CULTURA- Pagina 154

Angelo Morbelli nella mostra del Divisionismo a Novara

La bella mostra “Divisionismo-Rivoluzione della luce” al Castello Visconteo di Novara, curata da Annie Paule Quinsac a cui si deve il grande merito di essersi per prima interessata al Neo Impressionismo scientifico, mette a confronto i vari esponenti di quello che fu denominato per comodità “Movimento” anche se al nascere non vi fu un manifesto degli artisti, concordi tutti nella tecnica del colore diviso ma non nello spirito

Per noi monferrini, che riteniamo “Nostro” Angelo Morbelli, che nei mesi estivi viveva alla Colma di Rosignano dove esistono ancora intatti l’ atelier di Villa Maria e il giardino tante volte ritratto, trovare esposti ben sette dipinti è un motivo in più per invogliare alla visita.

Decantate le mode, trascorso il tempo necessario per arrivare ad una definitiva valutazione, egli, oltre ad essere ritenuto il più osservante nell’applicazione alla pittura delle teorie dell’ottica, senza dubbio è riconosciuto grande artista dallo stile personalissimo dimenticando i giudizi penalizzanti di Grubicy che lo riteneva irritante per la troppa precisione e persino della stessa Quinsac che lo definiva scolaretto di modesto talento benché ne riconoscesse il ruolo di attento ricercatore e sperimentatore. Il confronto tra i vari artisti esposti evidenzia affinità e discordanze, il decorativismo onirico e allucinato di Gaetano Previati, il misticismo proletario e la coscienza politica di Giuseppe Pellizza, la visione panteistica di Giovanni Segantini, l’accanita denuncia sociale di Emilio Longoni, l’adesione al vero di Morbelli che lo avvicina ai modelli letterari di Verga e Capuana nel cogliere ciò che vede con un certo distacco e fatalismo.


Pur con interesse e commozione ai problemi sociali, nel clima del socialismo umanitario del suo tempo, Morbelli ha un atteggiamento tiepido, distante dalla adesione alle lotte progressiste di classe di un Longoni (In mostra “l’oratore dello sciopero”), di un Pellizza e di altri pittori divisionisti. Nella prima sala troviamo uno dei suoi temi preferiti riguardo la semplice quotidianità della vita agreste, espressa nella “Partita alle bocce” contrapposta a “Fumatrici di hashish” di Previati intriso di maledettismo baudelairiano, differenziandosi anche da “Dopo il temporale” di Segantini più inquietante e vibrante già improntato alla rivoluzione della luce.Il “Consiglio del nonno – parlatorio luogo del Pio Albergo Trivulzio”, facente parte della serie sulla poetica della vecchiaia, è trattato da Morbelli senza toni tragici, con la consapevolezza che essa è qualcosa di ineluttabile, tristezza, malinconia, rimpianto ma non dramma.

I suoi vecchi sono accuditi, puliti, vestiti dignitosamente, non descritti in scene strappalacrime; in questo caso il vecchio è non come al solito rassegnato e inattivo, anzi assume il ruolo gratificante di elargire saggezza alla nipote facendo tornare alla mente le “Vecchine curiose” vivaci e motivate nell’osservare un quadro dell’artista sul cavalletto.Nella terza sala il trittico “Sogno e realtà” diventa metafora del trascorrere del tempo, della dialettica vita – morte, giovinezza-vecchiaia, attraverso un simbolismo di facile comprensione avulso da oscuri intellettualismi mentre nella sala successiva “Neve”, realtà fotografica di purezza cristallina con sfoggio di padronanza tecnica, si differenzia dalle nevicate più liriche di Previati e di Pellizza oltre che dal simbolismo segantiniano che in “Savognino sotto la neve” allude al significato pregnante della coltre bianca come morte di tutte le cose.

L’ultima sala fa ritrovare il tema del paesaggio con “Alba domenicale” del 1915 che, come spesso usa Morbelli, ritorna su iconografie precedentemente trattate, in questo caso nel 1890 quando dipinse una stradina collinare che scende alla Cappelletta verso Terruggia, sullo sfondo, percorsa da alcuni devoti monferrini con il vestito della festa, mentre si recano alla Santa Messa domenicale.Infine la splendida “Meditazione” presenta uno dei più alti momenti della sua arte portando l’artista ad una dimensione di purezza assoluta nel ritrarre ragazze adolescenti, immobili, immerse in pensieri segreti, estraniate e inconsapevoli della presenza del pittore che non pretende di penetrare nel loro mondo interiore.

