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Livio Caputo liberale

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Fu la comune amica Paola Liffredo a farmi conoscere Livio Caputo che torno’ molto, volentieri a tenere una conferenza a Torino. Livio Caputo, nato a Vienna nel 1933 e mancato ieri, era molto legato a Torino.

Massimo Caputo, suo padre, fu il mitico direttore liberale della “Gazzetta del popolo”, quando il giornale, nato nel Risorgimento, prima di cadere in mano democristiana, era il primo quotidiano di Torino e del Piemonte, impedendo l’ascesa del giornale della Fiat. E studio’ Giurisprudenza a Torino dove si laureò’, mentre già faceva il giornalista. Mi parlò con affetto del mitico Rettore Allara, severissimo, ma uomo di grande sapienza giuridica con cui ebbi rapporti d’amicizia tanti anni dopo. “Repubblica“ commette oggi un errore definendolo liberal perché sia suo padre sia lui furono coerentemente e appassionatamente liberali. Liberali e non liberal alla maniera di Scalfari. Livio aveva anche militato nel PLI, poi nel 1994 venne eletto senatore in FI, una parentesi di due anni perché nel 1986 non venne confermato, come sempre è accaduto ai liberali in quel partito, liberale solo a parole. Fu anche per breve periodo sottosegretario agli Esteri, lui che aveva un’esperienza internazionale di prim’ordine. Ma invece di ritirarsi, rimase al “Giornale” di cui, con scelta patetica e stolta, è stato nominato direttore ad interim nell’ultimo suo mese di vita. Uno sfregio ad una carriera giornalistica straordinaria. Avrebbe meritato di esserne direttore effettivo in anni lontani molto più di Feltri, Sallusti, Giordano o dello stesso Cervi. Era stato tra i fondatori del quotidiano con Montanelli di cui era molto amico, ma che non segui’nell’avventura della “ Voce “ insieme ai futuri diffamatori seriali che Montanelli si covo’ in seno. Era un gran signore, colto , equilibrato, brillante, tollerante, ma anche fermo nelle sue idee, con cui era bello parlare. Simile a lui ricordo l’amico Egidio Sterpa. Collaborai ad un giornale che diresse nei primi anni duemila, organo dei Comitati della libertà, associazione liberale non sostenuta da nessuno e quindi destinata al fallimento. Solo le iniziative “culturali” di Dell’Utri o della Brambilla erano degne di interesse e sappiamo come andò a finire. Quel giornale duro’ al massimo un anno e, se non ricordo male,  si chiamava “Libertates”, un titolo troppo difficile per chi aveva studiato liberalismo al Cepu e ovviamente ignorava il latino.  Malgrado fosse stato bistrattato, Livio seppe essere superiore a tutto e a tutti. Con lui è morto un uomo e un giornalista di rara qualità di cui si è perso lo stampo. Se pensate al nuovo direttore Minzolini che gli succede, potete capire la differenza tra i due, se pensate al suo esatto opposto.

Primarie, democrazia, crisi del Pd

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Qualche mese fa c’è stato chi all’interno del Pd ha evocato “il modello Moncalieri” a cui guardare. In quella città i democratici hanno stravinto nel settembre scorso con oltre il 40 per cento, senza neanche l’aiutino dei moderati

