IL RACCONTO- Pagina 2

Teresio e i duelli dei “cauboi”

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Passando davanti alla casa di Aristide ho ripensato ai “duelli”  che ingaggiava con Teresio. Niente di cruento, per carità, ma   il clima che si creava sembrava proprio quello della “sfida all’ O.k. Corral”. Al numero 30 di via Libertà sembrava di essere finiti a capofitto nella miglior epopea western e la porta d’entrata dell’Osteria Cooperativa sembrava uguale identica a quella di un saloon

Aristide entrava, con i pollici di entrambe le mani  infilati nella cinghia dei pantaloni. La camicia a quadretti, alla “boscaiola”, e il gilè scuro di fustagno. Lo sguardo torvo, sotto il cappellaccio nero, era tutto un programma. Si guardava attorno, neanche fosse Wild Bill Hickok alla ricerca di qualche fuorilegge a Dodge City o Abilene. Con lo sguardo passava in rassegna, lentamente, gli avventori che erano seduti ai tavoli nella larga sala  e, adocchiato  tra gli altri Teresio lo “puntava” come un pistolero. Sguardo dritto e fisso, gambe larghe e ben piantate, braccia a penzoloni lungo il corpo e mani che muovevano lentamente le dita. Teresio non era da meno. Si girava lentamente e, appoggiato di schiena al bancone della mescita, lo fissava anche lui. Poi, nel silenzio più assoluto, si avvicinavano l’uno all’altro.

I giocatori di ramino stavano lì, in surplace, con le carte in mano. I professionisti del biliardo alzavano la stecca dal tappeto verde, dimenticandosi per un attimo delle traiettorie da imprimere alle biglie colorate. I due, intanto, erano ormai uno davanti all’altro e, d’improvviso, chiamandosi per nome, si scambiavano dei gran pugni sulle spalle, simulando un incontro di boxe. Amiconi da sempre, si divertivano così. Si canzonavano e si “facevano le spalle” con delle sberle tremende. Uno, ferramenta d’ingegno e maestro di sregolatezza, l’altro carpentiere provetto e muratore “fuori orario”, avevano al posto delle mani delle vere e proprie “vanghe” e si mollavano delle pacche da far tremare denti e gengive. Ah, a proposito di denti. I colpi venivano vibrati regolarmente sulle spalle, allo scopo di far traballare l’amico-avversario. Salvo quella volta che Teresio, colto da un lampo d’ingegno, pensò di schivare l’uppercut dell’amico abbassandosi di scatto. Un gesto che, per aver successo, necessitava di una certa rapidità. Forse fu proprio la rapidità a difettare allo “stratega”, tanto da non consentirgli di schivare in tempo il colpo che arrivò, come un dritto  micidiale, tra naso e bocca, in pieno volto. Altro che traballare: Teresio finì a gambe levate, steso al tappeto.

Sanguinava da far paura e un certo numero di denti finì per sputarli sul pavimento. Aristide , terrorizzato dal colpo che aveva inferto all’amico, alla vista del sangue, stramazzò anche lui a terra svenuto .Così i due furono soccorsi dagli altri avventori con ghiaccio, sali, alcool e cerotti, prima che Teresio fosse portato al pronto soccorso più vicino in condizioni a dir poco pietose. Da quel giorno, “per non perdere le buone abitudini”, come diceva Teresio, mettendo in mostra un sorriso non proprio integro, il duello fu solo simulato. Ma se per Teresio era l’occasione per due risate con l’amico, la cosa era ben diversa per Aristide. Lui avrebbe voluto davvero essere un pistolero o uno sceriffo e sfidare a duello i malfattori. Divorava i fumetti di Pecos Bill e Tex Willer, non si perdeva un film western in Tv e quando ancora era aperta in paese la sala cinematografica, nel locale a fianco della stazione ferroviaria, s’era innamorato di Clint Eastwood. L’attore americano, interpretando  gli spaghetti-western “Per un pugno di dollari”, “Per qualche dollaro in più” e “Il buono, il brutto e il cattivo”, sotto l’accorta   regia di Sergio Leone, rappresentava esattamente il suo “modello”. “Quello sì che è un ganzo”, diceva. “ Ha un’espressione che cambia solo quando toglie il cappello, due occhi di ghiaccio e con la Colt è un fulmine. Ah,quanto mi piacerebbe essere un cauboi (parola che pronunciava e  scriveva esattamente così..), tirar fuori la rivoltella e far secchi tutti i delinquenti”.

Non è difficile, a questo punto, intuire cosa gli passò per la testa quella mattina che, rientrato a casa dopo una nottata di bisboccia in compagnia, trovò i due anziani genitori ad aspettarlo, ancora tremanti di paura. Cos’era successo? Semplicemente che un altro matto che era ancor più matto di lui, il Piero Borlotti, era passato lì davanti poco prima di mezzanotte e si era messo ad urlare come un’aquila il suo nome. Papà e mamma, che si erano coricati già da qualche ora, si svegliarono di botto a causa degli schiamazzi. “Vieni fuori, Aristide. Vieni fuori che andiamo a bere. Dai, non fare il balengo! Vieni fuori o ti faccio finire con il sedere per terra”. E si mise a sparare in aria con una scacciacani. Ogni colpo era accompagnato da un rosario di mamma Delfina che, nascosta dietro all’uscio della cucina, tremava come una foglia. Ad un certo punto, Borlotti si stufò di sparare. Forse perché aveva finito i colpi e di Aristide non si vedeva l’ombra, forse perché sentì dalle case vicine urlare “adesso chiamiamo i carabinieri!”; fatto sta che borbottando se ne andò per la sua strada. Appena gli anziani genitori finirono di raccontare la loro nottata di paura, il loro figliolo sbottò con un “Accidenti, che peccato! Se ero a casa, facevamo un bel duello”. Come non capire suo padre, l’anziano signor Carlo, il quale – sentite queste parole – lo fissò negli occhi e gli sibilò  quello che pensava di lui: “Ma va a ciapà i ratt, balordone! Altro che duello e pistole! I pistola siete voi e la prossima volta prendo io in mano la doppietta, la carico a sale grosso e vi sparo nel sedere”.

Marco Travaglini

La premiata ditta della Rosa Scarlatta

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La signora Amelia era davvero una gran signora. Nonostante la non più giovane età era sempre, quotidianamente, in piena attività. Il portamento aveva un tratto che poteva definirsi persino nobile, se non fosse per il trucco troppo accentuato.

Non ho mai capito perché non fosse considerata per la grande disponibilità che, in tanti decenni, aveva dimostrato nel risolvere i problemi altrui. Specialmente, se non addirittura in via esclusiva, quelli di tanti uomini d’ogni età ed estrazione sociale. Forse perché svolgeva il mestiere più antico del mondo? C’era, nel non considerarne fino in fondo la delicata funzione che – senza false ipocrisie e dubbi moralismi – le avrebbe fatto meritare se non un attestato di benemerenza almeno una più generica riconoscenza, qualcosa di profondamente immorale. Sì, immorale. Come non tener conto che la signora Amelia, in arte  “Rosa Scarlatta“, aveva svolto in condizioni non propriamente agevoli e spesso senza entusiasmo, una funzione – per così dire – “sociale” a beneficio di buona parte della comunità di sesso maschile non solo bavenese ma anche stresiana e di chissà quanti altri comuni che si affacciano sulle rive del Verbano. Dopo una fase d’avvio della propria impresa, sotto “padrona”,  in una di quelle case che non andavano nominate per non inciampare nella già citata “morale”, appena superati i venticinque anni, si mise in proprio. Sì, perché la “premiata ditta della Rosa Scarlatta”, alla prova di quello che potremmo definire come “il mercato”, dimostrò competenza, professionalità e spirito d’iniziativa. Con una sorprendente dose di “savoir-faire” che, nel breve volgere di qualche anno, le fece guadagnare rispetto e simpatia.