Ne esce un’atmosfera di silenzio, mistero e atemporalità quasi metafisica dove tutto si ferma, niente a che spartire con le figure femminili di Degas, spiate per cogliere voyeuristicamente la gestualità dei corpi nelle azioni quotidiane.Una mostra imperdibile che, come le precedenti alla Galleria Bottega Antica, alla GAM di Milano e al Museo Civico di Casale Monferrato, durante il 2019, contribuisce a celebrare il centenario della morte del nostro grande artista.

Giuliana Romano Bussola

“SPEAK, share your world”: uno scambio per l’inclusione sociale

SPEAK è un progetto nato in Portogallo nel 2014 con lo scopo di favorire l’inclusione sociale e l’uguaglianza tra le persone

Si tratta di una social tech startup che crea una connessione tra migranti, rifugiati e locali attraverso un programma di scambio linguistico e culturale. Il progetto è rivolto anche a espatriati e studenti internazionali al fine di facilitarne l’inserimento nella città in cui si sono trasferiti.

Il progetto propone, inoltre, eventi aperti a tutti come le cene internazionali e le serate di gioco in lingua, con lo scopo di facilitare la socializzazione.

SPEAK è arrivata in Italia nel 2017 e Torino è stata la prima città ad ospitare il progetto oltre i confini del Portogallo. L’iniziativa ha da subito riscosso molto successo e attualmente sono attivi più di 25 gruppi linguistici.

Tutte le attività di SPEAK hanno potuto crescere e diffondersi anche grazie alla collaborazione con numerose realtà locali, tra cui le Biblioteche Civiche, il Polo del ‘900 e il TYC. Sono partner anche alcune Case di Quartiere e diverse Associazioni.

 

Qual è il nostro obiettivo?

SPEAK ha l’obiettivo di promuovere il multilinguismo e democratizzare l’apprendimento delle lingue. Il suo format aperto ed informale consente di superare gli stereotipi e le differenze sociali, abbattendo le barriere linguistiche con l’intento di contribuire a risolvere il problema dell’esclusione sociale.

SPEAK, nel suo insieme, è un’impresa sociale con una chiara missione e priorità: integrare i cittadini attraverso il valore della loro diversità. Propone un programma di scambi culturali e linguistici a cui chiunque può iscriversi come partecipante o candidarsi come buddy, permettendo a persone di culture diverse di incontrarsi, imparare e condividere conoscenze.

L’esperienza acquisita negli anni di attività in Portogallo, unitamente alle dichiarazioni dei partecipanti sull’influenza significativa che SPEAK ha avuto nelle loro vite, hanno confermato il valore del progetto in termini di impatto sociale. Nell’arco delle 12 settimane di frequenza ad un gruppo linguistico, infatti, si sono osservati un miglioramento nel senso di appartenenza alla comunità locale, una riduzione delle barriere linguistiche e un aumento in termini di valorizzazione della cultura di ciascun partecipante.

Come funziona?

SPEAK organizza gruppi linguistici, di base o di conversazione, per gruppi da 4 fino a 18 partecipanti. Al momento sono attivi gruppi di italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo, arabo, portoghese e giapponese. I gruppi linguistici sono gestiti da buddies provenienti da tutto il mondo che parlano fluentemente una lingua e desiderano condivederne la conoscenza in un contesto informale e divertente. I gruppi si incontrano per 12 sessioni da un’ora e mezza ciascuna, una volta a settimana. Ogni incontro è improntato su un’area tematica specifica con l’intento di fornire informazioni pratiche e un vocabolario mirato. L’obiettivo consiste nel favorire la partecipazione di tutti attraverso la conversazione, la simulazione di role-playing e giochi interattivi.

 

Gli eventi

Oltre ai gruppi linguistici, il progetto propone un ricco calendario di eventi. Si tratta di incontri aperti a tutti con l’obiettivo di coinvolgere attivamente chiunque desideri praticare le lingue in maniera divertente e non convenzionale e, contemporaneamente, creare un’occasione di scambio e condivisione   con persone nuove. Gli eventi variano dalle cene internazionali alle serate di gioco da tavola, ma prevedono anche attività come lezioni di yoga in lingua, jam session e scambi di libri.

