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Il Muro della vergogna 1961/1989

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni 

Il Muro di Berlino incominciò ad essere costruito tra il 12 e il 13 agosto 1961 ed oggi resta una pagina di storia dimenticata perché il crollo del comunismo sovietico portò nel 1989 all’abbattimento del muro della vergogna, com’era definito dai democratici.

Io ricordo quell’estate, non avevo ancora quattordici anni e non dimentico le parole severe di condanna di mio padre che per la prima volta mi parlò di comunismo, descrivendomi- avendola visitata di persona – cosa fosse l’URSS e la RDT. Avevo fatto l’ esame di terza media nel giugno 1961 e avevo per conto mio studiato anche la storia contemporanea che non c’era nel libro che finiva con il fascismo e conoscevo le conseguenze devastanti della seconda guerra mondiale che portò la Germania ad essere divisa in due, certo non senza fondate motivazioni perché il mostro del Nazismo avevano sconvolto l’Europa e minacciato da vicino il mondo libero ,per non parlare dello sterminio di 6 milioni di ebrei. Ma i cittadini tedeschi dell’Est non meritavano di passare dalla dittatura hitleriana a quella staliniana. Per impedire il libero passaggio tra le due Germanie, quella comunista e quella democratica, la prima eresse un muro di 156 chilometri alto 3,6 metri. Secondo i comunisti tedeschi che beffardamente definirono la loro repubblica “democratica“  il Muro era in funzione “antifascista “ per impedire alle spie occidentali di entrare a Berlino Est. In effetti venne costruito per inibire il libero passaggio tra le due Germanie e la fuga da una condizione di vita intollerabile ,se paragonata a quella dei tedeschi dell’Ovest malgrado le conseguenze della guerra perduta. La Germania dell’Est era uno Stato satellite dell’URSS, governata con sistemi dispotici, come tutti i Paesi oltre la Cortina di ferro. Il Muro divise per 28 anni le due Berlino e provocò disastri. Più di centomila berlinesi cercarono la fuga nella vera Germania democratica, quella che aveva per capitale Bonn. Furono molte centinaia i morti durante il tentativo di fuga, uccisi dalla polizia, affogati o caduti in incidenti mortali, come, rara avis, ci ricorda oggi il socialista Ugo Finetti.

Ci fu anche gente che si suicidò quando venne scoperta perché la Polizia della RDT era particolarmente efferata. Un vero stato di polizia nel cuore dell’Europa. La devastazione economica della Germania dell’Est creò gravi problemi anche per la riunificazione tedesca dopo il 1989.Va ricordato che il presidente americano Kennedy che non va affatto mitizzato perché commise tanti errori, andò nel 1963 in visita in Germania e disse la celebre frase : ”Io sono berlinese“, solidarizzando con i cittadini dell’Est che si vedevano violati i diritti più elementari. L’Occidente non si mosse come non si era mosso per l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956. Gli equilibri internazionali erano più importanti della libertà dei Berlinesi. Vale però la pena di sottolineare la follia di costruire un muro per impedire la fuga dall’inferno comunista. Di fronte ad essa il PCI di Togliatti tacque ,anzi fu solidale con la RDT .Basta rileggere i titoli e gli articoli dell’ “Unità“ di quei giorni di Ferragosto in cui quasi tutti pensavano a divertirsi in vacanza. Io ero a Bordighera e in Corso Italia vidi alcuni giovani che distribuivano dei volantini di condanna.

Mi venne spontaneo dar loro una mano : fu il mio battesimo alla politica. Nel 2019 andai a Berlino per ricevere un riconoscimento e ricordo la tristezza di quella città che aveva aggiunto alla tragedia nazista quella comunista e non si era ancora ripresa .La grande Berlino prussiana era stata cancellata e la Porta di Brandeburgo appariva un reperto archeologico. Inutilmente pensai alla Germania di Kant  di Ficthe, di Hegel, di Nietzsche, di Beethoven, dei grandi storici e filologi. Restava solo il fantasma di un Marx che mi appariva il primo tradito. La sua utopia libertaria ed egualitaria diventò un regime sanguinario in cui veniva calpestata la dignità stessa delle persone. Non furono giorni piacevoli di vacanza. Ma vidi in ogni dove i fantasmi delle due dittature, nazista e comunista, che dominarono il ‘900. Una tragedia agghiacciante di cui il muro resta una delle testimonianze più ignobili e intollerabili.

Saviano, le mafie, la distruzione della famiglia

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Mi è apparsa  fin da subito una forzatura demagogica la pubblicazione sul “Corriere della Sera” di un’intera pagina affidata alla penna di Roberto Saviano. Essendo lontano mille anni luce da Saviano e non ritenendolo un interlocutore con cui discutere, non leggo mai la sua pagina.

