Oltre Torino. Storie miti e leggende del Torinese dimenticato- Pagina 4

Villa Capriglio

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Castelli diroccati, ville dimenticate, piccole valli nascoste dall’ombra delle montagne, dove lo scrosciare delle acque si trasforma in un estenuante lamento confuso, sono ambientazioni perfette per fiabe e racconti fantastici, antri misteriosi in cui dame, cavalieri, fantasmi e strane creature possono vivere indisturbati, al confine tra la tradizione popolare e la voglia di fantasia. Questi luoghi a metà tra il reale e l’immaginario si trovano attorno a noi, appena oltre la frenesia delle nostre vite abitudinarie. Questa piccola raccolta di articoli vuole essere un pretesto per raccontare delle storie, un po’ di fantasia e un po’ reali, senza che venga chiarito il confine tra le due dimensioni; luoghi esistenti, fatti di mattoni, di sassi e di cemento, che, nel tentativo di resistere all’oblio, trasformano la propria fine in una storia che non si può sgretolare(ac)

3.Villa Capriglio

 

Ci sono vari tipi di storie, ci sono quelle che fanno ridere, quelle malinconiche, quelle che ti tengono con il fiato sospeso, quelle romantiche e ci sono quelle che suscitano paura. Queste ultime si volgono in antri spettrali, nelle notti più buie, quando la nebbia invade il mondo e il vento che scuote gli alberi li fa sembrare ombre in un sabba. È di questa categoria la storia di cui tratteremo oggi. Nel torinese, tra le nebbie quasi abituali presenti sulla strada del Traforo di Pino, si erge una villa che, nelle fredde notti di plenilunio, compie viaggi spazio-temporali, appare e scompare come in un magico gioco di prestigio: si tratta di Villa Capriglio, da alcuni conosciuta come la Villa Gialla, dato il colore delle mura. La villa ha in sé una storia antica e inquietante, che pare accompagnarla fin dalle prime origini. La sua costruzione risale agli inizi del 1700, su progetto di un collaboratore di Juvarra. Ebbe molti proprietari, passò da una famiglia all’altra come se in realtà essa stessa non volesse appartenere a nessuno. I primi possessori furono i Marchisio, che, nel 1746, vendettero l’immobile a Gianpaolo Melina, Duca di Capriglio, da cui la villa prese il nome. Essa venne in seguito acquistata nel 1793 dal Regio Demanio, e si coniò allora la battuta del suo passare “dal Demanio al Demonio”. Secondo il chiacchiericcio locale, fu proprio agli inizi dell’800 che l’architetto incaricato di ristrutturare l’edificio volle aggiungere dei sotterranei segreti, che confluivano in un’ampia sala pentagonale. Si racconta che egli praticasse riti satanici e che abbia addirittura convinto i proprietari dell’epoca ad unirsi a lui in tali cerimonie perverse. Sono di quegli anni numerose storie di belle e giovani fanciulle prelevate dalle campagne e poi fatte sparire nel nulla. I contadini evitavano di avvicinarsi all’abitazione e la additavano con sospetto e terrore.Nel 1838 la acquistò Antonio Callamaro, preside della Facoltà di Legge di Torino, il quale, nel 1878, la lasciò in eredità alla figlia, moglie dell’avvocato Edoardo Cattaneo. Dopo di loro la villa cadde in stato di abbandono, fino a quando, nel 1963, diventò proprietà del Comune di Torino che non se ne occupò fino al 1971. In quell’anno si verificarono atti vandalici che non poterono passare inosservati, tra cui l’ingiustificabile furto di una imponente statua di Ettore Bernardo Falconi. Perché il degrado non diventasse irrecuperabile, il Comune decise di procedere ai lavori di restauro, ma il tentativo di ripristino si rivelò una farsa. Proprio in quelle circostanze, alcuni operai scoprirono dei bizzarri cunicoli sotterranei, la funzione dei quali rimase indefinita, anche perché di lì a poco i lavori vennero bruscamente interrotti.