 

Prendi parte al progetto di SPEAK

Chiunque può prendere parte al grande progetto di SPEAK diventando un buddy, per aiutare gli altri a imparare una lingua, che si tratti della propria o di un’altra parlata fluentemente. SPEAK si occupa di fornire un breve training, l’accesso diretto al materiale per le sessioni oltre a proposte di giochi ed esercizi di gruppo, che si possono utilizzare per creare un contesto divertente ed informale. Diventare buddy rappresenta un’occasione speciale per trascorrere del tempo con persone provenienti da tutto il mondo, scambiare conoscenze ed esperienze e, contemporaneamente, creare un impatto positivo nella vita di qualcun altro. Inoltre, come buddy è possibile partecipare gratuitamente a qualsiasi gruppo linguistico.

 

 

SPEAK – Share your world

Ulteriori informazioni e approfondimenti sul progetto e sui gruppi di lingua sono disponibili visitando il sito:

https://www.speak.social/it/turin/

 

Enrico Massimino, un simpatico monello per una nuova umanità

“Panni stesi al vento” nelle sale della Galleria “Arte per Voi” di Avigliana

 

Strano titolo – Panni stesi al vento, a cura di Luigi Castagna e Giuliana Cusinoquello scelto da Enrico Massimino, oggi sessantacinquenne, musicista e pittore che si divide tra la frenesia torinese e la calma di Coazze, che è innamorato del Novecento e dei suoi protagonisti Picasso Mirò e Chagall, che strizza l’occhio al pop e al mondo del fumetto (tantissimo), per la sua mostra ospitata sino al 15 marzo negli spazi della galleria “Arte per Voi” di Avigliana (piazza Conte Rosso 3). Strano già nell’allestimento, ovvero le opere appese alle pareti della galleria con fili per stendere e fissati da mollette: per cui quelle “carte da recupero” su cui Massimino ospita pennarelli e pastelli a cera ci vogliono ricordare – ma prepotente si fa largo la memoria dell’autore – quei bucati che “le nostre nonne stendevano all’ultimo piano delle loro case in città oppure nelle aie delle cascine delle nostre campagne e li lasciavano lì a purificarsi al sole ed al vento”, reclamando oggi al caldo immobilismo del sole un più ravvivante fluttuare del vento, in tutto il proprio dinamismo. Un’atmosfera di allegri ricordi che balza improvvisa e inaspettata alla dedica al popolo tibetano “che subisce con dignità ed in silenzio l’esilio e l’esproprio della propria cultura ed è un piccolo omaggio al coraggio di un resistere senza ricorrere alla violenza. Come le preghiere tibetane sventolanti al vento freddo delle alte montagne diffondono da sempre il loro carico di speranze così i miei umili disegni vogliono omaggiare il dignitoso dolore di chiunque lotti per la propria libertà e per quella dei suoi simili”. Voli pindarici con un pizzico d’azzardo, che non ti immagini, che prendono strade assurde e lontane. Strade troppo personali. Strade che cercano una scusa nell’esser lì, nel fare e forse persino nell’amare quel tipo di pittura, strade che sperimentano con ansia una propria direzione, qualunque essa sia.

E allora dove va Massimino? Può anche voler addentrarsi tra i capolavori del Quattrocento, magari chiedendo a prestito a Masaccio l’Adamo ed Eva della Cappella Brancacci del Carmine fiorentino (e non importa se il primo uomo ha la sua bella pelle scura!), i protagonisti al riparo di un albero e insidiati dal rosso serpente, tra un contorno di un sole e di piccole nuvole, di una gallinella e di un omino dalla sana espressione fanciullesca. Questo è Massimino, che “gioca” con i colori e con questi personaggini “bambinescamente” divertenti che riempiono giorno dopo giorno le sue opere. Provate a immaginare il Nudo rosa di Modigliani del 1917, certo liberato della comodità dei cuscini ma appieno circondato da barchette e campanili, nuvole e omini, trenini e comete, topi e ancora gallinelle e cani che abbaiano forse ferocemente, castelli e montagnole e fiori, serpenti e stelline e razzi in partenza verso altri mondi sconosciuti, pesci buttati alla rinfusa in acque o sulla superficie di piccole colline verdi, chi più ne ha più ne metta, l’importante è occupare l’intera superficie, con il terrore dell’horror vacui ma con divertimento, quello del fanciullino, quello della serenità ritrovata. O ancora “cinque poveri umani” multicolori – sono i protagonisti di una vicenda tutta da scrivere che per ora s’intitola Contaminazioni (2011), ancora i tratti di simpatica ingenuità, ancora il corredo di comprimari che ormai abbiamo imparato a conoscere e con qualche fatica ad accettare.