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Ovviamente, non da parte di tutti. Le signore, anch’esse senza distinzione d’età, la guardavano in malo modo, commentando con parole poco garbate e lusinghiere le sue “gesta” e commiserando energicamente  quella sua “professione” che – detta da loro – “turbava la quiete delle famiglie e portava discredito all’intera comunità”.Non ho mai fatto caso al fatto che potessero avere torto o ragione. Forse, a ben guardare, ci stavano sia l’una che l’altra. Certo è che la signora Amelia non prestava molto orecchio alle chiacchiere, meno che meno a quelle più malevole. “Io professo e tiro dritto. Non rompo le scatole e pago le tasse. Dopotutto sono i loro uomini che mi cercano. Se non volessero basterebbe, quando gli chiedo se sono d’accordo a darmi una mano a tener aperta l’impresa, dire di no. Non li obbligo certo io a fermarsi, lungo la strada che, a volte, è persino accaduto qualche tamponamento. Una volta, tra due bei tipi, son volate persino parole grosse e qualche sberlone, per stabilire a chi toccava per primo a far la propria parte“. Eppure, come mi raccontava il Carlino di Loita, la “nostra” Amelia aveva dato fatto fare il salto tra l’adolescenza e l’età adulta ad un bel po’ di ragazzi, accompagnandoli alla scoperta di se stessi durante la loro pubertà. “ Tu, che sei ragioniere e hai studiato, dai, dimmelo un po’ tu: ti par possibile che, per aver fatto del bene, in anni in cui c’era ancora tanta ignoranza e tanto pregiudizio, si debba essere considerati come dei delinquenti, come dei poco di buono?“. Il Carlino, a differenza di me e di tanti altri, faceva parte della schiera di quelli che avevano “provato” a fare i conti con l’impresa della Rosa Scarlatta e si erano dichiarati soddisfatti. Non sopportava l’ipocrisia dei benpensanti. Gli faceva saltare la mosca al naso. “Roba da matt. In sempar lì a criticà a destra e sinistra, a cùra in gesa a confessare i peccati per poi, lasciato alle spalle il portone e svoltato l’angolo, a fare di nuovi”. E sgranava giù, come un rosario, i tanti peccati che le “signore-bene”, come le chiamava lui, erano d’uso commettere: accidia, avarizia, invidia, superbia,ira. La lussuria, invece, era – secondo lui – praticata dai loro compagni benché a loro stesse suscitasse ( senza dirlo, senza ammetterlo, per carità..) ben più che un vago interesse e ben più che un semplice desiderio. In materia, però, nessuna poteva battere l’offerta della “premiata ditta” individuale che faceva capo alla signora Amelia.

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Vera e propria artigiana del piacere, con una carriera ultra decennale sulle spalle, non temeva la concorrenza di quelle povere dilettanti. Così andò avanti e indietro, per un bel po’ d’anni, sulla litoranea del lago Maggiore. Sempre in ghingheri, sempre a testa alta, mostrando fieramente la sua “impresa” anche se il tempo l’aveva ormai irrimediabilmente consumata. Finché , da un giorno con l’altro, non si vide più. Come dire? Sparita. Volatilizzata. Puff..! Più o meno come la colomba nelle mani di un prestigiatore. Solo dopo un annetto si seppe che si era “ritirata” in una casa di riposo sulle rive del lago d’Orta. L’andirivieni l’aveva logorata e le gambe gli cedevano. Così, per non farsi commiserare del tutto e lasciare un buon ricordo di sé, se n’era andata senza neanche fare un “ciao” ai suoi vecchi amici, ai “clienti” più fidati che erano anch’essi cresciuti ed invecchiati con lei. Il Giustino propose addirittura a quel deputato che aveva potuto godere in gioventù, pure lui, dell’attività della “premiata ditta”, un intervento affinché fosse riconosciuto alla signora Amelia se non proprio la pensione almeno un piccolo vitalizio, come segno tangibile della riconoscenza nei confronti di una persona che aveva fatto molto nel campo del “sociale”. Dopotutto, diceva il Giustino, “l’Amelia di marchette ne ha messe insieme un bel po’ che bastano ed avanzano per la pensione“. Forse in altri paesi, dove la mentalità è più aperta e tollerante, la “premiata ditta” della signora Amelia sarebbe stata riconosciuta alla stregua di un servizio sociale e le prestazioni sarebbero state, con ogni probabilità, prescritte dal servizio sanitario e quindi mutuabili. Ma, per sua sfortuna, e per disappunto dei più tra i suoi “beneficiati”, questo non si rese possibile. E così non se ne fece un bel nulla. L’onorevole allargò le braccia e chiese, in relazione al suo passato, l’omissis o – quantomeno – una corretta applicazione della privacy. Le ormai vecchie iraconde, rinsecchite e acide, continuarono a pensare il peggio del peggio e, in fondo al cuor loro, a provare invidia per quella “impresaria” che si era fatta dal niente, utilizzando al meglio le doti naturali che aveva avuto in dono dalla nascita. I suoi clienti rimasero con i loro ricordi e con il rimpianto, forse, di non aver potuto approfittare più quanto non avessero fatto delle offerte di quella gran professionista del piacere altrui. Che dirvi, ancora?  La signora Amelia se n’è andata per sempre. E’ ormai da un paio d’anni che, come è d’uso dire, “ha lasciato questa valle di lacrime“. Probabilmente, essendo – a dispetto di chi la mal giudicava – credente e praticante, è salita direttamente in paradiso. Ci sarà pure un angolino anche per chi, come lei, ha operato tutta la vita per far felici gli altri rinunciando, almeno in parte, alla felicità propria. O no?

Marco Travaglini

Il colpo del secolo: Dantès & Balzac alla conquista della Gioconda

Parigi, mezzanotte. La luna si specchia sulla Senna, e due ombre si
muovono furtive lungo il Quai du Louvre. Uno Yorkshire terrier dal pelo
lucente e lo sguardo da stratega — Dantès — guida l’operazione. Al suo
fianco, un Jack Russell terrier a pelo ruvido, irriverente e geniale —
Balzac — armeggia con un piccolo zaino pieno di attrezzi da scasso in
miniatura. «Balzac, il piano è semplice: entriamo dal condotto d’aria,
evitiamo
i laser, e ci portiamo via la Gioconda. Nessuno sospetterà di due
cani». «Geniale, Dantès. Ma se ci beccano, voglio almeno una cella con
vista sulla Senna». Il Louvre dorme, ma non del tutto. I due ladri si
infilano nel museo con l’agilità di due acrobati da circo. Superano
sensori, telecamere e persino un robot di sorveglianza che confonde
Balzac per un peluche abbandonato. Arrivano finalmente davanti alla teca
della Gioconda. «È più piccola di quanto pensassi»,sussurra Balzac. «Ma
il bottino più grande è il mistero che porta con sé» ,replica Dantès,
già intento a disattivare il sistema di allarme. Ma proprio quando la
teca si apre con un sibilo… CLANG! Una grata scende dal soffitto. Luci
accecanti. Sirene. E un ringhio profondo. «Avete il diritto di rimanere
in silenzio», abbaia un pastore tedesco in uniforme, con medaglie al
petto e un cappello da gendarme. Si chiama Gérard, e non ha mai fallito
una cattura. I due vengono rinchiusi alla Conciergerie, l’antica
prigione dei re e dei rivoluzionari.
La cella è umida, ma Dantès non
perde il suo aplomb. Balzac, invece, disegna piani di fuga con un osso
rosicchiato. «Come Lupin, dobbiamo pensare in grande» , dice Dantès.
«Non basta evadere. Dobbiamo farlo con stile». E così, mentre Gérard
dorme con un occhio aperto e l’altro su un manuale di tattiche canine, i
due mettono in atto il piano. Balzac finge un attacco di nostalgia,
attirando l’attenzione del secondino. Dantès, nel frattempo, usa un filo
di pelo per aprire la serratura. Gérard, che nonostante tutto non ha un
cuore di pietra, va nella sua guardiola a preparare una tisana per il
giovane Jack Russell. Una distrazione fatale In pochi minuti, i due sono
fuori. Ma non fuggono subito. Prima, lasciano un biglietto sul tavolo di
Gérard: “La Gioconda è al sicuro. Ma il mistero… quello è nostro.
Dantès & Balzac”. La mattina dopo, Parigi è in subbuglio. I giornali
titolano: “Due cani evadono dalla Conciergerie. La Gioconda salva, ma il
Louvre ha perso la sua inviolabilità”. E Dantès e Balzac? Si dice che
siano tornati a passeggiare lungo il Canal Saint-Martin, in cerca del
prossimo colpo. Magari la Torre Eiffel. O forse solo una baguette rubata
da un bistrot.
Marco Travaglini

Gino, sei proprio un gatto!