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L’ultimo tentativo di utilizzo della villa fu ad opera dell’associazione culturale “I Leonardi” che, al 1999 al 2009, organizzò all’interno dell’edificio eventi di vario genere. Anche questa volta il sito venne abbandonato in pochissimo tempo e con pochissime spiegazioni. Ad oggi Villa Capriglio è in vendita. È la villa stessa che dissuade ogni possibile acquirente? L’edificio è facile da raggiungere, spunta dietro l’ingarbugliata boscaglia che costeggia la strada del Pino come una abituale presenza. Mi trovo in compagnia di due amici, con i quali ho chiacchierato allegramente per tutto il tragitto fino a che non siamo arrivati alla meta: ci lasciamo dietro le spalle il nostro mondo ed entriamo in quello della Villa Gialla, le parole rimangono incastrate nei pochi rovi che dobbiamo superare per raggiungere il cortile. La giornata è leggermente calda, il cielo è terso e il sole illumina la casa di una luce eccessivamente diretta, sulla facciata principale i segni del tempo sembrano graffi di artigli. La villa è enorme, circa 1300 m2 che si espandono su due piani, tutto intorno vi è un cortile di quasi 2000 m2. La osservo con stupore e ho l’impressione che dalle finestre vuote la villa ricambi il mio sguardo. Fingo indifferenza, studio un’inquadratura con la mia reflex, ma, nel fare ciò, mi accorgo dello sbiadire dell’erba, così verde sotto i miei piedi e quasi bruciata vicino alle mura scrostate. Noto anche altri dettagli: nessun uccello decide di riposarsi sull’ampio tetto dell’edificio, nemmeno gli insetti osano avvicinarsi, su tutto grava un silenzio corposo, che immobilizza gli alberi e rende ovattato il rumore delle auto, che sfrecciano volutamente indifferenti, a pochi metri da noi. Ora, la villa pare sogghignare. Decidiamo di avvicinarci e di camminare lungo il perimetro esterno, alcune finestre sono state murate, altre si affacciano minacciose prive di balconi e adornate di vetri rotti, c’è un unico ingresso, al piano terra, un antro buio dal quale provengono degli sbuffi di aria fredda. Vicinissimo alla casa c’è un albero morto, nodoso, sembra un artiglio di qualche mostro che tenta di uscire dal terreno. Alle spalle dell’edificio il giardino continua ma poi si trasforma in uno stretto umido sentiero, i colori della natura si fanno più cupi e la sterpaglia si annoda ad oggetti che testimoniano il passaggio di altri visitatori, decisamente non educati come noi. Non c’è molto da vedere lì dietro e finiamo il giro velocemente, ritrovandoci al punto di partenza. Sono di nuovo davanti a quell’enorme casa vuota, che un tempo aveva accolto tra le sue mura balli, sfarzi, incontri segreti, dame e re, ma non posso dimenticare anche altre voci, ripugnanti, che raccontano di riti occulti e sanguinari. Mentre penso a quest’ultimo aspetto mi rendo conto del profondo senso di inquietudine che mi pervade. Il senso di disagio supera quello della curiosità, così propongo di andare via, i miei accompagnatori, però, non mi danno ascolto e si accingono ad entrare, io con uno scatto fulmineo li seguo: non voglio rimanere sola.

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L’interno è una grotta mistica quasi priva di illuminazione, l’aria è gelida, tanto da congelare anche l’eco dei nostri passi. Non c’è alcuna traccia dell’antico splendore, il pavimento è un agglomerato di sporcizie e rifiuti, le pareti sono del tutto scrostate ed imbrattate, i soffitti impregnati di umidità e consunti dall’abbandono. Un po’ di luce naturale riesce ad insinuarsi in quello che forse era il salone principale, ma su tutto prevale il buio cieco dell’ombra che inghiottisce le altre stanze. Arriviamo ad uno scalone che conduce al piano superiore, all’apice di esso una grande finestra, priva di balcone e a picco sul cortile, ed attraversata da impietosi raggi di sole. Una vecchia tenda bordeaux si sforza di rimanere impigliata in un angolo e mi fa pensare a un grumo di sangue rappreso. La luce taglia l’ombra di netto, si scontra con i gradini della scala e ne esalta la durezza del marmo. Alle pareti graffiti e parole di ogni genere sono l’attuale tappezzeria. Il primo piano è esattamente come quello appena visitato: spaventosamente disastrato. Di villa Capriglio ormai è rimasto solo lo scheletro. Decidiamo di ridiscendere ed è nel nostro viaggio a ritroso che storia si fa inquietante. Noto dei resti di candele in alcuni angoli, vicino a qualcosa che è stato bruciato. Mi stupisco di non essermene accorta prima. Qua e là ci sono molti resti di piccoli altari improvvisati: li seguiamo inconsciamente, come presi da un’improvvisa caccia al tesoro, fino ad arrivare ad un passaggio che prima nessuno di noi aveva notato. Capisco di trovarmi di fronte a tracce di un tetro passato che ancora perdura. All’improvviso un sordo rumore. È la casa che ci avvisa che non siamo più ospiti graditi, forse perché, come un’antica dama settecentesca, si deve preparare per il suo cadenzato viaggio nello spazio e nel tempo. Dopo tutto questa è una notte di luna piena.