I risultati delle primarie torinesi di ieri sono deludenti con una partecipazione di presenza e on line di poco più di 11 mila persone, sedicenni compresi, che da’ il senso della crisi profonda di quel partito, dei suoi leader locali, delle loro clientele. E’ evidente una disaffezione profonda degli elettori e lo stesso sistema delle primarie si è rivelato logorato. Occorrerà’ il risultato elettorale della elezione del Sindaco per capire quali ripercussioni avrà il flop di domenica dove il candidato più qualificato Lo Russo
raggiunge il 37 per cento , il finto civico Tresso sostenuto dalle sardine e dalla sinistra il 35 , mentre Lavolta  anche lui della sinistra si ferma al 25 e il radicale Boni raggiunge un ridicolo 2 per cento che dovrebbe consigliarlo di ritirarsi a vita privata. Non entro nelle beghe evidenti di un Pd torinese molto malconcio,  cito l’esempio di Boni come emblematico di una supponenza senza pari : anche solo pensare di candidarsi a sindaco di Torino rivela in questo signore una presunzione incredibile. Il gioco riuscì ad una sconosciuta come Appendino , ma solo perché al ballottaggio l’elettorato moderato, con un gesto scellerato, la preferì a Fassino , non rendendosi conto che stava affidando la Città alla peggiore candidata possibile. Per candidarsi a sindaco di una grande città dopo la sciagura del quinquennio grillino ci vorrebbe un minimo di storia personale che in verità nessuno dei quattro contendenti possiede in modo adeguato. E i parlamentari del PD non hanno certo rinunciato al seggio sicuro per scendere in campo. Sono rimasti a guardare e a dare il loro consenso all’uno o all’altro, rivelando una scarsa capacità di mobilitazione. Dopo Fassino il Pd torinese ha perso l’unico leader di livello. Forse solo il serio ma poco noto Giorgis poteva scendere in campo con i titoli sufficienti. Fassino , pensando di essere rieletto, non scelse un vice adeguato da formare come possibile successore. L ’opposizione alla giunta Appendino è stata flebile e inconsistente al di là di Lo Russo perché l’intero gruppo consiliare e’ apparso politicamente assente. Io ricordo Carpanini oppositore che faceva vedere i sorci verdi al Pentapartito.  Poi il governo giallo – rosso ha generato l’idea scellerata di fare anche a Torino l’innaturale ammucchiata romana. L’alleanza con i grillini e’ sembrata la cosa più ovvia a tanti,  se si esclude Lo Russo che per coerenza non poteva certo smentire il suo ruolo di capo dell’opposizione. In ogni caso da storico e da persona di cultura liberal – democratica mi sento spaesato . Torino ha avuto grandi sindaci democristiani e comunisti, i sindaci socialisti e laici sono stati meteore difficili da giudicare.  In ogni caso una Magnani Noya o uno Zanone erano persone di rango. Uno dei più grandi sindaci di Torino Valentino Castellani aveva cercato di dare utili e saggi consigli da uomo di grande esperienza. Non è stato ascoltato.
Oggi purtroppo quel tipo di persone simili a Castellani sembra essersi esaurito. Se penso che i radicali veri ebbero l’ex ministro Villabruna in consiglio comunale e penso al candidato del 2 per cento, provo rammarico. Non parlo da elettore , ma da commentatore:  qui rischiamo davvero di diventare una seconda Cuneo . Una città marginalizzata, senza prospettive.
Si era partiti malissimo con un rettore che si ritirò subito appena aver fiutato l’ambiente e un mago della chirurgia del tutto digiugno di amministrazione,  ma carico di ideologismo un po’ vecchiotto e si è giunti ad un appuntamento che vede un Pd dilaniato in tre pezzi senza nessuna strategia politico – amministrativa credibile . Il Pd e’ un interlocutore importante della vita democratica e chiunque – al di là delle sue simpatie politiche – deve augurarsi che quel partito si riprenda. Forse le primarie, purtroppo con pochi voti di scarto,  hanno almeno chiarito che il matrimonio con a
i grillini sarebbe un suicidio
per ambedue i contraenti. E hanno anche tolto di mezzo di stretta misura questo Carneade Tresso che sarebbe stato un altro suicidio sicuro, essendo punto di incontro dei peggiori politicamente e incapace di andare oltre le sardine.

