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Torino, il decoro che non c’è

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C’è chi si entusiasma per i grandi eventi, i saloni dell’auto, le passerelle del turismo. E poi c’è la Torino reale, quella che si incontra appena si abbassa lo sguardo: scritte a bomboletta sui muri, portici storici scrostati, marciapiedi che raccontano più incuria che eleganza. Sorvoliamo – per pudore o rassegnazione – sui furti, sulle aggressioni, sulle cronache di microcriminalità che ormai non fanno più notizia.

La foto di un uomo che si denuda in pieno giorno in zona San Secondo – segnalataci dal Consigliere della Circoscrizione 1 Antonio Di Nardo – è solo l’ultima, eloquente, istantanea di un degrado che non nasce in una notte. Non è un fatto di colore, ma il sintomo di un clima. Perché la sporcizia, il lassismo e la scarsa cura del decoro urbano sono sempre l’anticamera di problemi sociali più gravi. Si comincia con un portico lasciato scrostare, con una scritta mai cancellata, con un lampione spento per mesi. Si finisce per abituarsi a tutto.

La città che un tempo dava lezioni di industria e civiltà rischia oggi di dare lezioni di indifferenza. E il peggio, si sa, non arriva mai all’improvviso: si prepara ogni giorno, un graffito alla volta.

Iago Antonelli

Pacifisti e pacifinti

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Pacifisti? A Torino e Napoli bruciano l’effigie di Meloni, a Milano lasciano sessanta poliziotti feriti. Se questa è la pace, figurarsi la guerra.
Le frange estremiste si infilano dietro le bandiere pro-Palestina e trasformano ogni corteo legittimo in una palestra d’odio.
Il risultato: un messaggio che poteva avere un senso politico sepolto sotto fumogeni e spranghe.
La pace non si conquista a bastonate, ma provate a spiegarlo ai nuovi “nonviolenti”: vi rispondono con un sanpietrino.

Iago Antonelli

Diritto alla casa sì, diritto all’abuso no

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Leggo su Torino Cronaca  dell’ennesima storia di case popolari finite sotto assedio, non da parte di chi ha un diritto riconosciuto e documentato, ma di chi decide che il diritto è una scorciatoia da prendersi con le chiavi false dell’occupazione abusiva. Case poi “liberate” grazie alla polizia municipale ma con un lascito di – parrebbe – un milione di danni. La chiamano “emergenza abitativa” – e nessuno nega che l’emergenza ci sia, eccome: le liste d’attesa parlano chiaro, le famiglie che aspettano pure. Ma c’è una differenza sostanziale tra il bisogno e la prepotenza.

Il problema è che, a Torino e in Italia, la pietà si confonde troppo spesso con la resa. Non si tratta di criminalizzare la miseria, ma di ricordare che una casa popolare non è un regalo di Natale: è un bene pubblico, che va a chi rispetta le regole e ne ha diritto. Se cominciamo a giustificare l’occupazione abusiva in nome del “poverino”, domani sarà legittimo pure saltare la fila al pronto soccorso perché “l’urgenza è vera”.

Il risultato? Chi aspetta onestamente rimane fregato due volte: la prima perché resta senza tetto, la seconda perché vede premiato chi scavalca la legge. È il solito teatrino: l’emergenza diventa alibi, l’abuso diventa prassi e alla fine ci si domanda come mai il rispetto delle regole sia ridotto a un optional.

Ecco allora la triste ironia: le istituzioni predicano legalità e giustizia sociale, ma quando la porta viene forzata, preferiscono chiudere un occhio, a volte entrambi, come se fosse più semplice e persino giusto proteggere l’abusivo “bisognoso” che difendere il cittadino onesto. Ma così l’emergenza non si risolve: si istituzionalizza l’arbitrio.

Iago Antonelli

Piange il telefono: le nobili rovine delle cabine telefoniche

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C’è qualcosa di malinconico, ma anche di indecoroso, nelle vecchie cabine telefoniche che ancora resistono qua e là, arrugginite e scassinate, come relitti di un’epoca che non tornerà. La loro rimozione – ci dicono i piani ufficiali – doveva essere già storia chiusa, e invece eccole lì, in Borgo San Paolo come altrove, come ci segnala il lettore Luigi Gagliano, con le porte che cigolano, i vetri scheggiati, i telefoni pendenti a mo’ di lingue stanche.

Qualcuno, furtivo, si aggira a scassinarle per rubare le poche monete dimenticate, e in questo piccolo atto di sciacallaggio c’è tutta la misura del nostro rapporto con il passato: non lo custodiamo, lo lasciamo marcire, e poi ce ne lamentiamo.