Ma l’ultima di domenica 8 agosto non ho potuto non leggerla dopo quanto mi è stato segnalato. Scrive il noto scrittore ipercelebrato che “se non esistesse il concetto di famiglia, non esisterebbero le organizzazioni criminali“, con un’affermazione apodittica senza la benché minima dimostrazione storica. La famiglia come male da estirpare, lanciando  i nuovi “patti d’affetto“ che sanno tanto di ddl Zan. Egli rimette in discussione il ruolo della famiglia nella nostra società, sostenendo che le mafie finiranno con la fine delle famiglie . “Quando l’umanità troverà nuove forme d’organizzazione sociale, nuovi patti di affetto, nuove dinamiche in cui crescere vite”, la mafia verrà sconfitta  il che equivale a dire che l’idea di famiglia è un’espressione di comunità contigua alla mafia. Un’affermazione paradossale, anzi aberrante e soprattutto non fondata storicamente. Le analisi sulla famiglia borghese di Marx e di Hengel erano più problematiche e meno settarie. Anche il “libero amore“ nella Russia sovietica fu per il popolo uno slogan propagandistico e un’opportunità concessa solo alla nomenclatura. Ma in effetti nell’URSS liberticida le affermazioni di Saviano sarebbero costate al suo autore il gulag o il manicomio. Forse Saviano è anche nostalgico delle fallimentari “comuni” sessantottine che coniugavano nudismo, droga e promiscuità, anche se parla di nuovi patti senza  però darne una definizione. Sarebbe interessante capire a cosa si riferisca di preciso. Il Nostro precisa che questi giudizi vanno estensivamente  applicati anche  alle famiglie non criminali borghesi perché il vero bubbone è il capitalismo. Come si faccia a dire che la famiglia sia un male da estirpare, non è chiaro. Solo un vetero  -marxista -leninista che non conosce la storia  reale dell’URSS ,può giungere a certe affermazioni. Temo che non si tratti di paradossi, ma di convinzioni reali. Io sono abituato a rispettare tutte le idee, soprattutto  quelle più intollerabili: così si comportano i liberali che non possono tuttavia essere indifferenti ad alcuni principi etici irrinunciabili. Resto infatti tenacemente fermo all’articolo 29 della Costituzione che parla della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. La cellula fondamentale di qualunque società è la famiglia e la sua disgregazione equivale al nichilismo più assoluto che genera dei veri e propri mostri.
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I falsi liberali improvvisati

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Chi si oppone alla vaccinazione di massa e al green pass invoca spesso argomentazioni apparentemente liberali. Si tratta di una mistificazione ambigua e falsa perché questi signori (sia i politici e che i manifestanti in piazza  sono persone senza la benché minima qualità intellettuale

Gente senza qualità, come diceva Musil. E’ gente che non ha mai letto seriamente un libro in vita sua. Alcuni hanno evidenti  ascendenze neo-fasciste, velocemente e solo  provvisoriamente occultate. Non sanno che la libertà per i liberali è sempre e soltanto libertà responsabile  e che la libertà si è fusa, a partire dal secolo scorso, in modo indissolubile con la democrazia. Non a caso,  nella loro confusione mentale, sostengono  la democrazia illiberale di Orban e di fronte alla pandemia invocano invece in Italia atteggiamenti che ammantano di  un liberalismo di facciata appreso in un corso accelerato al Cepu. Mettersi nelle condizioni di infettare il prossimo è un atteggiamento barbaro, anzi da cavernicoli. Il liberalismo nacque molto dopo e fu una grande conquista civile e culturale sia nella versione inglese, sia nella versione  francese. Anche la versione italiana ha  avuto esponenti del calibro di Croce e di Einaudi che furono  sempre uomini di cultura eticamente responsabili. Oltre ai neofascisti a dare lezioni di liberalismo si aggiunge l’ex comunista Cacciari, del tutto estraneo alla cultura liberale. Da liberale da oltre cinquant’anni, appartenente ad una famiglia liberale che può vantare il nome di Marcello Soleri, sento il dovere di denunciare l’appropriazione indebita di una concezione etico-politica che è del tutto estranea a chi crea confusione e proteste ingiustificate , dicendo di voler difendere la libertà. Lo scrivo a nome di tutti i liberali:  da Cavour a Giolitti, da Croce a Einaudi, da Pannunzio a Malagodi, da Badini Confalonieri a Zanone, da Altissimo a Biondi. I liberali che hanno avuto come simbolo la bandiera tricolore, hanno sempre avuto il senso dello Stato che hanno fondato nel 1861 come stato  liberale di diritto. E hanno avuto sempre la capacità di essere patrioti soprattutto nei momenti più drammatici della storia italiana ed europea. E in momenti tragici  come questi  i patrioti stanno dalla parte di chi vuole una libertà solidale senza ambiguità che si ponga l’obiettivo di salvare vite umane. Che la mia ex allieva Laura Marruccelli nipote dell’eroico generale Giuseppe Perotti capo del comitato militare del CLN piemontese fucilato al Martinetto, abbia fatta la scelta di difendere le ragioni della tutela della salute pubblica è un fatto che mi conforta e mi riempie di orgoglio.
(Immagine tratta da nicolaporro.it)

Oggi occorre disciplina. Cacciari taccia

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni


Finché e’ il segretario dei comunisti italiani Rizzo a dire che il Green pass è  una cosa per ricchi, non mi stupisco, anche se in qualche modo un po’ mi sorprendo perché Rizzo è persona che reputo intelligente

