IL RACCONTO- Pagina 2

La gallina Maddalena e gli opossum

/

 

Nel santuario torinese di piazza Santa Rita da Cascia, con un gesto cristianamente dubbio e poco credibile considerate le sue convinzioni religiose, Carletto accese una candela davanti alla statua della santa degli Impossibili ringraziandola, confidando nella sua divina intercessione affinché venisse mantenuta nel tempo quella grandissima invenzione che gli anglofoni chiamavano smart working e gli autoctoni avevano tradotto in lavoro agile. A dire il vero, almeno per lui e per chi apparteneva a quello che alcuni ribattezzarono “il club degli opossum”, la parola lavoro provocava un naturale rigetto, una sorta di eritema dell’animo. Cerimonioso, abilissimo a svicolare gli impegni e a rendersi quasi invisibile per schivare il lavoro, Carletto aveva interpretato a modo suo il lavoro a distanza, da casa. Omettendo il riferimento a tutto ciò che significasse attività, servizio, impiego, mansione, compito, responsabilità, azione oppure risultato si era concentrato sulla parte dell’agile da intendere come un processo di inoperosità, massima aspirazione per coloro che non provavano alcun rimorso nell’essere dei perdigiorno, degli scansafatiche. Pazienza se poi questo atteggiamento sfociasse nell’imbroglio o nella truffa, ingannando il prossimo e principalmente chi gli aveva affidato il lavoro.

Rosina, sua socia in tutto e per tutto (aspetti sentimentali a parte), la pensava ovviamente alla stessa maniera. Erano davvero una bella coppia e, affidandosi all’immortale capolavoro di Collodi, non si faticava a identificarli con il gatto e la volpe. O con l’opossum e la sua nota strategia di fingersi morto per scoraggiare i predatori. Solo che, nel caso dei due, si trattava di un buon modo per schivare lavoro e impegni, infrattandosi al fine di rendersi indivisibili e silenziosi. Il lavoro reclamava attenzione e presenza? Chissenefrega e buonanotte ai suonatori, tanto c’era sempre qualcuno sul quale si poteva, in qualche maniera, scaricare le incombenze. Rosina era nipote di Mario, conosciuto dai più come “il Mario pulito”, uno stradino originario della provincia di Rovigo il quale, mantenendo fede al suo soprannome, aveva sempre e tenacemente operato per ottenere con il minimo sforzo la massima resa dalla sua attività. A differenza di sua moglie Maria che si “tirava nera” a lavorare, lui era diventato famoso per la proverbiale abilità a sdraiarsi ai bordi della strada dove, disteso su un vecchio plaid, allungava le mani nelle cunette per estirpare le erbacce con movimenti tanto lenti quanto studiati. Ben attento a non faticare troppo e a non sporcarsi gli abiti. Se ne accorse anche il vecchio cavaliere Hoffman, pentendosi amaramente di avergli offerto il lavoro di giardiniere nel parco della sua villa. Il buon Mario si sdraiava sotto gli alberi sul finire dell’estate in pigra attesa che le foglie cadessero e solo quand’erano tutte a terra, con una gran flemma, iniziava a raccoglierle, una ad una. E lo stesso in primavera quando, dopo la sosta invernale dove veniva pagato per non far nulla, attendeva che l’erba crescesse fino ai polpacci per rasare il prato con il tosaerba riservandosi tutto il tempo che riteneva necessario. La nipote non poteva certo smentire quell’attitudine perché, come si usa dire, buon sangue non mente. Eppure i due, nonostante tutto, erano simpatici e nemmeno lontanamente paragonabili a Stella, conosciuta come “la gallina Maddalena”, parafrasando una canzone di Roberto Vecchioni. A parte l’idiosincrasia per il lavoro che, forse, poteva accomunarla a Carletto e Rosina ma in una versione molto più acuta, la sua personalità era contorta e poco raccomandabile. Falsa come il peccato di Giuda, cattiva d’animo e terribilmente pettegola, anche lei come la gallina Maddalena si credeva una faraona e ingrassava “senza fare mai le uova”. Piena di se e sempre pronta a cambiar bandiera, tagliuzzava i vestiti addosso al prossimo con la sua linguaccia ma non voleva essere criticata (“io, le cose, non le mando mica a dire… Io, le cose, non le faccio alle spalle. Non è vero che io non abbia mai torto: sono gli altri che non hanno mai ragione”). Quel posto di lavoro per lei era solo un rifugio all’ombra del politico compiacente e lo smart working lo intendeva non come lavoro a distanza ma la maggior distanza possibile dal lavoro che, peraltro, non era in grado di fare a causa dei propri limiti e dell’assenza di un seppur piccolo barlume di volontà. Ma come spesso capita le cose possono cambiare improvvisamente e non è detto che i cambiamenti siano in meglio. Anzi. E così capitò che un giorno finì il suo credito con la fortuna e dovette ridare indietro tutto ciò che aveva ottenuto con intrighi e piccole furbizie. In poche parole, dalla sera alla mattina, la gallina rimase “senza penne sul di dietro”. Ancora una volta quella canzone del grande maestro ritornava quasi fosse una condanna (“Maddalena dei lamenti, che stà lì, che aspetta e spera; Maddalena senza denti, vittimista di carriera; Maddalena dei padroni che van bene tutti quanti: le stanno tutti sui coglioni, però manda gli altri avanti”). Quelli che definiva i suoi santi in Paradiso caddero in disgrazia e per quanto manifestasse la sua disperazione, le toccò andare a lavorare in un fast food. Tra le otto e le dieci ore al giorno a friggere ali di pollo e patatine senza il conforto di un aeratore che funzionasse erano il risultato dell’applicazione della legge del contrappasso per chi, come lei, aveva sempre riso in faccia a chi era costretto a faticare per mettere insieme il pranzo con la cena. E lì la presenza al lavoro era obbligatoria, non facoltativa. Qualche volta capitò che dei conoscenti ai quali aveva riservato in passato le sue attenzioni, delle quali avrebbero fatto volentieri a meno, si fermassero a fare un boccone in quel locale canticchiando “Maddalena, Maddalé, Maddalena dei funamboli: prima c’era e poi non c’è, Maddalena, Maddalé; Maddalena dei tuoi comodi: basta che va bene a te; Maddalena dei pronostici: “io l’avevo detto che…”. Maddalena dei colpevoli: tutti quanti tranne te, Maddalena, Maddalé”.

Marco Travaglini

Alla Beccaccia una signora “dedita all’altrui piacere”

/

La notizia, lì e nei dintorni, girava già da qualche settimana. A mezza voce, tra ammiccamenti e gomitate, si era sparsa la voce che “La Beccaccia”, un’osteria con locanda, ospitasse una signora dedita alla promozione dell’altrui piacere.

Ovviamente, dietro pagamento di una modica somma perché, com’è noto, il “mestiere più vecchio del mondo”, come tutte le attività che si rispettino, non era gratis. Natalino e Pacifico, un po’ per curiosità, un po’ per l’indole trasgressiva che li accomunava, decisero di andare a vedere se quanto si sentiva dire corrispondesse poi al vero. “Un sopralluogo s’impone”, sentenziò Pacifico, che per mestiere s’occupava a tempo pieno della tutela dei lavoratori ( “di tutti i lavoratori”). Ovviamente Natalino, operaio e pubblico amministratore, non obiettò alcunché, trovandosi d’accordo con l’amico in tutto e per tutto. Quindi, inforcate le bici, partirono. La strada non era molta tra il loro paese e quello dell’osteria. Pedalando di buona gamba, i sette chilometri e mezzo s’accorciarono in un baleno e i due amici, raggiunto il campanile del paese, svoltarono a sinistra, imboccando la strada che saliva verso la stazione ferroviaria, dove – un po’ prima dello spiazzo davanti all’edificio – si scorgeva, sulla facciata di una vecchia casa a  due piani,  l’insegna de “La Beccaccia”. Lasciate le bici- nell’apposita rastrelliera collocata tra la Stazione e la locanda, i due entrarono. L’oste, tal Tossichini Aristide, detto “Burbero” per il carattere