 

Alessia Cagnotto

 

Il Castello della Rotta

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Castelli diroccati, ville dimenticate, piccole valli nascoste dall’ombra delle montagne, dove lo scrosciare delle acque si trasforma in un estenuante lamento confuso, sono ambientazioni perfette per fiabe e racconti fantastici, antri misteriosi in cui dame, cavalieri, fantasmi e strane creature possono vivere indisturbati, al confine tra la tradizione popolare e la voglia di fantasia. Questi luoghi a metà tra il reale e l’immaginario si trovano attorno a noi, appena oltre la frenesia delle nostre vite abitudinarie. Questa piccola raccolta di articoli vuole essere un pretesto per raccontare delle storie, un po’ di fantasia e un po’ reali, senza che venga chiarito il confine tra le due dimensioni; luoghi esistenti, fatti di mattoni, di sassi e di cemento, che, nel tentativo di resistere all’oblio, trasformano la propria fine in una storia che non si può sgretolare(ac)

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2 / Castello della Rotta

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 La geomanzia è un’antica arte divinatoria che si fonda sull’interpretazione dei segni naturali o artificiali presenti sul terreno, o sulla posizione di alcuni di essi rispetto a pianeti o costellazioni. Le antiche popolazioni ritenevano molto importante la componente astrologica nell’erigere edifici di culto, come testimoniano le chiese medievali tutte orientate verso ovest-est con l’ingresso a ovest e l’abside a est; le pagode della Cina e di tutto il sud est asiatico, invece, venivano erette solo dopo un’attenta indicazione dei geomanti, in modo che queste si trovassero ad essere nel miglior equilibrio con la natura. Per chi crede a queste storie, sembra che ci siano sulla nostra Terra zone pregne di energie sovrannaturali, talvolta benevole, talvolta inquietanti, ma sempre si tratta di luoghi strani, immersi in una atmosfera come mutevole, oggetto di racconti che hanno il sapore di antiche storie narrate da vecchie signore intorno a grandi falò. Vicino a Torino, città magica per eccellenza, si trova un luogo particolare, un castello che, nonostante l’aspetto morigerato, pare essere il più infestato d’Italia, si tratta del castello della Rotta. Mi trovo a Moncalieri, sono in compagnia della mia amica Martina, siamo arrivate alla meta dopo esserci perse a Villastellone e una volta giunte ci chiediamo se il posto sia effettivamente quello giusto. Lasciamo la macchina in una stradina sterrata che collega la via principale al castello, costeggiando un campo seminato e ben tenuto. Noto subito che il verde delle colture termina bruscamente nel giallo secco dell’erba che circonda la struttura, come ci fosse un secondo perimetro, invisibile ma invalicabile, come se un mondo finisse e un altro ne iniziasse. Continuo a fissare il cambio di colore, mi stupisce il fatto che sia così netto, a distanza di un passo la natura da fresca e rigogliosa avvizzisce quasi a causa un’antica fattura. Percorriamo il sentiero polveroso continuando a studiare ciò che ci circonda, sicuramente suggestionate dalle storie che già conosciamo riguardo al castello.

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Tutto ci sembra sospettoso, i suoni si fanno stridenti, le macchine che ci sfrecciano attorno “gridano” e le loro “voci” strascicano nell’aria. C’è una leggera brezza, eppure l’unico albero ad esserne disturbato è il salice piangente che cresce di fronte all’ingresso del castello, ondeggia ritmicamente, pari ad uno sciamano intento in chissà quale danza propiziatoria. Il maniero non è grandissimo, non è nemmeno così alto, le pareti sono costituite da mattoni e sono traforate da piccole finestrelle dai vetri rotti. I pochi frammenti di lastra riflettono eccessivamente il sole, il riverbero luminoso colpisce la vista come contenesse in sé qualcosa di tagliente; il contrasto con l’interno non è una semplice contrapposizione luce-ombra, ma ricorda più una silenziosa quanto spaventosa dicotomia tra bene e male. L’ingresso principale è costituito da un serioso cancello ad arco, costruito in ferro, sopra il quale si staglia il bianco emblema della casata dei Valperga. Il sole incessante di quella giornata si scaglia contro il bassorilievo e risulta fastidioso osservarne il disegno: si tratta di un arbusto sovrastato da un becco. La lastra di pietra fu qui collocata nel 1455, dal Gran Priore dei Cavalieri gerosolimitani Giorgio di Valperga di Masino. Mi accorgo che io e la mia amica non parliamo, come non volessimo intimorirci a vicenda, stiamo ognuna concentrata a riguardare le proprie foto, lo facciamo con una meticolosità quasi morbosa, vedo che anche lei, come me, le ingrandisce all’impossibile e controlla che non ci siano strani aloni dietro le piccole finestre scure. Il portone è interamente ricoperto da scritte inneggianti a Satana. Esse sono di varia natura, quelle scalfite sembrano graffi animaleschi, quelle delineate con le bombolette ricordano gli schizzi di sangue di qualche animale sacrificale, per quanto sciocche, quelle parole incutono un certo timore, si evince che chi le ha incise o eseguite credeva fermamente nel gesto che stava compiendo.

