Diario minimo urbano

Lagnanze inascoltate per il servizio GTT? “Telefonate al Papa!”

Diario minimo urbano…Vedere e ascoltare per credere

Di Gianni Milani

Incredibile, ma vero! Il fatto “minimo” che voglio oggi raccontarvi mi è capitato qualche mese fa, ma ancora non riesco a dimenticarlo. Sono alla fermata del tranvai numero 13 (quello ancora su binario e non in forma più moderna e chiccosa del bus); per la precisione, mi trovo all’angolo fra il corso Svizzera e via Nicola Fabrizi, davanti ad una deliziosa panetteria gestita da una altrettanto deliziosa e gentile madama panettiera. Vedo il tram spuntare in lontananza: é  alla fermata che fa angolo con il corso Lecce. Ho tempo di osservare con calma – mi dico – la durata del biglietto da obliterare, appena acquistato in tabaccheria”. Con calma, perché il tratto che ci separa sarà truc e branca poco più di duecento metri, coperti solitamente fra semafori rossi e code d’auto in non meno di 2 – 3 minuti. Sì, vatti a fidare! Non sarà passato neppure un minuto che il tram è già qui davanti a me. Al miracolo!, mi verrebbe da gridare. Se non che subito mi accorgo che non di miracolo trattasi. Anzi! Le porte si aprono e si chiudono che manco un fulmine, con borse, giacche e oggetti vari incastrati fra le antine, con l’imprevista frenesia di chi ancora deve scendere o salire, con fiochi lamenti del tipo di oh mi mi povra dona e altri più giustamente incazzosi del tipo ma checcazzo, che minchia di fretta hai, rivolti al conducente. Eh sì, il conducente ha proprio una fretta del diavolo. Provetto pilota, però. Scambia le vie che portano al centro città per la pista di Maranello.

Forse gioca a fare Leclerc, un Leclerc che ha sbagliato macchina, invero. Và pi pian, gli urla un’arzilla donnina agganciata all’alto scorrimani quasi senza toccare terra, mentre un’altra un tantino meno arzilla si trova catapultata in braccio al distinto signore che le siede davanti con in braccio un rassegnato barboncino che non ha nemmeno la forza di emettere un bau. Oh my God! Where are we ended!!. Woh, that driver is a good pilot. Ci mancavano solo i turisti inglesi, maschietto e femminuccia con zainoni alle spalle da sei posti! A casa, di Torino si porteranno anche il ricordo di questo folcloristico viaggio mozzafiato per le vie del centro cittadino. Corso Tassoni, piazza Statuto e Porta Susa sono tappe da incubo. Io devo arrivare in piazza Castello. Ci rinuncio. Meglio scendere in via Pietro Micca o, meglio ancora, in via Cernaia. Boia fauss,ferma stu tram,badola. Dallo pseudo-Leclerc non una parola. I gialli sembrano essere i suoi semafori preferiti. Meglo dei verdi. A volte rallenta per non beccarne manco uno. Le curve sono il suo pane. Le affronta con spavalderia e, immagino, con ghigno satanico. E chi lo ferma? Fra teste che ondeggiano in burrasca intravvedo finalmente la fermata di via Cernaia. Scendo di corsa. Barcollando un po’.

A terra mi viene però spontaneo cercare di capire e guardare in faccia l’impavido driver. Il semaforo, per lui, è rosso. Che rabbia! Lo fisso dal finestrino con aria fra il rimbrotto incazzoso e l’ironico. Anche lui mi fissa. Ma sembra non vedermi. Ha solo voglia di ripartire alla garibaldina. Mi tolgo lo sfizio. Gli faccio un bel battimani. Come dirgli bella prodezza, ma cambia mestiere! E qui succede l’incredibile. Lui apre il finestrino, gli occhi fuori dalle orbite, così risponde al mio battimani: Cazzo vuoi?Se hai da lamentarti, telefona al Papa! Telefona al Papa?! Resto sconvolto. Senza parole. Una vecchietta, al mio fianco, anche lei sopravvissuta al drammatico tragitto, mi guarda incredula: Al Papa?Ma basta là, a jé pi nen religiun. Io non reagisco. Ho pensato: delle due l’una. O mi trovo di fronte ad un’arroganza, a una maleducazione e ad un’ignoranza senza limiti. O quel poveretto è andato a sbattere di brutto contro qualche inciampo della vita, di quelli che ti tramortiscono e non ti lasciano scampo. E oggi vive impotente una rabbia che lo divora. Contro tutto e tutti. Ho optato (non so perché) per la seconda ipotesi. Gli ho sorriso, senza più ironia. E un po’ l’ho compatito. Lui, come tutti i passeggeri che ancora dovevano arrivare (poveri!) al capolinea della Gran Madre.

