggio alle Camere che dovrebbero unanimemente esprimere l’unità di tutti gli italiani. In certi momenti occorre la solennità della tragedia. Sul tempio della Gran Madre c’è una lapide che ricorda cosa fece il sindaco di Torino dopo Caporetto, scuotendo i torinesi.
I Sindaci d’ Italia dovrebbero riprendere le parole del Presidente e farle proprie. Non sarebbe di troppo l’invito a stringersi attorno al Tricolore, riscoprendo il valore della Patria comune negato per troppo tempo.

In questo momento storico in cui le regioni si rivelano inadeguate e possono rappresentare un elemento di confusione e di disgregazione bisogna tornare a guardare all’ Unità d’ Italia. Forse siamo in ritardo, ma bisogna tentare di far qualcosa ad ogni costo. Gli inviti del Presidente all’ Unità valgono per tutti gli italiani, nessuno escluso.  E in questo frangente è necessario un governo di Unità nazionale che escluda i responsabili dello sfascio a cui siamo andati incontro. In un paese civile chi sbaglia deve avere l’onestà di farsi da parte. Solo così potremo pensare di risollevarci. Sia chiaro, non un ennesimo inciucione all’italiana, ma un momento di sintesi nazionale , un qualcosa che parte della classe politica neppure conosce e non sa praticare .Ma occorre tentare lo stesso e la guida del Presidente della Repubblica è  decisiva.
Dopo Caporetto gli italiani seppero mettere da parte le discordie e furono idealmente un”esercito solo”schierato sulle rive del Piave a difendere l’Italia dall’invasore. Anche oggi occorre uno sforzo collettivo e corale che salvi l’Italia e gli Italiani.

Celebrare Messa non è un mestiere qualsiasi

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Oggi ho partecipato su Facebook ad una Messa celebrata nella Basilica di Sant’ Antonio di Padova . Già altre volte mi era capitato di essere deluso , ma oggi la delusione è stata molto più forte

L’insistere costantemente sulla morte in agguato certo non aiuta chi è già ossessionato dalla pandemia. E’ un modo sbagliato di affrontare il tema. Dalla Chiesa ci si attende altro, una comprensione umana sulla fragilità della vita che, in momenti tragici come questi, cerchi di dare un po’ di fiducia e di serenità. Non si chiede del facile ottimismo,che sarebbe impossibile oltre che falso, ma almeno qualche parola in più sarebbe doverosa. Mi capitò  anni fa di partecipare a due funerali lo stesso giorno in uno stesso ospedale e ascoltai la medesima omelia con la sola sostituzione del nome del defunto. Una routine da impiegato di banca,  non da sacerdote che celebra in un momento importante della vita di altri uomini. Ho avuto modo di ascoltare di recente il
Cardinal Ravasi sulla pandemia e ho tratto dalle sue parole conforto illuminante.  Il padre Antonio che celebra Messa nella Chiesa camilliana di “San Giuseppe “ di Torino, ha degli spunti sempre degni di riflessione , a volte persino ai limiti di un’ “eresia“ intimamente sofferta. In momenti come questi non occorrono dei don Abbondio, ma dei Padri Cristoforo che muoiono, assistendo gli apprestati nel lazzaretto.

Noi abbiamo vescovi che chiudono le chiese o parroci che sono costretti ad annullare le Messe perché colpiti dal virus. Non mi illudo, in una società appiattita all’insegna della mediocrità più banale, di trovare grandi sacerdoti. Io ad Alassio, a Pasqua, ne ho incontrato uno di grande umanità e di autentica e robusta religiosità. Lo conoscevo e lo
apprezzavo da tempo, ma non mi ero mai rivolto a lui per motivi religiosi.