La propaganda finisce però di prevalere e quindi il partito comunista fa una questione di classe anche nella lotta alla pandemia.  Un po’ come ebbi modo di leggere mesi fa su Fb che il poter raggiungere la seconda casa era un privilegio intollerabile dei ricchi. Ma chi scriveva quella frase piena di odio classista era invece persona davvero da quattro soldi. Che adesso anche il professore di Filosofia Massimo Cacciari scriva tante frasi senza costrutto per criticare il green pass come un qualcosa che fa pensare al regime sovietico, mi indigna non poco. Non l’ho mai considerato un filosofo come invece vuol far credere di essere, ma lo ritenevo un piacevole intrattenitore televisivo non allineato e quindi interessante. Questa sua presa di posizione aspramente ostile al Governo Draghi la giudico un tradimento del chierico Cacciari. Il famoso tradimento dei chierici di Benda anche se a scartamento ridotto. Un pensatore critico come Bobbio avrebbe avuto il buon senso comune di tacere perché in certi momenti chi può influire sull’opinione pubblica deve astenersi dal dare giudizi emotivi che possono avere un che di sedizioso. La responsabilità oggi deve prevalere su tutto. Più che mai oggi abbiamo bisogno di disciplina. Non abbiamo bisogno di seminatori di dubbi (ci sono già i virologi che abbondano nel loro intollerabile protagonismo mediatico che semina terrore), ma di uomini di cultura che infondano fiducia. Cacciari che è stato deputato del Pci, non ha titolo di parlare dell’ Italia come un regime sovietico. I veri comunisti in alcuni momenti decisivi della nostra storia hanno saputo essere patrioti. Lo colse molto bene lo storico Raimondo Luraghi che andò nei garibaldini a combattere nella Resistenza perché non poteva più accettare la faziosità dei giellisti. Certo giellismo fazioso si rivelò come un qualcosa di inutile, se non di dannoso.
Oggi i radical-chic alla Cacciari sono deleteri. E non sarà comunque un articolo di Cacciari a salvare l’Italia che ha bisogno della probita’ dei suoi intellettuali che Croce paragonava al pudore delle donne:  cose di altri tempi che suscitano lo scherno dei più. Può sembrare strano, ma io mi ritrovo totalmente nelle parole responsabili di Massimo Giannini da cui mi separa quasi tutto. I veri uomini di cultura devono dare una mano per evitare che la barca affondi come tutti gli altri cittadini, ponendo cultura e intelligenza al servizio della Patria, come fece Benedetto Croce dopo Caporetto, pur avendo criticato l’intervento nella Grande Guerra dell’ Italia nel 1915. Noi oggi siamo in guerra contro un nemico insidioso e non è concesso a nessuno di fare la mosca cocchiera e meno che mai il dispensatore di moralismo a buon mercato. Anche il prof. Cacciari deve abbandonare la sua presunzione di sapiente e tirare anche lui la carretta. Non creda di essere il nuovo Socrate, perché il suo pensiero è davvero poca cosa di fronte alla tragedia che sta vivendo il mondo. Sto quasi riapprezzando Vattimo perché tace. Ma non sono affatto sicuro che tacerà prevedo che solidarizzerà con Cacciari. Donne come Mara Antonaccio e Patrizia Valpiani stanno trascurando la professione privata per andare a vaccinare le persone. Questi sono gli esempi civici di alto valore morale da indicare agli italiani, non le chiacchiere di bastian contrari per partito preso che, ripeto,debbono tacere: siamo già abbastanza disorientati e non ci servono i Cacciari di turno che pontificano su temi sui quali non hanno titolo per disquisire. E’  proprio il caso di dire: Primum vivere, deinde philosofari.

Il vero compleanno di Torino è quello sabaudo

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

La Sala Rossa del Consiglio Comunale di Torino   ha approvato, ieri  pomeriggio, una mozione proposta dalla consigliera Viviana Ferrero con la quale si impegna la Giunta a predisporre “tutte le azioni atte a designare la data del 30 gennaio del 9 a.C. quale data della fondazione di Torino”.

Il documento trae spunto dagli studi presentati dal “Comitato 30 gennaio 09 a.C.” che individua in questa data la probabile fondazione romana di Torino, secondo studi interdisciplinari tra archeologia e astronomia, attraverso un algoritmo che avvalora le ipotesi archeologiche legate ad una fondazione della città secondo il corso del sole allineato, nel suo sorgere, con il decumano, l’attuale via Garibaldi.
Il documento impegna inoltre ad organizzare eventi culturali e scientifici sul tema della città romana e ad inserire la data tra le celebrazioni previste dal calendario del cerimoniale ufficiale. Nulla da eccepire, ma appare davvero strano che questa Amministrazione, come le peggiori Giunte di sinistra, abbia trascurato per cinque anni  la storia certa (e non probabile) di Torino,  in primis quella sabauda, da Emanuele Filiberto che la rese capitale  a Vittorio Emanuele II, padre della Patria con cui divenne prima capitale d’Italia. La Torino culla del Risorgimento con Cavour e gli altri patrioti, alcuni dei quali esuli a Torino, è stata sempre volutamente dimenticata. E forse hanno fatto bene a non mettere le mani sopra un passato che non appartiene a questa gente priva di radici culturali e storiche ma stranamente attenta alle origini romane di Torino.  Torino in quell’epoca era piccola  colonia romana, un punto insignificante e dimenticato  nella storia dell’Impero. Bisognerebbe formare con la prossima amministrazione un Comitato “Torino 1861“ che ricordasse  ogni anno solennemente il 17 marzo quando a Palazzo Carignano venne proclamato il Regno d’Italia. Un altro regno (che venne confrontato incredibilmente con quello dei Savoia) è finito proprio in questi giorni, quello della Fiat e degli Agnelli, con la vendita della palazzina del Lingotto da parte di Stellantis, un ennesimo schiaffo di stile squisitamente padronale  degli Elkann, gente totalmente estranea alla nostra città.  La Torino operaia e socialista su cui scrisse Paolo Spriano, è anch’essa finita con la fine della città industriale. Degna di essere ricordata resta la storia del Risorgimento perché a Torino nacque l’Italia, una realtà  che, virus o non virus, non ha nessuna intenzione di chiudere i battenti  perché  ricca di energie intellettuali ed economiche capaci di un nuovo Risorgimento.