Gianni Milani

Mala Solitudine

Diario minimo urbano…vedere e ascoltare per credere

di Gianni Milani

Mi devi credere! Io non ho mai invidiato nessuno. Non ho mai invidiato chi aveva più soldi di me. Non ho mai invidiato chi faceva un mestiere migliore o più gratificante del mio. Non ho mai invidiato chi aveva il ‘potere’. Quello poltico compreso. Pausa. E un sorso lieve di bianco. Genio (Eugenio) è così. Profondo e di buona e acuta parlata, anche di mattino alle 9 davanti a un calice di bianco. Lo incontro spesso. Abitiamo vicini. Qualche volta, lo confesso, la fretta di una ripetitiva quotidianità mi ha indotto a cambiare percorso per non imbattermi nelle sue interminabili necessità di scambiare “due (interminabili) chiacchiere” con qualcuno. Conosco Genio da una trentina d’anni. Da quando insegnavo alla “Pascoli” di piazza Bernini, oggi sede dell’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo. Lui ha due anni più di me. Siamo anzianotti, ma non ancora vecchissimi. Eppure il tempo si è abbattuto su Genio, pian piano negli ultimi anni, con una ferocia e  una tracotanza impietose all’eccesso. Lo ha stritolato e continua a stritolarlo come un potente macinapietre. La scomparsa, una decina d’anni fa, della moglie Caterina, donna dolcissima e di raffinata intelligenza, è stata per lui una mazzata di quelle che non ti lasciano varchi di recupero. Solo. Con due figli. Uno ancora molto giovane e con problemi di salute, ora fortunatamente risolti. Oggi sono entrambi laureati. Lavorano, hanno una compagna e vivono fuori casa. Papà Genio è solo. Forse da una decina d’anni. Per carità, vengono a trovarmi…ci mancherebbe. Le compagne un po’ meno…lavorano! L’importante è questo, vuole dire. Ho  incontrato Genio, qualche mattina fa. Era seduto, unico cliente alle 9 del mattino, nel dehor di uno dei tanti bar del corso. Sul viale di fronte il  via vai e il forte solito brusio del mercato. Guardava il cielo e il vuoto, davanti a un calice di bianco. Dimesso, incurante di sé e degli altri più del solito. Eppure Genio era un tempo uomo brillante, con quell’aspetto un po’ sessantottesco che amava non scrollarsi di dosso e quell’aria da piacevole intellettuale che gli calzava a pennello. Alto, curato nel vestirsi, sia pure a modo suo, capelli ben tenuti e occhialini da eterno studentello. Oggi per lui, la vita è un vuoto a perdere. E anche il suo corpo riflette il suo disinteresse per tutto e tutti. E per sé, soprattutto. Leggermente ingobbito, abiti non proprio freschi di bucato, trasandato che basta, capelli lunghi e giallognoli, barba bianca da tempo lasciata crescere per conto suo e in cui affonda una ballonzolante mascherina, passo lento e affaticato. Nottataccia? Provo a chiedergli, trovandomelo di fronte. Lui alza lo sguardo e abbozza un sorriso accompagnato da un gesticolare di  mani che mettono ancor più in evidenza un tremolio che é ormai suo sgradevole compagno di viaggio. Ma, per me, le notti – sogghigna – sono tutte uguali. Cosa vuoi? Qualche Tg, qualche cruciverba, qualche libro. E poi nanna…quasi subito dopo Carosello. Ricordi?A letto dopo Carosello, ci dicevano i nostri vecchi. Oggi i vecchi siamo noi! Perché me lo ricorda sempre, cavoli? E poi la tiritera dell’“invidia”, di cui sopra. Eppure oggi qualcuno che invidio, e anche tanto, c’é. Sai chi invidio? Quelle coppie di vecchietti, marito e moglie, che camminano piano per strada tenendosi per mano. Sorreggendosi a vicenda, in tutti i sensi. Ecco, quelli li invidio proprio. Vorrei poterlo fare anch’io con la mia Cate. Gli sorrido. Inutile ogni parola. “Beata solitudine, isola benedetta”cantava anni fa, per  ragioni sue, l’indimenticato Battiato. E, come lui, tanti la pensano e la penseranno così. Non Genio. Gli do una pacca sulla spalla. “Ciao, Genio, alla prossima”. Lui alza il calice, in segno di saluto. Ancora un sorso. L’ultimo. Una decina di metri dopo, mi giro. Genio è in piedi. Pensieroso. Torno a casa, dove ad aspettarmi, sempre e in ogni istante e ogni giorno, c’è quell’odiosa mala solitudine o mi faccio ancora un bar?La decisione viene con la velocità di una saetta. Genio s’incammina pian piano verso l’ultimo (non della giornata) bar. Quello più vicino. All’angolo del corso.