In difesa dell’Inno di Mameli

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni  Lo scrittore ottantacinquenne Ferdinando Camon che io, in verità,  ritenevo – sbagliando grossolanamente – che fosse già defunto da tempo insieme alla sua opera, ha battuto un colpo,  scrivendo un vergognoso articolo in cui attacca con parole da vilipendio l’Inno nazionale italiano, sostenendo che esso andrebbe sostituito con  “Bella ciao“, una tesi peregrina, politicamente e storicamente delirante. All’inizio del pezzo sembrava che scherzasse, ma purtroppo intendeva scrivere seriamente.

Non merita ripetere quanto ho sostenuto nei giorni scorsi su questo giornale sulla proposta incredibile di alcuni deputati della sinistra che vorrebbero rendere obbligatoria per legge “Bella ciao“ dopo – bontà loro – l’Inno di Mameli , come fece il fascismo nel 1925 con il canto di “Giovinezza “dopo la “Marcia Reale“.  Ma non merita, a maggior ragione, controbattere a Camon che esordi’  significativamente con l’appoggio di Pasolini che al suo confronto appare un grande. Le offese che arreca all’Inno di Mameli, un inno che nacque nel fervore di un Risorgimento che Camon ignora, sono così insulse da non meritare replica. Merita una  replica invece chi gli pubblica i suoi  articoletti su quella che non è più “La Stampa“, ma la nuova versione dell’”Unita‘“. Dando spazio a quelle idee  in verità leggermente senili, quei giornalisti cancellano totalmente la storia del giornale, dandolo in mano ai Camon e alla Murgia. “Bella Ciao“ inno nazionale italiano e’ un eresia priva di senso. Anche molti  resistenti non si riconobbero in quella canzone  che Giorgio Bocca scrive di non aver mai sentita cantare durante il suo partigianato. L’avere la faccia tosta di volerla sostituire all’Inno di Goffredo Mameli che morì in seguito alle ferite riportate  nella difesa  della Repubblica romana di Mazzini, rivela anche un’ignoranza storica grossolana che crea una cesura netta tra primo e secondo Risorgimento che molti resistenti hanno invece  ritenuto affini . I catto – comunisti non riescono a capire il senso della storia italiana a cui sono stati estranei ed a cui  continuano ad essere gramscianamente    ostili. Senza accorgersene  stanno lavorando alacremente al successo del centro – destra . Chi è a sinistra e ha mantenuto il buon senso deve invitare questi residuati bellici ad astenersi dallo scrivere queste amenità che offendono gli Italiani. Occorre metterli a tacere almeno per un po’ nell’interesse della sinistra .

Il generale Perotti avrebbe cantato “Bella Ciao”?

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Non ho nulla contro “Bella Ciao“, un motivo orecchiabile che però ha ben poco da spartire con la storia della Resistenza italiana,  come dimostrano tre autorità in materia, lo storico ufficiale della Resistenza Roberto Battaglia, lo storico della canzone popolare Michele Straniero e il giornalista- partigiano Giorgio Bocca che sostennero la marginalità della canzone durante la guerra partigiana

 

