



D’inverno non è raro che le stelle, in fretta e furia, facciano posto a nuvole gonfie di tormenta. Anche la notte dell’Epifania di quell’anno aveva portato con se la neve. Soffice come l’ovatta, leggera come piume d’oca, era planata lentamente a terra, imbiancando tutto

Non che ne fosse venuta tanta, però. Era, come dire, una specie di patina spessa più o meno cinque centimetri. Non mi aveva preso alla sprovvista. Rincasando, verso le 23, s’intravedevano già dei piccoli fiocchi volteggiare nell’aria. Erano “palischitt“, pagliuzze gelate. Ma promettevano “d’attaccare giù“. L’aria fredda che s’incanalava per le valli del Mottarone fino ad accarezzare le onde del lago, era un “preavviso” della nevicata. Così decisi di usare le pagine di un vecchio giornale per coprire i vetri della mia piccola Fiat amaranto, posteggiata davanti all’osteria del “Gatto e la Volpe”. Così, al mattino, se non ne veniva giù un sacco, sarebbe bastato rimuovere i giornali per avere i vetri puliti ed asciutti, evitando – ed era la cosa più importante – che gelassero. Quante volte mi era capitato di vedere i vicini di casa, dopo una notte di brina gelata o di tormenta, armeggiare sui vetri merlettati dal gelo con raspe e fiotti d’acqua calda. Quanti vetri rigati o crepati, per la gioia dei carrozzieri che dovevano quanto prima sostituirli. Era più saggio seguire la buona regola del “meglio prevenire che curare”. Così, dopo una notte di sonno profondo, propiziata da quel silenzio ovattato che si crea quando nevica, mi sono alzato alle sei e mezza, anticipando la sveglia. Mi capita così da una vita. Alla sera carico la sveglia, la punto sulle sette meno venti e regolarmente l’anticipo di una decina di minuti. Così la mia sveglia non suona mai. Se ne sta lì, vigile, scattante, pronta a squillare ma io, per il suo disappunto, ne rendo superfluo il servizio. Che devo fare? Mi viene così, non lo faccio apposta. E sono convinto che, la volta che mi capitasse di scordarmi di puntarla, resterei “impagliato” a letto. Comunque, una volta alzato e vestitomi di tutto punto, uscii. Non nevicava più e l’aria era fina, pulita. Mi avvicinai all’auto e, voilà: in un attimo sfilai via i giornali. Solo in quel momento mi accorsi che Giovanni Melampo mi sta guardando. Non avevo notato che, con il badile in mano, stava liberando l’entrata laterale dell’osteria del “Gatto e la Volpe”, quella che dava direttamente sulla cucina. Mi guardava interessato e, ad un certo punto, esclamò: “Gino, posso dirti una cosa?”. Non feci in tempo a rispondere che il fabbro aggiunse “ Ecco, volevo dirti che sei furbo come una volpe. Ma come ti è venuta in mente l’idea dei fogli di giornale, eh? A tì sé propri un gatt. Sei proprio un gatto. Dai, vieni qui, fammi compagnia. Andiamo a bere un bicchiere dal Mario. Offri tu,ovviamente, per “bagnare” l’invenzione”. Pur di scroccare un bianchino era capace di qualsiasi stratagemma. E quella mattina era toccato a me. Ne scolò tre, uno in fila all’altro. “Ma non ti faranno male?”, gli dissi. “ Io, appena sveglio, bevo due bicchieri d’acqua del rubinetto che al mattino fa solo bene”. Lui, di rimando, mi rispose che “ l’acqua la fa mal, la bev dumà la gent de l’uspedal”. Lui, ovviamente, non aveva niente a che spartire con la “gente dell’ospedale”, precisando che stava benone e il vino non solo poteva berlo ma era una sorta di medicina.Bevendo, Melampo, si lasciò andare ai suoi racconti. Iniziò a parlare delle disavventure del povero Ottorino Gambina, l’operaio del comune che faceva un po’ di tutto, dal cantoniere allo stradino. Ottorino, detto “robinia” per il carattere pungente che ricordava le spine scure che ornavano i giovani rami delle robinie, era – come s’usava dire dalle nostre parti – un “nervusatt”.
Bastava un nonnulla e s’incavolava di brutto. Soprattutto quando lo prendevano in giro per le sue gambe. Sì, perché – per sua sfortuna – aveva le gambe storte, ad archetto. Sembrava un fantino ( la statura, più o meno, era quella.. ) al quale avevano sfilato il cavallo da sotto, condannandolo a rimanere così, con gli arti inferiori piegati in forma. Aveva ereditato il lavoro dal suo predecessore, noto a tutti come “Mario pulito” che, mantenendo fede al suo soprannome, aveva sempre e tenacemente operato per ottenere, con il minimo sforzo, la massima resa dalla sua attività. A differenza di sua moglie Maria che si faceva in quattro nel lavorare, Mario era diventato famoso per la proverbiale abilità a sdraiarsi ai bordi della strada, dove, steso su un vecchio plaid, allungava le mani nelle cunette per estirpare le erbacce, con movimenti tanto lenti quanto studiati. Ben attento, sempre, a non faticare troppo e a non sporcarsi gli abiti. Se ne accorse anche il vecchio Hoffman, ben presto pentendosi di avergli offerto il lavoro di giardiniere nel parco della sua villa a Oltrefiume. Mario si sdraiava sotto gli alberi, a fine estate, nell’attesa che le foglie cadessero e solo quando gli alberi erano spogli e il fogliame a terra – con una gran flemma – iniziava a raccoglierle, una a una. “Robinia” , però, era di tutt’altra pasta. Al lavoro sembrava un trattore: a testa bassa, con la scopa in mano, spazzava con diligenza i marciapiedi e il sedime stradale. Finché, non gli capitò “l’incidente”, come lo definì Melampo. “ A lè finì cunt el cü per tèra. Sì, perché è bastato il colpo della strega per metterlo fuori uso. E tutto, pensa un po’, per una cartina del cioccolato che stava lì, in mezzo al sagrato della chiesa. Aveva appena scopato per bene e qualche ragazzaccio passando, mentre era voltato di spalle, gliela aveva buttata lì. Nell’atto di chinarsi ha sentito un “crack” alla schiena ed hanno dovuto portarlo a casa così, piegato in due, fino a che il dottore non gli ha fatto un’iniezione. Sembrava che dovesse finir tutto lì, e invece…”. Era sconsolato, il fabbro. “ Tiricordi com’era? Bianco e rosso, sempre pronto a mangiare e bere. Ed ora? E’ magro che sembra ‘n gatt che l’ha mangià i lüsert. Un gatto che mangia solo lucertole.. La schiena non gli tiene più, è sempre in mutua e si è messo a bere ancor più di quanto non facesse già. Ha proprio una brutta cera”.In effetti, era così. Non sembrava nemmeno più lui anche nel carattere. Era, come dire?, spento, apatico,rassegnato. Se si cercava di tirarlo su, dicendogli che bisognava aver fiducia, che si sarebbe messo a posto, rispondeva – scuotendo la testa – : “Se l’è minga supà, l’è pan bagna”( se non è zuppa è pan bagnato).Era rassegnato a rimanere così, con la schiena scassata e le gambette sempre più divaricate. Melampo, nel raccontare le sue disavventure, si era immalinconito. Ma reagì subito, proponendomi un altro “giro” di calici.“ Dai, Gino,beviamoci su. Anzi, ci bevo su io anche per te, così buttiamo alle ortiche la malinconia. Mi spieghi ancora una volta la pensata del foglio di giornale, eh?”.
