Di Marco Travaglini
Il vento soffiava dai monti il suo alito gelido, mettendo i brividi. Persino le onde del lago mostravano d’avere la pelle d’oca, increspando la superficie del Cusio. La barca dondolava a poca distanza dalla riva, nei pressi di Imolo. Davanti a me l’isola di San Giulio e sulla destra, il livido profilo del promontorio di Orta. Sulla litoranea sentivo, di tanto in tanto, passare qualche rara auto. Ronfando, i motori s’accingevano a salire la rampa verso Gozzano. Una manciata di secondi e poi sul lago tornava il silenzio, disturbato solo dal sibilo del vento. Facevo scorrere la lenza tra le mani guantate lentamente, lasciando alle correnti la scelta di accompagnarne la discesa nell’acqua buia. Nonostante mi fossi premunito ad affrontare il freddo, quell’aria ghiacciata, quella brisa , non dava tregua. E sì che mi ero infilato, sotto il giaccone, un paio di maglie di lana, una calda berretta ben calcata in testa e, sotto i pantaloni di fustagno, quei lunghi e ridicoli mutandoni ereditati da mio padre. Oscillava la mia “Berta”, assecondando il movimento delle onde che, accarezzandone le fiancate, formavano per qualche istante in superficie una leggera scia di schiuma bianca.
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In giorni come questi, era ben grama la vita del pescatore . Ma non c’era tanto da sfogliar verze: bisognava pescare se si voleva mangiare, e bon! Il freddo m’induceva il pensiero di casa, del camino acceso e della tavola dove m’aspettava un bel piatto di fumante minestra. Mi tornava in mente anche il banco del pulentatt , al mercato di Omegna. Si piazzava ogni giovedì in piazza Salera e vendeva la polenta tagliata a larghe fette, insieme al fritto di lago. Roba piccola, croccante, bella calda, che si scioglieva in bocca. A finire infarinate e fritte nell’olio bollente erano le alborelle. La polenta era il sostituto del pane e mi piaceva quando aveva una bella consistenza e si tagliava bene a fette. Pulenta dura la fa i bun bucun ( polenta dura fa i bocconi buoni). Diceva così mio padre quando riscaldavamo la polenta il giorno dopo e quello dopo ancora. Più il freddo mi mordeva i vestiti e più mi rifugiavo nel tepore dei ricordi per trovare conforto. Dalla memoria emergeva potente e imperativa la visione di quella polenta calda e dorata. Che buona, la polenta cumudada ! Bella soda, sminuzzata in una terrina, mettendo tra uno strado e l’altro, accomodandoli, burro fuso e formaggio, prima di passarla al forno. E quella arrostita ? Era un piatto semplicissimo e gustoso: la polenta avanzata, tagliata a fette sottili, viene fatta friggere nel burro, accompagnandola con qualche fetta di salame o con cipolle e altre verdure che nell’orto seguivano l’andare delle stagioni. Della polenta vuncia conservavo il ricordo di mia madre che la rovesciava dal paiolo di rame in una teglia, alternandola a strati di toma tagliata a fette sottili e il burro insaporito con spicchi d’aglio e foglioline di erba salvia. Ne immaginavo la crosta dorata e l’intenso profumo del formaggio fuso.
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Alla sera, prima di andare a letto, davanti al camino acceso, non mancava una scodella di latte caldo nel quale intingere una fetta di polenta. Quei pensieri, pur belli, non mi scaldavano e continuavo a rabbrividire al contatto con l’aria brusca che veniva giù dai contrafforti del Mottarone. Forse era giunto il momento di fare una pausa, tirando in secca la barca per qualche giorno, fin dopo le feste. D’altronde mancava poco più di una settimana a Natale e anche i pesci si vedeva che pativano quel freddo, restandosene rintanati sul fondo. Quantunque fossi testardo come un mulo, i risultati dei miei sforzi non davano un granché di soddisfazione. Negli ultimi giorni avevo tirato in secco quattro carpe di media taglia, pescate a bordo riva dalle parti di Pettenasco, nei pressi della foce del Pescone, una mezza dozzina di tinche e un certo numero di persici. Avevo battuto palmo a palmo le rive dove si immettevano a lago le acque del Pellino e della Fiumetta, con scarsa fortuna. Nella bella stagione, i canneti e le insenature nei pressi dei due torrenti offrivano riparo a moltissimi pesci. Non di rado capitava di assistere alle cacciate dei lucci, con le piccole alborelle schizzar fuori dall’acqua con salti acrobatici mentre s’avvicinava l’ombra bruno-verde del più crudele predatore del lago. Quest’inverno, invece, non abboccava un bel niente. Nemmeno qui, al largo della Curva dei Persici, dove la corrente è più debole e la lenza della tirlindana, ben zavorrata dai piombi, scende giù fino a solleticare le alghe del fondo. Il pesce lo portavo dal Brembati, che aveva un negozio di alimentari in un angolo di piazza Motta, nel centro di Orta. Era un omone gioviale, di buon carattere e d’ottimo appetito. Del pescato, in base alla qualità e alla quantità, ne metteva in vendita una parte e si teneva per la sua tavola il resto. Era golosissimo dei filetti di persico e non nascondeva la sua passione per tinche e carpe in umido, con i piselli e la pucia dove intingere i bocconi del pane. Nella bella stagione , tutti i venerdì, esponeva fuori dal negozio delle cassette colme di ghiaccio tritato dove le prede più belle venivano offerte ai clienti. L’iniziativa del Brembati venne copiata dagli altri venditori di pollame, formaggio, frutta e verdura che, a loro volta, sistemavano dei bancali davanti agli usci dei negozi, proponendo la merce.