 

L’attesa infine (rivista sette anni fa ad Alba alla Fondazione Ferrero) che Carlo Carrà compose nel 1926 in Versilia, con un bellissimo quanto morbido paesaggio toscano che circonda il cane nero e l’uscio da cui compare la donna, entrambi immobili, nella ricerca sull’orizzonte di un accadimento o di una venuta, nelle mani spensierate di Massimino diventa un richiamo teatrale beckettiano, un Godot che s’aspetta (forse quel triangolo con tanto d’occhio al centro, immerso nel tappeto intensamente blu che è divenuto l’antico terreno, specifica con sicurezza la radice di quel nome su cui l’autore irlandese non volle mai pronunciarsi?), ancora immobili ma tra la calma e la rabbia, mantenendo ogni cosa al loro posto, nel ricordo ossequioso dell’originale, ma allo stesso tempo stravolgendo il percorso man mano che s’avanza, nei colori accecanti e in quegli elementi aggiunti, soprattutto, dall’omino in primo piano al calvario sullo sfondo alla strada bianca che piattamente sale alla casa sul colle. Questo è Massimino: e non sai se prenderlo come il portatore sano di uno sberleffo o un simpatico monello che si diverte a dipingere pro domo sua un’umanità e un futuro che lui ama e che ha una voglia matta e sacrosanta di far conoscere a chi avrà il piacere di guardarlo.

 

Elio Rabbione

 

“En attendant Godot”, 2018, pennarelli e pastelli a cera su carta di recupero, cm. 62 x 75

“Adamo ed Eva”, 2018, pennarelli e pastelli a cera su carta di recupero, cm 115 x 60

“Great italian nude (Nudo rosa di Amedeo Modigliani)”, 2018, pennarelli e pastelli a cera su carta di recupero, cm 76 x 137

 

Musei Reali “in maschera”: grande festa per i bambini… ma non solo

Le iniziative per un carnevale in perfetto stile sabaudo. Da sabato 22 a martedì 25 febbraio

In piazzetta Reale, a Torino, il Carnevale 2020 si festeggerà in piena e libera allegria con un occhio attento a rivivere la grande storia del passato.

Le iniziative proposte dal Polo dei Musei Reali saranno rivolte in particolare, e com’è giusto, ai bambini. Ma non solo. Festa per tutti. Mascherati o non. Si inizia sabato 22, con “Un pomeriggio da romano”, per chiudere i giochi nella giornata di martedì 25 febbraio con “Guerrieri in maschera”. Due gli appuntamenti di domenica 23 e martedì 25 febbraio. Ma ecco, nello specifico, il programma.

Sabato 22 febbraio, Museo di Antichità, ore 17: “Un pomeriggio da romano”, visita per i bambini a partire dai cinque anni

Tra le statue del Museo di Antichità c’è aria di festa: a Carnevale, rivive il clamore dei Saturnali, i giorni dedicati al dio Saturno. Questo è il momento migliore per trasformarsi in antichi romani e immergersi nella vita quotidiana di 2000 anni fa! I bambini potranno vestirsi a casa o farsi aiutare dall’archeologo in museo, portando con sé lenzuoli, tessuti colorati, nastro e spille. Prenotazione obbligatoria al numero 011/19560449; costo Euro 5 a bambino, ingresso gratuito per un accompagnatore.

Domenica 23 febbraio, Palazzo Reale e Armeria, ore 16: “Semel in anno…carnevale a corte”, visita tematica per tutti.

Percorrendo le sale auliche di Palazzo Reale e dell’Armeria, si scoprirà come Casa Savoia festeggiava il periodo più anticonvenzionale dell’anno, quello del Carnevale. Tra balli di corte, mascherate, spettacoli teatrali e tornei cavallereschi, sarà un’occasione di conoscenza del divertimento a Corte. Prenotazione consigliata al numero 011/19560449; costo Euro 5 a persona più biglietto d’ingresso.