Marco Travaglini
Dantès, lo yorkshire terrier dal pelo setoso e lo sguardo da filosofo, viveva tranquillo in una casa in mezzo a un bosco alla periferia di Ivrea. Era conosciuto e benvoluto da tutti, fatto salvo alcuni suoi simili (seppure d’altra razza) con i quali il tempo non aveva cancellato una certa diffidenza. Lunghe passeggiate a Bellavista, qualche gioco in casa e poi pappa e dormite scandivano le sue giornate. Un giorno ricevette un invito speciale: i suoi zii lo aspettavano a Torino per qualche giorno di vacanza.

Con la sua valigetta (piena delle sue crocchette anallergiche e il suo peluche preferito), Dantès partì all’avventura sull’auto rossa guidata dallo zio. Arrivato a destinazione, Dantès fu accolto con abbracci e carezze dalla zia che lo accompagnò subito in casa, dove lo aspettava un cuscino personalizzato con il suo nome e tante zampette stampate. “Finalmente!”, pensò Dantès, accoccolandosi con eleganza. Viaggiare in auto era un sacrificio per nulla piacevole. Il giorno dopo, Dantès mise il suo cappottino chic e partì alla scoperta della città. Torino era ben diversa dai luoghi che conosceva e dove abitualmente viveva. In piazza San Carlo gironzolò sentendosi come un piccolo Napoleone, sfilando tra i caffè storici sotto i portici del salotto buono della capitale subalpina. Prima era stato con lo zio in via Biancamano, dove c’era la storica sede dell’Einaudi, punto di riferimento della cultura italiana del dopoguerra. La casa editrice era stata fondata nel 1933 dal ventunenne Giulio, figlio di Luigi Einaudi, futuro primo presidente della repubblica.
In quei locali lavorarono collaboratori storici dell’editore come Cesare Pavese, Elio Vittorini, Italo Calvino e Leone Ginzburg. Verso il centro sostarono ai giardini Lamarmora, un oasi verde tra via Cernaia e via Bertola, dedicati al famoso generale del Regno di Sardegna, figura importante del Risorgimento che figurava tra i fondatori del corpo dei Bersaglieri. Al parco del Valentino, nel pomeriggio, rincorse le foglie, annusò ogni angolo e fece amicizia con un bassotto torinese di nome Cesare. Tornando verso casa incontrò un gruppo di amici a quattro zampe che riposavano nel giardino Alfredo Frassati, sostando sotto il monumento del fondatore de La Stampa. Fece conoscenza con un simpaticissimo bulldog inglese e tanti altri amici pelosi con i quali si annusò a lungo. Il giorno dopo giunse davanti al museo Egizio: non poté entrare, ma si fermò davanti alla statua di Anubi, convinto fosse un suo antenato canino. E, non certo per dileggio ma per segnare il territorio, lasciò un piccolo ricordo liquido. Lungo via Po camminò fiero tra studenti e passanti, ricevendo complimenti da tutti. “Che portamento!” dicevano. E qualcuno allungò una carezza, solleticandone l’amor proprio e la vanità. Lo intrigò molto quella costruzione altissima, simbolo architettonico della città. Bella, imponente, la Mole era stata progettata dall’architetto Alessandro Antonelli. Con un’altezza di 167,5 metri, fu per tanti anni l’edificio in muratura più alto del mondo ed oggi ospita al suo interno il museo del cinema. Salutati i dioscuri, Castore e Polluce, sulla cancellata del palazzo reale in piazza Castello, fece una sosta per la pappa.

Nel pomeriggio gli zii gli offrirono un cucchiaino di gelato alla vaniglia da Pepino, in piazza Carignano (approvato dal veterinario, ovviamente). Sul calar della sera, seduto su una panchina lungo il Po, Dantès osservò il tramonto tingere la Mole di arancio, pensando che, in fondo, quella città, pur essendo molto più caotica del posto dove era abituato vivere, era bella. Così passarono altri giorni di passeggiate, scoperte e coccole fino a che Dantès tornò a casa con il cuore pieno di gioia e ricordi, compreso quello del vento torinese che gli aveva spettinato leggermente il pelo. Viaggiare in auto era una vera tortura, non essendosi mai abituato, ma ogni volta che sentiva la parola “Torino”, scodinzolava felice e correva allegro verso la porta, pronto per una nuova avventura. E pazienza se doveva sorbirsi il tragitto allacciato sul sedile posteriore di quel trabiccolo.
Giovanni Melampo, noto a tutti come “Giùanin”, l’ho conosciuto negli anni in cui veniva in banca a chiedere prestiti per la sua attività di fabbro. Camminava sempre a zig e zag, con passo incerto e le mani in tasca dove teneva sempre due mele, una per parte:” Vùna par tegna via luntan al dùtur e l’altra parché a lè mej veglà drèe“, mi diceva. Che, tradotto, era la sintesi del proverbiale “una mela al giorno leva il medico di torno” con l’aggiunta di un po’ di previdenza al fine di non farsi trovare sprovvisto di cibo quando i morsi della fame reclamavano udienza. Giùanin era, per certi versi, un artista. Possedeva una straordinaria abilità nel lavorare i metalli e una bacchetta di ferro, nelle sue mani, poteva diventare davvero un oggetto prezioso.