Bocca scrisse di non averla mai sentita cantare durante il suo partigianato. Ha acquisito notorietà attraverso l’ Anpi dopo la guerra e caratterizzò i partigiani garibaldini. Ebbe anche fama internazionale attraverso il festival della gioventù di Praga durante il periodo staliniano. La vera canzone della Resistenza e’ “Fischia il vento“ composta dal medico partigiano Felice Cascione, medaglia d’oro al Valor Militare che fu eroico capo partigiano in Liguria che adatto’ un testo ad una musica russa. Anche questa canzone divenne identificativa della Resistenza garibaldina. “Bella ciao“ appartiene ad un ‘altra storia m, precedente alla Resistenza (le mondariso) e si lego ‘ dopo la guerra all’Anpi.
Ne’ la Fiap ne’ la Fivl l’hanno mai adottata. Fiap significa partigiani azionisti, Fivl significa Cadorna, Mauri, Taviani e tanti altri valorosi volontari per la libertà non comunisti. La Resistenza non fu solo rossa, ma fu plurale nella partecipazione, ad esempio, di tanti militari,  dall’eroico Gen. Giuseppe Perotti all’avvocato Valdo Fusi che rischio’ la fucilazione al Martinetto e che è autore del più bel libro sulla Resistenza. Mai Perotti o Fusi avrebbero cantato quella canzone. Il rispetto per la storia manca del tutto a quei parlamentari che vorrebbero imporre per legge il canto “Bella ciao“ dopo l’Inno nazionale in occasione delle cerimonie del 25 aprile. Già di fatto l’Anpi, che monopolizza tutte o quasi le cerimonie – complici i sindaci anche di centro – destra -ha imposto il canto di quella canzone , ma renderla obbligatoria per legge e’ un abuso e un’offesa a tutti i volontari della Libertà di altro orientamento politico. E’ una cosa che fa pensare a quando nel 1925, l’anno del fascismo divenuto regime,  venne imposto il canto di “Giovinezza” dopo la Marcia Reale. Anche in quel caso il fascismo si impossessò di una canzone non storicamente sua, ma l’idea di aggiungere qualcosa all’Inno nazionale e’ di per se’ sbagliato in linea di principio e se poi ci riferiamo all’Inno di Mameli,  inno patriottico di matrice repubblicana e democratica , “Bella ciao “ appare un’appendice divisiva di una parte politica del tutto non giustificata. A nessun vecchio e vero partigiano venne mai in mente una proposta del genere.  Il vecchio Arrigo Boldrini presidente nazionale dell’Anpi , non avrebbe mai dato retta a proposte stravaganti del genere. I comunisti erano duri nelle idee , ma erano persone serie.  Lo storico Battaglia ne e’ stato la dimostrazione, ma non certo solo lui. La storia va rispettata e l’Inno nazionale che ha una nobile matrice risorgimentale , non va confuso con altri canti, come il tricolore e’ unico e non appaiabile se non alla bandiera europea. Credo si tratti di una proposta elettoralistica – che si richiama alla signora Boldrini , intollerabilmente faziosa – ma sicuramente incompatibile con la storia migliore del Pd. L’idea di imporre di cantare in coro e’ di per se’ una scelta poco democratica, come dimostra la storia non solo italiana. E’ un qualcosa che evoca il conformismo, per usare un eufemismo gentile, e spezza quella solidarietà antifascista tricolore che e’ alla base della vera Resistenza.

Inviato da iPhone

Il referendum del ‘46 secondo il romitiano Fornaro

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni  Il quotidiano “La Stampa“,  sempre più lontano dal giornale fondato da Frassati e sempre  più vicino all’”Unità“, ha recensito con enfasi compiaciuta il nuovo libro dell’on. Federico Fornaro di Leu che compare spesso nei Tg, ma quasi mai viene intervistato. Il libro, edito da Bollati – Boringhieri, è dedicato al referendum del 2 giugno  1946 tra Monarchia e Repubblica. E il quotidiano, di proprietà del  neo cavaliere del Lavoro Elkann, lo ha definito come la dimostrazione dell’assoluta  regolarità di quel referendum che ha suscitato da sempre dubbi e polemiche