No vax e libertà: prima il bene della Nazione

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Vengo letteralmente aggredito dai no Vax e dai loro accoliti perchè difendo le ragioni della vaccinazione di massa e il green – pass.

Solo così ritorneremo a godere delle nostre libertà che la pandemia ha ridotto e in alcuni casi annullato.

E’  una sensazione molto particolare  quella che provo:  mi suona strano essere accusato di intolleranza;  per uno come me che si è sempre battuto per la libertà e la tolleranza  ed ha subito l’intolleranza e la ghettizzazione proprio perchè libero , sembra quasi impossibile dover  leggere certe parole offensive e false. Ma la pandemia altera la  testa di molti, quei molti il cui comportamento irresponsabile porta alle restrizioni contro le quali gli stessi fanatici  scendono follemente in piazza, creando pericolosi assembramenti. E’  spesso gente piuttosto  ignorante che non sa nulla di storia e delle vaccinazioni che hanno salvato l’umanità. Basterebbe anche solo aver letto Manzoni che descrive la peste, ma questa gente non ha mai studiato nulla .Sono istintivi ,quasi  selvaggi ,  decisamente asociali, gente  che dovrebbe vivere in una selva  e non una comunità civile. L’art. 32 della Costituzione, a parere dei più illustri costituzionalisti, consente un trattamento sanitario forzato per ragioni di tutela della salute pubblica. Di fronte alla pandemia ci vogliono autodisciplina e civismo, due cose che sovente non ci sono. Il bene della Nazione , ricorderei alla destra , deve sempre prevalere La Nazione, la Patria, non il paese. Oggi la destra ha dimenticato il dovere di essere patrioti. I liberali veri hanno innato il senso dello Stato che il liberalismo risorgimentale ha creato cento sessant’anni fa. Sono anarchici senza saperlo . Il liberale Popper diceva che gli intolleranti non vanno tollerati. I fanatici che mettono a repentaglio la propria vita e quella degli altri non sono tollerabili in una libera democrazia in cui vale il rispetto dei diritti , ma anche quello dei doveri.  La libertà è responsabilità, altrimenti è licenza libertina ed anarcoide.
Io mi sono sottoposto a decine  di vaccinazioni quando ero bambino e durante i miei numerosi viaggi all’estero che lo imponevano in modo tassativo.
Oggi siamo in guerra contro un virus che ha fatto milioni di morti e mi sento come un soldato con le stellette richiamato in trincea a combattere con la penna per convincere alla responsabilità  e per  rintuzzare le bestialità che leggo. La pandemia ci ha resi peggiori , molto peggiori . Oltre un anno fa richiamavo il detto di Hobbes tratto da Plauto  Homo homini lupus. Ci stiamo  purtroppo arrivando. Stanno seminando la discordia sociale, seminando la paura del tutto fuori luogo di poter perdere la libertà. La vita e la libertà sono a volte due opzioni antitetiche che l’uomo si trova costretto a fare. “Libertà va cercando ch’e’ si’cara come sa chi per lei vita rifiuta“, come scrive Dante. La vita senza libertà non è meritevole di essere vissuta .In alcune occasioni storiche è richiesto agli uomini non banali il sacrificio della vita per la libertà. Così sono nati gli eroi. Ma in questo contesto, pur molto  drammatico, non ci sono possibilità di  scelta di questo tipo che apparirebbero ridicole  perché la  scelta è  oggi una sola : salvare la vita e la libertà, non dando retta alle Cassandre che per motivi di abietto interesse elettorale creano  panico sui vaccini, avvalendosi dei social in modo irresponsabile. Io non credo che un uomo come Draghi possa attentare alle libertà costituzionali . L’ho temuto  più volte con il governo giallo – rosso precedente , ma oggi l’unico reale pericolo contro cui concentrare ogni sforzo è combattere il virus, salvando vite umane .

Papa Francesco e la Messa di Pio V

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

La questione della Messa in latino sembrava un argomento su cui non fosse più il caso di discutere. Appariva un tema non più divisivo all’interno del mondo cattolico, invece, all’improvviso, è intervenuto con fermezza Papa Francesco, ritenendo la celebrazione della Messa di Pio V motivo di scontro conflittuale  all’interno della Chiesa.