Non aveva, però, il senso della misura. Ricordo che, una volta, Ruggero Locati gli commissionò una gabbietta per tenerci un merlo: “Giùanin, mà ràcumandi. Una gabbia che non sia troppo piccola perché il merlo deve potersi muovere ma neanche troppo grande, perché la devo tenere in casa. Ci conto, eh?”. E lui disse di sì. Erano all’osteria della Trappola, seduti uno di fronte all’altro. Ma, come poi s’accorse anche il Locati, Giùanin quand’era “preso” non connetteva più di tanto. Quante volte era capitato anche a me di vederlo. Arrivava al Circolo, si metteva seduto al tavolo vicino alla finestra e comandava il primo mezzino. E poi un’altro , e un’altro ancora. Se gli si diceva qualcosa rispondeva a malo modo: “ L’acqua fa marcire i pali. Lo dicono tutti i grandi bevitori di vino , e lo dico anch’io. Anzi, caro al mé ragiùnier, lo sai come dicono gli svizzeri? L’acqua fa male ed il vino fa cantare. E, allora, se vuoi farmi compagnia, prendi anche te un bicchiere e beviamo alla nostra salute. E poi , cantiamo”. E attaccava con il repertorio di canti degli alpini. Stonato com’era, era uno strazio doverlo ascoltare. Ma ,ormai, ci avevamo fatto l’abitudine. Tornando alla gabbia del merlo, passarono diverse settimane senza notizie. Locati si stava preoccupando quando, una mattina che era uscito un po’ prima per andare dal medico, incrociò il fabbro. “Uelà, Giùanin. Incœu pensavì propri a tì. E ma disevi, tra mì e mì: al sarà minga mòrt ? Ed invece, vardatt’chi , ancamò viv. E la me gabbia dal merlo? Ti gh’he semper avùu la bravura de fa ma, madonnina cara, al temp te scarligà via“. Locati, milanese della Bovisa trapiantatosi sul lago Maggiore, non aveva perso l’abitudine del dialetto meneghino. Giùanin gli disse che aveva avuto dei problemi e che andava di fretta ma anche che non s’era dimenticato e, all’indomani, il Locati avrebbe avuto la sua gabbia. A suo modo era una persona di parola. E così, il mattino dopo di buon ora, Ruggero Locati sentì il rumore di un motocarro fuori casa e un paio di colpi di clacson. Uscì e Giùanin gli chiese di aiutarlo a scaricare la “gabbietta”. Bastava guardare in faccia Locati per cogliere la sua somiglianza con la “rana dalla bocca larga”. Era rimasto lì, a bocca aperta, basito. La”gabbietta” aveva un diametro di circa due metri ed era alta più di tre. Una voliera, ecco cos’era. Una voliera in piena regola e per più in ferro battuto. “Mah,mah,mah…” inziò a balbettare il Locati, incredulo. “Non c’è ma che tenga. Volevi una gabbia per il merlo,no? Eccola, qui. Larga e spaziosa. E siccome ti ho fatto aspettare un po’ di più, sai che faccio? Te la regalo”. Detto e fatto. Scaricata la gabbia, il Giùanin mise in moto e se ne andò, lasciando il milanese senza parole, ancor più a bocca aperta. Ecco, Giovanni Melampo era così, come dire?.. imprevedibile. Generosissimo e altruista , non sopportava però che gli si dessero consigli sul lavoro. “ A l’è com’insegnàgh a rubà ai làdar“. Cioè, era come insegnare a rubare ai ladri. Frase che rivolgeva a chi aveva il vizio di dare spiegazioni inutili a chi era più esperto e competente. Oppure, bofonchiando tra i denti, sibilava un “ Pastizzee, fà ‘l tò mesté!“, sottolineando come fosse bene che ognuno lavorasse secondo la propria competenza. Poteva permetterselo, essendo un fabbro che “faceva i baffi alle mosche”. Dove abitava, sulla strada tra Loita e Campino, praticamente sul confine tra Baveno e Stresa, aveva anche la sua bottega. L’incudine in ghisa era imponente. “Più è grossa, meglio è“, mi diceva il Giùanin. E quella, tra le due estremità, aveva una lunghezza di quasi due braccia. Di martelli ce n’era tutta una serie. “Per ogni lavorazione esiste il martello ideale. Vede, ragioniere, il peso è proporzionato a quello del pezzo da lavorare. E tutto dipende dall’efficacia che si vuol dare al colpo. Quello lì, ad esempio, è un martello da due chili. Quell’altro là ne pesa quasi tre mentre quello che sta lì, vicino a lei, pesa solo quattro etti“.
Quando parlava del suo mestiere usava un italiano corretto, da “professore”. “ Oggi, sa, il ferro battuto viene richiesto soprattutto per arredare le case, dentro e fuori. Lampadari, tavolini, cancelli, intelaiature delle finestre. Ho anche molte richieste di cerniere per mobili“. In un angolo, sotto una larga cappa, c’era la forgia con il suo mantice per soffiare l’aria sul fuoco (“così si accelera la combustione e le temperature si mantengono più elevate“). Lo vedevo bene, Giùanin, aggirarsi sicuro tra i suoi attrezzi. Sembrava un direttore d’orchestra che disponeva gli strumenti nel modo migliore per eseguire la sinfonia. Lui, al posto di oboe, violini, violincelli, arpe e percussioni aveva pinze, taglioli, stampi, punzoni, dime, lime, seghe, mole, morse, trance, trapani. Anche in cucina era un mago. Talvolta mi capitava che, giunti ormai alla mezza,alzandomi per andare a casa a buttare un po’ di pasta da condire con pomodoro e parmigiano, com’era mia abitudine, mi teneva per il braccio, dicendomi: “Sù, ragiùnier, venga con me. Stiamo un po’ in compagnia. Le faccio assaggiare un po’ di pesce che m’hanno dato giù dal Luigino“. Tra le sue passioni c’era la pesca. Che condivideva, quando possibile, con Luigino Dovrandi, pescatore professionista ormai pensionato. Luigino, per non “perdere il vizio”, buttava le reti almeno tre volte la settimana e divideva il pescato con lui. A patto che cucinasse per tutti. A me capitava così di fare da “terzo” a questi banchetti. Tra i fornelli, Giùanin si destreggiava con abilità.La sua specialità era il fritto misto di lago: alborelle in quantità e agoni, da friggere infarinati nella padella di ferro; bottatrice, filetti di persico e lavarello, da cuocere a loro volta, impanati con l’uovo, in burro e salvia , aggiungendo un goccio d’olio. Una bontà da leccarsi i baffi. E non finiva lì. Talvolta portava in tavola anche il pesce in carpione, fritto e poi marinato in aceto, cipolla, alloro. Più raramente me lo proponeva in salsa verde. Si trattava, in quei frangenti, di lavarelli, agoni o salmerini grigliati e marinati in una salsa di prezzemolo, mollica di pane, aceto, capperi, acciughe, aglio, rosso d’uovo, olio d’oliva. D’inverno ci serviva i “missultitt” con la polenta. Questi agoni essiccati li trovava Luigino nella parte alta del lago, tra Ghiffa e Oggebbio. Lì, a dispetto del tempo e delle tradizioni che lasciavano il passo, alcuni vecchi pescatori suoi amici trasformavano gli agoni pescati in tarda primavera in missoltini, essicandoli al sole e conservandoli, strato su strato – con foglie d’alloro – pressati nella “dissolta”, un recipiente chiuso da un coperchio di legno sul quale gravavano dei pesi, così che i missoltini restassero “sotto pressione” per alcuni mesi. Una volta “liberati”, Giùanin li passava per pochi istanti sulla griglia rovente, irrorandoli d’olio e aceto, per poi servirli sui nostri piatti con delle larghe fette di polenta abbrustolita e tre bicchieri di vino rosso. Un’allegria per il palato e una gioia per la compagnia.
Marco Travaglini
Il vescovo, l’ultima volta che gli aveva parlato, era stato chiaro. Anzi, potremmo dire chiarissimo. Inequivocabile. “Caro don Siro, lei deve mettere la testa a posto. E’ un parroco stimato dai suoi fedeli che, a quanto mi è stato riferito, non mancano alle funzioni ma… ( e aveva fatto una lunga pausa, quasi cercasse le parole giuste)..bisogna che non prenda sempre di petto il podestà e chi oggigiorno ha la responsabilità della cosa pubblica. Con i fascisti, piaccia o no, bisogna andar d’accordo. So bene anch’io che sono rozzi, maneschi e non sempre animati delle migliori intenzioni verso il prossimo. Ma noi, caro don Siro, siamo la Chiesa. Non se lo deve scordare. Siamo la Chiesa che guarda e tollera, comprende e non giudica. Si ricordi che solo Iddio può trarre i giudizi. Sono stato chiaro? Adesso vada, su…e si faccia voler bene anche da quei signori in camicia nera“. Era l’ultima, in ordine di tempo, delle lavate di capo che don Siro si era buscato dai suoi superiori.