ruvido e scontroso, in maniche di camicia, era intento ad asciugare dei bicchieri. Vedendo comparire  sull’uscio Natalino e Pacifico, non tradì particolare curiosità. Continuando a passare i calici nell’asciugamano, senza dire una sola parola e con un cenno del mento, chiese ragione della loro presenza. Un po’ impacciati, i due esitarono a parlare per qualche istante. Poi, incrociato lo sguardo interrogativo del Tossichini, Natalino prese coraggio e, schiaritasi la voce, chiese: “Si può vederla?”. “Burbero”, senza scomporsi più di tanto, con fare svogliato, indicò la scala in fondo al locale che portava al piano superiore. I due amici, ringraziando, salirono svelti i gradini di legno, trovandosi davanti ad un corridoio dove, da una parte e dall’altra, s’aprivano tre

porte. Due a sinistra e una a destra. Quale delle tre era quella giusta? Tentarono a destra ma la porta era chiusa a chiave. Afferrata la maniglia della prima a sinistra, il risultato fu lo stesso: bloccata. Rimaneva l’ultima porta. E questa s’aprì, con un lieve cigolio. Entrati nella stanza, restarono a bocca aperta, sgranando gli occhi davanti alla scena che si presentò  davanti al loro sguardo smarrito. Altro che femmina compiacente e lussuriosa! Nella penombra della stanza, sdraiata sul letto, vestita di nero e con il rosario in mano, s’intravvedeva il cadavere di un’anziana donna.  Ai fianchi del letto quattro grossi ceri accesi diffondevano una luce tremolante e fioca da far venire i brividi. Pacifico e Natalino si guardarono in faccia e, quasi di scatto, fecero dietrofront, uscendo dalla stanza, chiudendosi rumorosamente la porta alle spalle. La scala dalla quale erano saliti con un po’ d’imbarazzo e circospezione, venne ridiscesa in fretta e furia. Quell’impazienza insospettì l’oste che non ci mise molto a capire la situazione, considerando che i due non erano i primi a sbagliare indirizzo e credere che nella sua locanda si praticasse il mercimonio. Rosso in volto, furibondo perché i due avevano scambiato la vecchia zia Giuditta, morta il giorno prima a ottant’anni d’infarto , per una poco di buono, “Burbero” iniziò ad inveire. Brandendo minaccioso una vecchia scopa di saggina, si lanciò all’inseguimento dei malcapitati che, inforcate al volo le biciclette, pedalarono via come due indemoniati. Giunti al paese, trafelati e stanchi, si presentarono ansimando all’osteria dell’Uva Pigiata. Paolino Pianelli, a conoscenza della loro avventura, vedendoli in quello stato, fece l’occhiolino sussurrando: “L’avete vista, eh?”. Pacifico, con un filo di fiato e una buona dose d’ironia, rispose che sì, l’avevano vista. Ma che già al primo sguardo, avevano capito subito che non faceva per loro e se n’erano andati via.

 

 Marco Travaglini

La legge truffa, le mondine e i pifferi di montagna 

 

Una mattina di fine ottobre dalle parti di Oira sul lago d’Orta nella cucina dello Scardola, al secolo Cristoforo Clemente, rinfrancati nel corpo e nello spirito davanti a una bottiglia di Gattinara ( lo Scardola ne teneva sempre una a portata di mano, per le emergenze) Faustino diventò loquace e in vena di ricordi, rammentando episodi del passato come quello in cui, poco più che ragazzo, dovette nascondersi nel fosso di una risaia a Borgovercelli. Era di maggio, verso la metà del mese. L’anno non poteva certo scordarselo: il 1953. “ A quel tempo ero un giovane operaio e da meno di un anno ero stato indicato dal partito a rappresentarne l’organizzazione giovanile a livello provinciale. Allora mi avanzava poco tempo per pescare le anguille”.

 

Faustino  Girella-Nobiletti a quel tempo era uno dei più brillanti e vivaci dirigenti della gioventù comunista novarese. Un’attivista coi fiocchi, tanto bravo e affidabile che un giorno, su esplicita richiesta del senatore Leone, venne inviato a Vercelli. I comunisti della città del riso avevano richiesto ai cugini novaresi l’invio di “un compagno sveglio e in gamba per una delicata azione di propaganda”. In ballo c’era la campagna elettorale contro la legge-truffa. “Dovete sapere che la legge elettorale varata quell’anno, che noi ribattezzammo legge truffa, fu una modifica in senso maggioritario della legge proporzionale vigente all’epoca dal 1946”. Promulgata il trentun marzo millenovecentocinquantatre la legge numero centoquarantotto, composta da un singolo articolo, introdusse un premio di maggioranza consistente nell’assegnazione del sessantacinque per cento dei seggi della Camera dei Deputati alla lista o a un gruppo di liste apparentate in caso di raggiungimento della metà più uno dei voti validi. Nel tentativo di ottenere il premio di maggioranza nelle elezioni politiche di giugno, la Democrazia Cristiana e altri cinque partiti si apparentarono. Al fianco dello scudocrociato c’erano socialdemocratici, liberali, repubblicani, gli altoatesini della Südtiroler Volkspartei e gli autonomisti del Partito Sardo d’Azione. “Noi, comunisti e socialisti, insieme a personalità come Ferruccio Parri e Piero Calamandrei avversammo con tutte le nostre forze quella legge”, aggiunse Faustino. Nel Paese era ancora vivo il ricordo della legge Acerbo, voluta da Mussolini in persona pochi mesi dopo la Marcia su Roma. In base a quella legge, la lista che prendeva più voti otteneva i due terzi dei seggi. E fu così che il listone fascista , grazie ai brogli e alle intimidazioni delle squadracce, nel ventiquattro ottenne il sessantaquattro virgola nove per cento dei voti, offrendo al regime una larga quanto fraudolenta base di consenso popolare.  Faustino, di fronte a quell’importante incarico, non volle farsi trovare impreparato e predispose con cura  il suo corredo. Infilò nel tascapane un po’ di vestiario di ricambio, la tuta, due pennelli ( “per le scritte murali”), una pagnotta di segale, una piccola toma di formaggio del Mottarone. Raggiunse Novara in treno e da lì Vercelli, viaggiando su di un carro carico di fieno. Recatosi alla sede del Pci in corso Prestinari, trovò ad attenderlo Francesco Leone in persona. Il senatore era un personaggio di prim’ordine. Noto antifascista e fondatore del Partito Comunista, comandante antifranchista durante la guerra civile spagnola e dirigente di spicco della Resistenza. La prima sorpresa l’ebbe in quel momento. L’incarico che egli era stato riservato consisteva nel contattare i vecchi monarchici vercellesi ai quali, spacciandosi per un inviato della casa Reale ( i Savoia erano in esilio a Cascais , in Portogallo), doveva rivolgere l’invito alla mobilitazione contro quella legge-tagliola. Già in Parlamento, i rappresentanti del Partito Nazionale Monarchico avevano votato contro la legge e il suggello della casa Reale serviva a rinvigorire la critica. Fu così che , lasciato perdere il suo corredo da propagandista dovette infilarsi un completo grigio scuro non proprio della sua misura, visto che  gli andava un poco stretto di spalle, era corto di maniche e risultava lungo di gamba. Ma, come precisò con voce ferma Francesco Leone erano “particolari ai quali non si doveva prestare troppa attenzione”. Dopotutto, in quegli anni duri del dopoguerra, anche a un inviato dei Savoia sarebbero stati perdonati certi difettucci sartoriali. L’anello con il sigillo della Real Casa invece gli andava a pennello. Massiccio e lucente, pareva vero in tutto e per tutto. Merito di Gianni Fiorino, un artigiano orafo di Valenza che aveva fatto il partigiano in Valsesia con Cino Moscatelli. “Mi venne da ridere, guardandomi allo specchio”, confidò Faustino. Rise ancora di più quando, apprendendo che sua madre dimorava a Pratolungo, una frazione di Pettenasco, sfruttando quel suo doppio cognome, il Partito decise di affibbiargli anche un titolo nobiliare: Fausto Girella-Nobiletti, Conte di Pratolungo. Ah, se l’avesse saputo quel suo amico e compagno, sindacalista dei tessili della FIOT-CGIL. Lui sì che portava un nome e un cognome in grado di far scattare sull’attenti ogni monarchico: Umberto Re. Con il cognome a precederne il nome si sarebbe ottenuta la più alta carica dei Savoia.

