IL RACCONTO

Il ragioniere di Baveno

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“Ragioniere, buongiorno. Anche oggi, il solito?”. Così lo salutava ogni mattina, dal lunedì al sabato, il signor Alfredo. All’anagrafe Alfredo Tichetti, di professione bigliettaio addetto allo scalo della Navigazione Lago Maggiore, in servizio all’imbarcadero di Baveno.

E il “solito” non era una consumazione al bar ma semplicemente il biglietto del battello che da Baveno lo portava in giro per il lago. A volte verso Intra dove, dopo gli scali all’Isola Madre, a Pallanza e a  Villa Taranto ( ma solo d’estate), aveva a disposizione un quarto d’ora scarso per imbarcarsi sul traghetto che faceva la spola con Laveno, sulla sponda lombarda del Verbano. A volte verso le isole Pescatori e Bella, Stresa, Santa Caterina del Sasso e la parte bassa del Maggiore, verso Angera e Arona. Il ragioniere era Teobaldo Lucciconi di anni sessantasei, celibe. Per quelli che lo conoscevano era semplicemente “il ragioniere”, tant’è che il suo nome non lo usava più nessuno e, se non fosse scritto sui registri del municipio, avrebbe potuto anche pensare di cancellarlo. Lucciconi era stato ragioniere contabile, impiegato alla filiale bavenese della Banca d’Intra al n. 5 di corso Giuseppe Garibaldi, a pochi passi dal piazzale dell’imbarcadero e dei moli d’attracco dei battelli e dei motoscafi. Aveva passato più di trent’anni dietro a quello sportello, intento a contare i soldi degli altri, a darne e riceverne. In tutto quel tempo gli sono passati davanti agli occhi i fatti privati e pubblici, le gioie e le tristezze di diverse generazioni. Altro che il confessionale del prete, su alla parrocchiale! Era in banca che ci si scambiava un saluto e si ricevevano confidenze, dovendo anche dare – se richiesto – qualche utile consiglio. Ma giunto al tempo della pensione, non ci pensò un minuto di troppo. Si levò le mezze maniche e, sempre con garbo (il che non guasta mai), salutò tutti e se ne andò senza rimorsi. Non che stesse male, anzi: aveva degli amici sinceri lì, e in fondo era stata la sua famiglia per tanto tempo. Vivendo da solo si era affezionato a quell’ambiente ma, come in tutte le cose, cercava di non vivere di ricordi e malinconie. Così aveva pensato che, dopo tanti anni passati tra casa e ufficio, ufficio e casa, era venuto il momento di prendere un poco d’aria fresca, guardandosi intorno. E sul lago di cose da vedere ce n’erano davvero tante. Così, a volte a piedi e altre utilizzando i mezzi pubblici (dal treno alla corriera passando, ovviamente, dal battello), iniziò a girare i paesi del lago su entrambe le sponde, la piemontese e la lombarda senza tralasciare la parte più a nord, in territorio elvetico, dedicandosi a frequentare le amicizie e a ripercorrere, con la memoria, le tante storie dei tipi originali con cui ha avuto a che fare. E vi possiamo assicurare che sono tanti che nemmeno vi immaginate. Ma soprattutto ebbe occasione e tempo per riscorire Baveno e le sue frazioni. ” Ma guarda tu”, pensava “E chi l’avrebbe mai detto che vivevo in un posto così bello e non ci avevo quasi mai fatto caso”. Era una delle sue riflessioni ricorrenti da quando era andato in pensione. Per tanti, troppi anni era stato “preso” dal lavoro e non alzava quasi mai lo sguardo sopra lo sportello. Arrivava in banca al mattino presto, portandosi da casa la “schisceta”. Eh, sì. Voi come la chiamate? Baracchino, pietanziera, gamelin, gavetta, gamella? Da noi quella pentolina di metallo a strati, con un coperchio ben chiuso per evitare perdite, indispensabile per scaldare su un termosifone un poco di pasta avanzata del giorno prima, una minestra di verdura o una fetta di carne, era la schisceta. Del resto da single, come si usa dire al giorno d’oggi, cosa andava a casa a fare? Non aveva nessuno ad aspettarlo o che cucinasse per lui e allora gli avanzi della sera prima erano più che sufficienti per mettere insieme un pasto economico da consumare sul posto di lavoro. Usciva di casa che era buio e ritornava a sera inoltrata perché spesso si fermava a dare una mano al direttore nel disbrigo dei conti e delle chiusure di cassa. Eh, un tempo non si guardava mica l’orologio. Prima il lavoro, poi il lavoro e poi ancora la famiglia. E lui che era praticamente tutta la sua famiglia quando andava a casa si fermava qualche minuto ad accarezzare il gatto della signora Maria, la vecchia lavandaia che abitava in cima a quel rione che chiamavano “il baeton”. Si faceva accarezzare perché gli dava sempre qualche pelle di salame, crosta di formaggio e cotiche avanzate. Il Tigre (si chiamava così per il pelo rosso striato di grigio e non certo per il carattere intraprendente visto che stava sempre sdraiato al sole, sullo zerbino di casa, a ronfare) manifestava la sua riconoscenza sfregandosi alle gambe con un sonoro ron-ron. Le giornate del ragioniere scorrevano così, senza troppe emozioni e senza andar di fretta. Poteva permetterselo, facendo una vita tanto regolare da far invidia a un orologiaio svizzero. Ogni giorno gli capitava di veder gente correre qua e là, sempre indaffarata, quasi avessero addosso tutti l’argento vivo. E lui? Niente. Si era guadagnato il diritto alla flemma. Gli capitava, come accade a tutti, qualche episodio dove la frenesia prendeva il sopravvento e bisognava darsi da fare ma erano, per fortuna, momenti piuttosto rari. Così, pur non mancando ai suoi doveri, cercava di tenere un passo che fosse, come dire, il più lento e ragionato possibile. E, bene o male, ci riusciva. Al Circolo Operaio bavenese ci andava soprattutto il lunedì mattina, giorno di mercato, dopo aver bighellonato tra le bancarelle. Gli piaceva quel brulicare di persone che chiacchieravano e contrattavano le merci esposte con un vociare che metteva allegria. Quando c’erano i turisti, dalla tarda primavera alla fine dell’estate, era una vera e propria babele di lingue. Sarà stato perché pativa la solitudine o perché gli piaceva iniziare una nuova settimana con un poco di movimento dopo l’ozio domenicale, ma far due passi al mercato era proprio divertente. Non che ci andasse per comprare qualcosa. Gli capitava raramente e solo per alcuni capi di vestiario. Per i generi alimentari andava in uno dei due piccoli supermercati.