La Chiesa, pur non condividendo gli atteggiamenti dei fascisti, in particolar modo le bastonature e le somministrazioni di olio di ricino a coloro che venivano individuati come oppositori o, quantomeno, persone non gradite al regime, manteneva un atteggiamento prudente. Don Siro, parroco del paese da vent’anni (ci teneva a precisarlo:“vent’anni,eh.. mi raccomando. Vent’anni e non un ventennio perché la sola parola mi fa uscire dalle grazie e non voglio far peccato mollandovi un bel ceffone”), mal sopportava quei ragazzotti con l’orbace e ancor più gli andavano di traverso quei reduci della grande guerra che si pavoneggiavano imitando la postura del Duce, petto in fuori e gambe larghe. “Andar d’accordo con quelli lì? Madonna mia, come faccio…Sono peggio dei diavoli. Arroganti, presuntuosi e blasfemi. Parlano di Dio e della Patria e poi, alla faccia della carità cristiana, sbattono in gattabuia quelli che non la pensano come loro. Oppure, com’è successo al povero Rossi, gli fan trangugiare un litro e mezzo di olio di ricino. Giù per la gola, a garganella, con l’imbuto. Se non ha tirato fuori le budella nel cesso alla turca nella sua casa di ringhiera, è stato per puro miracolo. E il Luison? E’ un socialista ma è anche una grava persona. Volevano che cantasse Faccetta Nera: si è rifiutato e l’hanno riempito di botte che adesso cammina tutto storto. Ed io dovrei andarci d’accordo? No, cara Madonna: l’è come far peccato!”. Don Siro non era solo una sòca negra, come diceva Geppe. L’abito talare non doveva trarre in inganno. Era sì un uomo di chiesa ma non si poteva dire che non prestasse attenzione e rispetto anche a coloro che la fede l’avevano persa o non l’avevano mai trovata. Soprattutto Don Siro era infastidito dalla violenza dei fascisti. Non sarebbe mai stato in grado di sparare una schioppettata o dar di bastone in testa a qualcuno ma ciò non gli impedì di prendere a calcioni nel sedere l’ultimo rampollo degli Ardenti, famiglia di industriali lombardi che possedevano una gran villa in paese. L’aveva fatto, senza esitazione, dopo che il diciassettenne eterno avanguardista Furio Ardenti aveva scritto “Noi diciamo che solo Iddio può piegare la volontà fascista. Gli uomini e le cose mai”. Il punto era che quella frase, per il prete, suonava non solo blasfema ma intollerabile visto che campeggiava – a caratteri cubitali, tracciati con la vernice nera – sul muro esterno della canonica. “Gesù, perdonami“, disse mentre sferrava il calcio nelle terga del giovane fascista. “Perdonami, se faccio peccato ma, credimi, ho le mie buone ragioni“, aggiunse accompagnando le parole con una seconda, vigorosa pedata nel didietro dell’Ardenti, facendogli volar via di botto il Fez che portava in testa. Il padre del ragazzetto, ma ancor più la madre – una nobildonna secca come un manico di scopa, dal carattere nervoso e suscettibile – andarono su tutte le furie, protestando vivacemente con il Podestà che,a sua volta, fece le sue rimostranze al Prefetto. Il passaggio successivo era stata la convocazione nel palazzo vescovile, non troppo distanze dalla Basilica sormontata dalla cupola di Santo patrono. Anche questa volta, terminata la lavata di capo, il povero prete si mise in viaggio dal capoluogo al centro più importante del lago con il treno per poi approfittare – da lì al paese – dell’ultima corsa con il vaporetto, pronto a salpare verso le isole e le località costiere. In cuor suo, Don Siro, si era già quasi dato l’assoluzione.In fondo, quello scatto d’ira era ben giustificato dallo scarso, scarsissimo rispetto che quei signori in divisa scura come la pece portavano alle sue convinzioni religiose e alla pacifica convivenza. “Se proprio devo porgere l’altra guancia – mugugnava tra sé il prete – vorrà dire che, in caso estremo, porgerò anche l’altro piede”. Intrecciò le dita per pregare e sul volto comparve per un attimo un sorriso sornione.
Marco Travaglini
Andreino è un tipo piuttosto strano. Non tanto per l’aspetto fisico – mingherlino, calvo, con due gambette corte e secche come manici di scopa – quanto per il carattere, diciamo chiuso, che dimostra di avere. Andreino è un burbero solitario. Uno di quelli che dormono con il sedere scoperto , sempre di cattivo umore. Vive da solo, lavora da solo ( è un artigiano del ferro che non conta le ore e si tira “piat cumè ‘n dés ghèi”, piatto come una moneta da dieci centesimi, vale a dire stanco morto ), mangia da solo davanti alla tv accesa, va a cercar funghi da solo e non pesca mai dove ci sono altri. Ha le sue idee fisse sulla salute ( “l’infragiùur, se t’al cùrat, al dura sèt dì, se t’al cùrat mìa, al pòl durà anca na ‘smana”, che – tradotto –significa che il raffreddore, se lo curi, dura sette giorni, se non lo curi può durare anche una settimana).

A dimostrazione della scarsa considerazione che ha, in genere, dei dottori. L’unico per cui ha rispetto è il dottor Rossini. Da quella volta che gli curò una fastidiosissima sciatalgia, per Andreino è “un gatto”, il migliore, l’unico vero medico in circolazione. Se lo dice lui che si vanta di aver consumato più scarpe che lenzuola, dichiarando la buona salute e una certa avversione per quei signori che avevano contratto il giuramento di Ippocrate, c’é da credergli. Il problema è che il dottor Mauro Rossini, quelle rare volte che lo ha incontrato nella veste di paziente nel suo studio medico, non è quasi mai riuscito a spiegargli le cure che servivano poiché Andreino lo interrompeva, annuendo vigorosamente e ripetendo come un mantra: “ho capito…certo…chiaro… grazie, grazie, dottore”. Un comportamento a dir poco imbarazzante, con tutti i rischi che poteva generare, tra i quali l’incomprensione. Tant’è che un giorno, recatosi dal medico perché sofferente da tempo di stitichezza e senza che nessun tipo di cura gli avesse fatto effetto, mentre il dottore stava illustrando diagnosi e rimedio, si alzò di scatto, lo ringraziò con tutto il cuore e si precipitò nella farmacia davanti al municipio. “Si ricorda la posologia?”, chiese il farmacista, consegnandogli le supposte di glicerina. Lui disse di sì e, a scanso di equivoci, se ne fece dare due scatole. Passati una decina di giorni si presentò dal suo medico che gli domandò come stesse e se le supposte avessero fatto il loro dovere. Andreino, tenendo gli occhi bassi, temendo di fare una critica all’uomo che tanto stimava, rispose: “Caro dottore, per andar di corpo ci sono andato e son più libero ma mi è venuto un gran mal di stomaco. Quelle supposte “in pròpi gram”, sono cattive. Ogni volta che ne mettevo in bocca una e la masticavo mi veniva da vomitare”. Cos’era mai stato, direte voi? Ha poi solo sbagliato la parte, in fondo. Invece di farsele salire, le supposte le fece scendere. Comunque , l’effetto per esserci stato c’è stato. Alla spiegazione del medico, una volta tanto, prestò ascolto e compreso l’errore, si affannò con le scuse e i buoni proponimenti. Da quel giorno Andreino sta ancora da solo come un eremita ma ha imparato, se non ad ascoltare chi gli parla per il suo bene ( è più forte di lui..) almeno a leggere i bugiardini delle medicine. Così, per evitare fastidi e un po’ , come gli disse Giuanin, battendogli una gran pacca sulle spalle, per “tègn da cùunt la candéla che la prucisìon l’è lunga”. Un modo come un altro per dire al burbero ometto di aver cura di sé. Con il dubbio che le parole gli entrino da un orecchio per uscire immediatamente dall’altro.