 

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La curiosità mi spinge ad andare avanti, ma la soggezione non aiuta la mia parte razionale ad emergere. Il castello ha origini medievali, i primi occupanti furono probabilmente Romani, in seguito venne occupato dai Longobardi, ai quali succedettero i Templari, che ne furono i padroni per oltre trecento anni; dopo di loro, verso il Cinquecento, divenne un bene dei Savoia. La roccaforte fu testimone, nel 1639, della disfatta di Tommaso Francesco di Savoia, principe di Carignano, inflittagli dall’esercito francese, successivamente, nel 1706, diventò un deposito di polvere da sparo durante l’assedio portato avanti dai Francesi nei confronti di Torino. Ci sono altre storie violente ambientate nelle inaccessibili stanze del castello: tra di esse la follia del re abdicatario Vittorio Amedeo II, re di Sardegna, che qui morì il 30 ottobre del 1732, dopo che il figlio Carlo Emanuele III lo costrinse a rimanere rinchiuso tra queste mura. Nel Settecento il castello cessò la sua funzione di fortilizio e venne adibito a dimora gentilizia. Continuo nel mio percorso e mi ritrovo in una sorta di cortile posteriore, qui la vegetazione ha assunto il completo controllo, erbacce e arbusti si intersecano come stessero lottando gli uni contro gli altri; in tale simbolico scontro greco romano il sole non prova nemmeno ad intromettersi e d’improvviso mi ritrovo sovrastata da un’ombra omogenea, che ricopre incondizionatamente le mura di sfondo, le finestre che si aprono su di essa, i resti ammuffiti di un vecchio pozzo e degli strani cumuli di rami che attirano la mia attenzione.

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Mi avvicino a quest’ultima scoperta: non saprei definire quei rami se non come enormi nidi di qualche mitica creatura che viene a nascondersi in questi insoliti meandri. Interdetta mi allontano e con la coda dell’occhio ho l’impressione che qualcosa di scuro si muova sullo sfondo: un uccelletto nero si libera dalla sterpaglia e vola via verso il cielo, eppure l’ombra mi pareva troppo grande per appartenere ad un animaletto così piccolo. È strano, ma ho la netta sensazione di essere osservata, come se ci fosse una compresenza di occhi nascosti che mi fissa da dietro l’oscurità delle finestre, dal di dentro dei nidi, dagli angoli più bui che non riesco a mettere a fuoco, né con la vista, né con la reflex. Fingo di non farci caso, ma le fotografie che fino ad ora ho scattato in quella zona sono tutte micro mosse. Forse quello non è il posto per noi, forse con i nostri rumorosi calpestii abbiamo disturbato il sonno di qualche spirito che lì aveva deciso di assopirsi. Avevo svegliato il cavaliere, o il sacerdote criminale, o qualche nobile suicida? Avevo interrotto la lettura del cardinale? o forse avevo infastidito l’anziana tata che aveva perso il bambino affidatole, oppure l’uomo in nero che passeggia ancora nei luoghi della sua morte? Non ebbi il coraggio di esplicitare la domanda. Proposi di ritornare verso la macchina senza esprimere una motivazione precisa, ma non mi trovai in disaccordo con la mia amica. Sedute nell’autovettura ci diciamo che sarebbe interessante provare a tornare la notte del 14 giugno, quando, secondo alcune testimonianze, si potrebbe assistere alla comparsa di un corteo rituale di alcuni monaci ecclesiastici. Giro la chiave e la macchina non parte, come nei classici horror anni ’80, guardo Martina e scoppiamo in una fragorosa risata apotropaica e al secondo tentativo la vettura si riprende. Sto ancora rimuginando sul fatto di tornare o meno la notte del 14 giugno.