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D’inverno non è raro che le stelle, in fretta e furia, facciano posto a nuvole gonfie di tormenta. Anche la notte dell’Epifania di quell’anno aveva portato con se la neve. Soffice come l’ovatta, leggera come piume d’oca, era planata lentamente a terra, imbiancando tutto

Non che ne fosse venuta tanta, però. Era, come dire, una specie di patina spessa più o meno cinque centimetri.  Non mi aveva preso alla sprovvista. Rincasando, verso le 23, s’intravedevano già dei piccoli fiocchi volteggiare nell’aria. Erano “palischitt“, pagliuzze gelate. Ma promettevano “d’attaccare giù“. L’aria fredda che s’incanalava per le valli del Mottarone fino ad accarezzare le onde del lago, era un “preavviso” della nevicata. Così decisi di usare le pagine di un vecchio giornale per coprire i vetri della mia piccola Fiat amaranto, posteggiata davanti all’osteria del “Gatto e la Volpe”. Così, al mattino, se non ne veniva giù un sacco, sarebbe bastato rimuovere i giornali per avere i vetri puliti ed asciutti,  evitando – ed era la cosa più importante – che gelassero. Quante volte mi era capitato di vedere i vicini di casa, dopo una notte di brina gelata o di tormenta, armeggiare sui vetri merlettati dal gelo con raspe e fiotti d’acqua calda. Quanti vetri rigati o crepati, per la gioia dei carrozzieri che dovevano quanto prima sostituirli. Era più saggio seguire la buona regola del “meglio prevenire che curare”. Così, dopo una notte di sonno profondo, propiziata da quel silenzio ovattato che si crea quando nevica, mi sono alzato alle sei e mezza, anticipando la sveglia. Mi capita così da una vita. Alla sera carico la sveglia, la punto sulle sette meno venti e regolarmente l’anticipo  di una decina di minuti. Così la mia sveglia non suona mai. Se ne sta lì, vigile, scattante, pronta a squillare ma io, per il suo disappunto, ne rendo superfluo il servizio. Che devo fare? Mi viene così, non lo faccio apposta. E sono convinto che, la volta che mi capitasse di scordarmi di puntarla, resterei “impagliato” a letto. Comunque, una volta alzato e vestitomi di tutto punto, uscii. Non nevicava più e l’aria era fina, pulita. Mi avvicinai all’auto e, voilà: in un attimo sfilai via i giornali. Solo in quel momento mi accorsi che Giovanni Melampo mi sta guardando. Non avevo notato che, con il badile in mano, stava liberando l’entrata laterale dell’osteria del “Gatto e la Volpe”, quella che dava direttamente sulla cucina. Mi guardava interessato e, ad un certo punto, esclamò: “Gino, posso dirti una cosa?”. Non feci in tempo a rispondere che il fabbro aggiunse “ Ecco, volevo dirti che sei furbo come una volpe. Ma come ti è venuta in mente l’idea dei fogli di giornale, eh? A tì sé propri un gatt. Sei proprio un gatto. Dai, vieni qui, fammi compagnia. Andiamo a bere un bicchiere dal Mario. Offri tu,ovviamente, per “bagnare” l’invenzione”. Pur di scroccare un bianchino era capace di qualsiasi stratagemma. E quella mattina era toccato a me. Ne scolò tre, uno in fila all’altro. “Ma non ti faranno male?”, gli dissi. “ Io, appena sveglio, bevo due bicchieri d’acqua del rubinetto che al mattino fa solo bene”. Lui, di rimando, mi rispose che “ l’acqua la fa mal, la bev dumà la gent de l’uspedal”. Lui, ovviamente, non aveva niente a che spartire con la “gente dell’ospedale”, precisando che stava benone e il vino non solo poteva berlo ma era una sorta di medicina.Bevendo, Melampo, si lasciò andare ai suoi racconti. Iniziò a parlare delle disavventure del povero Ottorino Gambina, l’operaio del comune che faceva un po’ di tutto, dal cantoniere allo stradino. Ottorino, detto “robinia” per il carattere pungente che ricordava  le spine scure che ornavano i giovani rami delle robinie, era – come s’usava dire dalle nostre parti – un “nervusatt”.

Bastava un nonnulla e s’incavolava di brutto. Soprattutto quando lo prendevano in giro per le sue gambe. Sì, perché – per sua sfortuna – aveva le gambe storte, ad archetto. Sembrava un fantino ( la statura, più o meno, era quella.. ) al quale avevano sfilato il cavallo da sotto, condannandolo a rimanere così, con gli arti inferiori piegati in forma. Aveva ereditato il lavoro dal suo predecessore, noto a tutti come “Mario pulito” che, mantenendo fede al suo soprannome, aveva sempre e tenacemente operato per ottenere, con il minimo sforzo, la massima resa dalla sua attività. A differenza di sua moglie Maria che si  faceva in quattro nel lavorare, Mario era diventato famoso per la proverbiale abilità a sdraiarsi ai bordi della strada, dove, steso su un vecchio plaid, allungava le mani nelle cunette per estirpare le erbacce, con movimenti tanto lenti quanto studiati. Ben attento, sempre, a non faticare troppo e a non sporcarsi gli abiti. Se ne accorse anche il vecchio Hoffman, ben presto pentendosi di avergli offerto il lavoro di giardiniere nel parco della sua villa a Oltrefiume. Mario si sdraiava sotto gli alberi, a fine estate, nell’attesa che le foglie cadessero e solo quando gli alberi erano spogli e il fogliame a terra – con una gran flemma – iniziava a raccoglierle, una a una. “Robinia” , però, era di tutt’altra pasta. Al lavoro sembrava un trattore: a testa bassa, con la scopa in mano, spazzava con diligenza i marciapiedi e il sedime stradale. Finché, non gli capitò “l’incidente”, come lo definì Melampo.  A lè finì cunt el cü per tèra. Sì, perché è bastato il colpo della strega per metterlo fuori uso. E tutto, pensa un po’, per una cartina del cioccolato che stava lì, in mezzo al sagrato della chiesa. Aveva appena scopato per bene e qualche ragazzaccio passando, mentre era voltato di spalle, gliela aveva buttata lì. Nell’atto di chinarsi ha sentito un “crack” alla schiena ed hanno dovuto portarlo a casa così, piegato in due, fino a che il dottore non gli ha fatto un’iniezione. Sembrava che dovesse finir tutto lì, e invece…”. Era sconsolato, il fabbro. “ Tiricordi com’era? Bianco e rosso, sempre pronto a mangiare e bere. Ed ora? E’ magro che  sembra ‘n gatt che l’ha mangià i lüsert. Un gatto che mangia solo lucertole.. La schiena non gli tiene più, è sempre in mutua e si è messo a bere ancor più di quanto non facesse già. Ha proprio una brutta cera”.In effetti, era così. Non sembrava nemmeno più lui anche nel carattere. Era, come dire?, spento, apatico,rassegnato. Se si cercava di tirarlo su, dicendogli che bisognava aver fiducia, che si sarebbe messo a posto, rispondeva – scuotendo la testa – : “Se l’è minga supà, l’è pan bagna”( se non è zuppa è pan bagnato).Era rassegnato a rimanere così, con la schiena scassata e le gambette sempre più divaricate. Melampo, nel raccontare le sue disavventure, si era immalinconito. Ma reagì subito, proponendomi un altro “giro” di calici.“ Dai, Gino,beviamoci su. Anzi, ci bevo su io anche per te, così buttiamo alle ortiche la malinconia. Mi spieghi ancora una volta la pensata del foglio di giornale, eh?”.