“E ora, che si fa?”, chiese Gioacchino, rivolgendosi incredulo agli altri compagni. “Che si fa, che si fa…Si cerca qualcuno che se la senta, che trovi le parole giuste. Del resto si sapeva che, prima o poi, ci sarebbe capitato un funerale civile anche qui da noi, no? C’è sempre una prima volta”, rispose sbrigativo Carletto Barelli, il segretario della Camera del Lavoro

Lucrezia l’aveva detto a tutti e, da qualche anno, ormai anziana, l’aveva anche scritto – nero su bianco – nel testamento. Così non c’erano dubbi: il giorno dell’ultimo saluto, prima di finire sotto terra, non voleva tra i piedi preti e suore. “Niente omelie e fumo di candele;niente fiori e rosari da sgranare. Solo una breve orazione civile”. Così aveva scritto, di suo pugno, Lucrezia Dolcini, dopo la premessa di rito (…nel pieno possesso delle mie facoltà mentali e in piena libertà, volendo disporre per il tempo in cui avrò cessato di vivere, dichiaro con il presente atto le mie ultime volontà come di seguito espresse…).
Essendo nubile e senza prole, non aveva parenti stretti a cui lasciare l’unico bene di cui disponeva: una vecchia casa con annesso fienile che aveva ereditato dal padre, morto di silicosi a meno di quarant’anni. E così aveva disposto che fosse la CGIL a beneficiare di ciò che possedeva. In cambio, come unica contropartita, voleva che l’impronta dell’ultimo saluto fosse laica in tutto e per tutto. La sua storia, del resto, parlava per lei. Nata nel 1892 poco distante dalla Pieve di Montesorbo a Ciola, una frazione di Mercato Saraceno, in Romagna, Lucrezia – con i genitori – era emigrata in tenera età in Ossola dove il padre, Duilio, aveva trovato lavoro nel cantiere del traforo del Sempione. Un’opera imponente che, all’epoca della sua costruzione, nei primi anni del ‘900 , collegando Domodossola a Briga, si fregiava di essere la più lunga galleria ferroviaria del mondo. D’indole ribelle, era cresciuta in una famiglia di fede repubblicana. Il padre era stato anche segretario, in gioventù, del più antico partito politico italiano in una località limitrofa, Talamello. Quel nome e il simbolo della foglia d’edera, in Romagna, spiccavano fieramente su fiammanti bandiere rosse e gli aderenti cantavano feroci canzoni contro i Savoia e tutte le teste coronate. La giovane Lucrezia, cresciuta con il mito dei “tre Giuseppe” (Mazzini, Garibaldi e Verdi) stravedeva per il padre che, al posto delle favole, le leggeva brani della Costituzione della Repubblica romana, che Aurelio Saffi , romagnolo purosangue, aveva contributo a scrivere con gli altri due membri del “triumvirato”, Armellini e Mazzini, dopo aver sottratto il potere al Pontefice, al tempo Pio IX. Papà Dolcini, rimasto vedovo, crebbe la sua unica figlia con amore, mettendola in guardia sulle fatiche della vita. Per rappresentarle meglio, usava un’immagine piuttosto forte, presa in prestito dal poeta Olindo Guerrini, in arte “Stecchetti”, anch’esso romagnolo: “La vita l’è coma la schèla de puler: cùrta, in salìda e pìna ad merda” (la vita è come la scala del pollaio: corta in salita e piena di sterco). Così, lavorando sodo, con il magro guadagno riuscì anche a far studiare la figlia e Lucrezia, tra un sacrificio e l’altro, si diplomò maestra e insegnò a leggere e scrivere nella scuola elementare di uno dei più popolosi rioni di Domodossola. Lo fece riponendo nel suo lavoro la stessa passione con cui, alla sera, partecipava agli incontri e alle iniziative promosse dal sindacato e dai partiti progressisti. Se c’era da predisporre un manifesto pubblico o organizzare una serata di solidarietà con le famiglie degli operai in sciopero di questa o di quell’altra fabbrica, la “maestra Lucrezia” non si tirava mai indietro, offrendo impegno e tempo senza nulla pretendere in cambio. Per questo era benvoluta e stimata in tutta la valle. E la notizia del suo decesso era stata accolta con tristezza e dolore. Chi poteva porgerle l’ultimo saluto? Carletto Barelli ebbe un’idea: “si potrebbe chiedere a Germinale Festelli, il maremmano. Che ne dite? ”. Convennero tutti che l’idea era ottima e venne incaricato Libero Fusini, che lavorava con Germinale all’acciaieria della “Pietro Maria Ceretti“.
Uno schietto e diretto, un po’ fumino e permaloso, il Festelli passava per uno che aveva un caratteraccio ma in realtà era solo allergico ai compromessi e non aveva mezze misure, nel bene e nel male. Se un amico aveva bisogno, si faceva in quattro per dargli l’aiuto necessario ma se qualcuno gli faceva saltare la mosca al naso erano guai e dolori. “Quando Germinale diventa brusco è come il temporale che si scatena in agosto”, dicevano in fabbrica, alludendo ai fulmini e alle saette che accompagnavano le sfuriate del “toscanaccio” quando aveva la luna storta. Il Festelli, livornese di Cecina, saputo della morte di Lucrezia, sbottò con un solenne: “Maremma maiala! Che triste notizia mi date! L’era una donna decisa come l’omo. C’aveva dù ‘oglioni!”. Sinceramente dispiaciuto, non esitò a dare l’assenso alla richiesta che Libero gli sottopose a nome delle sezioni comunista e socialista, della Fiom e della Camera del Lavoro, oltre che di alcuni dei vecchi repubblicani che erano rimasti fedeli alle loro origini. Il funerale si sarebbe svolto due giorni dopo, partendo dall’abitazione di Lucrezia, alla Noga, di fianco all’edificio seicentesco della vecchia parrocchiale, dedicata alla Vergine del Rosario. Il corteo, prima di raggiungere il cimitero, avrebbe fatto una sosta in piazza Mercato dove avrebbero preso la parola Carletto Barelli e , soprattutto, Germinale Festelli, l’oratore ufficiale. Il cecinese preparò con cura il discorso, deciso a non farsi prendere la mano dall’ardore della passione che l’avrebbe, senza alcun dubbio, portato all’esagerazione. Scrivendo, cancellando, aggiungendo arrivò a quella che, per lui, era la perfezione possibile: un’orazione civile che si proponeva di omaggiare la memoria di Lucrezia, toccando le corde dei sentimenti più veri. Provò più volte il discorso davanti allo specchio, calcolando con l’orologio quanto tempo gli era necessario per leggere quel testo senza andar troppo piano, strascicando le parole, e neppure troppo veloce, con il rischio di mangiarsele. Cronometro ventitre minuti esatti. Né troppo, né troppo poco. Sì, poteva andare.
Così, con i fogli infilati nella tasca della giacca di fustagno del dì di festa, in testa al corteo composto da alcune centinaia di persone, affiancato da labari delle cooperative e bandiere rosse, Germinale avvertiva su di sé tutto il peso della responsabilità. In piazza, dopo il telegrafico intervento del segretario della Camera del Lavoro, il Festelli s’avvicinò al microfono. Con un colpo di tosse si schiarì la voce e alzando lo sguardo sulla folla, appoggiò la mano sinistra sul feretro coperto da una bandiera sulla quale spiccava il simbolo dell’edera e fece per prendere i fogli dalla tasca. In quel momento, vuoi per l’emozione, vuoi perché non aveva toccato cibo dal giorno prima, gli si annebbiò la vista e – per un istante – si sentì mancare la terra sotto i piedi. Rendendosi conto che non era in condizione di leggere, prese coraggio e pronunciò, con voce di tuono, una delle più brevi orazioni funebri della storia: “ Oh, Lucrezia. Noi ci s’ha fatto le lotte insieme e ora siamo più soli. L’è ‘nda’ via una compagna che valeva, maremma maiala ‘mpestaha ‘hane. E mi domando: oh, Lucrezia, perché sei morta se cinque minuti prima di morire, eri così piena di vita ?”. Dopo qualche attimo di smarrimento iniziarono i primi applausi e, in breve, l’intera piazza tributò l’ultimo, caloroso addio alla “maestra Lucrezia”, senza però trovare una risposta alla domanda di Germinale.