Domenica 23 e martedì 25 febbraio, Sala Chiablese, ore 15,30: “Colori! Colori! Colori!”, visita laboratorio per bambini dai 6 ai 10 anni alla Mostra di Konrad Mägi “La luce del Nord”.

Il carnevale è una delle feste più colorate dell’anno. Quale occasione migliore per provare ad osservare e conoscere meglio i colori? Partendo dalle opere del pittore Konrad Mägi si proverà a capire insieme quali sono i colori primari e secondari, cosa succede mescolandoli insieme o avvicinandoli l’uno all’altro, quali colori sono amici tra di loro e come usarli per creare effetti brillanti o al contrario più tenui, proprio come veri artisti. Una volta svelati tutti i segreti del colore i bambini potranno utilizzare quanto imparato per realizzare insieme una allegra maschera di carnevale artistica. Prenotazione consigliata allo 011/19560449; costo Euro 5 a bambino, ingresso gratuito per un accompagnatore.

Martedì 25 febbraio, Armeria Reale, ore 17: “Guerrieri in maschera”, visita laboratorio per bambini a partire dai 5 anni.

Che ci fanno sugli elmi e le armature degli antichi cavalieri tutti quei volti grotteschi, musi feroci, sguardi truci e becchi di rapaci? Un tempo spaventavano i nemici, oggi stupiscono e divertono. I piccoli visitatori li scopriranno nell’Armeria Reale e poi, imitando gli armaioli del passato, potranno scatenare la fantasia per creare una maschera da battaglia. Prenotazione obbligatoria allo 011/19560449; costo Euro 5 a bambino, ingresso gratuito per un accompagnatore.

g. m.

 

Nelle foto
– “Carnevale”, Foto Musei Reali Torino
– Musei Reali. Foto Musei Reali Torino
– Konrad Magi: “La luce del Nord”, Foto Musei Reali Torino
– “Un carnevale archeologico”, Foto Musei Reali Torino

Le Residenze sono (e resteranno) sabaude. La Regione e Curto lo hanno deciso

Il prof. Guido Curto, il cui pensiero era stato  sicuramente travisato da un’intervista non voluta  e non sollecitata, mi ha scritto una garbata  ed esaustiva lettera in cui mi annuncia che l’aggettivo Sabaude non verrà tolto dal logo  Residenze sabaude  riconosciute dall’ Unesco

Sicuramente non era intenzione di Curto scalpellare via il nome dei Savoia da una storia che  appartiene al Piemonte e che nessuno può disconoscere. Curto è  infatti uno studioso che perpetua la tradizione di suo padre,  nobilmente espressa al Museo Egizio, anch’esso voluto dai Savoia, e come tale si è comportato anche questa volta.
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Gianni Oliva e Lino Malara avevano aggiunto il loro autorevole dissenso alla cancellazione che noi, per primi, su questo giornale, avevamo annunciato, forse con  un eccesso di asprezza polemica  di cui chiediamo scusa. Toccare la nostra storia, per noi, resta una cosa molto grave e la sola idea di sminuirla suscita in noi un’ irritazione forse troppo forte, dopo anni di studiati silenzi e di meditati oblii che abbiamo subito, ma non abbiamo mai accettato ne’ tanto meno condiviso.
Sembra incredibile constatare come le diverse organizzazioni monarchiche si siano rivelate, ancora una volta, inadeguate e siano state mute quasi  come dei pesci in decomposizione. Loro si trastullano con il bicentenario di Vittorio Emanuele II, facendosi la guerra a colpi di messe e corone di alloro.
Chi ha sollevato il problema e ha difeso la storia sabauda  non sono state loro, ma questo giornale  che  ancora una volta, si è rivelato una voce libera ed estranea a pregiudizi di parte. Va ringraziato il prof. Curto per averci prontamente risposto e per aver rimesso in discussione se’ stesso. Questo è il modo di comportarsi dei veri studiosi, eredi del dubbio e non delle inossidabili certezze ,come ci insegnò suo tempo  Bobbio.
Pier Franco Quaglieni
Scrivere a quaglieni@gmail.com
(Foto M. Bursuc)

L’Oriente pittorico di Arnold Henry Savage Landor

“Dipingere l’Asia dal vero”. Fino al 14 giugno in mostra al MAO / Famoso in vita. Inspiegabilmente ed ingiustamente dimenticato dopo la morte

Strano destino (non di rado per gli artisti accade esattamente il contrario) quello occorso ad Arnold Henry Savage Landor (Firenze, 1865 – 1924), ricordato con la suggestiva mostra monografica “Dipingere l’Asia dal vero”, curata da Francesco Morena e ospitata negli spazi del MAO- Museo d’Arte Orientale di via San Domenico 11 a Torino, fino al 14 giugno prossimo.