Eppure quelle cabine hanno avuto una vita nobile. Sono state il confessionale laico di generazioni che lì dentro hanno pianto, litigato, dichiarato amori e dato addii. C’era un’epica minuta nel gesto di infilare il gettone o la scheda, nell’attesa del “pronto”, nell’eco metallica della voce amata che arrivava da lontano. Erano spazi di intimità pubblica, dove il mondo si fermava per pochi minuti, chiuso in un parallelepipedo di vetro.

Ma ogni gloria, se abbandonata a se stessa, rischia la caricatura. Quelle cabine oggi non sono più monumenti, ma rottami. Non parlano più di romanticismo, ma di incuria. Tenerle lì, così, non è rispetto: è abbandono. Se davvero vogliamo onorarne la storia, bisogna avere il coraggio di rimuoverle. O si restaurano come cimeli museali – e pochi, scelti – o si tolgono dalla strada, perché la ruggine non diventi il loro epitaffio.

È la legge delle cose: ciò che è stato grande non merita di finire in rovina. Meglio un addio dignitoso che una sopravvivenza da rudere

Iago Antonelli

Il dissenso non è guerriglia da cortile

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Ieri all’istituto Zerboni di Torino,  all’arrivo del ministro Valditara una trentina di militanti del collettivo Ksa ha pensato bene di trasformare il dissenso in guerriglia da cortile. Cori, insulti, spintoni con la polizia, fino al punto da costringere le forze dell’ordine a ricorrere ai lacrimogeni. Non proprio il manifesto di una gioventù che ha voglia di confrontarsi.

Che la contestazione sia legittima non c’è dubbio: siamo in democrazia, e in democrazia chiunque ha il diritto di dire “non sono d’accordo”. È il sale della vita civile. Ma altra cosa è impedire all’altro di parlare, riducendo il dissenso a rissa, a sopraffazione fisica, a intimidazione.

Chi zittisce l’avversario non difende la libertà: la uccide. Chi scambia la violenza per coraggio non è un ribelle, ma un conformista del peggio, che si limita a replicare i metodi che dice di combattere.

Si può applaudire da una finestra, si può fischiare da un marciapiede, si può perfino voltare le spalle: tutto questo è democrazia. Ma quando serve il gas lacrimogeno per proteggere il diritto di parola, vuol dire che la protesta ha già smesso di essere protesta. Ed è diventata qualcos’altro: una caricatura della libertà che pretende di difendere.

Iago Antonelli

Torino scopre l’acqua calda: chi assiste un malato è solo

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In Italia sono oltre sette milioni le persone che si prendono cura, gratis e senza contratto, di un familiare non autosufficiente. È il più grande esercito irregolare del Paese, senza paga, senza ferie, senza pensione: ma con tanta retorica addosso.

A Torino, i numeri non sorprendono: più di un cittadino su due (51%) conosce qualcuno che vive questa condizione. E quasi due torinesi su tre (61%) indicano nella solitudine la principale difficoltà. Davvero un lampo di genio sociologico: se lo Stato ti lascia solo, cos’altro puoi provare, se non solitudine?

Il dramma, però, non è nei dati, ma nella loro inutile ripetizione. Li snoccioliamo con aria grave, ci commuoviamo un momento, e poi passiamo al prossimo talk show. Tanto i caregiver continueranno a fare ciò che hanno sempre fatto: arrangiarsi. È la specialità nazionale, più antica della pizza e più radicata della burocrazia.

E mentre li celebriamo con le solite parole d’ordine – “resilienza”, “coraggio”, “dedizione” – resta una certezza: lo Stato applaude, purché non costino un euro.

Iago Antonelli

Quando lo sciopero fa “clic”

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Il diritto di sciopero è sacrosanto. Non si tocca. È uno dei pilastri della democrazia, ed è costato sacrifici che nessuno ha il diritto di dimenticare. Ma, proprio perché è un diritto prezioso, non dovrebbe essere svilito in abitudini che finiscono per screditarlo.

Una domanda, allora: perché mai gli scioperi, con una costanza quasi matematica, si concentrano al venerdì o al lunedì? Sarà un caso, certo. Ma il sospetto che servano più ad allungare il weekend che a difendere i diritti dei lavoratori viene spontaneo, e non soltanto al borghese brontolone.