Marco Travaglini
Con passo deciso ma non frettoloso, ci si accompagnava agli altri avventori giù ai “Quattro Cantoni”. Lì, tra un bicchiere e un piatto di polenta “concia” accompagnato dai pesciolini in carpione ( una vera “mazzata” per il fegato, soprattutto alla sera, ma era quello che passava il convento e non era bello dire di no quando l’oste – il Luisin – era in vena di “offrire” il merendino fuori-orario) s’inanellavano ricordi, ritratti ed aneddoti
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Quando la notte si mangia le stelle e si fa nera come l’inchiostro, è segno che il tempo cambia. Le nuvole, scure e cariche di pioggia, riempiono il cielo formando una coltre spessa. “E’ notte di fiaschi e di chiacchiere da osteria”, diceva Ugo Pollastri, titolare della pescheria di Feriolo, prendendomi sotto braccio. E così, con passo deciso ma non frettoloso, ci si accompagnava agli altri avventori giù ai “Quattro Cantoni”. Lì, tra un bicchiere e un piatto di polenta “concia” accompagnato dai pesciolini in carpione ( una vera “mazzata” per il fegato, soprattutto alla sera, ma era quello che passava il convento e non era bello dire di no quando l’oste – il Luisin – era in vena di “offrire” il merendino fuori-orario) s’inanellavano ricordi, ritratti ed aneddoti. Prendevano forma e si animavano i personaggi più conosciuti. Ad esempio, il Tino Bagutti ed il suo “Motom”. Tino era stato tra i primi, subito dopo la seconda guerra mondiale, ad aver tra le mani quel ciclomotore robusto ed economico ( una specie di piccola motocicletta), di buone prestazioni ed elevata affidabilità, pur essendo confinato nei limiti di cilindrata dei più classici “cinquantini”. Il Motom, creato dal fantasioso ingegner Battista Falchetto, un ex-progettista della Lancia, in collaborazione con gli industriali De Angelis Frua , venne presentato al salone di Ginevra del 1947 con il mome di Motomic ( era l’abbreviazione di “Moto Atomica”..). Come lo teneva il Bagutti era uno spettacolo: sempre lucido, in ordine.
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Dietro al sellino aveva applicato una coda di volpe che, nelle intenzioni, doveva svolazzare davanti agli occhi dei passanti quando transitava la rombante motocicletta. In realtà, la coda restò quasi sempre giù, moscia, tristemente penzolante. Il Motom, infatti, andava a passo d’uomo sulla salita che dall’incrocio sopra il circolo di Oltrefiume saliva – tra due file di alberi – verso la Tranquilla. Tino Bagutti teneva molto “all’assetto del pilota”: guidava in posizione da corsa,proteso in avanti sul manubrio, vestito di pelle nera con cuffia di cuoio ed un paio di enormi occhialoni. Noi, all’epoca ragazzini, gli correvamo appresso, lo affiancavamo, lo guardavamo e lo sorpassavamo. Lui, umiliato, ci guardava digrignando i denti ma non ci diceva mai nulla. Non usciva nemmeno una sillaba dalla sua bocca anche se non era difficile intuirne i pensieri bellicosi. Così, lo ribattezzammo “il centauro della volpe triste”. E lui, con qualche ragione, non ci ringraziò. Un altro personaggio che veniva evocato spesso era il Balloni. Il nome non lo ricordo bene: forse si chiamava Alberto o Gilberto o qualcosa del genere. Comunque, era un bel personaggio. Era stato militare nella “Légion étrangère”,da giovane. Con la Legione aveva combattuto in Indocina, partecipando alla tragica battaglia di Dien Bien Phu, nel 1954. Era un uomo d’azione, sprezzante del rischio.Si definiva un “fascista-comunista”. La sua famiglia era stata dalla parte del Duce durante il ventennio ed alcuni avevano combattuto sotto le insegne della Repubblica di Salò. Lui, negli anni che seguirono alla Liberazione, continuò a coltivare il mito dell’ uomo forte e dell’ordine“. Dove aveva fallito il Duce, c’è sempre la possibilità che andasse bene a Stalin”, diceva ad alta voce, quando alzava un po’ il gomito, a riprova che “nel vino c’è la verità”.L’ideologia, non era opposta? L’ideologia, per lui, non c’entrava un tubo. “Ciò che conta è la dittatura. Qui ognuno fa i cavoli suoi e non risponde a nessun altro che ai propri interessi. Ed allora, caro mio, ci vuole ordine, disciplina. Un tempo era il fascismo a far rigare diritti questi lazzaroni, ora ci potrebbe pensare il comunismo”. Quel “ci potrebbe” veniva espresso in forma dubitativa poiché aveva scarsa considerazione dei comunisti locali ed italiani in genere. “Gente troppo democratica, troppo perbene. Vogliono cambiare le cose con le elezioni, con il consenso. Non capiscono che qui ci vuole lo schioppo e non il voto. Quelli lì son molli, si perdono dietro alle parole quando invece c’è bisogno di agire, di tirar fuori le palle”. Lo diceva mettendo in mostra un sorrisetto sardonico, enigmatico, sotto i baffetti radi. Non capivi mai se scherzasse o se facesse sul serio. Sono tanti anni che è trapassato ma, pensandoci, ho sempre più la convinzione che incarnasse davvero, a modo suo, il paradosso dell’essere un “fascista-comunista”.
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C’era poi il Gùstin, al secolo Aurelio Gustavino. Abilissimo nel fare affari, si era fatto un nome per la capacità di contrattare l’acquisto del riso giù nella “bassa”, tra le risaie del novarese e del vercellese. Portava con se una stadera, una bilancia per la “pesata” a braccio, utilissima per misurazioni che non superassero i 15-20 chili. “A trattare era un mago. Li faceva su con la galla, li infiocchettava con la sua parlantina che alla fine non capivano più niente. Ah, che roba: li fregava sul peso e loro – per la paga – lo ringraziavano anche, al Gùstin”, diceva l’Ennio, con ammirazione. Il meglio di se, però, lo dava nell’acquisto delle uova dalla sciura Marianna. La frase che accomapgnava il lesto movimento delle mani nel contare le uova sembrava quasi uno scioglilingua: “Quatar e quattr’ott , e quatar che fan vott, e quatar dudas..la va ben, Marianna?”. E Marianna annuiva, consegnando sedici uova al prezzo di dodici. “Bisognerebbe tirar su un monumento all’abilità ed alla faccia tosta del Gùstin, cari miei”, sentenziava l’Alfredo. Non aveva torto. Da giovane, nei paesi attorno a Milano, il Gùstin chiedeva l’elemosina con fare dimesso. Guardava, supplicante, negli occhi le vecchie signore, sussurrando loro con un filo di voce: “Fate la carità ad un pover uomo che in una mano ha cinque dita e nell’altra tre e due”. Un po’ di denaro l’aveva raccolto, insieme a cibo, vestiti e qualche legnata sul groppone. Ma gli “incidenti di percorso” non lo dissuasero dal mettere a frutto la sua fantasia. Così passavamo le serate di pioggia all’osteria dei “Quattro Cantoni”. Fuori, la notte si era ormai mangiata le stelle; dentro, tra il fumo del camino e dei sigari e le chiacchiere degli amici, si “lustravano” i ricordi, quasi fossero le pentole della Maria dell’osteria dei Gabbiani.