Figura perfino esageratamente poliedrica, ma estremamente interessante. Artista, antropologo, esploratore, avventuriero, scrittore, fotografo, giornalista e pur anche inventore: Savage Landor fu tutto questo. Troppo, forse, per poterne ritagliare un profilo ben definito e chiaro da trasmettere con successo ai posteri. Nato a Firenze, in un ambiente colto e raffinato, da padre inglese e madre italiana (nonno, lo scrittore Walter Savage Landor, da cui probabilmente ereditò il focoso temperamento rivoluzionario che portò l’avo paterno a partecipare alla guerra d’indipendenza spagnola contro Napoleone Bonaparte), ancora adolescente, s’invaghì della pittura e segui, in particolare, gli insegnamenti del celebre Stefano Ussi, docente all’Accademia di Belle Arti di Firenze e allora fra i maggiori esponenti della pittura orientalista in Italia. Ma alla passione per l’arte s’affiancò ben presto la smania del viaggio e dell’esplorazione, ovunque e comunque, alimentata forse dall’intensa attrazione per i romanzi di Jules Verne. Ancora giovanissimo – per bagaglio, scrisse lui stesso, solo pennelli, colori, taccuini vari e una pistola – gira il mondo in lungo e in largo, visitando prima alcuni paesi dell’Africa settentrionale e dell’America, per poi muoversi verso l’Asia: Cina, Giappone (nell’isola di Hokkaido, fu il primo occidentale ad entrare in contatto con il popolo allora del tutto sconosciuto degli Ainu), Corea, Tibet e Nepal. Ovunque dipinge. Annota. Documenta. Con uno sguardo da eccentrico “colonialista” come lo definisce il curatore della mostra. In quei luoghi misteriosi e, ai più, privi di connotazioni geografiche e culturali, dipinge con buona tecnica centinaia di opere “dal vero” in uno stile rapido, immediato e piacevolmente materico d’impronta decisamente impressionistico-macchiaiola. Le sue avventure, non poche e non da poco (in Tibet fu catturato e torturato a lungo, in Brasile si trovò faccia a faccia con un boa constrictor e sopravvisse a 16 giorni di assoluto digiuno) gli fornirono anche materiale di prima mano per i suoi 11 libri, tutti di gran successo e illustrati con le riproduzioni dei quadri dipinti in viaggio o con le fotografie da lui stesso scattate.   L’esposizione al MAO (che segue quella realizzata sei anni fa alla Galleria d’Arte Moderna di Firenze) raduna il corpus più consistente e a noi noto della sua produzione artistica: circa 130 dipinti ad olio, 10 acquerelli e 5 disegni. Il tutto proveniente da più collezioni private e capace di rendere la meritata gloria a un pittore ancora tutto da rivalutare dopo decenni d’immeritato oblio, a un artista decisamente “moderno” con i suoi soggetti “en plein air”, ben lontani “dallo stile minuziosamente classico della pittura di genere orientalista allora in voga”. Dalla realistica “Ragazza Ainu con bambino sulle spalle” alle poetiche “Figure sotto i ciliegi in fiore” fino alla coreografica “Danza delle donne Ainu”, ma anche nei soggetti paesistici come lo “Scorcio con il portale principale del Palazzo Reale a Seoul”, appare del tutto evidente la singolarità documentaristica di una pittura capace di “fotografare” con immediatezza “luoghi e persone che di lì a qualche decennio sarebbero completamente cambiati per effetto dell’incipiente globalizzazione”.   Oltre ai dipinti realizzati in Asia, in mostra sono presenti anche alcune opere eseguite da Savage Landor durante l’adolescenza a Firenze, nel corso dei suoi viaggi in Europa e nella sua prima esperienza oltre confine, in Egitto, oltreché tutti i volumi da lui stesso pubblicati. Per l’occasione è stato anche realizzato un catalogo bilingue italiano/inglese, edito da SAGEP, con saggi di Francesco Morena e Silvestra Bietoletti.