Ma non era il caso di esagerare. Con la nuova identità, in un paio di settimane, Faustino girò in lungo e in largo il vercellese. Dal tè e pasticcini nei salotti di anziane dame ai cascinali più spersi, dove vivevano contadini, mezzadri e fittavoli rimasti fedeli alla Corona, il falso inviato di casa reale si diede da fare come un dannato per illustrare ai suoi interlocutori la volontà di Sua Maestà.“ Il Re Umberto II d’Italia, vede come il fumo negli occhi questo  disegno ordito dai democristiani e dai loro alleati, del quale questa ignobile legge rappresenta l’arma più subdola e pericolosa”, diceva a tutti, con piglio combattivo. In fondo, da quanto s’intuiva, il Re di Maggio non la pensava tanto diversamente. Bastava calcare la mano qua e  là per scaldare le passioni represse dei fedelissimi di casa Savoia. Tutto andò liscio, tra baciamano e saluti militareschi, finché non accadde il guaio. E che guaio! Durante il suo girovagare, capitò sull’aia di un cascinale dove aveva appuntamento con un anziano veterinario. Aveva da poco, come si usa dire, attaccato bottone  quando udì un canto che conosceva bene, anzi, benissimo: “Son la mondina, son la sfruttata /, son la proletaria che giammai tremò/ Mi hanno uccisa, incatenata/ carcere e violenza, nulla mi fermò. Coi nostri corpi sulle rotaie / noi abbiam fermato i nostri sfruttator / c’è molto fango sulle risaie/ ma non porta macchia il simbol del lavor.”. Si era imbattuto, colmo della sfortuna, in un gruppo di mondine. Alcune di loro, l’anno prima, avevano partecipato alle lotte sindacali per i contratti, il salario e l’occupazione nelle risaie a Lumellogno, nella bassa novarese. Lì avevano conosciuto proprio lui, il Faustino, nella veste di dirigente dei giovani comunisti. Una di loro, oltretutto, una morettina di un paese vicino a Reggio Emilia, l’aveva conosciuto molto ma molto bene e a fondo. Quando lo videro lì, vestito come un “sciùr”, parlare fitto con quel vecchio di cui tutti conoscevano le idee monarchiche, per di più tenendolo amichevolmente sottobraccio, ammutolirono. Lo sconcerto durò una manciata di secondi e , come  quando scoppia un temporale estivo, si scatenò il putiferio. Insultandolo in tutti i modi possibili ( “traditore”, “venduto”, “carogna”..) lo fecero correre a perdifiato fin quando riuscì a nascondersi nel fosso pieno d’acqua. A mollo, in compagnia delle rane, ci stette fino a notte tarda. Scampato il pericolo, nei giorni successivi , ormai bruciata la sua copertura e smessi i panni da uomo del Re, tornò  mestamente a casa, con una tosse carogna e un fastidioso raffreddore. La settimana successiva, il  sette giugno millenovecentocinquantatre, all’apertura dei seggi ,la vittoria del blocco centrista sembra scontata. I forchettoni, così ribattezzati da Giancarlo Pajetta, si apprestavano a spartirsi la torta elettorale. E invece, accadde il miracolo. Con grande sorpresa, lunedì otto, dalle urne le forze politiche della coalizione ottennero un quarantanove virgola ottantacinque per cento, arrestandosi ad un soffio dalla meta.

Così, non potendo usufruire del premio di maggioranza , la legge divenne inefficace e più tardi venne abrogata. Per circa  cinquantasettemila voti non scattò il temuto premio di maggioranza. Rispetto al quarantotto la Dc perse più di otto punti e tutte le liste apparentate arretrarono. Il Pci ottenne il ventidue e sei per cento, il Psi il dodici e sette. I monarchici, a loro volta, passarono dal due e otto al sei e nove per cento. Il leader dei socialdemocratici, Giuseppe Saragat, sconsolato, esclamò: “La colpa è del destino cinico e baro”. Faustino, in cuor suo, è sempre rimasto convinto di aver dato una bella mano per far lievitare quel cinismo del destino. E pazienza se il giornale della Curia vercellese ( chissà come l’avevano saputo..)  gli dedicò un corsivo al vetriolo, intitolato “I pifferi di montagna vennero per suonare e furono suonati”. Nonostante fossero passati tanti anni, nel ricordare la storia del suo bagno più famoso, non nascondeva il rammarico per l’incidente con le mondine. Con alcune di loro ebbe l’occasione di spiegarsi più avanti, ma aveva avuto la sensazione che, pur fidandosi più del partito che di lui, non compresero le ragioni strategiche che l’avevano costretto  a vestire, in quelle due settimane, i panni stretti del Conte di Pratolungo.

Marco Travaglini

Con un sacco di fieno in fabbrica

/

Da vent’anni, riposta nel solaio la bricolla da contrabbandiere, varcava puntualmente alle sette del mattino i cancelli dell’acciaieria di Villadossola. Alto e secco, con l’andatura un poco ciondolante, Ugo aveva alle spalle una vita a dir poco avventurosa.

Già in tenera età boscaiolo, addetto al palorcio della teleferica e all’accatastamento del legname; poi partigiano con Superti in Val d’Ossola e, dopo la Liberazione, contrabbandiere per necessità, arrancando sui sentieri degli spalloni per racimolare qualche misero guadagno per poter mettere insieme il pranzo con la cena e dare una mano alla vecchia madre. Alla morte della genitrice lasciò ad altri i rischi dell’andar di frodo scegliendo di lavorare in fabbrica dove aveva trovato impiego come operaio addetto al laminatoio. La sua era diventata, da quel giorno, una vita più regolare, scandita dai turni in azienda. Aveva così anche il tempo  per dedicarsi alla passione per la lettura, soddisfacendo la sua curiosità di sapere le cose nel mondo. Comprava regolarmente due giornali ( uno era il quotidiano più diffuso, dove trovava anche la cronaca locale; l’altro era L’Unità), divorava libri di ogni genere, andava al cinema appena poteva e frequentava anche gli spettacoli della filodrammatica amatoriale che di tanto in tanto metteva in scena opere classiche e senza tempo sul palcoscenico del teatro comunale.