Il Pontefice ha revocato  con il Motu proprio “ Traditionis costodes “le concessioni dei suoi due predecessori relative ad una certa “liberalizzazione“ nella  celebrazione della Messa in Latino secondo il Messale  del 1962 ,precedente al Concilio Vaticano II. Tra le principali novità – scrive” Avvenire”, voce della CEI- viene affermato il ruolo esclusivo del vescovo nell’autorizzare l’uso del Messale precedente alla riforma liturgica voluta da Paolo VI.
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Il Pontefice è preoccupato che vere e proprie comunità di credenti vedano nella Messa in latino una  forma  di contestazione non solo del Concilio, ma addirittura della stessa autorità del Papa attuale, sollevando la questione della sua illegittimità. Esistono infatti sacerdoti e credenti che ritengono che l’unico  vero Papa sia Benedetto XVI. Si tratta di posizioni estreme volte a sconvolgere l’intera Chiesa in  nome di  un tradizionalismo ribelle  che va persino oltre quello del vescovo  Lefebvre che fu promotore  di un piccolo scisma contro il  Concilio e la nuova liturgia che non si limitava a tradurre nelle diverse lingue il Messale, ma cambiava anche radicalmente la Messa, partendo dall’altare dal quale essa veniva celebrata. Ci fu chi disse che la nuova liturgia ribaltava  una visione teocentrica ( con il sacerdote che dava le spalle ai fedeli e restava rivolto verso l’altare) in una visione antropocentrica in cui l’assemblea dei fedeli era coprotagonista del rito. Un tentativo, si disse, per riavviare un dialogo verso il mondo protestante. Non ho la cultura sufficiente in materia liturgica per dare dei giudizi, ma ricordo di aver vissuto  da studente liceale tutta la vicenda. La Messa di Pio V e del Concilio di Trento   fu archiviata come un’eredità della Controriforma. Un segno di rinnovamento che svecchiava la Chiesa di secoli privandola di un qualcosa che aveva sfidato il tempo ed era diventato quasi metastorico. La Chiesa cattolica romana preferì abbandonare o almeno ridimensionare la tradizione
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La  lingua latina venne considerata superata . La liturgia  tradizionale e il canto gregoriano che rappresentava un’attrattiva persino per l’ateo Massimo Mila (che ne  subiva il fascino non solo musicale  vennero sacrificati a favore di un rinnovamento che cancellò un’eredità che durava da secoli. Nel Latino sconosciuto ai più c’era il  fascino del mistero che è andato perduto. Forse la via obbligata della Chiesa era quella di aprirsi al presente e al futuro, guardando al terzo e al quarto mondo. La questione sociale è diventata anche per Chiesa   la questione centrale e l’attuale Papa, anche per le sue origini, appare assai concentrato sui temi sociali, sulla povertà evangelica, sulle disuguaglianze e sui temi ambientali. Questa stretta molto ferma sulla possibilità di celebrare la Messa di Pio V ha  sicuramente delle ragioni che vanno oltre la sua  celebrazione che alcuni hanno utilizzato come una clava contro l’attuale Pontefice, che ha risposto in modo duro e anche comprensibile, mettendo sotto il controllo dei vescovi la possibilità di celebrare la Messa precedente al Concilio. Se devo essere sincero, la Messa voluta da Paolo VI non mi ha mai entusiasmato e ricordo le discussioni animate con il  mio compagno di liceo Mauro Barrera (mancato da poco) che ne era entusiasta. Non credo casualmente Barrera divenne uno dei leader della contestazione studentesca nel ‘68 e seguitò  coerentemente per tutta la vita nella sua scelta progressista. Al contrario  ho sentito rimpianto per la vecchia Messa che ragazzino andavo a servire, come si usava in quell’epoca. Ricordo le solenni Messe cantate nelle grandi festività che davano il senso della festa religiosa oggi forse non più recuperabile.
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Capisco  che i nostalgici  siano considerati dei reazionari. Io che non mi sento affatto un reazionario, ma un liberale  sento il valore di una tradizione che viene da lontano. Vivere immersi nel presente a volte e’ cosa miserevole specie in tempi di nichilismo più o meno totale. Forse è anche la nostalgia della giovinezza a far rimpiangere l’antico. Oggi non avrebbe ragione l’umanista Lorenzo Valla a dire che i veri antichi siamo noi  perchè il presente senza radici che stiamo vivendo  ci priva dell’eredità del passato. Sarebbe  necessario ,a mio modo di vedere , recuperare il senso della storia e del passato e anche la Messa di Pio V costituisce un tassello importante, al di là del fatto che si creda o non si creda. Vivere nel presente può portare a grandi disastri . La storia consente un dialogo tra generazioni diversamente impossibile. Ed oggi il dialogo tra generazioni è diventato sempre più difficile persino all’interno della stessa Chiesa.

Così la scuola non risorge

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Il Covid e la Dad  – stando ai dati Invalsi – hanno portato  una parte di studenti che hanno acquisito la Maturità, ad ottenere una preparazione da III media. E consideriamo che la preparazione della scuola media italiana non è certo brillante ed esemplare . Ho scritto più volte che la Dad era una scelta obbligata, ma che andava impostata con serietà.