Anzi, per non far torto a nessuno, stava ben attento a fare la spesa sia in uno che nell’altro. Così, pensava, nessuno ne avrà a male. Tanto più che al giorno d’oggi i prezzi sono più o meno uguali e anche la qualità non si discosta di molto. Ma, compere a parte, il mercato lo metteva di buon umore. Confessava che rimpiangeva quando era in centro, occupando la piazzetta tra le scuole elementari, il retro del municipio e pure la via principale che costeggiava la scalinata della chiesa. In seguito, per non intralciare il traffico e agevolare la viabilità, venne spostato sul viale del ponte che attraversava il torrente Selvaspessa tra Baveno e Oltrefiume, piò meno all’altezza del punto dove in passato c’era la vecchia passerella. Era sì più funzionale al traffico ma anche più decentrato e, quindi, un po’ più scomodo. Comunque, ora che era in pensione, quella passeggiata era piacevole e, terminato il giro verso le dieci e mezza, si avviava pigramente alla volta del Circolo. Passava sotto il ponte della ferrovia, svoltando a destra sul viale alberato e scendeva a fianco della stazione ferroviaria proprio davanti all’entrata dell’imponente Casa del Popolo. Fuori, nella bella stagione, c’era sempre qualcuno che si sfidava sui campi da bocce, mentre gli altri avventori si dividevano tra coloro che sbirciavano la partita, leggevano il giornale commentando i fatti del paese o si lasciavano prendere la mano dal turbinio delle carte da ramino o da scopa. E lui, il ragioniere, dopo aver chiesto un bicchiere di spuma o, più raramente, una cedrata, rispondeva di buon grado ai quesiti di natura finanziaria che gli venivano posti. Del resto, come gli aveva detto il cavalier Borloni dandogli una pacca sulla schiena, anche se a riposo “si è sempre ragionieri, no?”.

Marco Travaglini

Dantès tra i vigneti dello Champagne

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“Per me, in tutto il mondo, non esiste un villaggio comparabile con questo. Qui ho vissuto gli anni più belli della mia infanzia…”. Così il regista Jean Renoir descriveva il suo rapporto con Essoyes, paesino dello Champagne situato nel dipartimento dell’Aube nella regione francese del Grand Est. Era lì che i genitori Aline e Pierre-Auguste Renoir, uno dei più famosi pittori impressionisti, acquistarono nel 1896 una casa nella quale, per 30 anni, insieme ai loro figli Pierre, Jean e Claude, trascorsero lunghe estati. Essoyes non è solo il “village des Renoir” perché vi nacque anche Auguste Heriot, fondatore del Grands Magasins du Louvre, diventato l’eroe di Au bonheur des dames, l’undicesimo romanzo di Émile Zola appartenente al ciclo dei Rougon-Macquart. Ancora oggi poche centinaia di persone vi dimorano in un ambiente di semplice bellezza che trasmette pace e di tranquillità tra boschi, vigne e graziose case a graticcio sulle sponde del fiume Ource.

 

E tra queste, in una graziosa casa circondata da vigneti a perdita d’occhio, vive anche madame Jacqueline Grenouille con il suo piccolo yorkshire terrier di nome Dantès. Ogni mattina, al sorgere del sole, il piccolo animale accompagna Jacqueline nei suoi giri tra le vigne dove i grappoli hanno ciascuno il proprio ruolo, dallo chardonnay con la sua finezza e l’eleganza al pinot nero celebre per la struttura e gli aromi fino al pinot meunier, apprezzato per ricchezza e complessità aromatica. Insieme osservano le viti cariche di grappoli d’uva, pronte per essere raccolte e Dantès non perde occasione per annusare con curiosità l’aria profumata dai densi aromi fruttati. Un giorno, mentre correva tra i filari, lo yorkshire si imbatté in qualcosa di insolito. C’era un piccolo scoiattolo che sembrava avesse bisogno di aiuto. Il povero animale era rimasto impigliato in un ramo e non riusciva a liberarsi. Dantès si avvicinò e con le sue piccole zampe, in uno slancio generoso, cercò di spostare il ramo. Dopo alcuni tentativi riuscì a liberare lo scoiattolo che scattò via come un fulmine. Il piccolo terrier non si era accorto che Jaqueline lo stava osservando, sorridendo. “Sei davvero un cane generoso e altruista. Bravo!” esclamò, accarezzandolo. Lui, felice e orgoglioso, scodinzolò.

Ma il giorno seguente, mentre girovagavano tra i vigneti, accadde qualcosa di imprevisto. Un temporale improvviso si abbatté sulla regione, e i fulmini illuminarono il cielo. Jaqueline, preoccupata per i possibili danni alle viti, decise di rientrare a casa osservando il cielo carico di nubi gonfie di pioggia. Dantès non riusciva a smettere di pensare allo scoiattolo e per nulla intimorito dall’inizio dell’acquazzone si allontanò dalla sua padrona e corse verso il boschetto dove aveva incontrato lo scoiattolo. Con grande determinazione si fece strada tra i rami bagnati e le pozzanghere finché non raggiunse l’albero cavo dove di era rifugiato l’animaletto dal mantello bruno rossastro. Lo scoiattolo era lì, spaventato e tremante. Scodinzolava per segnalare un pericolo mentre dal cielo, dopo le saette e il brontolio dei tuoni, pioveva ormai a dirotto. Dantès si avvicinò e abbaiando cercò a modo suo di rincuorarlo. Assecondando il proprio intuito l’animale comprese che poteva considerare quel cagnetto come un amico e si sentì subito in qualche modo rinfrancato e protetto.

Dantès si riparò sotto l’albero ed entrambi attesero che il temporale si allontanasse. Adagio adagio la pioggia iniziò ad essere sempre meno forte e tra i rami le ultime gocce luccicanti lasciarono il posto ai primi raggi del sole che illuminarono la vegetazione. A quel punto i due animali lasciarono il loro rifugio e, in segno di gratitudine, il piccolo roditore decise di accompagnare Dantès fino a casa dove lo scoiattolo venne accolto da Jacqueline sotto la veranda. La donna, osservando il legame speciale tra i due, comprese che i sentimenti non conoscono limiti e barriere, e che anche un piccolo yorkshire terrier può fare la differenza quando si tratta di venire in soccorso a chi si trova in difficoltà. Decise così di celebrare quell’amicizia dedicando ai due una nuova cuvée delle preziose bollicine. E così, a Essoyes e in tutta la zona della Champagne, Dantès e lo scoiattolo diventarono una leggenda da festeggiare stappando in allegria una buona e fresca bottiglia di blanc de blancs.

Marco Travaglini

La tenue trama dell’acqua di lago

 