Era conosciuto e rispettato perché sapeva fare bene il proprio mestiere, sempre attento e puntuale sul lavoro, ben voluto dai compagni del reparto. Ugo era tra quelli che, fieri della propria rettitudine, potevano andare a testa alta. Comunista convinto anche se non aveva mai avuto in tasca la tessera di quel partito perché il suo spirito ribelle non gli consentiva di soggiacere alle regole e alle liturgie della vita di partito. Il suo punto di vista, formatosi nel vivo della lotta partigiana, si era fatto più saldo nell’inferno di calore, polvere e rumore dell’acciaieria. Era lì che era maturata la presa di coscienza di tutta una condizione lavorativa, umana, politica. Era lì che aveva fatto l’amara scoperta che di lavoro si muore perché la vita degli operai valeva meno del profitto. Dopo i bagliori delle lotte sul finire degli anni sessanta era iniziato un periodo opaco. Soffriva molto nell’assistere al tramonto della centralità operaia nell’immaginario della società italiana e nell’orizzonte politico delle stesse forze di sinistra. I segnali che attestavano l’arretramento del movimento dei lavoratori, sottoposto a ripetuti attacchi, l’avevano reso più nervoso e meno accomodante. La figura e il ruolo dell’operaio si erano fatti sempre più complicati e le ultime generazioni erano andate a scuola, avevano studiato maturando la convinzione che la fabbrica non rappresentasse più un’occasione di riscatto sociale, perdendo parte del senso di appartenenza a una ben precisa classe sociale. Tutto era diventato più fluido e la compattezza e l’orgoglio di un tempo erano un ricordo sfocato. Eppure Ugo avvertiva che fra i vecchi e  i giovani c’era ancora uno scambio di saperi e che il nocciolo duro della militanza sindacale e l’etica del lavoro e delle cose ben fatte non erano spariti del tutto. Forse era per via di quelle radici che affondavano nella tenacia di quella cultura contadina di montagna che da quelle parti era cosa seria, dove  l’universo dell’acciaieria con l’altoforno, le colate e i laminatoi era condiviso dai tanti che mantenevano un legame con i campi e gli alpeggi, la fienagione e qualche animale nella stalla. Aveva maturato una consapevolezza che il tempo aveva levigato rendendola disincantata, lucida, a volte venata da una malinconia che veniva ben presto scacciata da quel suo carattere deciso, incline alla battuta arguta, al commento salace. Non perse nemmeno l’abitudine di andare a votare, come amava dire, “in zona Cesarini”. I seggi chiudevano alle quattordici del lunedì e cinque minuti prima del termine ultimo varcava la soglia del seggio, soffermandosi davanti ai tabelloni con le liste. Si prendeva un paio di minuti per far scorrere lo sguardo sui simboli e candidati e poi, ritirata la scheda, entrava nella cabina commentando ad alta voce: “ Vediamo un poco.. Toh, ecco il simbolo di quelli che fanno portare la croce agli altri e quello dei padroni. E l’altro dove sarà mai?? Ah, eccolo qui, Quello che piace a me. Il simbolo degli operai, anche se un poco sbiadito. Un segno qua e un segno là . E anche questa volta ho votato bene!”. Ripiegava la scheda e la infilava soddisfatto nell’urna, salutando presidente e scrutatori con un largo sorriso. Un giorno scelse di manifestare il suo disprezzo per crumiri e per i pavidi che non protestavano e non scioperavano mai presentandosi alla portineria d’entrata con un sacco di fieno in spalla. I due guardiani che sostavano davanti al cancello gli chiesero cosa intendesse fare con quel sacco e lui, serafico, rispose: “Ci sono quelli che portano in fabbrica la schiscetta con il pranzo, il panino o il quartino di vino? Bene. Io ho portato il fieno per dar da mangiare a tutti gli asini che stanno qui dentro. Non ci vedo niente di male, no? Sono una persona generosa, io”. Ugo in fondo era così e niente al mondo l’avrebbe cambiato, tant’é che quando andò in pensione in fabbrica avvertirono tutti, anche quelli ai quali non era mai stato simpatico, un vuoto, un’assenza che rese l’ambiente ancora più povero di quanto non fosse già diventato.

Marco Travaglini 

 

Dantès e l’Olivetti

/

All’inizio degli anni ’50 un vivace yorkshire terrier di nome Dantès viveva a Ivrea, capoluogo del canavese. La “città delle rosse torri” era conosciuta in ogni angolo del mondo grazie all’Olivetti, la prima fabbrica nazionale di macchine da scrivere, fondata nel 1908 e destinata a diventare leader nel settore dei materiali per ufficio e poi in strumenti elettronici all’avanguardia, dalle telescriventi alle prime macchine da calcolo meccaniche. Dantès era il compagno inseparabile di un giovane ingegnere che lavorava alle Officine ICO, uno dei luoghi produttivi della Olivetti più innovativi e all’avanguardia, esempio unico per lo spirito imprenditoriale che l’animava grazie alla visione illuminata di Adriano Olivetti.

Dantès era un cane molto intelligente, tanto curioso e intraprendente quanto dotato di uno spirito avventuroso. Ogni giorno accompagnava il suo padrone in ufficio dove l’ingegnere e i suoi collaboratori erano impegnati a progettare e costruire macchine da scrivere e calcolatrici. La fabbrica in quegli anni era un luogo vibrante e pieno di idee innovative, e Dantès guardava quel fermento accoccolato sulla sedia vicino alla scrivania ricevendo coccole dagli operai che passavano di lì e anche qualche bocconcino che dimostrava di gradire molto. Una mattina, mentre il suo padrone era immerso nei progetti, Dantès decise di esplorare il vasto complesso dell’Olivetti. Si allontanò dalla scrivania e si avventurò nei corridoi tra le macchine e i tavoli da lavoro. La sua curiosità lo portò in una grande sala dove si stava stavano discutendo animatamente su un nuovo modello di macchina da scrivere. Dantès attratto dalle voci si avvicinò silenziosamente. Stavano parlando della Lettera 22, macchina da scrivere portatile che avrebbe rivoluzionato il modo di scrivere diventando la preferita dei più grandi giornalisti italiani. Ormai era pronta per essere messa in produzione nello stabilimento di Aglié. Progettata da Giuseppe Beccio e disegnata da Marcello Nizzoli, rappresentava al meglio l’estetica olivettiana. I suoi pregi erano la leggerezza (tre chili di peso) e la maneggevolezza ma anche le caratteristiche tecniche erano destinate a renderla unica e amatissima fino al punto di diventare un’icona, un oggetto di culto. Con grande sorpresa il piccolo terrier notò che Adriano Olivetti era presente. L’uomo, con il suo carisma e la sua visione lungimirante, stava parlando di come la tecnologia dovesse essere al servizio dell’umanità, migliorando la vita delle persone. Dantès, colpito da quelle parole, si accucciò ai piedi di Adriano, ascoltando attentamente. Il proprietario dell’Olivetti, notando il piccolo cane, sorrise e si chinò per accarezzarlo. “Ecco un piccolo compagno che sembra capire l’importanza del nostro lavoro” disse, suscitando le risate dei presenti.

Dantès scodinzolò felice, sentendosi parte di quel mondo straordinario. Da quel giorno divenne una vera e propria mascotte per l’azienda eporediese.  Ogni volta che Adriano Olivetti visitava il reparto il piccolo yorkshire era sempre lì, pronto a ricevere coccole e a portare un sorriso sul volto di tutti. La sua presenza non solo era gradita ma offriva quasi un senso di leggerezza e di gioia rammentando che, oltre ai progetti e ai macchinari, c’era spazio per l’amore e l’amicizia. La fabbrica a misura d’uomo era il sogno di Olivetti che la immaginava non solo come un luogo di produzione da cui trarre il maggior profitto possibile, ma il centro dello sviluppo della società e dell’economia. Un luogo di socializzazione in cui si dovevano produrre oltre che beni, anche idee e sviluppo della persona seguendo la logica che attribuiva all’attività lavorativa il compito di garantire la realizzazione dell’individuo. Con il massimo rispetto per tutti gli esseri viventi. E questo piaceva molto a Dantès. Un giorno, mentre l’azienda preparava il lancio di un nuovo prodotto, il piccolo cane si accorse che il suo padrone era particolarmente stressato. E non solo lui. Decise allora di fare qualcosa. Con una mossa astuta rubò un pezzo di carta da un tavolo e, correndo nei corridoi, attirò l’attenzione di tutti. Gli operai, divertiti dalla vista del piccolo terrier che si muoveva velocemente, iniziarono a seguirlo, lasciando per qualche istante le postazioni di lavoro. Dantès guidò il gruppo verso il giardino della fabbrica, inondato dal sole che brillava alto in cielo. Anche Adriano Olivetti li aveva raggiunti e vedendo la gioia che aveva portato, ben consapevole di quanto fosse importante prendersi una pausa e condividere momenti di felicità, decise di lasciare a tutti il pomeriggio libero. Fu così che Dantès diventò anch’esso uno dei simboli viventi di quell’azienda che credeva nel benessere dei suoi dipendenti. Adriano Olivetti, riconoscendo l’importanza di un ambiente di lavoro sereno e stimolante, incoraggiò l’idea di momenti di svago e socializzazione creando i presupposti di una vera e propria comunità. Dantès continuò a correre tra le scrivanie, piccolo eroe a quattro zampe in un’epoca di grandi cambiamenti, portando gioia e ispirazione in un mondo che stava evolvendo. La sua storia divenne parte della leggenda dell’Olivetti, piccolo ma non secondario simbolo di come anche l’entusiasmo di un animaletto potesse avere una grande importanza nella vita delle persone e nei successi di un’impresa così importante.