La Benedizione degli zainetti

Diario minimo urbano. Vedere e ascoltare… per credere

Di Gianni Milani

 

Che piacevole sorpresa. Dopo mesi di rinuncia (confesso: per la mia paura di assembramenti, pur se ben attenzionati, al chiuso) alla Santa Messa domenicale – per me da sempre, o quasi, appuntamento irrinunciabile – domenica scorsa, 12 settembre, vigilia dell’apertura del nuovo anno scolastico, ho salito i gradini della storica Parrocchia “Beata Vergine delle Grazie” di corso Einaudi alla Crocetta di Torino. Intenzionato, una volta per tutte, a recuperare le buone (ahimé,non molte) abitudini. E ho preso – come suol dirsi – Messa. In una domenica che mi porto ancora nel cuore e che proprio per quella mia, forse “guidata” (da chi? da cosa?), decisione mi ha procurato momenti di grande, imprevista felicità. E serenità. Benessere che mi mancava da tempo. Fra i banchi e fuori sul sagrato, tantissimi bambini. Bimbe e bimbi, accompagnati da mamme e papà e nonni. Sulle spalle enormi, esagerati per quelle ancor tenere membra, zainetti. Meglio zainoni. Megagalattici, superstellari, coloratissimi, disegnatissimi. All’ultimo grido. Quelli lanciati dai video-social, immagino. Vuoti, ho sperato. E pensa quando saranno pieni? Mi sono detto. Eh sì, quella di domenica 12, era proprio la Messa dedicata alla benedizione di quelle montagne, dagli umani chiamate zainetti, caricati a spalla dai “portatori”, pur gioiosi e sorridenti pargoletti. Benedizione tutta meritata. Prima da loro e poi dagli zainetti. Comunque, bella iniziativa. Credo programmata anche in altre Parrocchie e sotto altre forme. Un gesto e un segno di speranza. Volti sorridenti. I bimbi della stessa classe o scuola o anche di scuole diverse che si ritrovavano, che tornavano a guardarsi negli occhi dal vivo, a stringersi le mani, a raccontarsi mille, più o meno improbabili, avventure. Ad alzare al cielo, al passaggio del giovane viceparroco don Francesco – ragazzo fra i ragazzi barba e capelli neri pettinati con simpatica e rapida disattenzione- i loro supercontenitori di materiale scolastico tesi ad accogliere dall’aspersorio le gocce volanti, qui e là, della benedizione. In quegli zaini e per tutto l’anno scolastico – ha ricordato ai bimbi il giovane don – fateci stare dentro tante domande, tante curiosità. Non abbiate paura di chiedere. Le risposte alle vostre domande vi aiuteranno a crescere.  