 Marco Travaglini

Dantès a Torino

Dantès, lo yorkshire terrier dal pelo setoso e lo sguardo da filosofo, viveva tranquillo in una casa in mezzo a un bosco alla periferia di Ivrea. Era conosciuto e benvoluto da tutti, fatto salvo alcuni suoi simili (seppure d’altra razza) con i quali il tempo non aveva cancellato una certa diffidenza. Lunghe passeggiate a Bellavista, qualche gioco in casa e poi pappa e dormite scandivano le sue giornate. Un giorno ricevette un invito speciale: i suoi zii lo aspettavano a Torino per qualche giorno di vacanza.

Con la sua valigetta (piena delle sue crocchette anallergiche e il suo peluche preferito), Dantès partì all’avventura sull’auto rossa guidata dallo zio. Arrivato a destinazione, Dantès fu accolto con abbracci e carezze dalla zia che lo accompagnò subito in casa, dove lo aspettava un cuscino personalizzato con il suo nome e tante zampette stampate. “Finalmente!”, pensò Dantès, accoccolandosi con eleganza. Viaggiare in auto era un sacrificio per nulla piacevole. Il giorno dopo, Dantès mise il suo cappottino chic e partì alla scoperta della città. Torino era ben diversa dai luoghi che conosceva e dove abitualmente viveva. In piazza San Carlo gironzolò sentendosi come un piccolo Napoleone, sfilando tra i caffè storici sotto i portici del salotto buono della capitale subalpina. Prima era stato con lo zio in via Biancamano, dove c’era la storica sede dell’Einaudi, punto di riferimento della cultura italiana del dopoguerra. La casa editrice era stata fondata nel 1933 dal ventunenne Giulio, figlio di Luigi Einaudi, futuro primo presidente della repubblica.

 

In quei locali lavorarono collaboratori storici dell’editore come Cesare Pavese, Elio Vittorini, Italo Calvino e Leone Ginzburg. Verso il centro sostarono ai giardini Lamarmora, un oasi verde tra via Cernaia e via Bertola, dedicati al famoso generale del Regno di Sardegna, figura importante del Risorgimento che figurava tra i fondatori del corpo dei Bersaglieri. Al parco del Valentino, nel pomeriggio, rincorse le foglie, annusò ogni angolo e fece amicizia con un bassotto torinese di nome Cesare. Tornando verso casa incontrò un gruppo di amici a quattro zampe che riposavano nel giardino Alfredo Frassati, sostando sotto il monumento del fondatore de La Stampa. Fece conoscenza con un simpaticissimo bulldog inglese e tanti altri amici pelosi con i quali si annusò a lungo. Il giorno dopo giunse davanti al museo Egizio: non poté entrare, ma si fermò davanti alla statua di Anubi, convinto fosse un suo antenato canino. E, non certo per dileggio ma per segnare il territorio, lasciò un piccolo ricordo liquido. Lungo via Po camminò fiero tra studenti e passanti, ricevendo complimenti da tutti. “Che portamento!” dicevano. E qualcuno allungò una carezza, solleticandone l’amor proprio e la vanità. Lo intrigò molto quella costruzione altissima, simbolo architettonico della città. Bella, imponente, la Mole era stata progettata dall’architetto Alessandro Antonelli. Con un’altezza di 167,5 metri, fu per tanti anni l’edificio in muratura più alto del mondo ed oggi ospita al suo interno il museo del cinema. Salutati i dioscuri, Castore e Polluce, sulla cancellata del palazzo reale in piazza Castello, fece una sosta per la pappa.

Nel pomeriggio gli zii gli offrirono un cucchiaino di gelato alla vaniglia da Pepino, in piazza Carignano (approvato dal veterinario, ovviamente). Sul calar della sera, seduto su una panchina lungo il Po, Dantès osservò il tramonto tingere la Mole di arancio, pensando che, in fondo, quella città, pur essendo molto più caotica del posto dove era abituato vivere, era bella. Così passarono altri giorni di passeggiate, scoperte e coccole fino a che Dantès tornò a casa con il cuore pieno di gioia e ricordi, compreso quello del vento torinese che gli aveva spettinato leggermente il pelo. Viaggiare in auto era una vera tortura, non essendosi mai abituato, ma ogni volta che sentiva la parola “Torino”, scodinzolava felice e correva allegro verso la porta, pronto per una nuova avventura. E pazienza se doveva sorbirsi il tragitto allacciato sul sedile posteriore di quel trabiccolo.

 

Giovanni Melampo, il fabbro Giuanin

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Giovanni Melampo, noto a tutti come “Giùanin”, l’ho conosciuto negli anni in cui veniva in banca a chiedere prestiti per la sua attività di fabbro. Camminava sempre a zig e zag, con passo incerto e le mani in tasca dove teneva sempre due mele, una per parte:” Vùna par tegna via luntan al dùtur e l’altra parché a lè mej veglà drèe“, mi diceva. Che, tradotto, era la sintesi del proverbiale “una mela al giorno leva il medico di torno” con l’aggiunta di un po’ di previdenza al fine di non farsi trovare sprovvisto di cibo quando i morsi della fame reclamavano udienza. Giùanin era, per certi versi, un artista. Possedeva una straordinaria abilità nel lavorare i metalli e una bacchetta di ferro, nelle sue mani, poteva diventare davvero un oggetto prezioso.

 

Non aveva, però, il senso della misura. Ricordo che, una volta, Ruggero Locati gli commissionò una gabbietta per tenerci un merlo: “Giùanin, mà ràcumandi. Una gabbia che non sia troppo piccola perché il merlo deve potersi muovere ma neanche troppo grande, perché la devo tenere in casa. Ci conto, eh?”. E lui disse di sì. Erano all’osteria della Trappola, seduti uno di fronte all’altro. Ma, come poi s’accorse anche il Locati, Giùanin quand’era “preso” non connetteva più di tanto. Quante volte era capitato anche a me di vederlo. Arrivava al Circolo, si metteva seduto al tavolo vicino alla finestra e comandava il primo mezzino. E poi un’altro , e un’altro ancora. Se gli si diceva qualcosa rispondeva a malo modo: “ L’acqua fa marcire i pali. Lo dicono tutti i  grandi bevitori di vino , e lo dico anch’io. Anzi, caro al mé ragiùnier, lo sai come dicono gli svizzeri? L’acqua fa male ed il vino fa cantare. E, allora, se vuoi farmi compagnia, prendi anche te un bicchiere e beviamo alla nostra salute. E poi , cantiamo”. E attaccava con il repertorio di canti degli alpini. Stonato com’era, era uno strazio doverlo ascoltare. Ma ,ormai, ci avevamo fatto l’abitudine. Tornando alla gabbia del merlo, passarono diverse settimane senza notizie. Locati si stava preoccupando quando, una mattina che era uscito un po’ prima per andare dal medico, incrociò il  fabbro. “Uelà, Giùanin. Incœu pensavì propri a tì. E ma disevi, tra mì e mì: al sarà minga mòrt ? Ed invece, vardatt’chi , ancamò viv. E la me gabbia dal merlo? Ti gh’he semper avùu la bravura de fa ma, madonnina cara, al temp te scarligà via“. Locati, milanese della Bovisa trapiantatosi sul lago Maggiore, non aveva perso l’abitudine del dialetto meneghino. Giùanin gli disse che aveva avuto dei problemi e  che andava di fretta ma anche che non s’era dimenticato e, all’indomani, il Locati avrebbe avuto la sua gabbia. A suo modo era una persona di parola. E così, il mattino dopo di buon ora, Ruggero Locati sentì il rumore di un motocarro fuori casa e un paio di colpi di clacson. Uscì e Giùanin gli chiese di aiutarlo a scaricare la “gabbietta”. Bastava guardare in faccia Locati per cogliere la sua somiglianza con la “rana dalla bocca larga”. Era rimasto lì, a bocca aperta, basito. La”gabbietta” aveva un diametro di circa due metri  ed era alta più di tre. Una voliera, ecco cos’era. Una voliera in piena regola e per più in ferro battuto. “Mah,mah,mah…” inziò a balbettare il Locati, incredulo. “Non c’è ma che tenga. Volevi una gabbia per il merlo,no? Eccola, qui. Larga e spaziosa. E siccome ti ho fatto aspettare un po’ di più, sai che faccio? Te la regalo”. Detto e fatto. Scaricata la gabbia, il Giùanin mise in moto e se ne andò, lasciando il milanese senza parole, ancor più a bocca aperta. Ecco, Giovanni Melampo era così, come dire?.. imprevedibile. Generosissimo e altruista , non sopportava però che  gli si dessero consigli sul lavoro. “ A l’è com’insegnàgh  a rubà ai làdar“. Cioè, era come insegnare a rubare ai ladri. Frase che rivolgeva a chi  aveva il vizio di dare spiegazioni inutili a chi era più esperto e competente. Oppure, bofonchiando tra i denti, sibilava un “ Pastizzee, fà ‘l tò mesté!“, sottolineando come fosse bene che ognuno lavorasse secondo la propria competenza. Poteva permetterselo, essendo un fabbro che “faceva i baffi alle mosche”. Dove abitava, sulla strada tra Loita  e Campino, praticamente sul confine tra Baveno e Stresa, aveva anche la sua bottega. L’incudine in ghisa era imponente. “Più è grossa, meglio è“, mi diceva il Giùanin. E quella, tra le due estremità, aveva una lunghezza di quasi due braccia. Di martelli ce n’era tutta una serie. “Per ogni lavorazione esiste il martello ideale. Vede, ragioniere, il peso è proporzionato a quello del pezzo da lavorare. E tutto dipende dall’efficacia che si vuol dare al colpo. Quello lì, ad esempio, è un martello da due chili. Quell’altro là ne pesa quasi tre mentre quello che sta lì, vicino a lei, pesa solo quattro etti“.

