Il Centro e le incompatibilità
LO SCENARIO POLITICO di Giorgio Merlo
Dunque, la vulgata che va per la maggiore è ormai chiara dopo il recente voto europeo. E la possiamo riassumere così. Serve un Centro sia alla coalizione guidata da Giorgia Meloni e sia a quella coordinata da Elly Schlein. Anche perchè, come tutti sanno, non solo in Italia si governa “dal centro” e “al centro” ma, sempre in Italia, le elezioni sui vincono al centro. Occorre, cioè, saper intercettare quel segmento della pubblica opinione – che negli ultimi si è prevalentemente astenuto – che non è riconducibile alle tifoserie organizzate da un lato e agli “opposti estremismi” dall’altro. Ora, alla luce di queste banali e persin scontate considerazioni, è di tutta evidenza che ci si deve attrezzare in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. Locali e nazionali. Ma per poterlo fare è indispensabile, nonchè necessario, che il Centro e “la politica di centro” non siano strutturalmente esterni ed estranei alle coalizioni che li dovrebbero ospitare. E questo era, e resta, il vero nodo politico da sciogliere.
E, per entrare nello specifico, si tratta di capire quindi come viene costruito e concretamente declinato questo Centro. Sul versante della sinistra si prospetta un ostacolo che non è affatto secondario ai fini di questo progetto. Ovvero, il blocco sociale costituito dalla sinistra radicale e massimalista della Schlein, dalla sinistra estremista e fondamentalista di Fratoianni/Bonelli /Salis e dal populismo dei 5 stelle, è sostanzialmente estraneo a tutto ciò che è riconducibile al Centro, alla sua prassi, alla sua cultura, alla sua tradizione e al suo pensiero politico. E, non a caso, emerge la necessità a tavolino di dar vita ad una sorta di “gamba centrista” coordinata da qualche professionista della politica – ovviamente organico al Pd e alla sinistra – che dia almeno l’impressione di saper intercettare quel mondo. Con il rischio, più che concreto, che pensare di sommare elettoralmente tutte le attuali opposizioni al governo Meloni per ottenere maggior consenso è una pia illusione. C’è chi lo pensa, ovviamente. Ma il risultato non sarebbe quello auspicato dagli strateghi di questa operazione perchè, da sempre, non si sommano le pere con le mele.
Sul versante opposto, invece, il Centro già c’è. Ed è quello interpretato e rappresentato da Forza Italia. Si tratta, al riguardo, di capire adesso come avviene un potenziale processo di allargamento politico del partito e come si intende rafforzare il profilo e l’identità culturale di quella formazione politica. Una iniziativa che si rende semplicemente necessaria ed indispensabile, se si vuole radicare la cultura politica di Centro all’interno del partito e, soprattutto, come farla pesare maggiormente nella coalizione di riferimento.
In mezzo, almeno per il momento, restano i cocci di una ambizione politica miseramente fallita e su cui è meglio stendere un velo pietoso dopo l’ultima ed incommentabile performance elettorale. Quella, cioè, rappresentata dai due partitini personali di Renzi e di Calenda.
Ecco perchè, in conclusione, il Centro indubbiamente risorgerà. Ma non a prescindere dal profilo politico e culturale e dall’identità programmatica delle rispettive coalizioni. Questa non sarà una variabile indipendente ai fini della compatibilità del Centro e del suo ruolo concreto nella politica contemporanea.
POLITICA
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Giachino, una lettera toccante “agli amici sinceri”
“Le elezioni regionali sono andate bene politicamente ma non mi hanno premiato nei voti di preferenza. Ho tanti amici di qualità che non hanno l’abitudine di chiedere ad altri amici di votare un amico che ha fatto le battaglie più importanti per difendere la economia e il lavoro di Torino e del Piemonte”. Il candidato di Fdi ha postato su Facebook una lettera che ha ottenuto oltre 200 Like e più di 100 commenti. Giachino non si ferma e dà appuntamento ai suoi amici martedì 18 alle 18 in via Nizza 43 nella sede regionale FDI. Ecco il post pubblicato:
Salis, Grimaldi: “Ilaria libera, Europa libera!”
Salis, Grimaldi (AVS): Chi ha votato Ilaria è stato la scorta civile che l’ha portata a casa. “Ilaria Salis è tornata libera, la polizia ungherese le ha tolto il braccialetto elettronico. È la notizia più bella di questa campagna elettorale straordinaria, in cui tutti e tutte coloro che hanno scritto il nome di Ilaria sulla scheda sono stati la guardia civile antifascista che l’ha protetta dalla repressione autoritaria. E ora, insieme, la scortiamo fino a casa e in Parlamento europeo. Ilaria libera, Europa libera!” – lo dichiara il Vicecapogruppo di Alleanza Verdi Sinistra alla Camera, Marco Grimaldi.