Marco Travaglini

Di motori non ne capisce niente…

/

Armando Belletti, per ragioni di lavoro, si trovò costretto a vivere in città per buona parte della settimana.

Non che Pavia fosse una gran metropoli ma era ben altra cosa dalla quieta e sonnecchiosa Borgolavezzaro.

Smog, traffico, ritmi caotici e stressanti lo inducevano quanto prima a fuggir via lontano da quel trambusto. Con la sua utilitaria, sbrigati gli impegni, s’avviava verso la periferia e, in breve, si trovava in aperta campagna. La Lomellina con i suoi campi geometrici, le risaie, i prati, le boschine, l’aria finalmente pulita e l’unico rumore – oltre al ronfare del motore dell’auto – non era tale ma un delicato e allegro cinguettare degli uccelli.Armando rallentava la corsa e si godeva la vista di quell’ambiente naturale salvaguardato da eccessi edilizi, punteggiato da cascine e campanili, immaginando cosa l’aspettava a tavola: il risotto, il salame d’oca di Mortara, le cipolle di Breme, gli asparagi di Cilavegna e, come dolce, le offelle di Parona. Questi pensieri gli mettevano quasi commozione. “Cavolo, quando torno al mio paese mi pare di rinascere. Qui sì che la vita ha i tempi giusti. Stare in città sarà anche necessario ma mi pesa troppo”. Un giorno, imboccata una strada non asfaltata che tagliava in due una collinetta, l’auto si mise a fare le bizze. Il motore tossiva, ingolfato. Perdeva colpi e si fermò. Armando, pronunciando termini sui quali – per rispetto del lettore – si ritiene più utile sorvolare –   provò a rimetterla in moto, girando con foga la chiave d’accensione. Ma non c’era nulla da fare. Il motorino – grrr, grrr – girava   vuoto. L’auto restava lì, immobile, senza dar segni di vita, nel bel mezzo della stradina di campagna. Belletti scese, sollevò il cofano, guardò perplesso e sconsolato il motore senza avere la minima idea di dove mettere le mani. Mentre rimuginava sull’incidente che gli era capitato, avvertì un rumore alle sue spalle. Si girò e vide   un bellissimo ed elegante cavallo dal manto lucido e nero. L’animale lo guardava e si mise a girare attorno al veicolo. S’avvicinò e, con sguardo indagatore, scrutando il motore disse , con voce grave :“ Un bel guaio, sa? Per me è partito lo spinterogeno”. Armando, attonito e ammutolito lo guardò incredulo mentre l’animale, trotterellando se ne andò via per la sua strada. Di lì a pochi minuti sopraggiunse un contadino, con un forcone in spalla. Si conoscevano. Bernardo Trefossi era noto nei dintorni per la sua eccentricità. Vide il Belletti stranito, con la bocca aperta, e chiese cosa mai gli fosse capitato. Armando, balbettando, raccontò l’episodio del cavallo e il contadino, incuriosito, domandò: “ Mi dica. Il cavallo era forse nero?”. Alla risposta affermativa del Belletti, il contadino, battendogli la mano sulla spalle, lo rassicurò: “Mi dia retta. Non creda ad una parola di quanto le ha detto quel cavallo. Di motori non ne capisce niente”.

E se ne andò, fischiettando per la sua strada. Quando Armando, chiamato il soccorso stradale, riuscì ad arrivare a Borgolavezzaro era omai sera inoltrata. Ancora scosso per l’avventura del pomeriggio, raccontò il fatto agli amici del Bar “Al cervo d’oro”. Nessuno lo contraddisse ma Vittorio Scalmanati, detto “incudine”, fabbro di mestiere, all’insaputa del vicesindaco e guardando gli altri avventori,   si portò l’indice alla tempia. Dalla smorfia e dal gesto tutti intesero ciò che andava inteso: il Belletti era un po’ “tocco” ma non era il caso di contraddirlo. In fondo, come diceva lui stesso, “cavolo, quelli lì un po’ balordi non fanno poi del male a nessuno”. Appunto!

Marco Travaglini

Dantès e il medaglione misterioso

/

 

Affacciata sul Canale della Manica, in Normandia, Étretat è una delle meraviglie della costa di Alabastro, che si estende tra Dieppe e Le Havre, formata da alte scogliere di gesso e verdi vallate. Il pittoresco villaggio incastonato fra le due scogliere più suggestive della costa, la falesia d’Amont e quella d’Aval, ha ospitato personaggi celebri come Guy de Maupassant, Delacroix, Corot, Courbet e Monet e sembra uscire direttamente da un quadro impressionista. Per descriverla è utile ripetere le parole di Victor Hugo: “Ciò che ho visto a Étretat è meraviglioso. […] L’immensa falesia cade a picco sul mare, il suo grande arco naturale è ancora intatto, guardandovi attraverso se ne scorge un altro, ovunque si trovano grandi capitelli lavorati rozzamente dall’oceano.

La più bella architettura che ci sia”. Proprio a Étretat viveva un piccolo cane yorkshire terrier di nome Dantès. Nonostante le sue dimensioni ridotte aveva un cuore grande e uno spirito avventuroso che lo portava a esplorare ogni angolo della sua amata costa. Ogni mattina Dantès si svegliava all’alba annusando l’aria fresca del mare che soffiava attraverso la finestra della sua padrona, la signora Claire Leblanc. Claire, pronipote dello scrittore Maurice Leblanc, creatore delle avventure di Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo, era una donna minuta e gentile con una passione per la pittura tant’è che spesso si sedeva sulla spiaggia per catturare le meraviglie della natura riproponendole sulla tela con delicati colori. Viveva accanto alla villetta, ora trasformata in museo, ereditata dal celebre prozio al numero 15 di rue Guy de Maupassant dove Leblanc per 25 anni scrisse e in parte ambientò le avventure rocambolesche del personaggio al quale dedicò ben 17 romanzi, 39 racconti e 5 pièce teatrali tra il 1907 e il 1935. Dantès adorava accompagnare la sua padrona, correndo felice tra i gabbiani e scavando piccole buche nella sabbia dove riusciva a trovarne lungo la spiaggia di ciottoli. Un giorno, mentre Claire era intenta a dipingere il maestoso arco di pietra che Guy de Maupassant descrisse come la proboscide di un elefante che emerge dal mare a pochi metri dall’Aiguille de la Falaise d’Aval, detta l’Ago, alta 55 metri, isolata e lontana dalla scogliera, il piccolo Dantès decise di avventurarsi poco più in là, attratto dalla sensazione di scovare qualcosa di misterioso.