 

Quando parlava del suo mestiere usava un italiano corretto, da “professore”. “ Oggi, sa,  il ferro battuto viene richiesto soprattutto per arredare le case, dentro e fuori. Lampadari, tavolini, cancelli, intelaiature delle finestre. Ho anche molte richieste di cerniere per mobili“. In un angolo, sotto una larga cappa, c’era la forgia con il suo mantice per soffiare l’aria sul fuoco (“così si accelera la combustione e le temperature si mantengono più elevate“). Lo vedevo bene, Giùanin, aggirarsi sicuro tra i suoi attrezzi. Sembrava un direttore d’orchestra che disponeva gli strumenti nel modo migliore per eseguire la sinfonia. Lui, al posto di oboe, violini, violincelli, arpe e percussioni aveva pinze, taglioli, stampi, punzoni, dime, lime, seghe, mole, morse, trance, trapani. Anche in cucina era un mago. Talvolta mi capitava che, giunti ormai alla mezza,alzandomi per andare a casa a buttare un po’ di pasta da condire con pomodoro e parmigiano, com’era mia abitudine, mi teneva per il braccio, dicendomi: “Sù, ragiùnier, venga con me. Stiamo un po’ in compagnia. Le faccio assaggiare un po’ di pesce che m’hanno dato giù dal Luigino“. Tra le sue passioni c’era la pesca. Che condivideva, quando possibile, con Luigino Dovrandi, pescatore professionista ormai pensionato. Luigino, per non “perdere il vizio”, buttava le reti almeno tre volte la settimana e divideva il pescato con lui. A patto che cucinasse per tutti. A me capitava così di fare da “terzo” a questi banchetti. Tra i fornelli, Giùanin si destreggiava con abilità.La sua specialità era  il fritto misto di lago: alborelle in quantità e agoni, da friggere infarinati nella padella di ferro;  bottatrice, filetti di persico e lavarello, da cuocere a loro volta, impanati con l’uovo,  in burro e salvia , aggiungendo un goccio d’olio. Una bontà da leccarsi i baffi. E non finiva lì. Talvolta portava in tavola anche il  pesce in carpione, fritto e poi marinato in aceto, cipolla, alloro. Più raramente me lo proponeva in salsa verde. Si trattava, in quei frangenti, di lavarelli, agoni o salmerini grigliati e marinati in una salsa di prezzemolo, mollica di pane, aceto, capperi, acciughe, aglio, rosso d’uovo, olio d’oliva. D’inverno ci serviva i “missultitt” con la polenta. Questi agoni essiccati li trovava Luigino nella parte alta del lago, tra Ghiffa e Oggebbio. Lì, a dispetto del tempo e delle tradizioni che lasciavano il passo, alcuni vecchi pescatori suoi amici trasformavano gli agoni pescati in tarda primavera in missoltini, essicandoli al sole e conservandoli,  strato su strato – con foglie d’alloro – pressati nella “dissolta”, un recipiente chiuso da un coperchio di legno sul quale gravavano dei pesi, così che i missoltini restassero “sotto pressione” per alcuni mesi. Una volta “liberati”, Giùanin li passava per pochi istanti sulla griglia rovente, irrorandoli d’olio e aceto, per poi servirli sui nostri piatti con delle larghe fette di polenta abbrustolita e tre bicchieri di vino rosso. Un’allegria per il palato e una gioia per la compagnia.

 

Marco Travaglini

“Gesù, perdonami”… Don Siro e il giovane Ardenti

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Il vescovo, l’ultima volta che gli aveva parlato, era stato chiaro. Anzi, potremmo dire chiarissimo. Inequivocabile. “Caro don Siro, lei deve mettere la testa a posto. E’ un parroco stimato dai suoi fedeli che, a quanto mi è stato riferito, non mancano alle funzioni ma…e aveva fatto una lunga pausa, quasi cercasse le parole giuste)..bisogna che non prenda sempre di petto il podestà e chi oggigiorno ha la responsabilità della cosa pubblica. Con i fascisti, piaccia o no, bisogna andar d’accordo. So bene anch’io che sono rozzi, maneschi e non sempre animati delle migliori intenzioni verso il prossimo. Ma noi, caro don Siro, siamo la Chiesa. Non se lo deve scordare. Siamo la Chiesa che guarda e tollera, comprende e non giudica. Si ricordi che solo Iddio può trarre i giudizi. Sono stato chiaro? Adesso vada, su…e si faccia voler bene anche da quei signori in camicia nera“. Era l’ultima, in ordine di tempo, delle lavate di capo che don Siro si era buscato dai suoi superiori.