Bonaccia, tempesta, onda, schiuma, increspature del vento, sciabordio lungo i moli. Chi è nato sulle rive del Verbano o del Cusio, come i persici, ha nel sangue la trama dell’acqua del lago. Non è cosa che si possa capire fino in fondo se non s’avverte dentro, nel profondo di se stessi. Si avverte, si prova un debole per quei ghirigori disegnati dalle correnti in superficie. Sono disegni, rughe cesellate nell’istante stesso che precede la loro cancellazione da un’altra onda. Affascina lo scorrere lento della corrente nelle vicinanze delle foci degli immissari, con i pesci che si mettono di traverso, puntando il muso in senso opposto, tenaci come salmoni pronti a spiccare il salto. Come ogni cosa viva mettono a nudo il loro spirito ribelle e stanno lì, in direzione ostinata e contraria. Anche i colori del laghi a nord del Piemonte – Maggiore, d’Orta, Mergozzo – il più delle volte, non s’accontentano delle mezze misure prediligendo tonalità forti: grigio metallo e antracite sotto la pioggia battente d’inverno; verdeazzurro carico, pieno di vita e di promesse in tarda primavera; dolente e malinconico, pur senza rassegnazione, negli autunni dove il colore delle foglie dei boschi tinge di giallo e arancio il riverbero dell’acqua vicino alle rive. Sul Cusio, nell’ombra di una nuvola che accarezza il Mottarone e fugge via, rapida, verso l’alta Valsesia, irrompe la scia di una barca a motore che taglia a metà l’immagine riflessa per poi lasciare all’acqua il compito di ricomporla, con le forme morbide e mosse di un’opera di Gaudì. Torce le immagini, le confonde. A volte le piccole onde appaiono e scompaiono a pelo d’acqua lasciando immaginare le squame del mostro del lago. Ma ci sarà poi davvero, il mostro del lago? E cosa potrà mai essere? Uno di quei draghi che infestavano l’isola prima che San Giulio li scacciasse, arrangiatosi a vivere nei fondali più scuri per scansare l’esilio? E’ maschio o è femmina, come quella creatura scozzese che non ama farsi fotografare? Questo è il lago d’Orta. E nel lago, questo è certo, vivono quei pesci che hanno poca voglia di farsi pescare. Sostando sulle rive dell’Orta o del Maggiore si avverte subito l’odore dell’acqua. Un odore forte, intenso, d’alga e di sassi bagnati, del legno tirato a lucido e verniciato di fresco del fasciame delle imbarcazioni, di quel vento che viaggiando raccoglie e conserva odori e profumi. Le prime canne da pesca, rudimentali attrezzi di bambù che da ragazzi ci si costruiva da soli, nel tempo si sono raffinate grazie alle mani esperte di artigiani di talento. Ora le usano in pochi, sostituite da quelle lucenti, super tecnologiche, leggere e flessibili come giunchi. Le canne telescopiche al carbonio sono però troppo sensibili per le mani segnate dai calli dei vecchi pescatori. Se proprio occorre ammodernarsi, meglio quelle robuste, affidabili, in solida vetroresina. Si sentono bene al tatto, stringendole tra le dita. Quasi tutti gli amici possiedono canne simili. E spesso, insieme, si va a pescare. Un modo come l’altro per stare in compagnia, rievocando scampoli di vecchie memorie. Secondo voi, tra amici, solitamente dove ci si trova? All’osteria per una bevuta e quattro chiacchiere? Al Circolo per una partita a scala quaranta, una briscola chiamata o una più impegnativa scopa d’assi? Alla balera, per fare quattro salti in compagnia di quelle che un tempo furono ragazze e oggi, sempre più spesso,sono diventate delle vedove? Secondo voi, dove ci si trova? Al bar, al cinema, sulle gradinate di un campo di calcio di periferia guardando l’arrancare dietro una sfera di cuoio giocatori di squadre che spesso perdono, qualche volta pareggiano e raramente vincono? O magari giù in piazza, seduti in fila su una panchina a guardar passare la gente, commentare le novità e le maldicenze, discutendo di sport e di politica? Il mondo è paese, si sa, e anche i passatempi sono più o meno gli stessi. Ma con gli amici abbiamo deciso diversamente. Con rispetto per tutti abbiamo scelto un’altra strada. Intendiamoci: le cose citate le facciamo anche noi, per carità. Si fanno, si fanno ma quando decidiamo di stare in compagnia ci si trova tra di noi in riva al lago. Là dove il Cusio fa una piccola ansa va in scena da tantissimo tempo, quasi fosse una rappresentazione di tragedia greca, l’infinita gara a chi dimostra d’essere il più scaltro tra la combriccola di stagionati pescatori e quei persici diventati, con il tempo e con l’età, sempre più furbi e sospettosi. Chi abbocca? Chi fa la figura del pesce lesso? Noi, facendoci prendere per il naso da quei ciprinidi a strisce – pesci “della Juve” come dice storcendo il naso uno dei nostri, granata fino al midollo – o loro, ingannati dall’esca luccicante e dall’incontenibile golosità? Difficile dirlo. Ci si scambia spesso di ruolo, nonostante la sfuggevole abilità dei guizzanti abitanti del lago. Ma questa è la storia che accompagna le storie di chi è nato e vive sui laghi e che sente scorrere dentro di sé la trama fluida dell’acqua dolce.

Marco Travaglini

Alla Beccaccia una signora “dedita all’altrui piacere”

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La notizia, lì e nei dintorni, girava già da qualche settimana. A mezza voce, tra ammiccamenti e gomitate, si era sparsa la voce che “La Beccaccia”, un’osteria con locanda, ospitasse una signora dedita alla promozione dell’altrui piacere.

Ovviamente, dietro pagamento di una modica somma perché, com’è noto, il “mestiere più vecchio del mondo”, come tutte le attività che si rispettino, non era gratis. Natalino e Pacifico, un po’ per curiosità, un po’ per l’indole trasgressiva che li accomunava, decisero di andare a vedere se quanto si sentiva dire corrispondesse poi al vero. “Un sopralluogo s’impone”, sentenziò Pacifico, che per mestiere s’occupava a tempo pieno della tutela dei lavoratori ( “di tutti i lavoratori”). Ovviamente Natalino, operaio e pubblico amministratore, non obiettò alcunché, trovandosi d’accordo con l’amico in tutto e per tutto. Quindi, inforcate le bici, partirono. La strada non era molta tra il loro paese e quello dell’osteria. Pedalando di buona gamba, i sette chilometri e mezzo s’accorciarono in un baleno e i due amici, raggiunto il campanile del paese, svoltarono a sinistra, imboccando la strada che saliva verso la stazione ferroviaria, dove – un po’ prima dello spiazzo davanti all’edificio – si scorgeva, sulla facciata di una vecchia casa a  due piani,  l’insegna de “La Beccaccia”. Lasciate le bici- nell’apposita rastrelliera collocata tra la Stazione e la locanda, i due entrarono. L’oste, tal Tossichini Aristide, detto “Burbero” per il carattere

ruvido e scontroso, in maniche di camicia, era intento ad asciugare dei bicchieri. Vedendo comparire  sull’uscio Natalino e Pacifico, non tradì particolare curiosità. Continuando a passare i calici nell’asciugamano, senza dire una sola parola e con un cenno del mento, chiese ragione della loro presenza. Un po’ impacciati, i due esitarono a parlare per qualche istante. Poi, incrociato lo sguardo interrogativo del Tossichini, Natalino prese coraggio e, schiaritasi la voce, chiese: “Si può vederla?”. “Burbero”, senza scomporsi più di tanto, con fare svogliato, indicò la scala in fondo al locale che portava al piano superiore. I due amici, ringraziando, salirono svelti i gradini di legno, trovandosi davanti ad un corridoio dove, da una parte e dall’altra, s’aprivano tre

porte. Due a sinistra e una a destra. Quale delle tre era quella giusta? Tentarono a destra ma la porta era chiusa a chiave. Afferrata la maniglia della prima a sinistra, il risultato fu lo stesso: bloccata. Rimaneva l’ultima porta. E questa s’aprì, con un lieve cigolio. Entrati nella stanza, restarono a bocca aperta, sgranando gli occhi davanti alla scena che si presentò  davanti al loro sguardo smarrito. Altro che femmina compiacente e lussuriosa! Nella penombra della stanza, sdraiata sul letto, vestita di nero e con il rosario in mano, s’intravvedeva il cadavere di un’anziana donna.  Ai fianchi del letto quattro grossi ceri accesi diffondevano una luce tremolante e fioca da far venire i brividi. Pacifico e Natalino si guardarono in faccia e, quasi di scatto, fecero dietrofront, uscendo dalla stanza, chiudendosi rumorosamente la porta alle spalle. La scala dalla quale erano saliti con un po’ d’imbarazzo e circospezione, venne ridiscesa in fretta e furia. Quell’impazienza insospettì l’oste che non ci mise molto a capire la situazione, considerando che i due non erano i primi a sbagliare indirizzo e credere che nella sua locanda si praticasse il mercimonio. Rosso in volto, furibondo perché i due avevano scambiato la vecchia zia Giuditta, morta il giorno prima a ottant’anni d’infarto , per una poco di buono, “Burbero” iniziò ad inveire. Brandendo minaccioso una vecchia scopa di saggina, si lanciò all’inseguimento dei malcapitati che, inforcate al volo le biciclette, pedalarono via come due indemoniati. Giunti al paese, trafelati e stanchi, si presentarono ansimando all’osteria dell’Uva Pigiata. Paolino Pianelli, a conoscenza della loro avventura, vedendoli in quello stato, fece l’occhiolino sussurrando: “L’avete vista, eh?”. Pacifico, con un filo di fiato e una buona dose d’ironia, rispose che sì, l’avevano vista. Ma che già al primo sguardo, avevano capito subito che non faceva per loro e se n’erano andati via.