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S’improvvisava così, alla buona, un mercato all’aperto che in breve contagiò anche gli altri paesi del lago. A Pettenasco, Omegna, Pella, ovunque ci fosse un attracco del battello e girasse un po’ di gente, c’era chi metteva in mostra borse, scampoli di stoffa, scarpe, chincaglierie, ombrelli, sementi, granaglie, attrezzi agricoli e da pesca, e perfino chi improvvisava biblioteche ambulanti proponendo alla lettura libri vecchi e consumati dall’uso. Un fatto era certo: per garantire al Brembati la materia prima bisognava pescare anche se faceva freddo e tirava vento. Intanto, si era messo a nevicare. Avendo una commissione da fare, iniziai a vogare di buona lena, attraccando una mezz’ora dopo al molo dell’isola di San Giulio. L’orologio segnava dieci minuti a mezzogiorno ma la fitta nevicata rendeva cupo e gelatinoso il cielo. La luce fioca dei lampioni, accesi anzitempo, illuminava i larghi fiocchi di neve. L’atmosfera era quasi irreale. L’isola era avvolta da un silenzio d’ovatta. A malapena s’avvertiva lo sciabordio delle onde che accarezzavano il ventre delle rare imbarcazioni ormeggiate. Una catenella, sbattendo sulla chiglia del natante più grande – una snella lancia di lago – produceva un suono molto simile allo scampanellio che s’udiva durante la messa. Aldilà dei lampioni, nella viuzza stretta che percorreva come un cerchio l’intera isola, iniziava a far buio. I piccoli balconi sporgenti di pietra offrivano un esile riparo dalla nevicata. Oltre il muretto di sassi del molo l’acqua scura rifletteva a malapena quelle povere luci.
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Verso Pella s’intravedevano, in lontananza, quasi dissolte nella nebbia come lumini galleggianti sull’acqua, le prime luci delle case. La rupe sormontata dalla basilica della Madonna del Sasso si confondeva in un unico, enorme e scuro fondale. Verso Orta, dove la sponda era molto più vicina, si accendevano le luci giallognole in piazza Motta , offrendo un effimera illusione tepore che l’aria gelida, soffiata da quel vento che accompagnava la neve, disperdeva in un attimo. Da nord la tormenta turbinava contro le case appoggiate una all’altra, lungo le Vie del Silenzio e della Meditazione. I fiocchi gelati s’incollavano ai vetri delle finestre, arabescandole con misteriosi ricami. Persino l’aria rabbrividiva sull’isola. Gli alberi, che poco prima sembravano scheletri scuri, si stavano imbiancando. Stessa sorte per le barche tirate in secca che negli attracchi in fondo alle strette discese a lago. Intirizzito, tirai su il bavero del giaccone. Ero andato sull’isola per fare un piacere al dottor Bompigli che, data l’età e gli acciacchi, non se la sentiva più di uscire da casa nella brutta stagione. Il compito che mi era stato assegnato consisteva nella consegna alle suore di clausura del monastero “Mater Ecclesiae”delle medicine che il dottore aveva per loro confezionato in collaborazione con il farmacista Ludovico Luppoli. Il vecchio seminario , sorto a metà del milleottocento sulle rovine del castello, aveva lasciato il posto al monastero delle Benedettine. Insieme alla Basilica di San Giulio era l’edificio più imponente dell’isola. Le suore, nella loro vita claustrale, applicavano la regola di San Benedetto ispirata alla preghiera, al lavoro, all’obbedienza, alla povertà e all’umiltà. Ero affascinato da come loro giornata fosse scandita in modo preciso, seguendo la regola del “Ti ho lodato sette volte al giorno“. Un numero sacro, quel sette, che ricordava i momenti di preghiera che scandivano le giornate nel monastero: Lodi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro e Compieta.