E poi non dimenticate di riporvi anche la fatica. Quell’impegno che dovrà accompagnarvi per la vita, pur se a volte compagno scomodo e un po’ noiso. E infine l’umiltà”. Sagge parole. I secchioni consci di esserlo e vogliosi di ostentarlo non sono mai piaciuti né ai compagni di classe, né agli stessi insegnanti. Per lo meno, a quelli più intelligenti. Insieme alla benedizione è stata anche ditribuita all’interno della Chiesa (a un centinaio di metri dall’austera casa in corso Galileo Ferraris 70, dove nel 1901 nacque il beato Pier Giorgio Frassati, il “giovane dalle 8 beatitudini” scomparso a soli 24 anni nel 1925, e a cui la Parrocchia della Beata Vergine ha intitolato una Cappella, cuore spirituale della Chiesa ed oggi spazio dedicato alla Pastorale giovanile) una breve ma intensa preghiera stampata su fogli di diverso colore. Un passo recita Signore…aiutami a imparare le cose belle della vita e a condividerle con chi mi è più vicino, oggi e domani. “Condividerle”. Che bel verbo e che bell’insegnamento cristiano e sociale – ho pensato fra me e me – in tempi che hanno perso, per varie ragioni, il gusto della condivisione. Già prima del periodo pandemico, pratica assai poco praticata! E allora ho sentito di dovermi associare anch’io alle parole di don Francesco e all’alto esempio del beato Frassati che della “condivisione” con gli ultimi, i poveri, i reietti, gli invisibili fece lo scopo unico della sua breve vita. Fino alla morte. Ho quardato quegli zaini, quegli occhi innocenti, quei sorrisi larghi di felicità. E ho sperato e spero che proprio quei “borsoni” (ricordate invece le nostre smilze cartelle?) portati a spalla dai ragazzi possano tutti i giorni dell’anno scolastico appena avviato varcare le soglie di ogni aula, portandosi dietro quella grande voglia di “condivisione”, di conoscenza e di gioco e di sorriso e di amicizia e amore che è strada di crescita e di vera vita per i nostri figli e nipoti. Che possano superare, glielo auguro davvero, quei brutti giorni chiusi in casa prigionieri, giocoforza, della famigerata (ma necessaria) dad. Ciao Enrico, a domani : urla, anche lui quasi incredulo a quel miracoloso accenno di normalità conquistata a dura prova, il piccolo Marco. Ciao Marco – gli ulula dietro Enrico. E ricordati di portare lo zaino… con il pallone dentro, se ci sta, per la ricreazione! Anche il pallone. Povero zaino! E povero Marco! Ma  quanta forza hanno le tenere membra dei nostri bimbi?

Monsù Pautasso fra Talebani, crin (sic!) pass e altro

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Diario minimo urbano. Vedere e ascoltare… per credere