 

 Marco Travaglini

Gino, sei proprio un gatto!

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D’inverno non è raro che le stelle, in fretta e furia, facciano posto a nuvole gonfie di tormenta. Anche la notte dell’Epifania di quell’anno aveva portato con se la neve. Soffice come l’ovatta, leggera come piume d’oca, era planata lentamente a terra, imbiancando tutto

Non che ne fosse venuta tanta, però. Era, come dire, una specie di patina spessa più o meno cinque centimetri.  Non mi aveva preso alla sprovvista. Rincasando, verso le 23, s’intravedevano già dei piccoli fiocchi volteggiare nell’aria. Erano “palischitt“, pagliuzze gelate. Ma promettevano “d’attaccare giù“. L’aria fredda che s’incanalava per le valli del Mottarone fino ad accarezzare le onde del lago, era un “preavviso” della nevicata. Così decisi di usare le pagine di un vecchio giornale per coprire i vetri della mia piccola Fiat amaranto, posteggiata davanti all’osteria del “Gatto e la Volpe”. Così, al mattino, se non ne veniva giù un sacco, sarebbe bastato rimuovere i giornali per avere i vetri puliti ed asciutti,  evitando – ed era la cosa più importante – che gelassero. Quante volte mi era capitato di vedere i vicini di casa, dopo una notte di brina gelata o di tormenta, armeggiare sui vetri merlettati dal gelo con raspe e fiotti d’acqua calda. Quanti vetri rigati o crepati, per la gioia dei carrozzieri che dovevano quanto prima sostituirli. Era più saggio seguire la buona regola del “meglio prevenire che curare”. Così, dopo una notte di sonno profondo, propiziata da quel silenzio ovattato che si crea quando nevica, mi sono alzato alle sei e mezza, anticipando la sveglia. Mi capita così da una vita. Alla sera carico la sveglia, la punto sulle sette meno venti e regolarmente l’anticipo  di una decina di minuti. Così la mia sveglia non suona mai. Se ne sta lì, vigile, scattante, pronta a squillare ma io, per il suo disappunto, ne rendo superfluo il servizio. Che devo fare? Mi viene così, non lo faccio apposta. E sono convinto che, la volta che mi capitasse di scordarmi di puntarla, resterei “impagliato” a letto. Comunque, una volta alzato e vestitomi di tutto punto, uscii. Non nevicava più e l’aria era fina, pulita. Mi avvicinai all’auto e, voilà: in un attimo sfilai via i giornali. Solo in quel momento mi accorsi che Giovanni Melampo mi sta guardando. Non avevo notato che, con il badile in mano, stava liberando l’entrata laterale dell’osteria del “Gatto e la Volpe”, quella che dava direttamente sulla cucina. Mi guardava interessato e, ad un certo punto, esclamò: “Gino, posso dirti una cosa?”. Non feci in tempo a rispondere che il fabbro aggiunse “ Ecco, volevo dirti che sei furbo come una volpe. Ma come ti è venuta in mente l’idea dei fogli di giornale, eh? A tì sé propri un gatt. Sei proprio un gatto. Dai, vieni qui, fammi compagnia. Andiamo a bere un bicchiere dal Mario. Offri tu,ovviamente, per “bagnare” l’invenzione”. Pur di scroccare un bianchino era capace di qualsiasi stratagemma. E quella mattina era toccato a me. Ne scolò tre, uno in fila all’altro. “Ma non ti faranno male?”, gli dissi. “ Io, appena sveglio, bevo due bicchieri d’acqua del rubinetto che al mattino fa solo bene”. Lui, di rimando, mi rispose che “ l’acqua la fa mal, la bev dumà la gent de l’uspedal”. Lui, ovviamente, non aveva niente a che spartire con la “gente dell’ospedale”, precisando che stava benone e il vino non solo poteva berlo ma era una sorta di medicina.Bevendo, Melampo, si lasciò andare ai suoi racconti. Iniziò a parlare delle disavventure del povero Ottorino Gambina, l’operaio del comune che faceva un po’ di tutto, dal cantoniere allo stradino. Ottorino, detto “robinia” per il carattere pungente che ricordava  le spine scure che ornavano i giovani rami delle robinie, era – come s’usava dire dalle nostre parti – un “nervusatt”.

Bastava un nonnulla e s’incavolava di brutto. Soprattutto quando lo prendevano in giro per le sue gambe. Sì, perché – per sua sfortuna – aveva le gambe storte, ad archetto. Sembrava un fantino ( la statura, più o meno, era quella.. ) al quale avevano sfilato il cavallo da sotto, condannandolo a rimanere così, con gli arti inferiori piegati in forma. Aveva ereditato il lavoro dal suo predecessore, noto a tutti come “Mario pulito” che, mantenendo fede al suo soprannome, aveva sempre e tenacemente operato per ottenere, con il minimo sforzo, la massima resa dalla sua attività. A differenza di sua moglie Maria che si  faceva in quattro nel lavorare, Mario era diventato famoso per la proverbiale abilità a sdraiarsi ai bordi della strada, dove, steso su un vecchio plaid, allungava le mani nelle cunette per estirpare le erbacce, con movimenti tanto lenti quanto studiati. Ben attento, sempre, a non faticare troppo e a non sporcarsi gli abiti. Se ne accorse anche il vecchio Hoffman, ben presto pentendosi di avergli offerto il lavoro di giardiniere nel parco della sua villa a Oltrefiume. Mario si sdraiava sotto gli alberi, a fine estate, nell’attesa che le foglie cadessero e solo quando gli alberi erano spogli e il fogliame a terra – con una gran flemma – iniziava a raccoglierle, una a una. “Robinia” , però, era di tutt’altra pasta. Al lavoro sembrava un trattore: a testa bassa, con la scopa in mano, spazzava con diligenza i marciapiedi e il sedime stradale. Finché, non gli capitò “l’incidente”, come lo definì Melampo.  A lè finì cunt el cü per tèra. Sì, perché è bastato il colpo della strega per metterlo fuori uso. E tutto, pensa un po’, per una cartina del cioccolato che stava lì, in mezzo al sagrato della chiesa. Aveva appena scopato per bene e qualche ragazzaccio passando, mentre era voltato di spalle, gliela aveva buttata lì. Nell’atto di chinarsi ha sentito un “crack” alla schiena ed hanno dovuto portarlo a casa così, piegato in due, fino a che il dottore non gli ha fatto un’iniezione. Sembrava che dovesse finir tutto lì, e invece…”. Era sconsolato, il fabbro. “ Tiricordi com’era? Bianco e rosso, sempre pronto a mangiare e bere. Ed ora? E’ magro che  sembra ‘n gatt che l’ha mangià i lüsert. Un gatto che mangia solo lucertole.. La schiena non gli tiene più, è sempre in mutua e si è messo a bere ancor più di quanto non facesse già. Ha proprio una brutta cera”.In effetti, era così. Non sembrava nemmeno più lui anche nel carattere. Era, come dire?, spento, apatico,rassegnato. Se si cercava di tirarlo su, dicendogli che bisognava aver fiducia, che si sarebbe messo a posto, rispondeva – scuotendo la testa – : “Se l’è minga supà, l’è pan bagna”( se non è zuppa è pan bagnato).Era rassegnato a rimanere così, con la schiena scassata e le gambette sempre più divaricate. Melampo, nel raccontare le sue disavventure, si era immalinconito. Ma reagì subito, proponendomi un altro “giro” di calici.“ Dai, Gino,beviamoci su. Anzi, ci bevo su io anche per te, così buttiamo alle ortiche la malinconia. Mi spieghi ancora una volta la pensata del foglio di giornale, eh?”.