Scoprì un sentiero poco battuto che si arrampicava sulle falesie, e guidato dal suo spirito curioso, decise di seguirlo. Il sentiero lo portò in cima in cima alla falesia dove il panorama mozzava il fiato: le onde dell’oceano si infrangevano contro le rocce, e il cielo era punteggiato di nuvole bianche. Ma mentre Dantès si godeva la vista si accorse che il sentiero proseguiva sempre più stretto e ripido fino all’imbocco di una piccola grotta nascosta tra il muschio e l’erba alta. Incuriosito si avvicinò e, con un piccolo guaito, entrò nella grotta. All’interno, scoprì un tesoro inaspettato: un vecchio baule di legno, coperto di sabbia e alghe. Annusandolo con curiosità, Dantès lo ispezionò e, dopo un po’, riuscì a sollevare il coperchio con le sue piccole zampe. Dentro al baule c’erano molti oggetti scintillanti: monete d’oro, gioielli e strani artefatti. Ma ciò che colpì di più il piccolo yorkshire fu un antico medaglione, ornato con un’immagine di un cane che assomigliava a lui. Era come se il destino avesse voluto che Dantès trovasse quel tesoro. Era riuscito a scoprire il mistero dell’Aiguille Creuse, forse il romanzo più famoso di Leblanc e a individuare il nascondiglio di uno dei tesori più clamorosi con perle, rubini, zaffiri e diamanti dei re di Francia? Deciso a comunicare la scoperta alla sua padrona, Dantès prese tra i denti il medaglione e tornò indietro, correndo a perdifiato lungo il sentiero. Quando raggiunse Claire la trovò intenta a dipingere. Con un guaito entusiasta il piccolo cane saltò accanto a lei, mostrandole il medaglione scintillante. Claire si chinò, sorpresa e affascinata. “Dantès, dove hai trovato questa meraviglia?” chiese, accarezzandolo affettuosamente. Lo yorkshire terrier scodinzolò, felice di condividere la sua avventura e ripercorse il sentiero con la sua padrona. Insieme decisero di riportare il medaglione e gli altri tesori al villaggio, dove avrebbero potuto scoprire la loro storia. Con l’aiuto degli abitanti del posto e le ricerche di madame Catherine Lapoint, la bibliotecaria appassionata di storie e leggende, si scoprì che quegli oggetti appartenevano a un vecchio marinaio che aveva vissuto nel villaggio secoli prima, e che il medaglione era un simbolo di protezione per il suo fedele compagno a quattro zampe. Non era stato svelato il mistero della falesia cava e del tesoro dei Re del quale narrava Leblanc nella più celebre delle avventure di Arsenio Lupin ma era pur sempre una scoperta molto importante. Da quel giorno Dantès non fu considerato soltanto un cane avventuroso, ma anche un piccolo eroe del villaggio. Le persone lo ammiravano e lo ringraziavano per aver riportato alla luce una parte della loro storia. E mentre Claire continuava a dipingere la bellezza delle falesie, Dantès restava al suo fianco, pronto per nuove avventure, con il cuore pieno di gioia e il medaglione scintillante legato al suo collare.

Marco Travaglini

Elisabetta di Baviera e l’ombrellaio di Sovazza

/

Argante Dorini aveva dimostrato la sua abilità fin da giovane, dotato com’era di una manualità fine e di un ragguardevole ingegno. Da Sovazza, dov’era nato e dove viveva con la moglie e i due figli quando non era in cammino sulle strade di mezz’Europa, aveva interpretato con passione l’arte del lusciàt, dell’ombrellaio ambulante. Mestiere duro ma senza alternative che Argante condivideva con l’amico Filippo Filippi, un tipo segaligno di Carpugnino. Insieme, macinando chilometri su strade polverose o in mezzo al fango, lontano da casa, s’arrangiarono a raccogliere il loro magro guadagno riparando ombrelli e parasole. Rimanevano mesi e mesi lontani da casa, risparmiando il risparmiabile per sostenere le famiglie, ricorrendo il più delle volte per cibo e alloggio a soluzioni di fortuna. Spesso non riuscivano a mettere insieme il pranzo con la cena e dormivano dove capitava.

 

Quante volte si erano appisolati, stanchi morti, sotto il cielo stellato nella buona stagione o in qualche fienile quando tirava vento o scrosciava la pioggia. Eppure, mai una lamentela perché la loro vita era così: prendere o lasciare. Il figlio Fulgenzio apprese a sua volta il mestiere, girovagando per le pianure piemontesi e lombarde per sfuggire alla miseria. Il lavoro l’aveva “rubato” a tal punto da diventare uno dei migliori nell’arte di vendere e riparare ombrelli. Accompagnato da Nino, il fratello più piccolo, giravano come dei nomadi gridando a gran voce “donne, donne, à ghè l’ombrelè!”, portando a tracolla la barsèla, la cassetta nella quale erano riposti  tutti i ferri del mestiere del lusciàt: dai ragozz, le stecche degli ombrelli, a lusùra, flignànza, tacugnànza e tacòn, ramé, cioè forbici,  rocchetti di refe, pezze varie, bastoni di legno. Con quell’armamentario erano in grado di cucire, limare, intagliare il legno, incollare e sagomare stoffe. Se c’era da riparare un ombrello lo accomodavano, racimolando qualche soldo; se invece si trattava di confezionarne uno nuovo, era festa grande. Girovagavano per le vie guardando porte e finestre, in attesa del cenno di chi era disposto ad affidar loro un parapioggia tartassato dai troppi acquazzoni, contorto dal vento o vittima della voracità delle tarme.

Ogni lavoro era buono e non si rifiutava mai, mettendosi subito alacremente al lavoro, e in silenzio. Stessa vita riservò all’unico figlio maschio, Mario. Per arrotondare il magro guadagno accompagnavano il mestiere con la costruzione e la vendita di altri manufatti in legno e in fil di ferro come gabbie, trappole per topi, insalatiere, setacci. Anche Mario, diventato uomo, si avvalse di un apprendista, Giacomino Dentici, un ragazzino di dieci anni, sveglio come un passero e rapido come una saetta. Come da tradizione il giorno di Capodanno, sulla piazza di Carpugnino, si incontravano a parlare d’affari e preparare la nuova annata degli ombrellai. In quell’occasione le famiglie più povere affidavano i loro figli piccoli agli artigiani ambulanti, nella speranza che avrebbero imparato un mestiere, sconfiggendo povertà e indigenza. “Al prumm dal lungon a Carpignin, a truà l’ Casér senza an bergnin”, che tradotto equivaleva a “il primo dell’anno a Carpugnino, a cercar padrone, senza un soldino”, come recita un’epigrafe che fa mostra di sé ancor oggi  nella piazza del piccolo paese del Vergante. Reclutata così la manodopera, gli ombrellai si mettevano in cammino alla ricerca dei guadagni necessari a garantire un futuro migliore. Bisogna dire che l’apprendista entrava quasi a pieno titolo nella famiglia dell’ombrellaio che provvedeva a lui in tutto e per tutto. Per fortuna i tempi erano cambiati e non s’andava più a piedi, consumando scarpe e sudore, ma in bicicletta. E che biciclette! Due Maino purosangue, modello anni venti con il doppio carter e senza una macchia di ruggine nonostante fossero di seconda mano. Mario le aveva ottenute da un ciclista in cambio di una serie di lavori, tra i quali un paio d’ombrelli nuovi di zecca. In fondo non erano proprio a buon mercato ma la comodità di pedalare lesti e di non scarpinare più dall’alba al tramonto n’era valsa la pena. Così Mario e Giacomino lavorarono a lungo, lontano da casa e dai propri cari, accompagnandosi nel tragitto con i canti in quella particolare lingua che si parlava tra lusciàt: il tarùsc. Tra di loro, per tradizione e abitudine, comunicavano in quel gergo difficile, quasi del tutto incomprensibile, dalla pronuncia piuttosto secca e dura. Facilitati dalla stessa provenienza territoriale, cioè dai paesi dell’alto Vergante, gli ombrellai potevano intendersi con rapidità e segretezza, scambiandosi notizie e commenti nella certezza di non essere capiti. L’idioma era un misto di dialetto e parole di altre lingue, dallo spagnolo al francese al tedesco, rielaborate con arguzia e duttilità. Così, tanto per fare due esempi, l’avvocato era un “denciòn” e il cuoco un “brusapignat”.