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I docenti italiani non erano pronti per la Dad e  una parte di studenti – va detto –  ha preso sottogamba una scuola senza  reali contatti con i docenti  e senza verifiche periodiche adeguate. Poche scuole hanno superato l’ostacolo che era oggettivamente quasi  insuperabile, malgrado l’impegno di presidi, docenti e personale non docente che, si spera, siano stati tutti vaccinati, ma neppure su questo ci sono certezze. Voglio citare come esemplare in senso positivo il liceo classico “Vittorio Alfieri “ di Torino e la sua preside che ha dichiarato ai giornali costantemente delle informazioni e delle prese di posizione che rivelano la sua onestà intellettuale e la sua competenza. Altrettanto posso dire per il liceo “Viesseux“ di Imperia e del suo capo d’Istituto. Io che mi sono sempre battuto per la serietà della scuola contro il facilismo permissivo e le promozioni di massa,  ero giunto all’amara  conclusione che sono meglio degli asini vivi che dei sapientoni morti. Anche durante la Seconda Guerra Mondiale si ebbero conseguenze nefaste sulla scuola. Ogni vicenda va comparata e storicizzata.

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Quindi non mi scandalizzo anche se  denuncio e ho denunciato le carenze del ministro attuale e le gravissime responsabilità della signora Azzolina e del commissario Arcuri che ,insieme al non potenziamento dei trasporti, provocarono il disastro che sappiamo. Il nuovo ministro Bianchi  ha investito nel progetto della scuola aperta d’estate somme non indifferenti. Un’idea sicuramente  positiva soprattutto se volta a tentare di colmare le lacune ereditate da un anno che ha avuto una certa regolarità solo a partire da aprile. Da quanto si apprende i fondi sono andati solo ad alcuni istituti e non ad altri in base a criteri che non voglio discutere, anche se appaiono non sempre accettabili  come quello della perifericità delle scuole come elemento preferenziale.

Il progetto era finalizzato al recupero delle competenze relazionali oltre che disciplinari degli studenti. Sicuramente la scuola non più in presenza ha determinato delle carenze nella socializzazione tra allievi. Leggendo però come sono stati utilizzati i fondi  da alcune scuole, mi sembra che le competenze disciplinari siano state sacrificate alla socializzazione. Un preside ,dopo aver sciorinato tutte le iniziative promosse, ha dichiarato che la sua  scuola non intendeva diventare un oratorio. Excusatio non petita, dicevano i latini, accusatio manifesta. Le lezioni di yoga e le camminate in collina sono solo un esempio. Poche scuole hanno centrato l’obiettivo del recupero disciplinare. I licei classici si sono distinti ancora una volta per la serietà. E il Liceo Alfieri di Torino che di fatto non ha avuto finanziamenti, ha puntato sul recupero didattico in modo adeguato. Il fine della scuola non è socializzare, ma istruire. La socializzazione non è un fine, ma una conseguenza della frequenza scolastica. Chi la pensa diversamente è ancora fermo alla scuola di campagna di don Milani. Oggi occorre riprendere l’invito, dimenticato dal ‘68 in poi,  di Gramsci: ” Istruitevi  perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza”.
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I fratelli Garrone tra eroismo e umanità. La mostra a Vercelli

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Quando, dopo la laurea, i miei rapporti con Alessandro Galante Garrone mio  indimenticabile docente di Storia del Risorgimento e per tanti anni mia stella polare,  divennero meno formali -anche se la nostra frequentazione risaliva al 1968 quando nacque il Centro Pannunzio e alla comune amicizia con Mario Soldati e con Leo Valiani-ci capitò a cena  al “Cambio“, in occasione del conferimento a Spadolini nel  1982  del Premio “Pannunzio” di cui Galante Garrone tesse’ le lodi, di parlare di un argomento molto speciale.