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Prima dell’alba le monache si alzavano al suono della campana recandosi in chiesa per la recita dell’ufficio notturno, che terminava con le lodi mattutine. Dopo le preghiere iniziava la giornata di lavoro che proseguiva, senza interruzioni, sino alla Messa conventuale. La campana dell’Angelus s’incarica di ricordare l’ora del pranzo, con la lettura delle Sante Scritture. Dopo il pranzo e la ricreazione comune, le monache ritornavano al loro lavoro. La campana della cena riuniva di nuovo la comunità monastica per un pasto rapido e frugale. Quindi il monastero si immergeva nel silenzio: era l’ora di compieta, la preghiera della sera, l’ultimo atto della giornata delle monache di clausura. I loro lavori erano bellissimi e preziosi. Restauravano tessuti antichi, ricamavano arazzi, dipingevano icone, confezionavano le ostie-pane.Una volta all’anno, il 31 gennaio, le monache impastavano – seguendo un’antica ricetta- il dolce tipico di San Giulio, una torta soffice di pane con uva sultanina, scorze d’arancio, noci ed altri ingredienti sui quali il riserbo era totale. Le Benedettine vivevano lontane dalla frenesia che ci avvelenava l’anima e ogni volta che mi affacciavo alla loro foresteria per fare delle consegne avvertivo quell’atmosfera di pace e silenzio. Lasciai le medicine al monastero e ritornai verso la Basilica. Scesi la breve scalinata che conduceva al molo dove avevo lasciato la “Berta” e, sciolto l’ormeggio, mi allontanai dall’isola, affondando nell’acqua i remi con una cadenza lenta. Mi ero appena staccato dalla riva quando risuonarono nell’aria le dolci note di una musica di pianoforte. Non riuscivo a distinguere la melodia che proveniva dalla Villa che un tempo era stata proprietà di Cesare Augusto Tallone, costruttore di pianoforti artigianali e accordatore del maestro Arturo Benedetti Michelangeli.
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La neve cadeva sempre più fitta e quell’improvvisa colonna sonora pareva ne accompagnasse le evoluzioni. In quei medesimi istanti, non molto distante dalla riva ortese, Fra’ Gioacchino tremava di paura. Il religioso, un po’ avanti con gli anni, faceva parte della comunità dei frati Minori francescani del Santuario di San Nicolao, sulla collina del Sacro Monte. L’antico complesso devozionale, progettato tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo per motivi religiosi, era famoso per le sue venti cappelle affrescate che ospitavano altrettanti gruppi statuari di grandezza naturale in terracotta che illustravano la vita di San Francesco d’Assisi. Era un luogo di straordinaria bellezza, adatto per chi voleva riflettere e pregare. Da lì di dominava Orta e gran parte del lago, compresa l’isola di San Giulio. Ogni quindici giorni, in barca, a turno, uno dei frati si recava al Monastero dell’isola per ritirare le candele di cera ed i paramenti sacri confezionati dalle Benedettine. Nell’occasione, portava dei viveri alle sorelle. Quel giorno toccava a lui ma , forse, avrebbe fatto meglio a rinviare quel viaggio. Il cielo scuro, già dopo l’alba, non prometteva nulla di buono. Quella torbida nuvolaglia che il vento stava accumulando annunciava freddo e neve. Confidando in un miglioramento, dopo le preghiere mattutine, s’avvio di buon passo verso Orta, imboccando la discesa che conduceva in paese e, sciolto l’ormeggio della piccola barca a remi, iniziò il suo viaggio. Vogava con un ritmo cadenzato, metodico. Giunto all’isola, caricata la barca con le due cassette di candele e la borsa dei paramenti rammendati, si fermò per il pranzo dal signor Ceravoli, un restauratore che aveva una casa sull’isola e d’abitudine vi passava le feste di fine anno. Il Ceravoli aveva contribuito ai lavori di restauro della quattordicesima cappella, l’ultima che venne completata verso la metà del 1700, con le cinquantadue statue raffiguranti San Francesco davanti al Sultano d’Egitto. Augusto Ceravoli non era solo un abile restauratore d’opere d’arte: si distingueva anche per la passione culinaria, ben rappresentata dal ventre prominente e dal colorito rubizzo.