 

Alessia Cagnotto

Villa Costantino Nigra

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Castelli diroccati, ville dimenticate, piccole valli nascoste dall’ombra delle montagne, dove lo scrosciare delle acque si trasforma in un estenuante lamento confuso, sono ambientazioni perfette per fiabe e racconti fantastici, antri misteriosi in cui dame, cavalieri, fantasmi e strane creature possono vivere indisturbati, al confine tra la tradizione popolare e la voglia di fantasia. Questi luoghi a metà tra il reale e l’immaginario si trovano attorno a noi, appena oltre la frenesia delle nostre vite abitudinarie. Questa piccola raccolta di articoli vuole essere un pretesto per raccontare delle storie, un po’ di fantasia e un po’ reali, senza che venga chiarito il confine tra le due dimensioni; luoghi esistenti, fatti di mattoni, di sassi e di cemento, che, nel tentativo di resistere all’oblio, trasformano la propria fine in una storia che non si può sgretolare. (ac)

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1 / Villa Costantino Nigra

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È una di quelle giornate acquose. C’è una pioggia sottile che impregna il paesaggio ed i vestiti, la luce che illumina le cose pare scivolarci sopra, dando uno strano e dolce effetto ottico. È lo sfondo perfetto per la storia di oggi, che si incentra sul fantasma di una nobildonna, Virginia Oldoini, Contessa di Castiglione. Si dice che, talvolta, ella appaia mentre danza senza veli alla luce della luna, in un terrazzo di una villa ormai dimenticata, costruita sulle fondamenta di un antico castello. Parto in compagnia della mia amica Martina, chiacchieriamo disturbando la radio e la voce dispotica del navigatore, ci lasciamo Torino alle spalle, dirette verso il verde della provincia, fino a raggiungere la frazione di Villa Castel Nuovo, un piccolo comune di circa 414 abitanti, che al suo interno custodisce quello che un tempo era un gioiello di lusso ricercato, la villa della famiglia Nigra. La villa fu costruita probabilmente tra gli anni 50 e 90 dell’800, non è possibile essere più precisi a causa di un incendio, scoppiato agli inizi del ‘900, che distrusse tutti i progetti contenuti all’interno dell’archivio comunale. Per lo stesso motivo anche l’identità dell’architetto rimane una questione aperta, anche se è del tutto probabile che il progetto sia stato affidato a una personalità di rilievo nell’ambito del torinese.

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Gli unici abitanti in cui ci imbattiamo sono un paio di gatti chiacchieroni che ci accompagnano per un breve tratto di salita, ma, non appena l’inclinazione del nostro sentiero aumenta, ci abbandonano, proprio davanti ad una piccola chiesetta adiacente ad un muro massiccio. Alzando lo sguardo faccio qualche passo indietro, estraggo la mia reflex e scatto la prima fotografia: guardandola per controllare le impostazioni, penso che sia il luogo perfetto per una storia di fantasmi. Davanti a me si ergono mura imponenti, la particolare luce del giorno le rende di un colore tra il grigio di un gatto certosino e il lilla del glicine, il muschio del tempo si espande su tutta la superficie e fa da amalgama tra i muri esterni e il cancello d’entrata, interamente in ferro, reso di un cupo color ruggine dalle intemperie e dall’abbandono. Al di là dell’ingresso si trova un giardino disordinato, con erba troppo alta e alberi dai rami invadenti, tutto è in procinto di essere inghiottito dall’edera. Attorno a quello che un tempo doveva essere un elegante cortile interno, si trova un porticato di colonne massicce, dietro le quali gli accessi all’interno della struttura si presentano come portali misteriosi, complici dell’ombra che non fa intuire dove conducano. Lo spettacolo che sto guardando è un quadro di C.D. Friedrich: tutto attorno è malinconico come le foglie lucide di pioggia e decadente come le mura scrostate che sorreggono un guscio vuoto. L’esterno della villa mantiene ancora una certa eleganza e austerità, aspetti supportati dall’antico progetto che prevedeva la fusione del presente edificio con il preesistente Castello di San Martino, di cui sono ancora visibili le fondamenta. Del castello si hanno poche notizie. Tantissime furono le battaglie che dovette sopportare, tra cui, probabilmente, la rivolta dei Tuchini che coinvolse tutto l’alto Canavese e molti altri scontri durante le guerre franco-spagnole. Il Castello uscì da questo periodo estremamente danneggiato. Ciò costrinse il proprietario, Pompeo I di Castelnuovo, a trasferirsi in un’altra residenza, a Castellamonte. Da questo momento in poi non si hanno più notizie del sito, fino al momento in cui Ludovico Nigra lo acquistò, insieme ai terreni circostanti.