IL RACCONTO / di Marco Travaglini
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Faggeto Lario dista poco più di 15 chilometri da Como. In auto, una mezz’ora di strada. Avete presente «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi..» descritto dal Manzoni ne “I promessi sposi”? Bene: il nostro “ramo” è quell’altro. E’ lì che, con il pullman dell’Azienda Comasca Trasporti in servizio sulla tratta Como-Bellagio, passando da Blèvio e Torno, sono arrivato un pomeriggio d’agosto del 1976. Avevo diciott’anni e la mia destinazione era l’Istituto di studi comunisti “Eugenio Curiel”. Un tempo, dopo la Liberazione, la “scuola quadri” del PCI nel comasco portava il nome di “Anita Garibaldi” ed era riservata alle donne. All’epoca, il PCI di Berlinguer teneva molto allo sviluppo di una politica culturale rivolta alla nuova generazione di militanti, funzionari e quadri intermedi che entravano a ingrossare le file del partito. Una grande importanza avevano le scuole di partito, la cui attività formativa si svolgeva attraverso l’organizzazione di corsi di base, presso le sezioni o le federazioni provinciali, oppure presso le strutture permanenti, tra le quali la più nota era l’Istituto di studi comunisti delle Frattocchie (dal 1973 intitolato a Palmiro Togliatti), in una frazione di Marino, località dei Colli Albani una ventina di chilometri a sud di Roma. Lì si formavano i quadri dirigenti, si insegnava l’arte della politica. Non si imparava solo la “linea”. Chi frequentava i corsi studiava storia, economia e altre materie ma, soprattutto, ci si formava sull’idea che far politica era una professione al servizio degli altri, di un ideale, di una causa. Insomma, una cosa seria. I corsi erano impegnativi e di lunga durata. I periodi di permanenza variavano da un anno a sei mesi fino a poche settimane. Il mio era un “corso estivo per giovani operai”, della durata di tre settimane che, praticamente, corrispondevano alle mie ferie. Le giornate venivano scandite secondo un programma preciso: ore 7, sveglia e riordino delle stanze; ore 7.55, inizio dei corsi; ore 12, pranzo e riposo; ore 15, discussione e studio; ore 19, cena e libera uscita (quando non capitava qualche riunione serale); ore 22, rientro. Su questo non si sgarrava. Una sera che, in tre, con l’auto di un compagno di Genova (una vecchia Simca 1000) andammo alla Festa de L’Unità di Bellagio, essendo tornati verso le 23 trovammo il cancello chiuso e dormimmo sotto i salici in riva al lago perché nel parco della scuola, dopo le 22, venivano sguinzagliati per la notte due cani piuttosto “mordenti” e non era il caso di mettere alla prova le nostre gambe e le loro mandibole. Il direttore era l’ex senatore Giovanni Brambilla (Conti). Operaio, confinato, partigiano, in passato vicesegretario della Federazione milanese del Pci e segretario generale della Fiom provinciale milanese. Un uomo tutto d’un pezzo, gentile ma ferreo nell’applicare la disciplina. I docenti erano di grande livello. Stava per essere pubblicato dagli Editori riuniti “Economia politica marxista e crisi attuale” dell’economista Sergio Zangirolami, e si studiava con lui sulle sue dispense. Il giornalista e scrittore Luciano Antonetti, amico e biografo di Alexander Dubcek, protagonista della Primavera di Praga e leader di quel “socialismo dal volto umano” soffocato dai carri armati sovietici nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968, ci parlava di politica internazionale. Luciano Gruppi, intellettuale comunista di rango, vicedirettore della rivista “Critica marxista”, anticipò i contenuti di due volumi che sarebbero usciti di lì a poco: “Il compromesso storico” e “Il concetto di egemonia in Gramsci”. Insomma, per farla breve, era un corso impegnativo e, nello stesso tempo, intrigante. Imparavamo a mettere in ordine secondo una certa logica le intuizioni che avevamo colto nel muovere i primi passi in politica e questo ci dava una bella carica. Ma eravamo anche dei ragazzi, tra i diciotto e i ventiquattro anni, e amavamo anche divertici. Non racconterò gli scherzi che si possono immaginare, come – tanto per fare un paio d’esempi – lo zucchero infilato sotto le lenzuola di Mauro Z., operaio metalmeccanico di Carpi, che andava sempre a letto senza pigiama perché soffriva il caldo, o il sale nella minestra di Roberto P., studente di Lodi, che la sputò schifato in faccia a Luigi F., anch’esso studente ma di Verona, che gli sedeva di fronte nel refettorio. Il sabato o la domenica, a seconda delle condizioni del tempo, si andava in gita sul monte Palanzone, con una bella sgambata di qualche ora. Tra canti partigiani e pranzi al sacco, quelle gite rafforzavano il nostro cameratismo. Le nuotate nel lago erano una consuetudine dopo pranzo, prima che entrasse in azione la digestione del pasto che, a dire il vero, era alquanto frugale. Ho sempre avuto una fifa blu nello spingermi dove non si toccava, quindi mi limitavo a quattro bracciate in orizzontale, poco distante dalla riva. Ma la cosa più straordinaria, e per certi versi tragica, capito’ a Bepi. Il cognome l’ho dimenticato, ma mi ricordo che svolgeva le mansioni di magazziniere in una distilleria di Bassano del Grappa. Quando arrivai in istituto a Faggeto Lario, Bepi era già lì da quindici giorni ed era molto nervoso. Non ci mettemmo molto a comprenderne le ragioni. A ridosso della scuola, appena oltre il muro, c’era una chiesa che un tempo era appartenuta alla stessa proprietà ma che il partito, dopo averla acquisita, con gesto generoso, aveva donato alla curia comasca. Del resto, che cosa ce ne facevamo di una chiesa? Chi aveva fede poteva tranquillamente frequentare le funzioni e queste erano di competenza della diocesi e non certo del PCI. Comunque il problema non era tanto la chiesa ma l’orologio del campanile che, grazie ad un meccanismo ad ingranaggi collegato ad una campana, segnava non solo le ore ma pure le mezze. E se, per il Manzoni, verso sera “si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, cha annunziava il fine del giorno. …” per il povero Bepi s’annunciava il calvario di un’altra notte in bianco perché quel suono gli impediva di riposare. Così, un bel giorno, mi pare di venerdì, calate le ombre della sera, ormai esasperato, armatosi di un possente martello e di due cunei di ferro, lunghi e spessi, si arrampicò come un gatto sul campanile. Giunto all’altezza delle lancette dell’orologio, fissò con forza i cunei nel muro, bloccando il meccanismo che – in tensione per l’impedimento – si ruppe, bloccando il meccanismo che attivava la campana con un forte “crack”. Così, dopo il blitz di Bepi, la notte trascorse in un silenzio irreale e così anche il giorno dopo fino a quando, avvertito del danno che aveva guastato l’orologio, il parroco diede in escandescenze, accusando “quei senza Dio di comunisti” di “aver tagliato le corde vocali alla cristallina voce della Chiesa”. Ma, non avendo prove, dopo un po’ di baillamme, la polemica si stemperò nel nulla. Cosa diversa fu invece l’inchiesta interna condotta dal direttore Brambilla che, superando il nostro muro del silenzio, ottenne da Bepi una piena confessione dopo che lo stesso aveva manifestato un repentino cambio d’umore, canticchiando una poco edificante canzoncina il cui ritornello prometteva di mandare a fuoco le chiese per poi, sulle macerie, costruire delle sale da ballo. Reo confesso, Bepi lasciò la scuola e tornò a Bassano mentre noi, per altri dieci giorni, continuammo il nostro corso di studi per poi tornare a casa. Così passai le ferie del 1976, tra amici e compagni, studiando e frequentando – quando si poteva, mettendo insieme i pochi spiccioli di cui disponevamo – l’Osteria dei Manigoldi, dove si poteva gustare la petamura. Non saprei come definirla: sembrava un dolce, una specie di budino, ma era anche un pasto completo , composto da farina, latte, zucchero e vino. Era molto consistente e nutriente, nonostante fosse un piatto povero. Sarà stata la fame, saranno i ricordi un po’ sbiaditi della gioventù, ma quel piatto tradizionale di Faggeto dal colore violaceo era proprio una bontà.