Il Maestro, rivolgendosi all’ex allievo, in modo sorprendente, mi disse più o meno queste parole : io colsi in  te un amore per il Risorgimento che in un giovane d’oggi appare inspiegabile ed è molto raro  e che fa quasi pensare a quello dei miei due zii, i fratelli Garrone. Io lo ritenni un grande complimento  che ascoltò anche Spadolini e quando parlai il 20 settembre dello scorso anno a Palazzo Carignano (dove tanti anni fa presentammo insieme “Fiori rossi al Martinetto” di Valdo Fusi) per i centocinquant’anni della Breccia di Porta Pia, parlai di innamorati del Risorgimento rivolgendomi al pubblico presente. Non ritenni di ricordare quell’episodio lontano, ma quella espressione veniva dal ricordo di uno straordinario evento: il presidente del Consiglio repubblicano che dopo aver parlato al museo del Risorgimento, si siede al tavolo del ristorante al posto dove era solito pranzare Cavour  per ricevere il Premio Pannunzio appena istituito da Mario Soldati e da chi scrive.
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Ma quelle parole di Sandro (così volle che lo chiamassi e fu per me un grande onore) mi sono tornate alla mente quando sua figlia, la storica dell’arte Giovanna Galante Garrone, mi invitò a visitare la mostra inaugurata a Vercelli a metà giugno “DA UNA VITA ALL’ALTRA. I fratelli Garrone: eredità di affetti e di ideali dal fronte della Grande Guerra”, che rimarrà aperta fino al 31 ottobre al Museo Leone. Solo in questi giorni sono stato a visitare la bella mostra  realizzata dal Museo Leone – vero fiore all’occhiello della cultura non solo vercellese -, che si è rivelata molto curata nell’allestimento e va dato atto dell’ottimo lavoro dei due curatori   Chiara Maraghini Garrone (che tra l’altro che ha catalogato il ricco fondo di lettere dei due fratelli)e Luca Brusotto direttore del Museo.  Essa rientra in un progetto di più ampio respiro: “ I fratelli Garrone e il loro epistolario: testimonianza di un percorso di libertà e giustizia“, sostenuto dalla Struttura di missione per la valorizzazione degli anniversari nazionali e della dimensione partecipativa delle nuove generazioni della Presidenza del  Consiglio dei Ministri. Non si può descrivere la mostra storico fotografica dedicata a questi due giovani patrioti, che sull’onda degli ideali risorgimentali partirono volontari nella Grande Guerra che sentirono come quarta guerra per l’ indipendenza e che si immolarono   Insieme il 14 dicembre  del 1917 durante la battaglia del Col della Berretta  che  segnava la ripresa dell’Esercito italiano dopo Caporetto. Giuseppe ( Pinotto) ed Eugenio( Neno )  Garrone  furono due personaggi davvero straordinari che si possono considerare come gli ultimi giovani del Risorgimento italiano che si compirà con Trento e Trieste italiane.Ottennero la Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria con  motivazioni che vanno ben oltre le parole spesso retoriche usate nel linguaggio militare.
Giuseppe, nato il 10 novembre 1886  era un giovane magistrato, Eugenio ,nato il 19 ottobre 1888, era un funzionario del Ministero della Pubblica Istruzione .Erano molto diversi tra loro, il primo legato ad un atteggiamento molto razionale, il secondo emotivamente romantico.
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Le loro vite vengono ricostruite attraverso la mostra che espone le splendide fotografie che i due volontari scattarono al fronte. La loro famiglia  vercellese era imbevuta di forti ideali patriottici che erano vivi in quasi tutte le famiglie piemontesi che avevano vissuto da vicino il Risorgimento. Io ebbi due zii partiti volontari e caduti già nel 1915 e mio nonno, amico di Cesare Battisti e di Damiano Chiesa, che parti’  anche lui per un fronte ,quello albanese, in cui si moriva più di malaria che a causa dei combattimenti ,mi parlava spesso della Grande Guerra. L’interventismo non fu solo quello di Gabriele D’Annunzio e dell’ex socialista Mussolini ,ma ebbe anche un volto risorgimentale e democratico e liberale  con Salvemini, Calamandrei, Parri, Bissolati, Omodeo ed altri. Un altro mio congiunto, il deputato liberale Marcello Soleri , giolittiano e quindi  non favorevole all’intervento in guerra, indosso ‘ la divisa di alpino e parti’ per il fronte dove venne ferito e decorato di Medaglia d’Argento. Mentre visitavo la mostra mi tornavano in mente i miei ricordi famigliari che sicuramente  sono la causa prima che mi portò sempre a sentirmi patriota  anche se non sono  confrontabili con quelli delle famiglie Garrone e Galante .Ricordo che una delle mie prime letture già al liceo fu “Difesa del Risorgimento“ di Adolfo Omodeo , un vademecum ideale che mi ha accompagnato nella mia vita di studioso. La prima a farmi conoscere da vicino – al di là di mio nonno – i due “ dioscuri” fu Virginia Galante Garrone che ripubblico ‘ nel 1974 da Garzanti “ Giuseppe ed Eugenio Garrone, lettere e diari di guerra” con un ampio saggio del fratello Sandro. Nel catalogo risalta un lucido saggio del magistrato e storico Paolo Borgna ,il biografo di Sandro Galante Garrone che, prima di dedicarsi all’insegnamento universitario ,fu anche lui magistrato. Borgna affronta un tema scottante . Il patriottismo che portò i due fratelli a manifestare per l’intervento nel maggio 1915 e a decidere di partire per il fronte ,dove avrebbe condotto i due giovani se fossero sopravvissuti alla guerra? Il fascismo cercò di annetterseli e il busto di Pinotto inaugurato nel 1936  dal Guardasigilli fascista  Solmi nel Palazzo di Giustizia di Roma fu un omaggio ad un magistrato eroico ,ma anche un tentativo di strumentalizzarne il ricordo.
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Cosa avrebbero fatto i fratelli Garrone di fronte alla ostilità violenta  dei socialisti nei confronti dei reduci negli anni del dopoguerra italiano quando si giunse quasi alla guerra civile tra fascisti e socialisti? Cosa avrebbero fatto di fronte alla Marcia su Roma a cui si opposero anche uomini come Carlo Delcroix? Cosa avrebbero fatto di fronte al delitto Matteotti? E’ legittimo pensare secondo Borgna – e io concordo con lui – che il delitto Matteotti avrebbe rappresentato un campanello d’allarme decisivo anche se un uomo come Benedetto Croce dovette attendere il 1925 per una scelta antifascista decisa con il manifesto degli intellettuali di risposta a quello di Gentile. Furono anni travagliati e confusi che portarono molti a sottovalutare Mussolini. Ernesto Rossi, ad esempio, che si fece anni di galera per antifascismo, fu collaboratore del “ Popolo d’Italia” il quotidiano diretto dal futuro duce. Borgna si spinge ad immaginare i due  fratelli  dopo l’8 settembre 1943 , a “dirigere la lotta contro il tedesco invasore“. E anche qui convengo con lui ,anche se ritengo difficile pensarli sulle posizioni che caratterizzarono i nipoti Sandro e Carlo, i quali furono impegnati in “ Giustizia e libertà”. Molto opportunamente Borgna evidenzia come sarebbe errato appropriarsi dell’eredità dei due fratelli in senso diametralmente opposto a quello del ministro fascista Solmi .
Ipotizzare cosa avrebbero fatto  sarebbe un’operazione storicamente scorretta. Ma credo che non sarebbero rimasti nella zona grigia . Tra l’altro molti resistenti scelsero di andare in montagna per fedeltà al giuramento prestato come il maggiore degli Alpini Enrico Martini Mauri che aveva combattuto eroicamente ad El Alamein. In questa lunga riflessione non ho accennato all’aspetto umano dei due fratelli ,alla nobiltà dei loro sentimenti, al loro attaccamento alla famiglia ,al fatto che Pinotto muore tra le braccia dell’altro fratello che lo veglia tutta la notte. Un episodio che fa pensare agli eroi antichi. Andrebbe anche sottolineato il loro modo umanamente molto significativo di trattare i propri soldati condividendone le sofferenze e i disagi ,un qualcosa di diametralmente opposto al rigorismo cieco di Cadorna. L’atrocità della guerra di posizione li  aveva resi consapevoli della violenza estrema di un conflitto mondiale che stravolse la storia .Eugenio scrisse nel 1917 ai genitori :” Perché si devono odiare a tal punto gli uomini. Perché ?” Una domanda che ci porta a pensare che il nefasto mito guerrafondaio del fascismo avrebbe trovato i due fratelli schierati dall’altra parte perché la loro idea di Nazione ,per dirla con Chabod, era nutrita di una profonda umanità che si coglie in tutte le  loro lettere. Io li immagino giovanissimi lettori del “Cuore“ di De Amicis che contribuì a formare intere generazioni di giovani  che si ritrovarono nelle trincee della Grande Guerra.