Questi non sono tempi normali e anche i preti mediocri non debbono permettersi di ripetere banalità e superficialità che creano ulteriore sconforto. Devono essere più responsabili: sono i medici dell’anima. La morte è un tema tremendo, un tema molto individuale,  molto drammaticamente privato, di fronte a cui ci sentiamo soli .  Preti che ripetono le prediche degli anni precedenti e non si immergono nelle fragilità e nelle angosce umane di questi tempi, non sono adeguati ai momenti di ferro che viviamo. Non si tratta di chiudere preventivamente le chiese, si tratta di aprire i cuori, di essere vicini effettivamente a chi soffre e teme la morte. Cristo in croce ha dato conforto al buon ladrone che era al suo fianco. Io ho ritrovato le ragioni della fede rileggendo Manzoni. Che tristezza ascoltare preti che celebrano Messa come svolgessero un mestiere qualsiasi.  Non pretendo Don Primo Mazzolari che parlava del suo fratello Giuda.  Non pretendo il
Cardinal Martini, che pure mi sembro’ sempre abbastanza algido nella sua lucida cultura, mi accontenterei di un buon parroco di campagna abituato a convivere con le miserie e con il dolore umano . Non c’è bisogno di chiacchiere sociologiche e di predicozzi politici e pauperistici che lasciano il
tempo che trovano, ma c’è’ bisogno di humanitas cristiana, di un Agostino inquieto e peccatore e di non della fredda ragione tomistica che non non coglie il male di vivere di Montale e le inquietudini che rendono difficile il sonno ed increspano la squallida quotidianità,rubandoci la speranza e cancellando anche quella poca gioia di vivere che dava un senso alla vita. Forse mi manca il confronto con uno dei più grandi amici della mia vita Giovanni Ramella ,uomo di grande fede cristiana, che mi parlava dei suoi amori, delle sue speranze, delle sue donne con quell’umanità che solum era sua.

Era un uomo intero in cui la cultura si coniugava con la fede e tutte e due si fondevano con l’essere uomini. A volte parlavamo del grande latinista marxista Concetto Marchesi e della sua umanità, a volte lui mi parlava del suo maestro, il Cardinale Michele Pellegrino, che io, forse sbagliando, consideravo un intellettuale algido più che un pastore di anime. Giovanni Ramella in questi tempi bui sarebbe stato non solo un amico, ma una guida spirituale ineguagliabile.

(Nella foto in bianco e nero Quaglieni e Ramella)

 

Utet addio. Torino perde un altro pezzo di storia

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / E’  un grave lutto  per la cultura italiana la chiusura per fallimento della più antica casa editrice del Paese, l’UTET,  fondata dai fratelli Pomba a Torino nel 1791. L’UTET lascia dietro di sé un grande rimpianto e l’avervi collaborato, sia pure in anni lontani, è un grande titolo d’onore  per un uomo di cultura.

Il grande dizionario enciclopedico Fedele, il Dizionario della lingua italiana di Felice Battaglia, i grandi classici della politica e della letteratura, la storia della letteratura Latina di Augusto Rostagni sono solo alcune delle sue realizzazioni davvero grandiose. Si dovrebbero anche citare le opere nel campo scientifico e medico che facevano parte del suo catalogo prestigioso. E’ triste leggere che un suo collaboratore  abbia avuto ieri  il cattivo gusto di scrivere di non essere stato pagato, mentre la sua notorietà è in gran parte dovuta a cosa ha pubblicato presso quel grande e libero editore. Conobbi Carlo Verde che dal 1945 fu a capo della Casa editrice di corso Raffaello e che seppe tenere saldo il timone insieme all’ex genero  Luigi Firpo che, in verità, oltre che a  collaborare utilmente,  vi spadroneggiò in modo un po’ piratesco. A succedere a Verde fu l’amico europeista Gianni Merlini, uomo di vasta cultura e di rara sensibilità. Dopo Merlini fu l’inizio della fine e la vendita alla De Agostini provocò il lento, inesorabile  declino del glorioso marchio che venne letteralmente spolpato e svenduto dai nuovi padroni. Forse è stato meglio por fine all’agonia di una storia troppo gloriosa per subire ulteriori offese.  Da Corso Raffaello era finita in Lungo Dora. Una metafora molto eloquente della sua crisi. Torino si priva di una delle sue glorie e va notato come  ben pochi si siano impegnati per salvare la UTET quando sarebbe stato ancora possibile. Una ennesima vergogna per questa città che ha perso tutto ciò che di prezioso vi è nato. Certo, il discorso dovrebbe anche riguardare la crisi delle grandi opere e la crisi dell’editoria più in generale. Certo, chi fu ai vertici dell’ Azienda commise degli  errori, ma oggi è tempo di pianti e non di consuntivi. Un pianto per una morte dolorosa e davvero irreparabile.
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