La guerra civile yemenita ha rinvigorito le forze jihadiste che combattono sia gli sciiti che l'ex governo sunnita e si spartiscono ampie fette del Paese

La tragedia dello Yemen

FOCUS  di Filippo Re

Ci siamo assuefatti alla tragedia che si consuma da qualche anno nello Yemen, un Paese devastato dalla guerra, dal colera e dalla fame, dove ogni dieci minuti muore un bambino sotto i cinque anni? Una nazione lontana, insabbiata da tante altre guerre che infuriano nel Levante e nelle terre desertiche attorno al Golfo e quasi dimenticata dalla comunità internazionale che deve pensare a vicende forse più importanti e urgenti. Cosa è rimasto dell’ “Arabia Felix” che abbiamo conosciuto di persona o letto in mille riviste illustrate, meta prediletta di tanti turisti sedotti dall’Oriente? “La situazione è tragica, si deteriora ogni giorno e non si vede una via d’uscita all’orizzonte”.

Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale, che comprende Yemen, Oman ed Emirati Arabi Uniti, parla di assuefazione al dramma yemenita e chiede un deciso intervento diplomatico da parte delle potenze per fermare atrocità e violenze. Da quasi tre anni lo Yemen non è più lo stesso, il suo volto è sfigurato a causa del conflitto e dell’epidemia di colera. Le ostilità sono scoppiate nel gennaio 2015 e da allora la nazione del Golfo è sconvolta dall’ennesimo conflitto tra musulmani sunniti e musulmani sciiti, tra sauditi e iraniani. Dietro la guerra religiosa inter-islamica si nascondono in realtà aspetti geostrategici e interessi economici. É infatti in corso una lotta per dominare la penisola arabica e per bloccare l’influenza di Teheran nella regione, grande rivale del regno saudita. La presenza degli insorti sciiti è vista da Riad come una minaccia diretta allo Stretto di Bab el-Mandeb, tra lo Yemen e Gibuti nel Corno d’Africa, a sud del Mar Rosso, dove ogni giorno transitano petroliere con 3 milioni di barili di greggio. L’inasprimento del conflitto potrebbe provocare la chiusura dello Stretto e di conseguenza il blocco del commercio petrolifero. Sul campo si combattono le forze fedeli all’ex presidente sunnita Mansour Hadi, sostenute dall’Arabia Saudita e da gran parte della comunità mondiale e i ribelli sciiti Houthi, fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, sostenuti dall’Iran. Il 26 marzo 2015 la crisi yemenita si è internazionalizzata con l’intervento militare dei sauditi. Una coalizione araba, guidata da Riad e appoggiata da un nutrito gruppo di Paesi arabi, ha cominciato a bombardare le postazioni dei ribelli sperando di liquidare gli sciiti entro poche settimane.

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Da quel giorno Arabia Saudita e Iran si combattono nel teatro yemenita attraverso i loro alleati in una classica guerra per procura. Tre anni dopo si continua a morire e i ribelli hanno occupato il nord e perfino conquistato la capitale Sana’a. Lo scontro sunniti-sciiti ha gettato nel caos il Paese arabo creando un vuoto di potere che ha ridato fiato e forza agli estremisti islamici attivi in varie zone dello Yemen. Gli esperti dell’Onu snocciolano numeri e dati, sempre più pesanti: oltre 10.000 morti, 50.000 feriti, tre milioni di sfollati, 18 milioni di persone (su 25 milioni di abitanti, 99% musulmani e 0,17% cristiani) che hanno bisogno di aiuti umanitari e assistenza sanitaria e 2,5 milioni di bambini malnutriti. Ma ci sono anche carestia e malattie da affrontare come una terribile epidemia di colera che, secondo l’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) è tra le più gravi mai registrate al mondo. Ha già coinvolto oltre mezzo milione di persone, ucciso quasi 2000 yemeniti, e continua a diffondersi rapidamente a causa del collasso di una larga parte del sistema sanitario distrutto dalla guerra. In assenza di interventi urgenti i contagi potrebbero aumentare in modo consistente. È difficile sapere cosa stia accadendo nel Paese per la mancanza di informazioni provenienti dall’interno e per la difficoltà di far arrivare gli aiuti a una popolazione abbandonata a se stessa. È vero che lo Yemen, già prima della guerra, era un Paese poverissimo ma ora la situazione è peggiorata. Non solo l’Oms, anche la Fao lancia l’allarme e parla di vera e propria emergenza. L’agricoltura è ferma, bloccata dal conflitto e i contadini non possono raggiungere le loro terre. La scarsità di acqua ha accresciuto il rischio di malattie, colera compreso. Nonostante le bombe che piovono su case e ospedali alcune organizzazioni internazionali come la Croce Rossa e i Medici senza Frontiere continuano a lavorare nelle zone in cui è ancora possibile farlo.