Di Gianni Milani 

“A ventaria propi maseie tuti ‘sti Talebani. Cume  fan lur. Sti boia…” Me cojoni! Dall’alto mi soffia un alito di rabbia incontenibile, a pochi centimetri dai pochi capelli che mi sono rimasti in testa. Mi giro, inquieto, e sopra di me alle mie spalle, il signor Pautasso (chiamiamolo così per la sua travolgente piemontesità) sta commentando ad alta voce – con qualche compatibile errore di interpretazione –  il drammatico titolone e la foto da brividi della prima pagina de “La Stampa” (“La strage di Kabul”) appena acquistata alla vicina edicola di piazza Bernini. Sono (o meglio, ero) rilassato – caffè ristretto, croissant e giornale bello spaparanzato sul tavolino – nel dehor esterno di un bar della piazza, dove con mia moglie proseguo in questi giorni le buone abitudini vacanziere della prima colazione mattutina. Ma il bel film bruscamente s’interrompe. Alzo lo sguardo, perfino un po’ spaventato (le tragiche vicende afghane lasciano segni profodni sotto pelle), ed eccomelo davanti. Pantaloni larghi a piena presa d’aria, maglioncino di un grigio-grigiastro a strisce orizzontali rosse, capelli bianchi, pochi e decisamente in disaccordo col pettine, scarpe scamosciate modello estate-autunno-primavera-inverno, mascherina in viso che copre e non copre, età indefinita ma  carica di molte primavere, bastone piantato saldamente a terra. A’s duvria propi maseie tuti, insiste. Ah, che brut mund. Accenno un sì con la testa. E lui scompare. Ahimé, per poco. Passano non più di cinque minuti ed eccolo ricomparire. Anche lui, ora, giornal-dotato. Si siede al tavolino di fianco. Mi prende un senso non piacevole di sottile ansia. Propi ‘n brut mund!, riprende da dove s’era interrotto. E chiel, qul falabrach, cume s’ciama…Conte, che dis a’d dialughé cun lur, cun i boia. Ma che i parli chiel. Ma nén d’inturn a un bel taul, ma adsura al mur indua che i afghan a  tentu da scapé. Difficile fermarlo. “La culpa?”. Non glielo avevo chiesto, ma lui insiste. Di ‘sti autri dui badola. Sì, Trump e Biden (nome pronumciati tal quali sono scritti, non Tramp e Baiden!) che sun scapasne. Cume an Vietnam, boia faus! Pautasso è uno tsunami. Inarrestabile. Sfoglia nervosamente il giornale. Legge i titoloni. Io annuisco. Ho perso l’uso della parola. Anzi, mi è impedito l’uso della parola. Spero in una pausa. Ma da Kabul, l’ “amico” passa alla poltica e alla cronaca nazionale e locale. Una gentile cameriera gli porta, non senza regalarmi un compassionevole sorrisetto (questa mattina ci sei cascato tu!), brioche e caffè. Pautasso dev’essere un habitué. E varda sì. Vas no vas (sic!), crin pas (sic!)”. Accenno un sorriso supplichevole. Ma ‘l buteisu st’oblig, balenghi, mi  sai nén. Il caffè sarà ormai freddo. Anche la brioche mi appare “affaticata”, un po’ piegata sul lato sinistro con la marmellata che pian piano si scioglie sul piattino. Ma Pautasso è un fiume in piano. Non si ricorda manco più di caffè e brioche. Praticamente ho letto quasi tutto il giornale attraverso i suoi “saggi” commenti. E ancora prosegue con la stessa inquietante goduria con cui un sadico ama rivelare il nome dell’assassino al lettore di un romanzo giallo. E pòi le vutasiun a utuber. Bin, vutuma ancura qui fulatun ‘d Grillo. Ma tant sun tuti uguai. Mi sai nén se vadu a vuté. E chiel?. “Ma – tento di rispondere – il voto…”. Mi blocca. Men che meno gli interessa il mio parere. La sua era solo una domanda pro-forma, sfuggita a un soliloquio o a un monologo davvero degno del miglior cabarettista dialettale. Ma lasuma perde. Che brut mund, boia fa! Certo ai nos temp…E qui cado in una momentanea ma intensa crisi depressiva. Pautasso avrà almeno vent’anni più di me! Ora mi aspetto solo più che dica: “E certo, si stava meglio quando si stava peggio!”. Provvidenziale, ai limiti dello sfinimento, mi arriva però in soccorso mia moglie: “Gianni dobbiamo andare, ci aspettano a casa”. “Già,  vero. Quanto mi dispiace! Grazie per la compagnia”. Sorrido al dispiaciuto Pautasso, costretto ora a cercarsi un’altra vittima. E già si guarda attorno. A l’ha fait piasì co a mi, magari s’riveduma duman matin. “Magari!” gli rispondo, incrociando le dita. Cerea, arvedse! “Arrivederci”, mi congedo, mentre Pautasso sta brontolando e commentando da solo altri titoli de “La Stampa”. Mi piaceva quel bar e, in fondo, anche Pautasso mi era simpatico. Ma da quel giorno ho cambiato dehor! Immaginatevi il perché.