Fornaro che oggi è nella  estrema sinistra radicale , viene dal PSDI  e appartenne alla corrente di Pier Luigi Romita, figlio del ministro degli interni Giuseppe all’epoca del referendum, che apparve subito,  per sua stessa ammissione, non arbitro imparziale, prima e nel corso del referendum istituzionale  , quando non ebbe remore – lui garante sulla carta  dell’imparzialità del confronto elettorale – a dichiararsi accesamente  repubblicano, agendo di conseguenza.
Sono fatti troppo noti che chiunque abbia letto qualcosa in merito, conosce bene. Le irregolarità, se non i brogli,  durante il referendum, furono indiscutibili. E ci furono probabilmente  da ambo le parti.  La Cassazione non proclamò mai la Repubblica  e una nuova  guerra civile venne evitata solo perché Umberto II decise di partire per l’esilio di fronte alla assunzione arbitraria da parte di De Gasperi del ruolo di capo provvisorio dello Stato prima che venissero presi in esame i  ricorsi  presentati. Il ministro Romita soprattutto  non garantì pari opportunità ai due contendenti durante la campagna elettorale e questo è un dato di fatto incontrovertibile . Al Nord i monarchici subirono violenze e intimidazioni che non consentirono una campagna elettorale neppure lontanamente paritaria . Repubblicani e repubblichini si ritrovarono stranamente alleati contro il Re che fu oggetto delle più infami calunnie. Romita mise negli organici della Polizia 15 mila partigiani e già solo questo fatto spiega il suo atteggiamento istituzionalmente non corretto. Che adesso un politico di Leu, ex seguace della famiglia Romita nel partito più clientelare d’Italia, il PSDI,  abbia l’ardire  di scrivere una storia del referendum del 1946 appare davvero stupefacente. Fornaro non è uno storico, non è un accademico, non è neppure un ricercatore:  è un politico di mestiere. Non ha titoli per scrivere libri di storia,   anche se ha biografato Giuseppe Romita e Saragat in due pessimi libri celebrativi che non hanno nulla di storico. E‘ un provinciale alessandrino  che è rimasto tale, malgrado l’esperienza romana di senatore e deputato. Nel suo libro  non porta documenti nuovi che dimostrino la regolarità  del referendum dal quale furono escluse intere province e tanti prigionieri di guerra. La Repubblica, anche accettando i risultati di Romita, ebbe una maggioranza  comunque risicata. La differenza tra i voti validi e i votanti era un fatto dirimente che non venne mai chiarito. La Repubblica nacque  nel modo peggiore possibile e recuperò solo con De Nicola ed Einaudi. Se Umberto II avesse fatto valere la legge con la quale venne indetto il referendum, Romita sarebbe finito in galera. Umberto non volle reagire e sciolse i militari dal prestato giuramento con un sacrificio personale di superiore nobiltà A 75 anni da quei fatti abbiamo diritto a storie credibili. Non lo sono quelle monarchiche prodotte dall’ala aostana dei sostenitori dei Savoia, ma quella  di Fornaro è una non storia. Gianni Oliva scrisse una storia del referendum, considerando i torti e le ragioni con equanimità.  Non c’era bisogno che Fornaro partorisse un  altro lavoro, perché  il suo libro è un’opera partigiana e  inaffidabile, paragonabile a certi libri sulle foibe che recentemente  le hanno giustificate. Anzi appartiene allo stesso disegno  politico. Questi non sono storici, ma agitatori politici. Fornaro si accontenti di fare il deputato fino alla fine della legislatura. Poi scomparirà anche dalla politica e potrà godersi la meritata pensione. Gli consigliamo fin d’ora, di non scrivere altro. Il suo ultimo libro dice, una volta per tutte,  che non è uno storico. Come consigliava Voltaire, torni a coltivare il
suo giardino.

La liberazione di Brusca e la polemica sui pentiti

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni   La liberazione del mafioso Giovanni Brusca dopo  25 anni di carcere ha sollevato un mare di polemiche. E’ responsabile di oltre cento  omicidi efferati che suscitano ribrezzo e riprovazione morale e sociale. E’ stato un killer spietato, fedelissimo di Totò Riina, ma è stato anche un collaboratore di giustizia, anche se non è chiarissimo il suo apporto in questo ambito 

