IL LIBRO DI GIACOMO EBNER

COME (CERCARE DI) SOPRAVVIVERE IN TRIBUNALE

Sono pillole, metaforicamente parlando, quelle che Giacomo Ebner con il suo bugiardino di 89 pagine di spassosa lettura, dispensa per sopravvivere in Tribunale, o meglio per tentare di sopravvivere. Per la precisione, il titolo è “Dodici qualità per sopravvivere in tribunale (e non è nemmeno certo) della Giappichelli Editore di Torino

 

Ne hanno parlato con l’autore, la presidente della Fondazione Scuola Forense, avv. Paola Donvito e l’avv. Simona Ciarrocchi, a Taranto nell’Auditorium “Avv. F. Miro”del Tribunale. Le compresse, continuando nell’allegoria, contengono più principi attivi di saggezza, e non solo, ma anche di realismo, visto che il dottor Ebner, risulta molto attento ai suoi pazienti che descrive con dovizia di particolari, in forma leggera ma non superficiale, come riferisce nella “Prefazione” l’avvocato Chiara Madia.Le compresse poi sono varie, ben colorate e colorite, ricche di aneddoti, di particolari curiosi, inediti, densi di significati e ricreativi, ottenute per compressione di un volume di principi attivi che diversamente sarebbe molto più esteso, e destinate ad una somministrazione verbale. I loro bordi possono risultare smussati. Possono inoltre presentare linee o segni di rottura, per favorirne la suddivisione, e riportare simboli (i disegni sono di Stefano Ebner) o altri marchi (quelli degli autori delle varie citazioni riportate). Sono inoltre rivestite con sostanze diverse per motivi estetici o bio-farmaceutici, come nel caso delle compresse gastro-resistenti o a rilascio modificato. Queste sostanze di rivestimento sono costituite di ironia, comicità, e sono indispensabili per la riuscita della terapia, perché come dice Chiara Madia, una risata può seppellire il peggiore dei nemici. Concetto che abbiamo voluto subito fare nostro, come si vede dal taglio dato sin dall’inizio a questo scritto.

Nella terapia di Ebner, si parla dei pazienti e non della malattia come in ogni buon metodo di cura omeopatica, dove ci si prefigge di curare il malato e non la malattia, secondo il principio dell’individualità che considera ogni paziente nella sua unicità e lo osserva nella
sua complessità di sintomi, segni, costituzione, ereditarietà, ambiente lavorativo, affetti, traumi, alimentazione, e tutto ciò che interferisce con la sua vita in Tribunale. Sì, in Tribunale, “una foresta intricata di sentimenti, di aspettative, di rabbia cieca, di calca insensata; di gioia irrefrenabile, di promesse e premesse, di speranza oltre la preghiera, di risate in lontananza, di silenzi tesi”, come si legge nello scritto. Il tutto è tratto da una storia vera, quella dell’autore, Giacomo Ebner, nato a Roma, che fa tesoro della sua esperienza e della sua capacità di cogliere molti particolari della realtà e la sua veste più profonda, in chiave ironica, che fa parte della sua personalità e che quindi emerge spesso, proprio a partire dalla sua persona. Come si legge nel retro della copertina, “voleva diventare medico, ha preferito fare l’ammalato. Da dodici anni convive con il Parkinson, e con fierezza sostiene di essere un magistrato che trema senza paura. È stato avvocato, poi giudice del dibattimento e delle indagini preliminari. “ I pazienti a cui si rivolge, sono tutti quelli che mettono piede in Tribunale, i praticanti avvocati, i magistrati ordinari in tirocinio, gli stagisti delle scuole legali o delle università, gli interpreti, i trascrittori, gli imputati e i testimoni. Ce n’è per tutti, ma in particolare per i magistrati (pubblici ministeri e giudici) e gli avvocati, nelle loro diverse tipologie. I principi attivi hanno le qualità della credibilità, del rispetto, della passione, del buonsenso, della gratitudine, della comprensione, del discernimento, dell’empatia, della dialettica, dell’intuito, della riesilienza e dell’autoironia. La malattia, infine, viene solo considerata in modo essenziale nelle “Conclusioni”. È dovuta sostanzialmente alla differenza tra la legalità e la giustizia. “La prima è così umana nella sua limitatezza e nel sapore di insoddisfazione che a volte lascia; la seconda quasi divina, appagante, perfetta”. Il malessere parte tutto da questa realtà : “Alcune persone litigano per predisporre una regola che altre persone, a volte litigando, applicano ad ulteriori persone che hanno appena litigato” , scrive Ebner. E “sono i genitori con i figli, gli insegnanti con gli studenti, i commercianti con i 730, i politici con le pressioni che ricevono, i giornalisti con le verità scomode, che rendono la legalità strumento concreto ed efficace del vivere assieme” e “sono però proprio le persone che nel proprio quotidiano la testimoniano che danno valore e sostanza alla legalità e le fanno toccare vette di giustizia”. Poi “Nella parola legalità è contenuta la parola lealtà. Lealtà vuol dire osservare la legge anche se nessuno ti guarda e nessuno ti punisce. (…) E per osservare la legge con lealtà ci vuole tanto coraggio. Ancora più coraggio ci vuole ad applicarla sia per difendere qualcuno, sia per portare avanti un’indagine, sia per giudicare, perché non coinvolgi solo te stesso ma anche gli altri” precisa Ebner. Compito, di per sé molto arduo. Ed è ancora l’avvocato Chiara Madia che nella “Prefazione”, tocca lo stesso tasto e scrive : “Nessuno, se non gli avvocati e i magistrati, può immaginare quanto sia complicato e impegnativo il ruolo che ci siamo scelti: la responsabilità della strategia difensiva e il rapporto con il cliente da una parte, la responsabilità della decisione dall’altra”. Ecco perché nelle preferenze dell’autore, al primo posto c’è prepotentemente “colui che entra in Tribunale….ovviamente con la possibilità di uscirvi”. E lui si adopera per questo obiettivo. Da qui la sua cura elaborata per salvaguardare l’esistenza di costui, affinché possa sopravvivere, credendo, l’autore, “nel genere umano e nella sua capacità di redenzione”, perdonando le reciproche debolezze e collaborando per il migliore risultato finale possibile (cit. Chiara Madia). Infine, tenendo conto del motto saggio e ironico di Giacomo Ebner, “siamo tutti appesi ad un filo, e io sono anche sovrappeso”, con il suo stesso spirito saggio e ironico che ci ha conquistati dalla prima pagina letta, pensiamo che bisognerebbe cercare di non appesantirci più del dovuto, tenendo lontani i macigni dal nostro cuore, per essere i più leggeri possibile, evitando così che possa spezzarsi prima del tempo, il filo a cui siamo appesi.

Vito Piepoli