 Marco Travaglini

Dantès sull’isola dei pescatori

 

L’isola Superiore, più comunemente conosciuta come isola dei Pescatori, con i suoi cento metri di larghezza per trecentocinquanta di lunghezza a dispetto del nome è la più piccola delle isole del golfo Borromeo sul lato occidentale lago Maggiore, di fronte a Stresa ( la più grande è l’isola Madre, seguita dall’isola Bella). Quest’isola è stata la prima ad essere abitata tant’è che in un decreto vescovile datato 1627 veniva citata come Insella o Insula Superior, distinguendosi dalla vicina Insula Inferior (isola Bella) a quel tempo ancora disabitata. Quella dei Pescatori è anche l’unica isola del golfo che non appartiene al patrimonio dei Borromeo ed è abitata per tutto l’anno da una cinquantina di residenti stabili, da molti gatti e da Dantès, un piccolo e straordinario yorkshire terrier. La pesca, un tempo attività principale, è ancora praticata da alcune famiglie che hanno conservato quest’antica tradizione.

Le tracce di quest’attività s’intravedono un poco ovunque, dal “codino” dell’isola — striscia di terra alberata all’estremità nord — dove s’incontrano le strutture in ferro un tempo usate come supporti per stendere le reti fino al piccolo porto dove sono ormeggiate le barche da pesca e si conservano i resti di una caldaia che veniva utilizzata per tingere le reti, variandone il colore a seconda dell’uso. Un ambiente straordinario e suggestivo che Dantès, cagnolino curioso e vivace, con un pelo setoso e un carattere propenso all’avventura, amava esplorare in ogni suo angolo appena il sole sorgeva lentamente sopra le acque tranquille del Lago Maggiore. Si aggirava nelle strette stradine tra le case dai colori vivaci dove, a dispetto dei luoghi comuni, incontrava moltissimi gatti con i quali aveva stabilito una pacifica convivenza nel rispetto dei reciproci spazi. Nonostante si pensasse che fossero nemici giurati erano tutti dei quattro zampe pelosi che dimostravano, giorno dopo giorno, come potessero vivere insieme, creando un rapporto basato sul reciproco rispetto. L’isola dei Pescatori era infatti conosciuta anche come l’isola dei gatti. Perfettamente integrati nell’ambiente tranquillo e privo di pericoli, erano tantissimi i felini che si potevano incontrare nelle vie del borgo, in gruppo o solitari, a cercare cibo o protezione dal sole e dalla pioggia tra le piante dei giardini, nella piazzetta della chiesa di San Vittore o nelle vicinanze delle trattorie che s’affacciano sul lago. Quando tramontava il sole e anche l’ultimo battello ripartiva, l’isola cambiava aspetto: calava il silenzio e nella quiete notturna i gatti diventavano i veri padroni del territorio. Un giorno, mentre si avventurava vicino al molo, Dantès notò qualcosa di strano: una piccola rete da pesca abbandonata si era impigliata tra le rocce. Avvicinandosi si rese conto che all’interno c’era un pesciolino argentato che guizzava, cercando di liberarsi. Senza esitare il piccolo yorkshire terrier si mise ad abbaiare per attirare l’attenzione dei pescatori, sperando che qualcuno lo aiutasse.

Il primo ad avvicinarsi fu Rossino, uno dei gatti dell’isola. Il felino guardò il piccolo pesce leccandosi i baffi, quasi pregustasse il fresco bocconcino ma Dantès con poche, convincenti espressioni lo dissuase. Un giovane pescatore di nome Marco si avvicinò. “Cosa hai trovato, piccolo amico?” chiese, accovacciandosi per osservare meglio. Dantès abbaiò e indicò con il muso la rete. Anche il gatto, ormai rassegnato, miagolò. Il pescatore comprendendo la situazione si mise subito al lavoro e, con delicatezza, liberò il pesciolino. “Siete stati veramente bravi!”, esclamò Marco, accarezzando sia il piccolo yorkshire che il micio dal pelo fulvo. “Avete salvato questo pesciolino e poi dicono che i cani e i gatti non vanno d’accordo”. Dantès scodinzolò felice e anche Rossino si strusciò ronfando sulle caviglie del pescatore mentre il pesciolino, ormai libero, si allontanò rapidamente nell’acqua limpida. Da quel giorno Dantès, Rossino e Marco divennero grandi amici. Ogni mattina il giovane pescatore portava il cane e il gatto sulla sua barca, e insieme navigavano tra le isole e i paesi del golfo Borromeo. Sia Rossino che Dantès amavano sentire il vento tra il pelo, osservando le onde e il volo di germani reali, svassi maggiori,  cormorani e folaghe che costruivano il proprio nido sulle barche nei porticcioli o direttamente sui moli. La sera prima di ferragosto, quando la processione delle barche da pesca illuminate portava la statua dell’Assunta, partecipavano anch’essi – insieme alla nutrita comunità felina – al grande falò sulla “coda” dell’isola. Ed era festa grande, potendo godere di teste e lische dei pesci finiti in padella o sulle griglie. L’isola, esposta ai venti, il cui nome li distingue per provenienza (il Mergozzo, che soffia dall’omonimo lago, battendo la sponda occidentale; il Maggiore, impetuoso e deciso che dalla Svizzera scende verso oriente; l’Inverna, che si muove in direzione opposta al Mergozzo, increspando leggermente il lago e portando il bel tempo), offriva ai piccoli abitanti riparo nei vicoli stretti e sinuosi tra le case a più piani dai lunghi balconi dove veniva messo il pesce ad essiccare. Diventati delle celebrità locali potevano godere dell’affetto degli abitanti che li conoscevano e adoravano. Inutile dire quanto questa situazione piacesse a Dantès, a Rossino e ai loro tanti amici che abitando sull’isola erano più che felici.

Marco Travaglini

Con un sacco di fieno in fabbrica

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Da vent’anni, riposta nel solaio la bricolla da contrabbandiere, varcava puntualmente alle sette del mattino i cancelli dell’acciaieria di Villadossola. Alto e secco, con l’andatura un poco ciondolante, Ugo aveva alle spalle una vita a dir poco avventurosa.