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Restano, eroiche e coraggiose, le poche suore missionarie di Madre Teresa di Calcutta trincerate a Sana’a e ad Aden in una situazione molto precaria. È ancora vivo in Yemen il ricordo delle quattro suore della Carità uccise, in quanto cristiane, a marzo 2016, in un attacco terroristico ad Aden, “i martiri di oggi”, come li definì Papa Francesco, “che non fanno notizia, vittime dell’indifferenza globale”. Dal tunnel senza uscita della tragedia yemenita è giunta la notizia positiva della liberazione del sacerdote salesiano indiano Tom Uzhunnalil rapito 18 mesi fa ad Aden da un gruppo di guerriglieri musulmani. Padre Tom, 57 anni, era stato preso il 4 marzo dello scorso anno durante l’assalto di un commando armato a un convento delle Missionarie della Carità nel quale morirono 16 persone tra cui le quattro suore di Madre Teresa. Sotto il regime di Saleh lo Yemen ha vissuto un lungo periodo di relativa stabilità politica durato trent’anni, poi le primavere arabe hanno scosso anche il governo di Sana’a costringendo Saleh a lasciare il potere nel 2011. La svolta è giunta nel settembre 2014 quando gli insorti Houthi, originari del nord del Paese, legati all’imam Abdel Malik al Houthi, armati dall’Iran, e comandati dal figlio dell’ex presidente Saleh, hanno preso il controllo della capitale Sana’a cacciando il presidente Mansour Hadi, filo-saudita, costretto a rifugiarsi nella città di Aden che nel 2015 è stata occupata dagli sciiti e ripresa alcuni mesi dopo dalle forze governative. Gli Houthi sono musulmani sciiti e da anni chiedono più diritti e libertà nel proprio Paese ma sono diversi dagli iraniani. Si tratta di sciiti zayditi (circa il 30% dei musulmani yemeniti), una setta particolare dello sciismo con riti differenti da quelli iraniani che sono sciiti Duodecimani. Gli Houthi negano di aver rapporti con Teheran ma è stato invece dimostrato il contrario e cioè che i ribelli dello Yemen vengono addestrati regolarmente dalle Guardie rivoluzionarie iraniane che forniscono loro armi, missili e denaro. A febbraio la capitale saudita è diventata un bersaglio dei razzi lanciati dai ribelli: un missile Scud ha colpito una base militare situata a 40 chilometri a ovest di Riad dopo aver percorso un migliaio di chilometri. Non si è mai saputo se l’obiettivo sia stato raggiunto ma il fatto certo è che Riad si trova ora all’interno del raggio d’azione dei missili lanciati dallo Yemen. Mentre gli sciiti, appoggiati da una fazione dell’esercito rimasta fedele all’ex capo di Stato Saleh, controllano Sana’a, il governo del presidente deposto Hadi, riconosciuto dall’Onu, sopravvive ad Aden sul Golfo omonimo.

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La guerra civile yemenita ha rinvigorito le forze jihadiste che combattono sia gli sciiti che l’ex governo sunnita e si spartiscono ampie fette del Paese in cui si trovano i combattenti di “al Qaeda nella penisola arabica” (Aqap), presenti già da tempo nel sud della nazione, e gruppi che si ispirano all’Isis e controllano una piccola porzione di territorio. In particolare la minaccia di al Qaeda sarebbe, secondo analisti ed esperti di terrorismo, più forte che mai. Ne sanno qualcosa le Forze Speciali americane che a gennaio si scontrarono violentemente nel deserto yemenita contro un gruppo di miliziani qaedisti durante un raid anti-terrorismo perdendo un militare. Paul Hinder: “ricordiamoci che in questa sporca guerra yemenita nessuno è innocente e la corruzione e il commercio delle armi c’entrano eccome. Oggi però non vedo altra strada se non che le parti in conflitto si siedano attorno a un tavolo, possibilmente anche con una sorta di costrizione internazionale”. Nella speranza che il mondo apra gli occhi di fronte al dramma che da anni mette a ferro e fuoco l’antica Arabia Felix.

Filippo Re