E ancora: è normale che dall’inizio dell’anno se ne contino quasi cento? E che molti non abbiano neppure a che fare con le condizioni salariali o contrattuali degli italiani, ma con vicende geopolitiche mondiali, dalle guerre in Medio Oriente al clima globale? Tutto nobile, tutto legittimo. Ma a forza di scioperare per tutto, non si rischia di togliere forza e credibilità proprio a chi sciopera per davvero, per paghe troppo basse o per turni impossibili?

Lo sciopero è un’arma pacifica. Ma un’arma usata troppo spesso si scarica. E allora, quando servirà davvero, rischia di fare solo “clic”.

Iago Antonelli

Campo largo o minato?

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Chiara Appendino ha appena servito al centrosinistra torinese un piatto che si chiama “campo largo, ma non troppo”. Tradotto: il Movimento 5 Stelle è pronto a sedersi al tavolo con il Pd, a patto però che il sindaco in carica, Stefano Lo Russo, lasci la sedia vuota. E poco importa se governa da soli quattro anni: per Appendino è già il volto stanco di un sistema da archiviare.

Ora la palla passa a Elly Schlein, che dovrà decidere se difendere il suo primo cittadino o sacrificare la continuità sull’altare dell’unità. In un Paese normale la politica si farebbe sui programmi; a Torino, come spesso accade, va in scena il teatro dei personalismi. I protagonisti discutono più di nomi che di idee, più di candidature che di progetti. E il cittadino comune, quello che vorrebbero riportare alle urne, assiste attonito e magari sceglie ancora una volta l’astensione.

Non va meglio sull’altro fronte. Il centrodestra, che a parole si dice pronto a riconquistare la città sabauda, non ha ancora trovato il proprio alfiere. Il toto-nomi gira da mesi, ma di candidato vero non se ne vede l’ombra. Così, mentre a sinistra si litiga su chi deve farsi da parte, a destra non si sa nemmeno chi dovrebbe farsi avanti.

È il paradosso della politica torinese: un campo largo che rischia di diventare un campo minato e un centrodestra che somiglia più a un circolo di caccia senza preda. In tutto questo, la città aspetta qualcuno che parli di lavoro, trasporti, casa, servizi.

Iago Antonelli

Nella foto la Sala Rossa di Palazzo Civico

Passeggiata tra i rifiuti

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Passeggiata in città: c’è chi trova parchi e chi trova… rifiuti. Via Frossasco: armadio abbandonato da giorni, quasi fosse arte moderna. Giri l’angolo: rovistatori che svuotano i bidoni e spargono tutto a terra. Alla Conad? Altri rifiuti fuori dai cassonetti, perché dentro è troppo mainstream. E la colpa? Amiat? No, dei signori zozzoni, specialisti del degrado urbano. I servizi scricchiolano, è vero, ma chi butta per strada resta il primo responsabile. Forse servono più controlli. Sicuramente servirebbe più vergogna.

Iago Antonelli

(La foto e la segnalazione sono di  Luigi Gagliano)

Cani e gatti non sono pacchi di contrabbando

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Si dice “il cane è il miglior amico dell’uomo”. Già. Ma troppo spesso l’uomo si conferma il peggior nemico del cane. La cronaca ci racconta dei cuccioli di labrador venduti in provincia di Torino come merce da contrabbando: senza pedigree, senza microchip, senza garanzie sanitarie. In pratica: pacchi da sballare, non esseri viventi.

Ora, la questione non è soltanto legale, ma culturale. Finché gli animali saranno trattati come oggetti da esibire, status symbol da pagare a peso d’oro, ci sarà sempre chi se ne approfitterà, lucrando sulla pelle – è il caso di dirlo – di creature indifese. La verità è che chi vuole davvero un cane o un gatto non ha bisogno di mercati grigi e allevatori improvvisati: basta varcare la soglia di un canile o di un gattile. Lì, dietro le sbarre, decine di occhi aspettano da anni qualcuno da amare, senza chiedere pedigree o certificazioni.

C’è chi obietta che un quattrzampe preso in adozione “non è di razza”, come se l’amore avesse etichette. È un’illusione borghese che fa più male agli animali che bene all’uomo.

Ecco allora l’importanza di leggi come quella voluta da Michela Vittoria Brambilla, che finalmente riconoscono gli animali come esseri senzienti e non come beni di consumo. Pene più severe per chi maltratta, traffica o abbandona non sono vendetta: sono giustizia minima, è la società che si ricorda di avere una coscienza.

Perché se non siamo capaci di rispettare chi non ha voce, difficilmente riusciremo a rispettare anche noi stessi.

Iago Antonelli