Già in tenera età boscaiolo, addetto al palorcio della teleferica e all’accatastamento del legname; poi partigiano con Superti in Val d’Ossola e, dopo la Liberazione, contrabbandiere per necessità, arrancando sui sentieri degli spalloni per racimolare qualche misero guadagno per poter mettere insieme il pranzo con la cena e dare una mano alla vecchia madre. Alla morte della genitrice lasciò ad altri i rischi dell’andar di frodo scegliendo di lavorare in fabbrica dove aveva trovato impiego come operaio addetto al laminatoio. La sua era diventata, da quel giorno, una vita più regolare, scandita dai turni in azienda. Aveva così anche il tempo  per dedicarsi alla passione per la lettura, soddisfacendo la sua curiosità di sapere le cose nel mondo. Comprava regolarmente due giornali ( uno era il quotidiano più diffuso, dove trovava anche la cronaca locale; l’altro era L’Unità), divorava libri di ogni genere, andava al cinema appena poteva e frequentava anche gli spettacoli della filodrammatica amatoriale che di tanto in tanto metteva in scena opere classiche e senza tempo sul palcoscenico del teatro comunale.

Era conosciuto e rispettato perché sapeva fare bene il proprio mestiere, sempre attento e puntuale sul lavoro, ben voluto dai compagni del reparto. Ugo era tra quelli che, fieri della propria rettitudine, potevano andare a testa alta. Comunista convinto anche se non aveva mai avuto in tasca la tessera di quel partito perché il suo spirito ribelle non gli consentiva di soggiacere alle regole e alle liturgie della vita di partito. Il suo punto di vista, formatosi nel vivo della lotta partigiana, si era fatto più saldo nell’inferno di calore, polvere e rumore dell’acciaieria. Era lì che era maturata la presa di coscienza di tutta una condizione lavorativa, umana, politica. Era lì che aveva fatto l’amara scoperta che di lavoro si muore perché la vita degli operai valeva meno del profitto. Dopo i bagliori delle lotte sul finire degli anni sessanta era iniziato un periodo opaco. Soffriva molto nell’assistere al tramonto della centralità operaia nell’immaginario della società italiana e nell’orizzonte politico delle stesse forze di sinistra. I segnali che attestavano l’arretramento del movimento dei lavoratori, sottoposto a ripetuti attacchi, l’avevano reso più nervoso e meno accomodante. La figura e il ruolo dell’operaio si erano fatti sempre più complicati e le ultime generazioni erano andate a scuola, avevano studiato maturando la convinzione che la fabbrica non rappresentasse più un’occasione di riscatto sociale, perdendo parte del senso di appartenenza a una ben precisa classe sociale. Tutto era diventato più fluido e la compattezza e l’orgoglio di un tempo erano un ricordo sfocato. Eppure Ugo avvertiva che fra i vecchi e  i giovani c’era ancora uno scambio di saperi e che il nocciolo duro della militanza sindacale e l’etica del lavoro e delle cose ben fatte non erano spariti del tutto. Forse era per via di quelle radici che affondavano nella tenacia di quella cultura contadina di montagna che da quelle parti era cosa seria, dove  l’universo dell’acciaieria con l’altoforno, le colate e i laminatoi era condiviso dai tanti che mantenevano un legame con i campi e gli alpeggi, la fienagione e qualche animale nella stalla. Aveva maturato una consapevolezza che il tempo aveva levigato rendendola disincantata, lucida, a volte venata da una malinconia che veniva ben presto scacciata da quel suo carattere deciso, incline alla battuta arguta, al commento salace. Non perse nemmeno l’abitudine di andare a votare, come amava dire, “in zona Cesarini”. I seggi chiudevano alle quattordici del lunedì e cinque minuti prima del termine ultimo varcava la soglia del seggio, soffermandosi davanti ai tabelloni con le liste. Si prendeva un paio di minuti per far scorrere lo sguardo sui simboli e candidati e poi, ritirata la scheda, entrava nella cabina commentando ad alta voce: “ Vediamo un poco.. Toh, ecco il simbolo di quelli che fanno portare la croce agli altri e quello dei padroni. E l’altro dove sarà mai?? Ah, eccolo qui, Quello che piace a me. Il simbolo degli operai, anche se un poco sbiadito. Un segno qua e un segno là . E anche questa volta ho votato bene!”. Ripiegava la scheda e la infilava soddisfatto nell’urna, salutando presidente e scrutatori con un largo sorriso. Un giorno scelse di manifestare il suo disprezzo per crumiri e per i pavidi che non protestavano e non scioperavano mai presentandosi alla portineria d’entrata con un sacco di fieno in spalla. I due guardiani che sostavano davanti al cancello gli chiesero cosa intendesse fare con quel sacco e lui, serafico, rispose: “Ci sono quelli che portano in fabbrica la schiscetta con il pranzo, il panino o il quartino di vino? Bene. Io ho portato il fieno per dar da mangiare a tutti gli asini che stanno qui dentro. Non ci vedo niente di male, no? Sono una persona generosa, io”. Ugo in fondo era così e niente al mondo l’avrebbe cambiato, tant’é che quando andò in pensione in fabbrica avvertirono tutti, anche quelli ai quali non era mai stato simpatico, un vuoto, un’assenza che rese l’ambiente ancora più povero di quanto non fosse già diventato.

Marco Travaglini 

 

L’Innominabile

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Ve lo ricordate lo jettatore Rosario Chiàrchiaro, magistralmente interpretato da Totò nel film a episodi “Questa è la vita” ? Era il personaggio creato da Pirandello nel racconto “La patente”, dove un uomo con la fama di menagramo decideva di sfruttarla quasi fosse un mestiere per campare, pretendendo la “patente di iettatore” al fine  d’essere pagato per evitare gli effetti dei suoi malefici. Il principe della risata si combinò una faccia da jettatore che era una meraviglia: barba ispida, incolta sulle gote; baffi  stretti e spioventi; un paio di grossi occhiali scuri, un abito e un cappello neri come la pece e un’ espressione  che obbligava , senza indugio, a fare i debiti scongiuri.

 

Nell’immaginario popolare lo iettatore è stato descritto come un essere magro, pallido, arcigno, leggermente curvo, solitario, taciturno, dal naso ricurvo e con occhi grandi e sporgenti, sormontati da folte sopracciglia . Bene, ora che ve lo siete immaginato, dimenticate tutto. Sì, perché il menagramo di cui si parla – che chiameremo a titolo scaramantico “l’innominabile”, era un uomo del tutto normale, impegnato nella vita amministrativa e politica dopo essere stato partigiano,amministratore pubblico, dirigente del PCI. L’unico “neo” era quella reputazione da uccello del malaugurio che lo accompagnava. Era pur vero che un giorno, in un salone per ricevimenti, guardando il soffitto, puntò l’indice verso il grande lampadario esprimendo una perplessità sulla sua “tenuta” e quest’ultimo pochi minuti dopo s’infranse sul pavimento lasciando i presenti sbigottiti e, fortunatamente, illesi. Non fu, ad essere onesti, un episodio isolato.  Per una serie di casi certamente fortuiti, molte delle sue sventurate “previsioni” s’avverarono suscitando, oltre allo sconcerto e all’incredulità di chi non era e non intendeva diventare superstizioso , una forte preoccupazione in coloro che, non pochi,  iniziarono a sospettare che emanasse davvero un’influenza negativa, portando sfortuna al prossimo. Così, di episodio in episodio, pur ammettendo la possibilità del caso, anche gli scettici furono rosi dal dubbio che le  coincidenze diventassero davvero un po’ troppe. Così, quando l’innominabile s’avviava a prendere un volo per Roma, i conoscenti evitavano accuratamente di salire sullo stesso aereo, accampando le scuse più varie.