Tra il resto ha evitato la condanna a due ergastoli per la strage di Capaci in cui morì il giudice Falcone e per l’assassinio  del piccolo Di  Matteo, dissolto  nell’acido. I reati commessi da Brusca sono innumerevoli , ma malgrado ciò, l’essersi dichiarato collaboratore di giustizia gli evitò il carcere duro del 41 bis . C’è stato anche chi ha sostenuto il ruolo che avrebbe avuto nel coinvolgimento di Andreotti processato a Palermo , anche se questo aspetto è stato smentito. Adesso Brusca e’ in libertà vigilata a 64 anni. Un privilegio che dovrebbe suscitare la critica di quelli che Sciascia definì i professionisti dell’Antifamia che invece hanno sempre sostenuto la politica dei pentiti che tanto  danno ha provocato alla Giustizia, a partire dal caso Tortora. I pentiti sono serviti  per sconfiggere il terrorismo per la trasparenza del Gen. Dalla Chiesa, ma i risultati contro la mafia sono stati limitati e spesso hanno creato delle vittime che hanno avuto la vita distrutta per le false rivelazioni di pentiti ad orologeria. Ma chi crede al rispetto della Legge, non può non essere a favore della libertà a Brusca , per quanto ripugnante essa sia. Le leggi in vigore vanno rispettate sempre e con chiunque. Il giudizio morale deve essere sempre  estraneo a quello giuridico, altrimenti finiamo nella barbarie. Bisogna però porre mano alla legge sui pentiti perché  essa, senza dare i risultati sperati, ha dato spazio ad un uso strumentale del pentitismo. L’esempio di un criminale come Brusca dovrebbe indurre ad una riflessione critica  sul passato. Oggi vorrei poter leggere cosa scriverebbe, se fosse vivo, Leonardo Sciascia. Sarebbe interessante un suo libero giudizio. Oggi di  coscienze limpide come la sua non c’è’ più traccia. La sua e’ una razza estinta   Solo apparentemente la Mafia e’ stata ridimensionata perché da fenomeno siciliano e’ divenuta  sempre  più un fenomeno nazionale e internazionale  di dimensioni colossali. Per combatterla occorre ben altro che la legge sui pentiti.
Scrivere a quaglieni@gmail.com

2 giugno, 17 marzo o 4 novembre?

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

I 75 anni della Repubblica hanno portato a dare particolare enfasi alla festa del 2 giugno che l’anno scorso di fatto non si poté svolgere

Dei giornali sono usciti in edizione speciale, pubblicando articoli mitizzanti e poco storici, come la distanza dal 1946 avrebbe imposto. I discorsi grondanti di retorica hanno preso il sopravvento.  Ho trovato sobrietà di linguaggio e rigore storico negli ambienti mazziniani, i più titolati a festeggiare la nascita della Repubblica che il grande genovese aveva propugnato con inimitabile slancio morale.
Ho sentito dire da un’alta carica dello Stato che personalmente stimo molto, che il 2 giugno è  il compleanno della nostra Patria,  parola in disuso riscoperta per l’occasione. Ciampi a cui si deve il ripristino del 2 giugno, mai si sarebbe abbandonato ad una affermazione così azzardata. Ciampi aveva il senso della storia e sapeva bene che la Patria italiana e’ nata con il Risorgimento il 17 marzo 1861. Postdatarla al 1946 e’ storicamente aberrante perché la storia di un popolo non conosce cesure e anche le parti considerate negative fanno parte della sua vita e non possono essere cancellate. Ma c’è anche chi considera che la nascita dell’Italia unita risalga al 4 novembre 1918, quando dopo il Veneto (1866) e Roma Capitale (1870) l’Italia porto’ a termine il disegno risorgimentale con Trento, Trieste e i territori dell’Adriatico orientale. Ci sono diverse scuole di pensiero, tutte condizionate a considerazioni politiche differenti. Ci fu anche chi ritenne che la storia d’Italia sia iniziata il 25 aprile 1945 con la Liberazione e la fine della guerra e del fascismo.  Ciascuno tira acqua al suo mulino, ma far coincidere l’inizio della storia d’Italia con la nascita della Repubblica e’ una minchionata che non avevo ancora sentito.  Bisognerebbe esortare, citando il Foscolo, allo studio della storia, ma con la scuola che ci ritroviamo,  appare un desiderio impossibile. Nell’ignoranza storica generalizzata tutto diventa credibile e non suscita reazioni.  Chi straccia le pagine della propria storia e crea delle ere (anche il fascismo ne creo’ una) tende a barare al gioco o dimostra di non capire cosa sia la storia.