La scritta Tito e l’amicizia italo-slovena

Il commento di Pier Franco Quaglieni

Sul versante che guarda verso l’Italia del Monte Sabotino (legato alla storia della Grande Guerra e alle battaglie dell’Isonzo e del Carso ), oggi in territorio sloveno, continua a campeggiare la scritta TITO lunga 100 metri con lettere di 25 metri.

 

Un residuo della vecchia Jugoslavia a cui venne tolto l’aggettivo possessivo e “affettivo“ il “nostro“. Una forma di propaganda tipica dei regimi totalitari e autoritari come dimostrano, ad esempio, le scritte Duce,  Dux, Mussolini ecc. nell’Italia fascista. Il culto della personalità e’ tipico infatti di quei regimi e Tito fu un dittatore in piena regola. Sanguinario con gli Italiani di Istria e Dalmazia infoibati dai suoi partigiani , ma anche sanguinario con gli stessi slavi e altre popolazioni presenti in Jugoslavia durante il suo lungo periodo di governo in cui ebbe un potere dispotico ed assoluto. Un anno fa l’incontro tra il presidente italiano e il presidente sloveno sembrava aver posto fine alle residue ostilità ed aver soprattutto aperto una strada di amicizia e collaborazione che sotterrasse finalmente il passato. La presenza del presidente sloveno alla foiba triestina di Basovizza stava a dimostrare una presa di coscienza storica del dramma delle foibe. La Slovenia e’ nata dalla decomposizione violenta della Jugoslavia titina dopo una lunga e terribile guerra civile. Si può pensare ragionevolmente che i nostalgici di Tito siano oggi un ‘esigua minoranza, ma una certa ostilità verso gli Italiani che ebbe origine già con la dominazione austriaca di quelle terre, rimane. L’avevo colto io nel 2007 quando guidai un pellegrinaggio laico da Fiume a Trieste nel ricordo dei 15mila infoibati. Il permanere di quella immensa scritta Tito c’è da chiedersi che significato abbia oggi. Un cimelio del passato regime rimasto a testimoniare una qualche nostalgia e nel contempo un implicito pregiudizio antitaliano? Il nome di Tito resta un elemento divisivo che rende difficile guardare avanti, come sarebbe auspicabile, all’Europa unita come superamento di tutti gli odi novecenteschi che hanno reso la storia un mattatoio. Tito rappresento’ un’ideologia che mescolo’ insieme comunismo e nazionalismo, creando una miscela esplosiva. Il fatto che si sia distaccato da Stalin non cancella le sue gravi colpe storiche anche ciò fece comodo alle potenze occidentali. Quella scritta cubitale rivolta verso l’Italia non è certo un segno di superamento delle ferite legate al dramma del confine orientale italiano. Sarebbe bene rimuoverla. In Italia giustamente nessuno tollererebbe nulla di simile che riguardasse Mussolini.