La Chiesa, pur non condividendo gli atteggiamenti dei fascisti, in particolar modo le bastonature e le somministrazioni di olio di ricino a coloro che venivano individuati come oppositori o, quantomeno, persone non gradite al regime, manteneva un atteggiamento prudente. Don Siro, parroco del paese da vent’anni (ci teneva a precisarlo:“vent’anni,eh.. mi raccomando. Vent’anni e non un ventennio perché la sola parola mi fa uscire dalle grazie e non voglio far peccato mollandovi un bel ceffone”), mal sopportava quei ragazzotti con l’orbace e ancor più gli andavano di traverso quei reduci della grande guerra che si pavoneggiavano imitando la postura del Duce, petto in fuori e gambe larghe. “Andar d’accordo con quelli lì? Madonna mia, come faccio…Sono peggio dei diavoli. Arroganti, presuntuosi e blasfemi. Parlano di Dio e della Patria e poi, alla faccia della carità cristiana, sbattono in gattabuia quelli che non la pensano come loro. Oppure, com’è successo al povero Rossi, gli fan trangugiare un litro e mezzo di olio di ricino. Giù per la gola, a garganella, con l’imbuto. Se non ha tirato fuori le budella nel cesso alla turca nella sua casa di ringhiera, è stato per puro miracolo. E il Luison? E’ un socialista ma è anche una grava persona. Volevano che cantasse Faccetta Nera: si è rifiutato e l’hanno riempito di botte che adesso cammina tutto storto. Ed io dovrei andarci d’accordo? No, cara Madonna: l’è come far peccato!”. Don Siro non era solo una sòca negra, come diceva Geppe. L’abito talare non doveva trarre in inganno. Era sì un uomo di chiesa ma non si poteva dire che non prestasse attenzione e rispetto anche a coloro che la fede l’avevano persa o non l’avevano mai trovata. Soprattutto Don Siro era infastidito dalla violenza dei fascisti. Non sarebbe mai stato in grado di sparare una schioppettata o dar di bastone in testa a qualcuno ma ciò non gli impedì di prendere a calcioni nel sedere l’ultimo rampollo degli Ardenti, famiglia di industriali lombardi che possedevano una gran villa in paese. L’aveva fatto, senza esitazione,  dopo che il diciassettenne eterno avanguardista Furio Ardenti aveva scritto “Noi diciamo che solo Iddio può piegare la volontà fascista. Gli uomini e le cose mai”. Il punto era che quella frase, per il prete, suonava non solo  blasfema ma intollerabile visto che  campeggiava – a caratteri cubitali, tracciati con la vernice nera –  sul muro esterno della canonica. “Gesù, perdonami“, disse mentre sferrava il calcio nelle terga del giovane  fascista. “Perdonami, se faccio peccato ma, credimi, ho le mie buone ragioni“, aggiunse accompagnando le parole con una seconda, vigorosa pedata nel didietro dell’Ardenti, facendogli volar via di botto  il Fez che portava in testa. Il padre del ragazzetto, ma ancor più la madre – una nobildonna secca come un manico di scopa, dal carattere nervoso e suscettibile – andarono su tutte le furie, protestando vivacemente con il Podestà che,a  sua volta, fece le sue rimostranze al Prefetto. Il passaggio successivo era stata la convocazione nel palazzo vescovile, non troppo distanze dalla Basilica sormontata dalla cupola di Santo patrono. Anche questa volta, terminata la lavata di capo, il povero prete si mise in viaggio dal capoluogo al centro più importante del lago con il treno per poi approfittare – da lì al paese – dell’ultima corsa con il  vaporetto, pronto a salpare verso le isole e le località costiere. In cuor suo, Don Siro, si era già quasi dato l’assoluzione.In fondo, quello scatto d’ira era ben giustificato dallo scarso, scarsissimo rispetto che quei signori in divisa scura come la pece portavano alle sue convinzioni religiose e alla pacifica convivenza. “Se proprio devo porgere l’altra guancia – mugugnava tra sé il prete – vorrà dire che, in caso estremo, porgerò anche l’altro piede”. Intrecciò le dita per pregare e sul volto comparve per un attimo un sorriso sornione.

Marco Travaglini

Oh, Lucrezia…

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E ora, che si fa?”, chiese Gioacchino, rivolgendosi incredulo agli altri compagni. “Che si fa, che si fa…Si cerca qualcuno che se la senta, che trovi le parole giuste. Del resto si sapeva che, prima o poi, ci sarebbe capitato un funerale civile anche qui da noi, no? C’è sempre una prima volta”, rispose sbrigativo Carletto Barelli, il segretario della Camera del Lavoro

 Lucrezia l’aveva detto a tutti e, da qualche anno, ormai anziana, l’aveva anche scritto – nero su bianco –  nel testamento. Così non c’erano dubbi: il giorno dell’ultimo saluto, prima di finire sotto terra, non voleva tra i piedi preti e suore. “Niente omelie e fumo di candele;niente fiori e rosari da sgranare. Solo una breve orazione civile”. Così aveva scritto, di suo pugno, Lucrezia Dolcini,  dopo la premessa di rito (…nel pieno possesso delle mie facoltà mentali e in piena libertà, volendo disporre per il tempo in cui avrò cessato di vivere, dichiaro con il presente atto le mie ultime volontà come di seguito espresse…). 

 

Essendo nubile e senza prole, non aveva parenti stretti a cui lasciare l’unico bene di cui disponeva: una vecchia casa con annesso fienile che aveva ereditato dal padre, morto di silicosi a meno di quarant’anni. E così aveva disposto che fosse la CGIL a beneficiare di ciò che possedeva. In cambio, come unica contropartita, voleva che l’impronta dell’ultimo saluto fosse laica in tutto e per tutto. La sua storia, del resto, parlava per lei. Nata nel 1892 poco distante dalla Pieve di Montesorbo a Ciola, una frazione di Mercato Saraceno, in Romagna, Lucrezia – con i genitori – era emigrata in tenera età in Ossola dove il padre, Duilio, aveva trovato lavoro nel cantiere del traforo del Sempione. Un’opera imponente che, all’epoca della sua costruzione, nei primi anni del ‘900 , collegando Domodossola a Briga, si fregiava di essere la più lunga galleria ferroviaria del mondo. D’indole ribelle, era cresciuta in una famiglia di fede repubblicana. Il padre era stato anche segretario, in gioventù, del più antico partito politico italiano in una località limitrofa, Talamello. Quel nome e il simbolo della foglia d’edera, in Romagna, spiccavano fieramente su fiammanti bandiere rosse e gli aderenti cantavano feroci canzoni contro i Savoia e tutte le teste coronate. La giovane Lucrezia, cresciuta con il mito dei “tre Giuseppe” (Mazzini, Garibaldi e Verdi) stravedeva per il padre che, al posto delle favole, le leggeva brani della Costituzione della Repubblica romana, che Aurelio Saffi , romagnolo purosangue, aveva contributo a scrivere con gli altri due membri del “triumvirato”, Armellini e Mazzini, dopo aver sottratto il potere al Pontefice, al tempo Pio IX. Papà Dolcini, rimasto vedovo, crebbe la sua unica figlia con amore, mettendola in guardia sulle fatiche della vita. Per rappresentarle meglio, usava un’immagine piuttosto forte, presa in prestito dal poeta Olindo Guerrini, in arte “Stecchetti”, anch’esso romagnolo: “La vita l’è coma la schèla de puler: cùrta, in salìda e pìna ad merda” (la vita è come la scala del pollaio: corta in salita e piena di sterco). Così, lavorando sodo, con il magro guadagno riuscì anche a far studiare la figlia e Lucrezia, tra un sacrificio e l’altro, si diplomò maestra e insegnò a leggere e scrivere nella scuola elementare di uno dei più popolosi rioni di Domodossola. Lo fece riponendo nel suo lavoro la stessa passione con cui, alla sera, partecipava agli incontri e alle iniziative promosse dal sindacato e dai partiti progressisti. Se c’era da predisporre un manifesto pubblico o organizzare una serata di solidarietà con le famiglie degli operai in sciopero di questa o di quell’altra fabbrica, la “maestra Lucrezia” non si tirava mai indietro, offrendo impegno e tempo senza nulla pretendere in cambio. Per questo era benvoluta e stimata in tutta la valle. E la notizia del suo decesso era stata accolta con tristezza e dolore. Chi poteva porgerle l’ultimo saluto? Carletto Barelli ebbe un’idea: “si potrebbe chiedere a Germinale Festelli, il maremmano. Che ne dite? ”. Convennero tutti che l’idea era ottima e  venne incaricato Libero Fusini, che lavorava  con Germinale all’acciaieria della “Pietro Maria Ceretti“.