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Completamente opposta a quella esterna è la situazione interna, scavata dall’ingordigia dei curiosi che nel tempo hanno approfittato dello stato di abbandono su cui grava la villa, un tempo dotata di pavimenti sfarzosi, arazzi, affreschi sulle pareti e sui soffitti, ricca di splendidi suppellettili e di mobilia ricercata, tra cui una preziosa scrivania appartenuta a Napoleone I.   Sono intrappolata in una strana atmosfera, l’unico suono che si percepisce è il vento che infastidisce gli alberi. Sembra che l’enorme edificio stia dormendo; l’aria che viene dall’interno è il suo respiro, gelido e arreso all’idea che nessuno verrà a interrompere quel riposo. Spinta da un’insolita e strana curiosità, oltrepasso quello che percepisco come lo sterno della villa, costituito da stanze sgombre e desolate, ascolto lo scrocchio dei miei passi fino a che non raggiungo il vero cuore pulsante: il terrazzo esterno. Qui vi è un balconcino in stile classico, che da una parte si affaccia a strapiombo sulla strada, dall’altra parte – a ridosso della collina- esso è costeggiato da una serie di colonne massicce, oltre le quali si insinua un altro giardino ribelle. Scatto un’altra fotografia, mentre la guardo sul monitor noto l’estrema delicatezza del viola del glicine che si appoggia al bianco sporco della balaustra: al di là, le verdi colline sbiadiscono nella foschia. In questo punto particolare della casa l’atmosfera si fa più dolce, come se la villa mettesse le mani a conca per proteggere qualcosa, l’illusione di un ultimo tentativo di preservare la bellezza della dama antica, di cui qui si avverte l’impercettibile presenza. La Contessa fu una donna bella, straordinaria, intrigante, abile in politica, amica, oltre che cugina, di Camillo Cavour che la inviò in Francia per sedurre e piegare alla causa piemontese l’imperatore Napoleone III. A Parigi Costantino Nigra conobbe la seducente Contessa e ne fu profondamente attratto. Esempio di vanità assoluta, lei stessa si definì “la donna più bella del secolo”, e nessuno osò mai contraddirla. Terrorizzata dal vedersi invecchiare sostituì gli specchi della sua abitazione con i propri autoritratti fotografici e smise di farsi vedere in pubblico. Consumata da tale narcisistica ossessione, si trasformò nello spettro della sua stessa bellezza.

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La villa, se stai ad ascoltarla, ci racconta anche altre storie: le visite notturne di Re Vittorio Emanuele II e della sua scorta, gli incontri massonici nei sotterranei del castello, i cunicoli che si diramano nell’oscurità e raggiungono le colline più lontane. A partire dal suo primissimo proprietario, le mura della villa ospitarono solo personaggi molto discussi, fatto che aiutò a fomentare chiacchiere e leggende sul luogo. Ludovico Nigra era un cerusico di modeste condizioni, aveva aderito ai moti del 1821, motivo per cui non era molto stimato dai detentori del potere dell’epoca.Il figlio di Ludovico, Costantino, nacque all’interno delle stesse mura, l’11 giugno del 1828. Egli diventerà figura centrale del Rinascimento italiano, in qualità di segretario, prima di D’Azeglio, poi di Cavour. Anche Costantino però fu una figura controversa, prese parte a molti episodi che all’epoca destarono scalpore, uno dei più chiacchierati fu quello della distruzione di alcune lettere, scritte da Cavour e indirizzate all’amante Bianca Ronziani, il cui contenuto rimase per sempre segreto. Inoltre fu investito della carica di Gran Maestro della Massoneria del Grande Oriente d’Italia presso la Loggia Ausonia di Torino. Scatto altre fotografie degli interni, ma poi ritorno ancora sul terrazzo, in cui malia, storia e mistero vanno all’unisono. Il rumore della pioggia che aumenta mi avvisa che non c’è più nulla da perlustrare e fotografare, la penombra che si infittisce mi conferma che è ora di andare. Anche perché non bisogna approfittare troppo della gentilezza di chi ci ospita.

Alessia Cagnotto