In un Salone del libro che ha dato spazio alle “Anime arabe” non poteva mancare l’iraniana Shirin Ebadi, Premio Nobel per la Pace nel 2003 -prima musulmana a riceverlo- che ha dedicato la sua vita alla lotta per i diritti umani e pagato di persona il coraggio delle sue idee.
In “Finché non saremo liberi” (Bompiani) racconta quello che ha subito per anni nel suo paese: minacce di morte, intercettazioni, soprusi e intimidazioni.
Prima donna iraniana a diventare magistrato, con la Rivoluzione Islamica del 1979 la sua carriera è irrimediabilmente stroncata e lei si vede retrocessa a semplice segretaria del tribunale.
Non ci sta, apre a fatica un bugigattolo-studio di avvocato e difende donne vittime della Sharia, bambini, prigionieri politici, chiunque venga perseguitato dal potere. Strada rischiosa, tutta in salita. Il regime mette sotto torchio lei, la sua famiglia, collaboratori ed amici. Quando nel 2009 sale al potere Ahmadinejad -con l’appoggio della Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei- la repressione dei dissidenti diventa feroce e non c’è più limite a incarcerazioni, torture, omicidi. Mentre è all’estero per una conferenza, viene a sapere che nella lista delle persone da eliminare c’è anche lei. E’ la strada senza ritorno (almeno fino ad oggi) del difficile esilio volontario, ma di fatto obbligato.
Dal 2009 non è più riuscita a tornare in Iran.
Per 10 mesi all’anno viaggia ed incontra la stampa internazionale per fare arrivare la voce del popolo iraniano a tutto il mondo. Il resto del tempo si divide tra le due figlie; una docente universitaria a New York e l’altra avvocato a Londra.
In Iran la libertà è ancora un’utopia?
«Non siamo sulla buona strada e voglio che si sappia cosa fa il regime ai suoi cittadini. La costituzione iraniana concentra tutti i poteri nelle mani del leader supremo che è anche un capo religioso: può annullare qualunque legge, rinchiudere in carcere chiunque senza processo, fare ciò che vuole in nome di Dio».
Con l’accordo sul nucleare e il riavvicinamento tra Rohani e l’occidente cosa cambia?
«La situazione non è migliorata. Sono stati firmati un centinaio di contratti con l’Italia, tutti per beni di consumo: dalle auto agli abiti firmati, con show rom di alta moda che aprono a Teheran. Ma nel paese la corruzione è elevata e solo il 5% della popolazione, ricchissima, può permettersi il lusso: case e macchine rare perfino in Europa. Poi ci sono tutti gli altri, sempre più poveri, soprattutto i lavoratori dipendenti e giovani».
Allora cosa servirebbe?
«Più investimenti; ma nessuno ha il coraggio di farli perché l’ Iran è un paese in cui non c’è sicurezza né politica, né economica.
Sul fronte dei diritti civili, gli altri paesi come possono spingerlo verso un’era democratica?
«Quando si stipulano accordi commerciali, si chiudono gli occhi su molte cose. Invece sarebbe fondamentale non aiutare il regime a diventare più forte. Per esempio: in Iran i programmi televisivi, anche in lingua straniera, sono tutti controllati dallo Stato che li usa per la sua propaganda. La domanda è: perché permettete l’uso dei satelliti europei, perché prendete petrolio e ci vendete armi e vestiti?»
Quando pensa che ci saranno le condizioni per il suo rientro in patria?
«L’Iran è il paese delle situazioni inaspettate, accadono cose che neanche gli esperti di politica riescono a prevedere. Noi iraniani siamo abituati a pensare che ogni giorno potrebbe capitare qualcosa di nuovo».
Ha affermato che saranno le donne e i giovani a cambiare l’Iran, in che modo?
«Le donne sono le più istruite, con la presenza di moltissime docenti ed oltre il 60% di studentesse. Combattono il potere in prima linea; ecco perché il regime ha tentato di riportarle indietro di 14 secoli e tiene in carcere le migliori femministe del paese. Poi ci sono i giovani che lottano perché la disoccupazione è elevata e, se anche hanno un lavoro, il guadagno è così misero che non ce la fanno “
Chi appoggia il regime?
«Solo il 15% di iraniani lo difende e lo fa per evidenti interessi economici. E’ una minoranza, ma ha soldi e armi; e con quelli si controllano anche 800milioni di persone».
Pensa che oserebbero davvero uccidere un Premio Nobel?
«Non in modo evidente e diretto. Ma le strade sono piene di persone che lavorano per il governo e se 100 persone ti attaccano ed ammazzano, difficile poi individuare il colpevole. Poi il regime mente su tutto. Nel 2009, quando un’auto della polizia travolse un manifestante, ebbero il coraggio di dire che era stata rubata per girare una scena studiata apposta per alimentare la propaganda contro il regime».
Lei in cosa crede?
«Sono musulmana e praticante. Ma quando la religione arriva al potere usurpa le chiavi del paradiso e dell’inferno. In nome dell’Islam stanno combattendosi anche tra di loro, rovinando tutto l’oriente»
Laura Goria