Nonostante ostentassero indifferenza, tradivano una comune preoccupazione: l’aereo avrebbe potuto cadere e, nel caso, l’unico passeggero che sarebbe senz’altro miracolosamente scampato alla tragedia non avrebbe potuto essere nessun’altro che lui, l’incolpevole portatore sano di sfiga. L’innominabile soffriva molto per questa situazione davvero imbarazzante. Per un po’ aveva fatto finta d’ignorare la cosa ma , con il tempo, la sua “fama” era cresciuta a dismisura e capitava spesso che, incontrando amici e compagni, questi ultimi infilassero in fretta le mani in tasca dei pantaloniper la rituale toccata dei genitali finalizzata a  scongiurare gli effetti della sua presenza. Che tristezza provava nello scoprire che anche delle signore ben vestite e dal portamento elegante si lasciavano andare a gesti volgari, affrettandosi  a fare le corna. Ci soffriva parecchio poiché, essendo d’animo mite, non avrebbe mai e poi mai immaginato di poter arrecare danno alcuno al prossimo. La sua vita e il suo impegno potevano testimoniare l’esatto contrario, con una infinità d’episodi che l’avevano visto protagonista di gesti d’altruismo e di solidarietà. E’ proprio vero che, su cento cose giuste  che si fanno ne basta una discutibile e si è segnati per sempre. Cosa poteva farci? Il lampadario non l’aveva certo staccato lui dal soffitto. Luigi e Carletto, quando erano saliti in auto, erano un po’ “allegri” e lui aveva solo manifestato la preoccupazione che potessero andare a sbattere da qualche parte. Cosa poteva farci se la loro auto, nemmeno un minuto dopo, si era fracassata contro il muro della stazione e i due erano finiti all’ospedale con le ossa rotte?

A Don Giuseppe l’aveva detto per scrupolo che quella candela poteva incendiare la tovaglia dell’altare. Era colpa sua se metà chiesa aveva preso fuoco? E Marcello? Si era infuriato con lui solo perché , notando il platano oscillare pericolosamente a causa del vento, gli aveva suggerito di non parcheggiare sotto quei rami a sua Gilera. Se poi il vecchio albero del viale delle Rimembranze era caduto  sulla moto scassandola tutta era per sua responsabilità o a causa della tromba d’aria improvvisa ? Suvvia, se la gente era un po’ sfortunata non poteva pagarne lui le conseguenze, vi pare? Eppure qualcosa non quadrava se due persone come Arturo e Lido,  assolutamente prive di pregiudizi e solidamente scettiche nei confronti di ogni diceria, avevano maturato qualche ragionevole dubbio in proposito. Una sera tardi, tornando in auto da una riunione nel novarese, passando di fronte ad un capannone sormontato da una grande insegna luminosa che informava di come si trattasse delle “Officine” che portavano lo stesso cognome dell’Innominabile. Arturo non mancò di far notare il caso di omonimia. Come durante le tempeste magnetiche dei film di fantascienza la macchina si arrestò, senza dare ulteriori segni di vita. Motore muto, quadro elettrico senza vita, luci spente, motorino d’avviamento che non girava. Niente da fare. Ai due non restò che andarsene a piedi fino al primo centro abitato, a quasi dieci chilometri. L’unico albergo era chiuso in quella stagione e in giro non c’era anima viva. Girarono a zonzo per un bel po’ e poi trovarono da dormire in un fienile, come due vagabondi. Al mattino, accompagnati da un meccanico che s’ingegnava anche da elettrauto, tornarono all’auto che, appena girata la chiave nel cruscotto, si mise in moto. I due, increduli si guardarono stupiti mentre il meccanico scuoteva la testa. Così, a causa dell’omonimo industriale metallurgico, la fama dell’Innominabile si allargò anche verso i confini orientali del Piemonte, minacciando di varcare il Ticino. Cosa che, per fortuna dei lombardi, non avvenne.

 

Marco Travaglini

“Gesù, perdonami”… Don Siro e il giovane Ardenti

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Il vescovo, l’ultima volta che gli aveva parlato, era stato chiaro. Anzi, potremmo dire chiarissimo. Inequivocabile. “Caro don Siro, lei deve mettere la testa a posto. E’ un parroco stimato dai suoi fedeli che, a quanto mi è stato riferito, non mancano alle funzioni ma…e aveva fatto una lunga pausa, quasi cercasse le parole giuste)..bisogna che non prenda sempre di petto il podestà e chi oggigiorno ha la responsabilità della cosa pubblica. Con i fascisti, piaccia o no, bisogna andar d’accordo. So bene anch’io che sono rozzi, maneschi e non sempre animati delle migliori intenzioni verso il prossimo. Ma noi, caro don Siro, siamo la Chiesa. Non se lo deve scordare. Siamo la Chiesa che guarda e tollera, comprende e non giudica. Si ricordi che solo Iddio può trarre i giudizi. Sono stato chiaro? Adesso vada, su…e si faccia voler bene anche da quei signori in camicia nera“. Era l’ultima, in ordine di tempo, delle lavate di capo che don Siro si era buscato dai suoi superiori.

La Chiesa, pur non condividendo gli atteggiamenti dei fascisti, in particolar modo le bastonature e le somministrazioni di olio di ricino a coloro che venivano individuati come oppositori o, quantomeno, persone non gradite al regime, manteneva un atteggiamento prudente. Don Siro, parroco del paese da vent’anni (ci teneva a precisarlo:“vent’anni,eh.. mi raccomando. Vent’anni e non un ventennio perché la sola parola mi fa uscire dalle grazie e non voglio far peccato mollandovi un bel ceffone”), mal sopportava quei ragazzotti con l’orbace e ancor più gli andavano di traverso quei reduci della grande guerra che si pavoneggiavano imitando la postura del Duce, petto in fuori e gambe larghe. “Andar d’accordo con quelli lì? Madonna mia, come faccio…Sono peggio dei diavoli. Arroganti, presuntuosi e blasfemi. Parlano di Dio e della Patria e poi, alla faccia della carità cristiana, sbattono in gattabuia quelli che non la pensano come loro. Oppure, com’è successo al povero Rossi, gli fan trangugiare un litro e mezzo di olio di ricino. Giù per la gola, a garganella, con l’imbuto. Se non ha tirato fuori le budella nel cesso alla turca nella sua casa di ringhiera, è stato per puro miracolo. E il Luison? E’ un socialista ma è anche una grava persona. Volevano che cantasse Faccetta Nera: si è rifiutato e l’hanno riempito di botte che adesso cammina tutto storto. Ed io dovrei andarci d’accordo? No, cara Madonna: l’è come far peccato!”. Don Siro non era solo una sòca negra, come diceva Geppe. L’abito talare non doveva trarre in inganno. Era sì un uomo di chiesa ma non si poteva dire che non prestasse attenzione e rispetto anche a coloro che la fede l’avevano persa o non l’avevano mai trovata. Soprattutto Don Siro era infastidito dalla violenza dei fascisti. Non sarebbe mai stato in grado di sparare una schioppettata o dar di bastone in testa a qualcuno ma ciò non gli impedì di prendere a calcioni nel sedere l’ultimo rampollo degli Ardenti, famiglia di industriali lombardi che possedevano una gran villa in paese. L’aveva fatto, senza esitazione,  dopo che il diciassettenne eterno avanguardista Furio Ardenti aveva scritto “Noi diciamo che solo Iddio può piegare la volontà fascista. Gli uomini e le cose mai”. Il punto era che quella frase, per il prete, suonava non solo  blasfema ma intollerabile visto che  campeggiava – a caratteri cubitali, tracciati con la vernice nera –  sul muro esterno della canonica. “Gesù, perdonami“, disse mentre sferrava il calcio nelle terga del giovane  fascista. “Perdonami, se faccio peccato ma, credimi, ho le mie buone ragioni“, aggiunse accompagnando le parole con una seconda, vigorosa pedata nel didietro dell’Ardenti, facendogli volar via di botto  il Fez che portava in testa. Il padre del ragazzetto, ma ancor più la madre – una nobildonna secca come un manico di scopa, dal carattere nervoso e suscettibile – andarono su tutte le furie, protestando vivacemente con il Podestà che,a  sua volta, fece le sue rimostranze al Prefetto. Il passaggio successivo era stata la convocazione nel palazzo vescovile, non troppo distanze dalla Basilica sormontata dalla cupola di Santo patrono. Anche questa volta, terminata la lavata di capo, il povero prete si mise in viaggio dal capoluogo al centro più importante del lago con il treno per poi approfittare – da lì al paese – dell’ultima corsa con il  vaporetto, pronto a salpare verso le isole e le località costiere. In cuor suo, Don Siro, si era già quasi dato l’assoluzione.In fondo, quello scatto d’ira era ben giustificato dallo scarso, scarsissimo rispetto che quei signori in divisa scura come la pece portavano alle sue convinzioni religiose e alla pacifica convivenza. “Se proprio devo porgere l’altra guancia – mugugnava tra sé il prete – vorrà dire che, in caso estremo, porgerò anche l’altro piede”. Intrecciò le dita per pregare e sul volto comparve per un attimo un sorriso sornione.