Il desiderio di “riparare il mondo”
Viviamo in un’epoca difficile, colma di preoccupazioni, paure e tensioni. Da molto tempo guerre e conflitti, problemi sociali e varie emergenze (non ultime quelle sanitarie) hanno costretto milioni di persone a vivere con il fiato sospeso, a volte rallentando la vita sociale. Nella lunga stagione della pandemia fu una decisione obbligata e necessaria. Fummo costretti a modificare i ritmi quotidiani, le abitudini, il modo di lavorare, sperimentando lo smart working e il distanziamento sociale. Alcuni subirono dolorosi lutti, soffrendo in solitudine. Anche i gesti più semplici, quelli che davamo per scontati, erano diventati un tabù, rientrando nella categoria dei comportamenti a rischio. Ci si salutava da lontano, evitando strette di mano, abbracci, gesti affettuosi. Ci si rese conto di come le telefonate e i messaggi, le email e le comunicazioni sui social non potranno mai sostituire un sorriso, uno sguardo che faccia capire se una persona sta bene o meno, se ha gli occhi tristi o si intravvede sul volto un bagliore di felicità. Questa esperienza inedita di tempo sospeso avrebbe dovuto insegnare almeno tre cose. In primo luogo l’importanza, l’imprescindibilità delle relazioni umane in una società dove emozioni, affetti, rancori, presente e futuro parevano destinati a vivere solo sui social media. Il calore di una stretta di mano o di un abbraccio, quando si tratta di gesti sinceri e non relegati ai convenevoli, sono qualcosa di insostituibile. La seconda lezione è che i confini, di fronte alla diffusione pandemica del virus o al pericoloso allargarsi dei conflitti si dissolvono, diventano astratti, rappresentano poco o nulla, non possono fermare i contagi, non mettono al riparo nessuna comunità o nazione da eventuali escalation militari. Lo stesso accadde con la nuvola radioattiva di Chernobyl del 26 aprile 1986. In un mondo globale e interconnesso l’inquinamento, i virus, le crisi economiche e finanziarie, i venti di guerra valicano le barriere daziarie e quelle convenzionali e devono essere affrontati con impegni congiunti, insieme.
E’ così per la pace, per le materie prime e la finanza, e dal punto di vista ecologico, sanitario, economico e sociale. Chiudersi a riccio, alzare muri e barriere in nome di una presunta sovranità nazionale, illudersi di poter fare da soli o srotolare centinaia di chilometri di filo spinato non solo è inutile, ma è senz’altro dannoso. Serve uno sforzo vero per risolvere i conflitti in corso e trovare i giusti equilibri che evitino il ricorso alla violenza. Servono investimenti nella ricerca per individuare e produrre i vaccini per tutti, collaborando. Servono politiche solidali su scala internazionale e aiuti economici per chi ha meno, si trova in difficoltà e soffre di più. Servirebbe un nuovo modello di sviluppo che tenesse conto dell’equilibrio tra lo sfruttamento delle risorse, il bilancio ecologico e quello economico. Servono, per quanto ci riguarda e per dove siamo collocati nello scacchiere del mondo, risposte celeri e concrete a livello europeo, assegnando maggior peso e un ruolo più incisivo all’Europa anche se dalle urne è emersa una volontà in parte diversa che rende più traballante e incerta questa prospettiva. La terza cosa è forse la più necessaria e al tempo stesso la più difficile. “Riparare il mondo”, scriveva Alex Langer. Oggi che il nostro modello di sviluppo appare infartuato e si parla di crisi di sistema, le persone come Langer sembrano davvero profeti inascoltati. Il problema è che “riparare il mondo” non è solo una missione culturale e politica; è anche, se non soprattutto, una gigantesca occasione di nuovo lavoro, nuova economia, nuovo e diverso sviluppo. E qui la sfida diventa immensa. Tra dodici mesi saranno trenta gli anni che ci separano da quel 3 luglio 1995 quando Alexander Langer lasciò un ultimo biglietto prima di scegliere di allontanarsi volontariamente dalla vita. Poche, dolorosissime parole: “I pesi mi sono divenuti davvero insostenibili, non ce la faccio più. Così me ne vado più disperato che mai; non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”. Aveva 49 anni ed era nato a Sterzing, Vipiteno, in Alto Adige.
Uomo di frontiera e senza frontiere, senza patria e con molte patrie, intellettuale che parlava cinque lingue e aveva cento vite, costruiva ponti, univa popoli, faceva politica da persona che con molta della politica di quel tempo aveva poco a che spartire, come, sicuramente, non avrebbe nulla in comune con la politica di oggi. Al Pian de’ Giullari, nei pressi di Firenze, scelse un albero di albicocco in un uliveto, si tolse le scarpe e ci lasciò al nostro “grande freddo”, come disse Daniel Cohn Bendit. Lasciò tutti orfani di migliaia di appunti, riflessioni, parole, strette di mano, viaggi. Lasciò molti scritti e l’eredità difficile da gestire di un uomo ostinato e fragile, curioso, intelligente. Venticinque anni di assenza sono tanti per chi gli ha voluto bene e chi cercava nelle sue parole una risposta o l’illusione di averla. Non credo gli sarebbe piaciuta quest’Europa sempre più cinica, lontana da quella che lui aveva intravisto. E’ facile immaginare il giudizio critico su questo mondo in conflitto con la sua idea di conversione ecologica, di uno sviluppo “più lento, profondo, dolce”, rovesciando il motto olimpico del “più veloce, alto, forte”. Le sue idee, i suoi scritti e la sua ostinata voglia di costruire ponti l’ha lasciata in eredità a noi. Nonostante i molti dubbi e le pochissime certezze rimane però la speranza che si debba, comunque e sempre, tentare di “riparare il mondo”. Se capissimo il senso del comune destino, il fatto di condividere in gran parte gli stessi bisogni e ambizioni comprenderemmo di avere anche le medesime vulnerabilità e i difetti che ci rendono umani. Capiremmo così quanto sia necessario prenderci cura l’uno dell’altro, non solo nei momenti di difficoltà, ma anche in quelli di serenità e imparare a non dare nulla per scontato. In quel caso anche il volto triste di Alexander Langer forse di distenderebbe in un sorriso perché avrebbe la speranza, magari tenue, ma certa che staremmo continuando “in ciò che era giusto”.
Marco Travaglini