Nel santuario torinese di piazza Santa Rita da Cascia, con un gesto cristianamente dubbio e poco credibile considerate le sue convinzioni religiose, Carletto accese una candela davanti alla statua della santa degli Impossibili ringraziandola, confidando nella sua divina intercessione affinché venisse mantenuta nel tempo quella grandissima invenzione che gli anglofoni chiamavano smart working e gli autoctoni avevano tradotto in lavoro agile. A dire il vero, almeno per lui e per chi apparteneva a quello che alcuni ribattezzarono “il club degli opossum”, la parola lavoro provocava un naturale rigetto, una sorta di eritema dell’animo. Cerimonioso, abilissimo a svicolare gli impegni e a rendersi quasi invisibile per schivare il lavoro, Carletto aveva interpretato a modo suo il lavoro a distanza, da casa. Omettendo il riferimento a tutto ciò che significasse attività, servizio, impiego, mansione, compito, responsabilità, azione oppure risultato si era concentrato sulla parte dell’agile da intendere come un processo di inoperosità, massima aspirazione per coloro che non provavano alcun rimorso nell’essere dei perdigiorno, degli scansafatiche. Pazienza se poi questo atteggiamento sfociasse nell’imbroglio o nella truffa, ingannando il prossimo e principalmente chi gli aveva affidato il lavoro.

Rosina, sua socia in tutto e per tutto (aspetti sentimentali a parte), la pensava ovviamente alla stessa maniera. Erano davvero una bella coppia e, affidandosi all’immortale capolavoro di Collodi, non si faticava a identificarli con il gatto e la volpe. O con l’opossum e la sua nota strategia di fingersi morto per scoraggiare i predatori. Solo che, nel caso dei due, si trattava di un buon modo per schivare lavoro e impegni, infrattandosi al fine di rendersi indivisibili e silenziosi. Il lavoro reclamava attenzione e presenza? Chissenefrega e buonanotte ai suonatori, tanto c’era sempre qualcuno sul quale si poteva, in qualche maniera, scaricare le incombenze. Rosina era nipote di Mario, conosciuto dai più come “il Mario pulito”, uno stradino originario della provincia di Rovigo il quale, mantenendo fede al suo soprannome, aveva sempre e tenacemente operato per ottenere con il minimo sforzo la massima resa dalla sua attività. A differenza di sua moglie Maria che si “tirava nera” a lavorare, lui era diventato famoso per la proverbiale abilità a sdraiarsi ai bordi della strada dove, disteso su un vecchio plaid, allungava le mani nelle cunette per estirpare le erbacce con movimenti tanto lenti quanto studiati. Ben attento a non faticare troppo e a non sporcarsi gli abiti. Se ne accorse anche il vecchio cavaliere Hoffman, pentendosi amaramente di avergli offerto il lavoro di giardiniere nel parco della sua villa. Il buon Mario si sdraiava sotto gli alberi sul finire dell’estate in pigra attesa che le foglie cadessero e solo quand’erano tutte a terra, con una gran flemma, iniziava a raccoglierle, una ad una. E lo stesso in primavera quando, dopo la sosta invernale dove veniva pagato per non far nulla, attendeva che l’erba crescesse fino ai polpacci per rasare il prato con il tosaerba riservandosi tutto il tempo che riteneva necessario. La nipote non poteva certo smentire quell’attitudine perché, come si usa dire, buon sangue non mente. Eppure i due, nonostante tutto, erano simpatici e nemmeno lontanamente paragonabili a Stella, conosciuta come “la gallina Maddalena”, parafrasando una canzone di Roberto Vecchioni. A parte l’idiosincrasia per il lavoro che, forse, poteva accomunarla a Carletto e Rosina ma in una versione molto più acuta, la sua personalità era contorta e poco raccomandabile. Falsa come il peccato di Giuda, cattiva d’animo e terribilmente pettegola, anche lei come la gallina Maddalena si credeva una faraona e ingrassava “senza fare mai le uova”. Piena di se e sempre pronta a cambiar bandiera, tagliuzzava i vestiti addosso al prossimo con la sua linguaccia ma non voleva essere criticata (“io, le cose, non le mando mica a dire… Io, le cose, non le faccio alle spalle. Non è vero che io non abbia mai torto: sono gli altri che non hanno mai ragione”). Quel posto di lavoro per lei era solo un rifugio all’ombra del politico compiacente e lo smart working lo intendeva non come lavoro a distanza ma la maggior distanza possibile dal lavoro che, peraltro, non era in grado di fare a causa dei propri limiti e dell’assenza di un seppur piccolo barlume di volontà. Ma come spesso capita le cose possono cambiare improvvisamente e non è detto che i cambiamenti siano in meglio. Anzi. E così capitò che un giorno finì il suo credito con la fortuna e dovette ridare indietro tutto ciò che aveva ottenuto con intrighi e piccole furbizie. In poche parole, dalla sera alla mattina, la gallina rimase “senza penne sul di dietro”. Ancora una volta quella canzone del grande maestro ritornava quasi fosse una condanna (“Maddalena dei lamenti, che stà lì, che aspetta e spera; Maddalena senza denti, vittimista di carriera; Maddalena dei padroni che van bene tutti quanti: le stanno tutti sui coglioni, però manda gli altri avanti”). Quelli che definiva i suoi santi in Paradiso caddero in disgrazia e per quanto manifestasse la sua disperazione, le toccò andare a lavorare in un fast food. Tra le otto e le dieci ore al giorno a friggere ali di pollo e patatine senza il conforto di un aeratore che funzionasse erano il risultato dell’applicazione della legge del contrappasso per chi, come lei, aveva sempre riso in faccia a chi era costretto a faticare per mettere insieme il pranzo con la cena. E lì la presenza al lavoro era obbligatoria, non facoltativa. Qualche volta capitò che dei conoscenti ai quali aveva riservato in passato le sue attenzioni, delle quali avrebbero fatto volentieri a meno, si fermassero a fare un boccone in quel locale canticchiando “Maddalena, Maddalé, Maddalena dei funamboli: prima c’era e poi non c’è, Maddalena, Maddalé; Maddalena dei tuoi comodi: basta che va bene a te; Maddalena dei pronostici: “io l’avevo detto che…”. Maddalena dei colpevoli: tutti quanti tranne te, Maddalena, Maddalé”.
Marco Travaglini