Marco Travaglini

Dantès e l’Olivetti

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All’inizio degli anni ’50 un vivace yorkshire terrier di nome Dantès viveva a Ivrea, capoluogo del canavese. La “città delle rosse torri” era conosciuta in ogni angolo del mondo grazie all’Olivetti, la prima fabbrica nazionale di macchine da scrivere, fondata nel 1908 e destinata a diventare leader nel settore dei materiali per ufficio e poi in strumenti elettronici all’avanguardia, dalle telescriventi alle prime macchine da calcolo meccaniche. Dantès era il compagno inseparabile di un giovane ingegnere che lavorava alle Officine ICO, uno dei luoghi produttivi della Olivetti più innovativi e all’avanguardia, esempio unico per lo spirito imprenditoriale che l’animava grazie alla visione illuminata di Adriano Olivetti.

Dantès era un cane molto intelligente, tanto curioso e intraprendente quanto dotato di uno spirito avventuroso. Ogni giorno accompagnava il suo padrone in ufficio dove l’ingegnere e i suoi collaboratori erano impegnati a progettare e costruire macchine da scrivere e calcolatrici. La fabbrica in quegli anni era un luogo vibrante e pieno di idee innovative, e Dantès guardava quel fermento accoccolato sulla sedia vicino alla scrivania ricevendo coccole dagli operai che passavano di lì e anche qualche bocconcino che dimostrava di gradire molto. Una mattina, mentre il suo padrone era immerso nei progetti, Dantès decise di esplorare il vasto complesso dell’Olivetti. Si allontanò dalla scrivania e si avventurò nei corridoi tra le macchine e i tavoli da lavoro. La sua curiosità lo portò in una grande sala dove si stava stavano discutendo animatamente su un nuovo modello di macchina da scrivere. Dantès attratto dalle voci si avvicinò silenziosamente. Stavano parlando della Lettera 22, macchina da scrivere portatile che avrebbe rivoluzionato il modo di scrivere diventando la preferita dei più grandi giornalisti italiani. Ormai era pronta per essere messa in produzione nello stabilimento di Aglié. Progettata da Giuseppe Beccio e disegnata da Marcello Nizzoli, rappresentava al meglio l’estetica olivettiana. I suoi pregi erano la leggerezza (tre chili di peso) e la maneggevolezza ma anche le caratteristiche tecniche erano destinate a renderla unica e amatissima fino al punto di diventare un’icona, un oggetto di culto. Con grande sorpresa il piccolo terrier notò che Adriano Olivetti era presente. L’uomo, con il suo carisma e la sua visione lungimirante, stava parlando di come la tecnologia dovesse essere al servizio dell’umanità, migliorando la vita delle persone. Dantès, colpito da quelle parole, si accucciò ai piedi di Adriano, ascoltando attentamente. Il proprietario dell’Olivetti, notando il piccolo cane, sorrise e si chinò per accarezzarlo. “Ecco un piccolo compagno che sembra capire l’importanza del nostro lavoro” disse, suscitando le risate dei presenti.

Dantès scodinzolò felice, sentendosi parte di quel mondo straordinario. Da quel giorno divenne una vera e propria mascotte per l’azienda eporediese.  Ogni volta che Adriano Olivetti visitava il reparto il piccolo yorkshire era sempre lì, pronto a ricevere coccole e a portare un sorriso sul volto di tutti. La sua presenza non solo era gradita ma offriva quasi un senso di leggerezza e di gioia rammentando che, oltre ai progetti e ai macchinari, c’era spazio per l’amore e l’amicizia. La fabbrica a misura d’uomo era il sogno di Olivetti che la immaginava non solo come un luogo di produzione da cui trarre il maggior profitto possibile, ma il centro dello sviluppo della società e dell’economia. Un luogo di socializzazione in cui si dovevano produrre oltre che beni, anche idee e sviluppo della persona seguendo la logica che attribuiva all’attività lavorativa il compito di garantire la realizzazione dell’individuo. Con il massimo rispetto per tutti gli esseri viventi. E questo piaceva molto a Dantès. Un giorno, mentre l’azienda preparava il lancio di un nuovo prodotto, il piccolo cane si accorse che il suo padrone era particolarmente stressato. E non solo lui. Decise allora di fare qualcosa. Con una mossa astuta rubò un pezzo di carta da un tavolo e, correndo nei corridoi, attirò l’attenzione di tutti. Gli operai, divertiti dalla vista del piccolo terrier che si muoveva velocemente, iniziarono a seguirlo, lasciando per qualche istante le postazioni di lavoro. Dantès guidò il gruppo verso il giardino della fabbrica, inondato dal sole che brillava alto in cielo. Anche Adriano Olivetti li aveva raggiunti e vedendo la gioia che aveva portato, ben consapevole di quanto fosse importante prendersi una pausa e condividere momenti di felicità, decise di lasciare a tutti il pomeriggio libero. Fu così che Dantès diventò anch’esso uno dei simboli viventi di quell’azienda che credeva nel benessere dei suoi dipendenti. Adriano Olivetti, riconoscendo l’importanza di un ambiente di lavoro sereno e stimolante, incoraggiò l’idea di momenti di svago e socializzazione creando i presupposti di una vera e propria comunità. Dantès continuò a correre tra le scrivanie, piccolo eroe a quattro zampe in un’epoca di grandi cambiamenti, portando gioia e ispirazione in un mondo che stava evolvendo. La sua storia divenne parte della leggenda dell’Olivetti, piccolo ma non secondario simbolo di come anche l’entusiasmo di un animaletto potesse avere una grande importanza nella vita delle persone e nei successi di un’impresa così importante.

Marco Travaglini

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