 

Uno schietto e diretto, un po’ fumino e permaloso, il Festelli passava per uno che aveva un caratteraccio ma in realtà era solo allergico ai  compromessi e non aveva mezze misure, nel bene e nel male. Se un amico aveva bisogno, si faceva in quattro per dargli l’aiuto necessario ma se qualcuno gli faceva saltare la mosca al naso erano guai e dolori. “Quando Germinale diventa brusco è come il temporale che si scatena in agosto”, dicevano in fabbrica, alludendo ai fulmini e alle saette che accompagnavano le sfuriate del “toscanaccio” quando aveva la luna storta. Il Festelli, livornese di Cecina, saputo della morte di Lucrezia, sbottò con un solenne: “Maremma maiala! Che triste notizia mi date! L’era una donna decisa come l’omo. C’aveva dù ‘oglioni!”. Sinceramente dispiaciuto, non esitò a dare l’assenso alla richiesta che Libero gli sottopose a nome delle sezioni comunista e socialista, della Fiom  e della Camera del Lavoro, oltre che di alcuni dei vecchi repubblicani che erano rimasti fedeli alle loro origini. Il funerale si sarebbe svolto due giorni dopo, partendo dall’abitazione di Lucrezia, alla Noga, di fianco all’edificio seicentesco della  vecchia parrocchiale, dedicata alla Vergine del Rosario. Il corteo, prima di raggiungere il cimitero, avrebbe fatto una sosta in piazza Mercato dove avrebbero preso la parola Carletto Barelli e , soprattutto, Germinale Festelli, l’oratore ufficiale. Il cecinese preparò con cura il discorso, deciso a non farsi prendere la mano dall’ardore della passione che l’avrebbe, senza alcun dubbio, portato all’esagerazione. Scrivendo, cancellando, aggiungendo arrivò a quella che, per lui, era la perfezione possibile: un’orazione civile che si proponeva di omaggiare la memoria di Lucrezia, toccando le corde dei sentimenti più veri. Provò più volte il discorso davanti allo specchio, calcolando con l’orologio quanto tempo gli era necessario per leggere quel testo senza andar troppo piano, strascicando le parole, e neppure troppo veloce, con il rischio di mangiarsele. Cronometro ventitre minuti esatti. Né troppo, né troppo poco. Sì, poteva andare.

 

Così, con i fogli infilati nella tasca della giacca di fustagno del dì di festa, in testa al corteo composto da alcune centinaia di persone, affiancato da labari delle cooperative  e bandiere rosse, Germinale avvertiva su di sé tutto il peso della responsabilità. In piazza, dopo il telegrafico intervento del segretario della Camera del Lavoro, il Festelli s’avvicinò al microfono. Con un colpo di tosse si schiarì la voce e alzando lo sguardo sulla folla, appoggiò la mano sinistra sul feretro coperto da una bandiera sulla quale spiccava il simbolo dell’edera e fece per prendere i fogli dalla tasca. In quel momento, vuoi per l’emozione, vuoi perché non aveva toccato cibo dal giorno prima, gli si annebbiò la vista e – per un istante – si sentì mancare la terra sotto i piedi. Rendendosi conto che non era in condizione di leggere, prese coraggio e pronunciò, con voce di tuono, una delle più brevi orazioni funebri della storia: “ Oh, Lucrezia.  Noi ci s’ha fatto le lotte insieme e  ora siamo più soli.  L’è ‘nda’ via una compagna che valeva, maremma maiala ‘mpestaha ‘hane. E mi domando: oh, Lucrezia, perché sei morta se cinque minuti prima di morire, eri così piena di vita ?”. Dopo qualche attimo di smarrimento iniziarono i primi applausi e, in breve, l’intera piazza tributò l’ultimo, caloroso addio alla “maestra Lucrezia”, senza però trovare una risposta alla domanda di Germinale.

Marco Travaglini

Faggeto Lario, l’estate del 1976 sull’altro “ramo” del lago di Como

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IL RACCONTO / di Marco Travaglini

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Faggeto Lario dista poco più di 15 chilometri da Como. In auto, una mezz’ora di strada. Avete presente «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi..» descritto dal Manzoni ne “I promessi sposi”? Bene: il nostro “ramo” è quell’altro. E’ lì che, con il pullman dell’Azienda Comasca Trasporti in servizio sulla tratta Como-Bellagio, passando da Blèvio e Torno, sono arrivato un pomeriggio d’agosto del 1976. Avevo diciott’anni e la mia destinazione era l’Istituto di studi comunisti “Eugenio Curiel”. Un tempo, dopo la Liberazione, la “scuola quadri” del PCI nel comasco portava il nome di “Anita Garibaldi” ed era  riservata alle donne. All’epoca, il PCI di Berlinguer teneva molto allo sviluppo di una politica culturale rivolta alla nuova generazione di militanti, funzionari e quadri intermedi che entravano a ingrossare le file del partito. Una grande importanza avevano le scuole di partito, la cui attività formativa si svolgeva attraverso l’organizzazione di corsi di base, presso le sezioni o le federazioni provinciali, oppure presso le strutture permanenti, tra le quali la più nota era l’Istituto di studi comunisti delle Frattocchie (dal 1973 intitolato a Palmiro Togliatti), in una frazione di Marino, località dei Colli Albani una ventina di chilometri a sud di Roma. Lì si formavano i quadri dirigenti, si insegnava l’arte della politica. Non si imparava solo la “linea”. Chi frequentava i corsi studiava storia, economia e altre materie ma, soprattutto, ci si formava sull’idea che far politica era una professione al servizio degli altri, di un ideale, di una causa. Insomma, una cosa seria. I corsi erano impegnativi e di lunga durata. I periodi di permanenza variavano da un anno a sei mesi fino a poche settimane. Il mio era un “corso estivo per giovani operai”, della durata di tre settimane che, praticamente, corrispondevano alle mie ferie. Le giornate venivano scandite secondo un programma preciso: ore 7, sveglia e riordino delle stanze; ore 7.55, inizio dei corsi; ore 12, pranzo e riposo; ore 15, discussione e studio; ore 19, cena e libera uscita (quando non capitava qualche riunione serale); ore 22, rientro. Su questo non si sgarrava. Una sera che, in tre, con l’auto di un compagno di Genova (una vecchia Simca 1000) andammo alla Festa de L’Unità di Bellagio, essendo tornati verso le 23 trovammo il cancello chiuso e dormimmo sotto i salici in riva al lago perché nel parco della scuola, dopo le 22, venivano sguinzagliati per la notte due cani piuttosto “mordenti” e non era il caso di mettere alla prova le nostre gambe e  le loro mandibole. Il direttore era l’ex senatore Giovanni Brambilla (Conti). Operaio, confinato, partigiano, in passato vicesegretario della Federazione milanese del Pci e segretario generale della Fiom provinciale milanese. Un uomo tutto d’un pezzo, gentile ma ferreo nell’applicare la disciplina. I docenti erano di grande livello. Stava per essere pubblicato dagli Editori riuniti “Economia politica marxista e crisi attuale”  dell’economista  Sergio Zangirolami, e si studiava con lui  sulle sue dispense. Il giornalista e scrittore Luciano Antonetti, amico e biografo di Alexander Dubcek, protagonista della Primavera di Praga e leader di quel “socialismo dal volto umano” soffocato dai carri armati sovietici nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968, ci parlava di politica internazionale. Luciano Gruppi, intellettuale comunista di rango, vicedirettore della rivista “Critica marxista”, anticipò i contenuti di due volumi che sarebbero usciti di lì a poco: “Il compromesso storico” e “Il concetto di egemonia in Gramsci”. Insomma, per farla breve, era un corso impegnativo e, nello stesso tempo, intrigante. Imparavamo a mettere in ordine secondo una certa logica le intuizioni che avevamo colto nel muovere i primi passi in politica e questo ci dava una bella carica. Ma eravamo anche dei ragazzi, tra i diciotto e i ventiquattro anni, e amavamo anche divertici. Non racconterò gli scherzi che si possono immaginare, come – tanto per fare un paio d’esempi – lo zucchero infilato sotto le lenzuola di Mauro Z., operaio metalmeccanico di Carpi, che andava sempre a letto senza pigiama perché soffriva il caldo, o il sale nella minestra di Roberto P., studente di Lodi, che la sputò schifato in faccia a Luigi F., anch’esso studente ma di Verona, che gli sedeva di fronte nel refettorio. Il sabato o la domenica, a seconda delle condizioni del tempo, si andava in gita sul monte Palanzone, con una bella sgambata di qualche ora. Tra canti partigiani e pranzi al sacco, quelle gite rafforzavano il nostro cameratismo. Le nuotate nel lago erano una consuetudine dopo pranzo, prima che entrasse in azione la digestione del pasto che, a dire il vero, era alquanto frugale.  Ho sempre avuto una fifa blu nello spingermi dove non si toccava, quindi mi limitavo a quattro bracciate in orizzontale, poco distante dalla riva. Ma la cosa più straordinaria, e per certi versi tragica, capito’ a Bepi. Il cognome l’ho dimenticato, ma mi ricordo che svolgeva le mansioni di magazziniere in una distilleria di Bassano del Grappa. Quando arrivai in istituto a Faggeto Lario, Bepi era già lì da quindici giorni ed era molto nervoso. Non ci mettemmo molto a comprenderne le ragioni. A ridosso della scuola, appena oltre il muro, c’era una chiesa che un tempo era appartenuta alla stessa proprietà ma che il partito, dopo averla acquisita, con gesto generoso, aveva donato alla curia comasca. Del resto, che cosa ce ne facevamo di una chiesa? Chi aveva fede poteva tranquillamente frequentare le funzioni e queste erano di competenza della diocesi e non certo del PCI. Comunque il problema non era tanto la chiesa ma l’orologio del campanile che, grazie ad un meccanismo ad ingranaggi collegato ad una campana, segnava non solo le ore ma pure le mezze. E se, per il Manzoni, verso sera “si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, cha annunziava il fine del giorno. …” per il povero Bepi s’annunciava il calvario di un’altra notte in bianco perché quel suono gli impediva di riposare. Così, un bel giorno, mi pare di venerdì, calate le ombre della sera, ormai esasperato, armatosi di un possente martello e di due cunei di ferro, lunghi e spessi, si arrampicò come un gatto sul campanile. Giunto all’altezza delle lancette dell’orologio, fissò con forza i cunei nel muro, bloccando il meccanismo che – in tensione per l’impedimento – si ruppe, bloccando il meccanismo che attivava la campana con un forte “crack”. Così, dopo il blitz di Bepi, la notte trascorse in un silenzio irreale e così anche il giorno dopo fino a quando, avvertito del danno che aveva guastato l’orologio, il parroco diede in escandescenze, accusando “quei senza Dio di comunisti” di “aver tagliato le corde vocali alla cristallina voce della Chiesa”. Ma, non avendo prove, dopo un po’ di baillamme, la polemica si stemperò nel nulla. Cosa diversa fu invece l’inchiesta interna condotta dal direttore Brambilla che, superando il nostro muro del silenzio, ottenne da Bepi una piena confessione dopo che lo stesso aveva manifestato un repentino cambio d’umore, canticchiando una poco edificante canzoncina il cui ritornello prometteva di mandare a fuoco le chiese per poi, sulle macerie, costruire delle sale da ballo. Reo confesso, Bepi lasciò la scuola e tornò a Bassano mentre noi, per altri dieci giorni, continuammo il nostro corso di studi per poi tornare a casa. Così passai le ferie del 1976, tra amici e compagni, studiando e frequentando – quando si poteva, mettendo insieme i pochi spiccioli di cui disponevamo – l’Osteria dei Manigoldi, dove si poteva gustare la  petamura. Non saprei come definirla: sembrava  un dolce, una specie di budino, ma era anche un pasto completo , composto da farina, latte, zucchero e vino. Era molto consistente e nutriente, nonostante fosse un piatto povero. Sarà stata la fame, saranno i ricordi un po’ sbiaditi della gioventù, ma quel piatto tradizionale di Faggeto dal colore violaceo era proprio una bontà.