Nota Bene: chiedo venia ai lettori, in particolare ai piemontesi, per il mio “piemontese” scritto certamente infarcito di non pochi errori!

(Foto Getty Images)

 

Per favore, un sacchetto o un fazzolettino per Fido!

Diario minimo urbano. Vedere e ascoltare… per credere

Di Gianni Milani

Non raccontatemi che, almeno una volta, nella vita non sia capitato anche a voi! Non ci crederei. Del resto, niente di che! Si dice anche che pestare la cacca (più fine, popò?) di un cane porti fortuna. Anch’io, le non poche volte che m’è successo, l’ho pensato. E sperato. Pur non esimendomi di lanciare anatemi e cazzute imprecazioni contro gli incivili screanzati padroni (che brutto termine!) degli innocenti Fido a quattro zampe. Che nulla possono d’essersi “imparentati” con gli incivili, di cui sopra. Io credo che, se avessero il dono della parola (il solo che gli manca), sarebbero loro stessi ad invitarli di brutto a pulire marciapiedi e giardini dove, non essendosi ancora inventate toilettes e bagni per cani con tanto di sciacquone, sono dai tempi dei tempi costretti a depositare (forse loro malgrado) pipì e popò . Per carità, non tutti gli umani cani-muniti sono di tal pasta? Ci sono perfino, e sempre più, quelli che oltre a paletta e sacchetto si portano appresso, ogni qual volta, scendono a “pisciare il cane”– come diceva la mitica Lucianina Littizzetto – una bottiglietta d’acqua al fine di nettare il passaggio degli umani dalla fisiologica minzione canina. Certo! Può talvolta capitare di dimenticare a casa paletta e sacchettino. Ma anche in questo caso, pur comprensibile, sabbe davvero atto di civiltà rimuovere con altri mezzi di fortuna i pur santi “ricordini” canini. E’ proprio quanto m’è capitato di vedere, con gioia, qualche giorno fa. In breve. Ecco i fatti. Via Duchessa Jolanda, a pochi passi da via Palmieri (zona mercato piazza Benefica), le 10 del mattino. Una ragazza in preda al panico è ferma in centro al marciapiedi, al guinzaglio un cagnolino, anche lui dall’espressione incredula. Che stiamo a fare qui?, sembra chiedere, mentre la padroncina dirige il traffico dei passanti. Scusate, scusate – ripete – attenzione alla cacca del cane. Scusate, ho dimenticato a casa paletta e sacchetto. Qualcuno può per favore prestarmi un sacchetto della spesa  o un fazzolettino? Incredibile ma vero! La giovane avrebbe potuto lasciare, con aria indifferente, il malloppo tutto lì e andarsene alla chetichella, fischiettando, non appena il via vai (neppure troppo intenso) della gente si fosse smaltito. E invece no! Brava. E’ così che s’haddafà! Ricordo che con la mia povera Peggie, una dolcissima e indimenticata Labrador scomparsa a 14 anni, il giorno di San Ventino di tre anni fa, andavo quasi a raschiare l’asfalto per raccogliere tutta la mercanzia da lei depositata. Perfino con la strada innevata. Affondavo la paletta in cumuli di neve per non lasciarne traccia. Alla giovane civilissima ragazza di via Duchessa Jolanda, una signora ha offerto un gran sorriso (se lo meritava proprio) e un fazzolettino. L’oggetto del reato è stato così rimosso. Da applausi. Perfino il cagnolino le ha rivolto un dolce bau bau di ammirazione. E pensare che poco prima, appena svoltato dalla piazza Bernini, quasi davanti all’ex scuola “Giovanni Pascoli” (oggi Istituto Comprensivo “Rita Levi Montalcini”) avevo visto – meglio rivisto, perché è lì da giorni senza che nessuno pulisca – una bella “spatasciata” ricoperta (pensate un po’!) da due biglietti del “Gratta e Vinci”. Forse il bizzarro buontempone pensava che quella popò portasse, così semioccultata, ancor più fortuna al malcapitato che avesse la ventura di inciamparvisi sopra. Ma che bella pensata. Complimenti!