“Al lusciàt caravaita a gria i lusc”, dicevano gli anziani. L’ombrellaio ambulante ripara gli ombrelli perché la ghéna, la fame, era tanta e ci si poteva considerare brisòld (ricchi) solo quando si riusciva a mettere su la prima bottega con un banchetto e l’insegna di due cupole d’ombrello a spicchi bianchi e rossi e la scritta “luscia, el lusciat piòla” che, più o meno, si poteva tradurre in piove, l’ombrellaio si prende una sbornia. Infatti, quando il cielo diventava scuro, la terra cambiava odore e l’acqua iniziava a scrosciare, fosse temporale estivo o pioggia autunnale, si brindava alla fortuna perché con la pioggia si lavorava di più. Quando tornava a casa Mario raccontava le avventure della sua vita randagia. Era orgoglioso di quel lavoro dove la fatica e i sacrifici erano ricompensati dalla passione per un mestiere che richiedeva non solo molta abilità ma anche una buona dose di creatività. Soprattutto quando l’ombrello andava costruito nuovo di zecca e venivano usate le sagome per tagliare le stoffe. Qui la differenza di censo balzava all’occhio immediatamente: i benestanti e i nobili sceglievano la seta, per gli altri tutt’al più c’era il cotone. Il racconto più straordinario risaliva all’epoca in cui suo nonno confezionò un paio d’ombrelli per la principessa Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach, bavarese di nascita, diventata imperatrice d’Austria, regina apostolica d’Ungheria e regina di Boemia e Croazia, oltre che consorte di Francesco Giuseppe d’Austria. Celebre ovunque in Europa con il nome di Principessa Sissi (anche se dalle sue parti di esse ne usavano una sola). Argante Dorini non era tanto dell’idea di riverire la nobildonna, non foss’altro perché il fratello di suo padre, lo zio Luigi,aveva combattuto contro gli austriaci con il grado di tenente dell’esercito franco-piemontese durante la seconda guerra di indipendenza italiana, perdendo la vita nella battaglia di Solferino, il 24 giugno del 1859. Una pallottola aveva centrato in pieno petto Luigi Dorini proprio durante le ultime scaramucce di quella che fu una delle più grandi battaglie dell’Ottocento, con più di duecentomila soldati in campo. Il papà di Mario, antiaustriaco pure lui, teneva in tasca una vignetta dove un soldato asburgico era raffigurato come un maiale. E diceva sempre che “il Cecco Beppe al ma stà sui ball”.

 

Ma si sa, il lavoro è lavoro, e quando una delle dame di corte della Principessa prese contatto con lui mentre si trovava a Madonna di Campiglio nel 1889 chiedendogli di confezionarle un ombrello, non disse di no. Argante, nonostante la giovanissima età, era già uomo di poche parole e di buon senso,  e sosteneva che dove c’erano tanti ricchi e tanti nobili  c’era anche “tanta grana” e qualche corona in saccoccia non faceva certo male. Per questo si era sobbarcato quel viaggio lunghissimo verso est, in cerca di fortuna. A quel tempo la perla delle Dolomiti di Brenta era una delle mete predilette dall’aristocrazia europea e anche l’imperatrice Elisabetta aveva deciso di trascorrervi un periodo di villeggiatura, risiedendo all’Hotel des Alpes. Presa in carico l’ordinazione si dedicò alla fattura del parasole per la moglie di “quel crucco del Cecco Beppe”, mettendoci tutta la sua arte. Si trattò di un lavoro laborioso che consegnò alla dama nel tempo di due settimane, senza trascurare altri incarichi. La Principessa Sissi fu talmente soddisfatta che, esattamente due anni dopo, mentre soggiornava a Cap Martin, in Costa Azzurra, venuta a conoscenza dalla stessa dama del suo seguito della presenza di quell’italiano (“der italiener”) così abile a costruire ombrelli, ne commissionò un altro. Anche quella volta il nonno di Mario diede il meglio di se per soddisfare la vanitosa Elisabetta che, ossessionata dal culto della propria bellezza, teneva molto anche ad abiti e accessori. Secondo le cronache le occorrevano quasi tre ore per vestirsi, poiché gli abiti le venivano quasi sempre cuciti addosso per far risaltare al massimo la snellezza del corpo. E l’ombrello era un oggetto di complemento molto importante. L’Imperatrice d’Austria amava fare lunghe camminate e il lusciàt Argante, a tempo di record, le offrì un modello slanciato che poteva essere utilizzato anche come bastone da passeggio. Lungo 77 centimetri (Sissi era alta un metro e settantadue), manico e puntale in legno invecchiato, calotta in taffetas color ruggine con passamanerie e fodera avorio. Un vero gioiello! Un raro bijoux! La principessa Sissi, per la seconda volta, apprezzò l’arte di Argante e, oltre a una generosa ricompensa, gli fece avere un attestato in cui lo si indicava come “fornitore ufficiale della Casa d’Asburgo”. Non gli avrebbe aperto le porte di Schönbrunn ma era comunque un atto di stima importante. In fondo, pur essendo antiaustriaco, non gli dispiacque quell’onorificenza e quando il 10 settembre del 1898 l’Imperatrice, sempre vestita di nero dopo il suicidio del figlio Rodolfo, celando il viso dietro l’ombrellino, perse la vita a Ginevra pugnalata al petto dall’anarchico italiano Luigi Lucheni, il nonno di Mario portò a lungo il nastro nero sul braccio in segno di lutto. E s’arrabbiò quando il suo coscritto Valerio Rabaini, detto Bakunin, vedendo quel nastro, gli diede una bella pacca sulle spalle, sentenziando: “Bravo,Argante. Sei anche tu dei nostri, a quanto vedo. Avremmo preferito un capo di Stato, ma l’Imperatrice d’Austria, in mancanza di meglio, è andata bene lo stesso”.

 

Sinceramente addolorato guardò storto il Rabaini che si guadagnò pure un calcio nel sedere e una scarica di improperi che non è il caso di riportare. Questa storia si è tramandata e ai Dorini capitò spesso di raccontarla ai ragazzi che però ascoltano svogliati, a volte per dovere, presi come sono dal loro mondo. I bambini invece, soprattutto le femmine, sono curiosi e fanno tante domande. Beata ingenuità: chiedono perché il nonno di Mario non sposò “la Sissi”, domandano se non le piacesse, se la trovava brutta o non si erano capiti per colpa della lingua. Chissà, forse è stato tutto colpa del destino che ha voluto far andare le cose così. Anche se, persino nell’ultimo istante della sua vita, l’affascinante Elisabetta, portò con sé l’opera d’arte confezionata dall’italiener Argante, ombrellaio ambulante di Sovazza.

Marco Travaglini

La tirlindana

/

Sono ormai in pochi, sui laghi, a praticare la pesca a traino dalla barca con la tirlindana. Eppure questo semplice attrezzo ha un suo fascino e una storia. Immaginatevi una lenza in filo di rame o, in versione più moderna, in monofilo di nàilon, lunga da un minimo di 30 a oltre 60 – 70 metri, recante un finale di nàilon a cui è assicurata l’esca, il tutto avvolto su uno speciale telaietto girevole dalla sagoma molto nota detto aspo

Ci siete? Bene. L’aspo, un tempo, veniva costruito dallo stesso pescatore, artigianalmente. Oggi come oggi quest’attrezzo si trova già pronto in commercio, spesso in alluminio leggero e lucente: non vi resta che applicare il terminale con l’esca ritenuta più idonea e, sul piano teorico, siete a posto. Perché solo in teoria? Perché la chiave del successo nella pesca a tirlindana dipende dalla mano di chi la manovra. A prima vista parrebbe tutto semplice e facile come bere un bicchier d’acqua  ma non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: occorre un certo tirocinio per impadronirsi al meglio di questa tecnica, in grado di riservare delle gran belle soddisfazioni. Intanto, occorre una buona conoscenza del fondale da battere e saper valutare con esattezza la profondità di pescaggio dell’attrezzo. Mai lasciare le cose al caso, quando si pesca con la tirlindana: sarebbe un errore imperdonabile. Ho conosciuto un “lupo di lago”, il vecchio Giuanin, in grado di valutare fondali e correnti, neanche avesse una carta nautica ficcata dentro la sua testa pelata. Per non parlare poi dei movimenti: sia lui che il suo “socio” Faustino erano dei maghi nell’accompagnare la lenza , imprimendole i movimenti giusti, manovrando la barca con misura e mestiere. Di norma i “professionisti” della pesca su lago fanno tutto da soli, usando piccole barche leggere, dei veri gusci di noce che manovrano con un solo remo, essendo l’altro braccio impegnato con la lenza.