Alla Beccaccia una signora “dedita all’altrui piacere”

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La notizia, lì e nei dintorni, girava già da qualche settimana. A mezza voce, tra ammiccamenti e gomitate, si era sparsa la voce che “La Beccaccia”, un’osteria con locanda, ospitasse una signora dedita alla promozione dell’altrui piacere.

Ovviamente, dietro pagamento di una modica somma perché, com’è noto, il “mestiere più vecchio del mondo”, come tutte le attività che si rispettino, non era gratis. Natalino e Pacifico, un po’ per curiosità, un po’ per l’indole trasgressiva che li accomunava, decisero di andare a vedere se quanto si sentiva dire corrispondesse poi al vero. “Un sopralluogo s’impone”, sentenziò Pacifico, che per mestiere s’occupava a tempo pieno della tutela dei lavoratori ( “di tutti i lavoratori”). Ovviamente Natalino, operaio e pubblico amministratore, non obiettò alcunché, trovandosi d’accordo con l’amico in tutto e per tutto. Quindi, inforcate le bici, partirono. La strada non era molta tra il loro paese e quello dell’osteria. Pedalando di buona gamba, i sette chilometri e mezzo s’accorciarono in un baleno e i due amici, raggiunto il campanile del paese, svoltarono a sinistra, imboccando la strada che saliva verso la stazione ferroviaria, dove – un po’ prima dello spiazzo davanti all’edificio – si scorgeva, sulla facciata di una vecchia casa a  due piani,  l’insegna de “La Beccaccia”. Lasciate le bici- nell’apposita rastrelliera collocata tra la Stazione e la locanda, i due entrarono. L’oste, tal Tossichini Aristide, detto “Burbero” per il carattere

ruvido e scontroso, in maniche di camicia, era intento ad asciugare dei bicchieri. Vedendo comparire  sull’uscio Natalino e Pacifico, non tradì particolare curiosità. Continuando a passare i calici nell’asciugamano, senza dire una sola parola e con un cenno del mento, chiese ragione della loro presenza. Un po’ impacciati, i due esitarono a parlare per qualche istante. Poi, incrociato lo sguardo interrogativo del Tossichini, Natalino prese coraggio e, schiaritasi la voce, chiese: “Si può vederla?”. “Burbero”, senza scomporsi più di tanto, con fare svogliato, indicò la scala in fondo al locale che portava al piano superiore. I due amici, ringraziando, salirono svelti i gradini di legno, trovandosi davanti ad un corridoio dove, da una parte e dall’altra, s’aprivano tre

porte. Due a sinistra e una a destra. Quale delle tre era quella giusta? Tentarono a destra ma la porta era chiusa a chiave. Afferrata la maniglia della prima a sinistra, il risultato fu lo stesso: bloccata. Rimaneva l’ultima porta. E questa s’aprì, con un lieve cigolio. Entrati nella stanza, restarono a bocca aperta, sgranando gli occhi davanti alla scena che si presentò  davanti al loro sguardo smarrito. Altro che femmina compiacente e lussuriosa! Nella penombra della stanza, sdraiata sul letto, vestita di nero e con il rosario in mano, s’intravvedeva il cadavere di un’anziana donna.  Ai fianchi del letto quattro grossi ceri accesi diffondevano una luce tremolante e fioca da far venire i brividi. Pacifico e Natalino si guardarono in faccia e, quasi di scatto, fecero dietrofront, uscendo dalla stanza, chiudendosi rumorosamente la porta alle spalle. La scala dalla quale erano saliti con un po’ d’imbarazzo e circospezione, venne ridiscesa in fretta e furia. Quell’impazienza insospettì l’oste che non ci mise molto a capire la situazione, considerando che i due non erano i primi a sbagliare indirizzo e credere che nella sua locanda si praticasse il mercimonio. Rosso in volto, furibondo perché i due avevano scambiato la vecchia zia Giuditta, morta il giorno prima a ottant’anni d’infarto , per una poco di buono, “Burbero” iniziò ad inveire. Brandendo minaccioso una vecchia scopa di saggina, si lanciò all’inseguimento dei malcapitati che, inforcate al volo le biciclette, pedalarono via come due indemoniati. Giunti al paese, trafelati e stanchi, si presentarono ansimando all’osteria dell’Uva Pigiata. Paolino Pianelli, a conoscenza della loro avventura, vedendoli in quello stato, fece l’occhiolino sussurrando: “L’avete vista, eh?”. Pacifico, con un filo di fiato e una buona dose d’ironia, rispose che sì, l’avevano vista. Ma che già al primo sguardo, avevano capito subito che non faceva per loro e se n’erano andati via.

 

 Marco Travaglini