Imbarazzo a Roma per la targa sbagliata intitolata a Ciampi

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni 

Quanto e’ capitato ieri a Roma non può passare sotto silenzio.

Il Presidente della Repubblica insieme ai presidenti di Senato e di Camera ha dovuto rinunciare all’ultima ora a scoprire la targa dedicata a Carlo Azeglio Ciampi per l’inaugurazione di una piazza in onore di uno dei nostri migliori presidenti. Avevano scritto Azeglio senza la g. Non è certo colpa diretta della Raggi a cui pure risale una responsabilità oggettiva. E’ colpa di un cerimoniale del Campidoglio inadeguato che deve controllare ogni particolare delle cerimonie in programma. Se poi c’è il Presidente della Repubblica i controlli devono essere potenziati. Anche il cerimoniale del Quirinale doveva controllare preventivamente. Ai tempi di Ciampi col Segretario Generale Gifuni non sfuggiva una virgola. Lo posso testimoniare personalmente per il lungo rapporto con Ciampi che ho avuto per sette anni. Anche con l’imprevedibile Cossiga c’era l’ambasciatore Berlinguer segretario generale che vigilava su tutto. Persino il segretario generale Maccanico “conteneva” Pertini, davvero allergico ai rituali, che finì per cacciare Maccanico che fece da capro espiatorio di un errore del Presidente. Roma è la capitale d’Italia, non una città di provincia. L’errore non va fatto pagare all’impiegato e allo scalpellino che hanno sbagliato. Vanno chieste le dimissioni del capo del Cerimoniale del Comune che ha dimostrato disinteresse ad una manifestazione che riguardava due presidenti. Il pressappochismo e’ arrivato a toccare anche cerimonie importanti riprese dalle Tv. L’episodio rivela un atteggiamento imperdonabile. A Torino con i sindaci prima della Appendino sarebbe stato un fatto impossibile. Cigliuti e Morelli a capo del Gabinetto del Sindaco controllavano tutto con scrupolo e persino con pignoleria. Come diceva il grande giurista Mario Allara, la forma è anche sostanza. Sarebbe interessante sapere quante sono le persone impiegate nei cerimoniali del Campidoglio ed anche del Quirinale. Anche nei piccoli episodi si possono cogliere particolari che rivelano disfunzioni non giustificabili.  Esporre il presidente ad una brutta figura non è cosa facilmente giustificabile. Un grave precedente.