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Frà Gioacchino, ai piaceri della tavola, non sapeva dire di no. Dopopranzo, con il cielo ormai scuro,uscendo dalla casa a pochi passi dalla foresteria del Monastero, restò sorpreso nel vedere che stava nevicando e che la stradina era tutta imbiancata. Raggiunta la barca, si mise ai remi con un una certa preoccupazione. Il buio stava calando rapidamente e l’intensità della nevicata era ragguardevole. Remò con foga per diversi minuti poi, stanco, prese fiato. Fu in quel momento che il remo sinistro, lasciato per un istante libero, scivolò via dallo scalmo, finendo in acqua. Il frate reagì con un istante di ritardo e non poté far altro che cercare di recuperarlo, armeggiando l’altro remo. Un po’ per la frenesia, un po’ per la scarsa destrezza ( resa ancora più scarsa dalla libagione che aveva accompagnato il pranzo), anche il secondo remo, complice l’impugnatura resa scivolosa dal nevischio, finì in acqua. Il religioso si trovò così, in pochi istanti, senza remi e senza la minima possibilità di governare la barca alla deriva, in mezzo alla tormenta di neve. La riva era lontana e s’intravedevano appena le luci di Orta, velate dalla nebbiolina d’argento scuro provocata dalla neve. Frà Gioacchino si disperò per la sua goffaggine e, in preda alla disperazione, si mise a pregare ad alta voce. Pregava, tremando per il freddo e la paura. Pregava e sperava che potesse accadere il miracolo di essere visto o sentito da qualche anima buona. Bilanciandosi con le mani al centro dello scafo, doveva stare molto attento ad evitare che quest’ultimo si rovesciasse, gettandolo nelle acque gelide del Cusio. Un abbraccio che , in quella stagione, non gli avrebbe lasciato scampo. Intanto io, lasciata alle spalle l’isola e sfumata nella nebbia la musica del pianoforte che s’udiva appena, appena in lontananza, presi a vogare con un bel ritmo. Mi parve, ad un certo punto, di sentire una voce. Rallentai i colpi in acqua per ascoltare meglio. Era proprio una voce e sembrava recitasse delle preghiere. Chiamai a gran voce: “ Chi è là?”. Mi rispose una vocina tremula: “Aiuto, aiuto! Sono Frà Gioacchino. Frà Gioacchino del Sacro Monte. Ho perso i remi della barca. Aiutatemi, buon uomo. Soccorretemi!”. Non doveva essere lontano e, seguendo la traccia di quella voce, in breve raggiunsi la barca del frate che non stava più nella pelle dalla felicità. Il frate continuava a ringraziarmi mentre, legata con una sagola la prua della sua imbarcazione alla poppa della mia “Berta”,lo rimorchiavo verso riva. Giunti sulla terraferma e tirate in secca le due barche, Frà Gioacchino –che nel frattempo si era ripreso dallo spavento e mi aveva riconosciuto- mi abbracciò tanto forte da farmi mancare il fiato. “Grazie, grazie. Signor Luciano, lei è un angelo. E’ stato nostro Signore a guidarla in mio aiuto. Senza il suo aiuto rischiavo di morire di freddo se non addirittura di annegare. Pregherò per lei insieme ai miei confratelli”.
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Un bel bicchiere di vin brulé all’Osteria del Gino, rinfrancò entrambi. Il francescano, rifiutando la mia offerta d’accompagnarlo fino al convento ( “Signor Luciano, non sia mai. Stia tranquillo e vada a casa dai suoi che ha già fatto tantissimo per me. Non so davvero come ringraziarla”), s’avvio verso il convento con passo svelto. Io, m’incamminai verso casa. Orta era bianca di neve e dal cielo ne continuava a scendere tanta. Era passata appena una settimana da quel pomeriggio di neve e vento nel corso del quale era avvenuto il salvataggio di Frà Gioacchino. Alessandro, mio figlio, volle essere accompagnato a vedere il presepe al Sacro Monte. Era la sera della vigilia. I frati si apprestavano a celebrare la messa di mezzanotte nella Chiesa di San Nicolao. Salendo verso il Sacro Monte, che occupava tutto il promontorio sopra Orta, quasi fosse una protezione che dall’alto abbracciava il borgo, s’avvertiva l’aria di neve. La mattina di Natale, quasi certamente, ci saremmo svegliati con il paese imbiancato. Non attendeva una sorpresa che, francamente, non m’aspettavo. Il presepe, grande ed animato, aveva nel bel mezzo un laghetto, ricavato dalla superficie di uno specchio, sul quale galleggiava una lancia da lago con un uomo intento nella pesca. Sulla fiancata della barca, vicino alla prua, si leggeva un nome: “Berta”. La mia barca. E il pescatore ero io. Frà Gioacchino mi aveva fatto, a modo suo, il regalo più bello che avessi mai ricevuto.
Marco Travaglini