 

Taluni ricorrono al motore di potenza fra 2 e 3,5 HP, ma è ovvio che, per quanto condotto al minimo, quest’ultimo provoca un fastidioso rumore specialmente nei fondali bassi. Un’alternativa ci sarebbe, a dire il vero: un motore elettrico, silenzioso, facile da gestire e con una velocità giusta. La tradizione però conta; e la tradizione suggerisce  che l’ideale consiste nell’ agire in due, uno in gamba nel manovrare i remi, l’altro con il tocco giusto per far andare la tirlindana. La lenza tradizionale è in rame, quella moderna – come si è detto – in nàilon. Il tipo classico, in rame cotto,  e si trova in due diametri: lo 0,30 per la pesca leggera a mezz’acqua, lo 0,50 per andare più a fondo, puntando al luccio. Un materiale flessibile ed elastico, preferibile a quello attorcigliato a treccia che risulta meno malleabile. Il nàilon, occorre ammetterlo, offre maggiori vantaggi, con un però: richiede una piombatura distribuita o raggruppata, per consentirne il corretto e rapido affondamento. Cosa che, con il filo di rame, avviene spontaneamente grazie al suo peso specifico. Il nailon non richiede una particolare manutenzione, ha un carico di rottura e di resistenza decisamente elevato, le lenze sono vendute già zavorrate e, cosa non secondaria,  costano meno. “La zavorra è il cuore di tutto!”, dice Giuanin, quando all’osteria, tra un mezzino e l’altro, molla il freno e sale in cattedra. “ Una volta si lavorava con il rame piombato alla fine, facendoci i muscoli nell’accompagnare il peso in acqua. Adesso, cari miei, si va avanti a filo di nailon  e allora non resta che applicare delle olivette di piombo lunghe di un paio di centimetri e di peso attorno  ai a due o tre grammi, distribuendole in modo regolare fino a raggiungere un peso di quasi mezzo chilo. Così, se zavorri bene, la lenza va giù che è un piacere e non corri il rischio che ti resti troppo in superficie,trascinandotela a pelo d’acqua, o di farla affondare fino a raschiare i sassi del fondo”.

 

Il “prof” Giuanin accompagna le parole con gesti decisi, caparbi quel tanto da sconsigliare il contraddittorio. La sua esperienza non ammette repliche. “ E’ molto importante anche la velocità con cui avanza la barca. Se si è in due la cosa migliore è procedere a remi, come abbiamo sempre fatto io e Faustino”, confida il vecchio pescatore.  “ Uno tiene in mano la tirlindana e l’altro rema facendo ogni tanto delle piccole pause. Occhio, però:  chi tiene la tirlindana non deve star lì come un cucù ma imprimere al filo dei piccoli, leggeri strappi per simulare una veloce fuga del pesciolino finto”. Questo genere di movimento, visto dalle parte dei predatori, equivale allo squillo di tromba della carica, scatenandone l’istinto di predatori.“Qui viene il bello. Avvertita la mangiata non perder tempo: uno strappo per ferrare il pesce e avvia lentamente il recupero. La barca non deve arrestare il suo movimento, capito? Se lo fai, se ti fermi, la preda ti frega, soprattutto se è di una certa dimensione. I pesci non sono fessi, e non ti saltano a bordo di spontanea volontà. La preda, se riesce ad avvicinarsi troppo, tenterà come ultima fuga di inabissarsi sotto la barca. Quando accade, sono cavoli amari: il rischio di perderla è alto perché, puoi esserne certo,  il filo andrà sicuramente ad impigliarsi in qualche sporgenza con tutte le conseguenze del caso”. Mai dimenticarsi il guadino: se non lo si trova a portata di mano, al momento giusto, tirare in secco la preda è un problema. Questa è la lezione di Giuanin. Applicandola per filo e per segno porterà alla tirlindana un tributo certo di prede, dai persici ai lucci, dai cavedani alle trote.

Marco Travaglini

 

(Foto: molagnacavedanera.it)

 

Dantés, il maestro dal papillon blu

 

In un paese del Canavese, noto in tutto il mondo grazie al fatto di aver ospitato, un tempo, una famosissima fabbrica di macchine per scrivere, su una collina del rione Bellavista, ribattezzata il parco dei Sussurri, viveva un piccolo, orgoglioso yorkshire terrier di nome Dantés. La fitta boscaglia del parco ospitava una varietà di uccelli e animali di piccola taglia come gli scoiattoli e i ghiri. Il vento che soffiava spesso dalla vicina valle d’Aosta creava, tra gli alberi, suoni e rumori che parevano dei veri e propri sussurri e questa particolarità aveva suggerito agli abitanti il nome del parco. Dantés portava al collo un elegante papillon blu e si muoveva con passo deciso e rapido, come si addiceva ad un vero gentiluomo originario della contea inglese, un tempo la più grande del Regno Unito. Tutti lo conoscevano e gli altri cani lo ammiravano per intelligenza, eleganza e soprattutto per le storie che amava raccontare quando, passeggiando, si intratteneva per fare quattro chiacchiere. Ogni racconto nascondeva una morale e un insegnamento, ogni passeggiata era una lezione di vita. Un giorno gli vennero affidati cinque cuccioli di Jack Russell a pelo ruvido. Erano belli, vivaci, impazienti, e avevano una quantità di energia che avrebbe messo chiunque in difficoltà. Si muovevano allegri e veloci come il vento. I loro nomi erano Balzac, Amelie, Mistral, Modì e Colette. Nessuno riusciva a tenere a bada la cucciolata che sembrava avere l’argento vivo addosso. L’unica eccezione era lui, Dantés. “Qui c’è bisogno di un maestro, e io sono pronto” disse il piccolo yorkshire, aggiustandosi il papillon. Attrezzò la taverna come un’aula con tanto di lavagna e gessetti colorati, un tavolo che fungesse da cattedra e due comode e lunghe panche con lo schienale da utilizzare come banchi per i piccoli allievi. Il suo metodo di insegnamento non contemplava regole severe, basandosi soprattutto su giochi intelligenti. Usava bastoncini, foglie, cartoncini colorati, disegni allegri e bicchieri dove versava acqua da uno all’altro per spiegare il senso della collaborazione, la pazienza e la gentilezza. Era importante che iniziassero a comprendere l’essenza vera della vita, l’ambiente che li circondava con le sue bellezze, ma anche con i pericoli da evitare, un po’ di storia e gli essenziali rudimenti di scienze e geografia.

Quando i cuccioli litigavano (era naturale che lo facessero, vista la loro giovane età) Dantés, con uno sforzo paziente, raccontava la storia di un cane che aveva perso tutti gli amici perché non sapeva ascoltare e voleva, testardamente, avere sempre ragione. Quando disubbidivano, narrava le vicissitudini di un terrier che finì in una pozzanghera fangosa per non aver seguito nessuna indicazione, rifiutandosi di seguire le giuste vie, ostinandosi a fare di testa propria, senza voler sentire ragioni. Ci volle una grande pazienza da parte del loro maestro ma, con il tempo, i cuccioli cambiarono. Non solo impararono a comportarsi correttamente, ma svilupparono una curiosità per il mondo e per le indicazioni che Dantés, sotto forma di storie, aveva insegnato loro. Lo rispettavano e gli volevano bene. Per i cuccioli era diventato “il professore dai modi gentili e dal cuore generoso”. Un giorno, però, Dantés scomparve per un’intera mattinata. I cuccioli, preoccupati, lo cercarono dappertutto. Lo trovarono alla fine sotto un cespuglio, mentre scriveva su un notes una delle sue storie. “È arrivato il momento che anche voi scriviate la vostra” disse con un sorriso. E insieme, con passo allegro, tornarono all’abitazione. Ogni cucciolo si mise di buona lena a scrivere e raccontare una favola sua, ispirata agli insegnamenti del loro maestro. Avevano imparato le cose che contano e da quel giorno i piccoli Jack Russell diventarono amici di tutti a Bellavista, ricevendo in dono da Dantés i loro piccoli papillon blu che sfoggiarono con grande orgoglio.

Marco Travaglini