È morto il Duca d’Aosta

IL COMMENTO Di Pier Franco Quaglieni

Alla vigilia della festa della Repubblica e’ mancato Amedeo di Savoia duca d’Aosta, erede di un grande personaggio, l’eroe dell’ Amba Alagi, Amedeo di Savoia che morì a Nairobi, prigioniero degli Inglesi durante la seconda guerra mondiale, che ebbe l’onore delle armi dai nemici dopo una impossibile resistenza senza armi e senza viveri in Africa orientale di cui fu viceré  Amedeo cercò di seguire le grandi tradizioni della sua Famiglia, a partire da Emanuele Filiberto , comandante dell’Invitta Terza Armata nella Grande Guerra, sepolto con centomila caduti al Sacrario di Redipuglia. Fece il servizio militare in Marina, giurando fedeltà alla Repubblica. Giovanissimo studente di liceo, nel 1964, partecipai a Sintra, in Portogallo, al suo matrimonio con Claudia di Francia, poi naufragato miseramente. Conservo nel mio archivio famigliare la fotografia con dedica del Duca insieme all’affascinante Claudia. Facevo la I Liceo classico ma mio nonno volle che ci ritrovassimo vicino al Re Umberto, zio dello sposo, che esprimeva la grande tradizione famigliare sabauda a cui la mia famiglia era indissolubilmente legata in pace e in guerra. Dopo la morte del Re Umberto II, ci furono maneggioni senza titoli di sorta che vollero “incoronare” Amedeo come capo della casa di Savoia ed erede al trono. Fu un’operazione squallidissima opera di un un preside pensionato che si illuse di essere arbitro niente meno dei destini di una dinastia millenaria. Mi rividi casualmente a cena con il Duca insieme al sedicente e compianto Conte Cremonte Pastotello. Mi accorsi che era in pessima compagnia, ma vidi lo stile del Duca, intatto nella sua eleganza aristocratica, nonostante tutto. Ritrovato in un ristorante torinese, lo salutai con effetto e devozione. Io voglio pensarlo oggi riappacificato con le beghe famigliari che suscitarono clamori anche mediatici inopportuni . Il capo della Casa Savoia e’ il legittimo erede Vittorio Emanuele  duca di Savoia e principe di Napoli.
La scomparsa del Duca metterà la mordacchia anche alle sedicenti consulte create dall’ ex preside e ai suoi scarsi e vecchi sostenitori che pretesero di decidere l’ereditarietà ’ di una discendenza storica così importante. La morte di Amedeo mi rattrista molto perché quel ramo d’ Aosta fu rappresentante di una grande pagina di storia d’Italia che quando lo accolsi a Palazzo Cisterna di Torino, dove vissero i suoi Avi , volli doverosamente ricordare .Tra non molto ricorderemo la morte dell’eroe della Grande Guerra morto a Torino nel 1931 di cui c’è un monumento imperituro in piazza Castello. Potremo ritrovarci in piazza Castello a ricordare tutto il ramo – che al di la’ delle strumentalizzazioni dinastiche operate da piccoli uomini – ha onorato la storia d’Italia,  al pari dei dimenticatissimi duchi di Genova, eliminati dalla toponomastica torinese da mano giacobina ed ignorante.

La Festa della Repubblica e il Milite Ignoto

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Oggi verrà’ celebrata la festa della Repubblica con un giorno in anticipo e il Milite Ignoto che venne inumato all’Altare della Patria, il Vittoriano, il 4 novembre 1921, cent’anni fa tra qualche mese.

Sarà il giornalista Paolo Mieli a parlare di due eventi che non hanno nulla che li leghi insieme. Il 2 giugno tra dubbi e polemiche anche aspre venne svolto il referendum tra Monarchia e Repubblica che a 75 anni di distanza dovrebbe indurre a una seria riflessione storica in cui venisse dato spazio anche alle ragioni di quei milioni di Italiani che votarono per la Monarchia.Il 4 novembre 1921 – in piena guerra civile che apri ‘ le porte al fascismo – l’Italia rese unanime omaggio al Milite Ignoto della Grande Guerra trasferito da Aquileia a Roma tra ali di popolo che si inginocchio’ al passaggio del treno con la bara del Milite Ignoto, simbolo dei Caduti in guerra. Un episodio miracoloso nel clima divisivo e violento del 1921. Non si sa invece nulla della ignobile targa che vorrebbero apporre sull’Altare della Patria in ricordo dei disertori. Sarebbe un gravissimo affronto che tante famiglie che ebbero combattenti e caduti nella guerra 1915 / 1918 non tollererebbero mentre gli eroi e i decorati al V. M. si rivolterebbero nella tomba. Sarebbe un’offesa evidente anche al Milite Ignoto. Vorremmo chiarezza. La confusione tra 2 giugno e 4 novembre non infonde certo un motivo di serenità e di fiducia. Chi si ritiene patriota, deve svegliarsi e dissentire apertamente da un modo di fare non limpido. La storia d’Italia lo impone.  Credo che il Presidente Draghi capirebbe.