Gianni Milani

“Dipingere l’Asia dal vero”

MAO-Museo d’Arte Orientale, via San Domenico 11, Torino; tel. 011/4436932 o www.maotorino.it

Fino al 14 giugno

Orari: dal mart. alla dom. 10/18; lun. chiuso

 

Nelle foto

– “La danza delle donne Ainu”, olio su tavola, 1890
– “Ragazza Ainu con bambino sulle spalle”, olio su tavola, 1890
– “La Piattaforma delle Nuvole a Juyongguan”, olio su tavola, 1891
– “Figure sotto i ciliegi in fiore”, olio su tavola, 1889 – ’90
– “Scorcio con il portale principale del Palazzo Reale a Seoul”, olio su tavola, 1891

Nuova veste per il camino di Bernardino Quadri

L’intervento del gruppo Palazzetti. Nel Salone delle Guardie Svizzere a Palazzo Reale

Si erano già incontrati, poco più di una decina di anni fa, di fronte al restauro di quattro piccoli camini all’interno di Palazzo Ducale a Venezia e la perfezione del risultato li aveva spinti alla promessa di una nuova collaborazione: Fondaco Italia, che ama collegare le realtà museali al mondo dell’imprenditoria, e il gruppo Palazzetti di Pordenone, un lungo quanto efficiente percorso nella produzione di stufe e camini.

La nuova, recente collaborazione – unita all’apporto dei Musei Reali torinesi -, “una scommessa cui non si poteva dire di no”, è il restauro del Camino della Sala delle Guardie Svizzere, punto d’ingresso obbligatorio di Palazzo Reale, accesso per secoli di re e ambasciatori, possibile ancor oggi ad immaginarsi come inaccessibile corpo di guardia, il vociare dei soldati, i giacigli agli angoli del grande spazio, il fuoco costantemente acceso. Dal 1661, anno in cui l’architetto Bernardino Quadri (del Canton Ticino, attivo anche nella Basilica di San Pietro a fianco di Bernini e Borromini, le cronache ci dicono che gli screzi continui con quest’ultimo lo avrebbero spinto a raggiungere la nuova corte) lo posizionò, il camino campeggia sulla lunga parete a fronte della importante tela di Jacopo Palma il Giovane, lì a rappresentare la battaglia di San Quintino come il successivo trasporto della capitale sabauda a Torino, posizionato a ridosso dell’alta fascia di marmo verde ottocentesca dovuta a Palagio Palagi (1843) e sottostante le barocche Glorie Sassoni di due secoli prima.

“Restituito alla sua dignità originaria”, ha sottolineato la direttrice dei Musei Enrica Pagella, presentandolo alla stampa nei giorni scorsi e offrendolo al pubblico che lo incrocerà nel percorso attraverso le sale del palazzo. Una dignità che, finalmente, torna a parlarci del nostro territorio e della sua ricchezza, rimettendo a vista, dopo un restauro durato tre mesi e per cui sono occorse 774 ore di lavoro, la bellezza dei marmi usati (di “musicalità di colori” parla ancora Pagella), taluni oggi scomparsi. Dieci persone all’opera, sotto la guida di Annarosa Nicola, le radici ad Aramengo, la competenza e la passione riunite in una sola famiglia ed in un gruppo vincente, un accanito lavoro di pulizia, una webcam a riprendere giorno dopo giorno le tante tappe dei risultati raggiunti, la salvaguardia di questo piccolo gioiello ma imponente e prezioso, l’alternarsi di marmi policromi e di pietre dure, una struttura nobilitata da colonne binate, dai putti di Quadri (forse un riciclo di epoca più antica) e dai busti antichi di imperatori romani (Giulio Cesare al centro, di sapore ellenistico quello a destra di chi guarda), in marmo bianco di Carrara, l’eleganza e il gusto modernamente legati alla corte da Carlo Emanuele II, sovrano mecenate pronto a riunire a Torino quelle opere antiche che andava acquistando durante i suoi viaggi a Roma.

Molti gli interventi eseguiti, anche a cancellare d’obbligo quelli maldestri eseguiti in passato e necessari di una completa revisione. Si è quindi proceduto alla verifica e in taluni casi al preconsolidamento degli elementi lapidei, al riposizionamento e fissaggio delle parti distaccate e instabili, alla cancellazione generale di quanto potesse essere polvere ossidazione e invecchiamento, alla pulitura dei depositi superficiali, vale a dire stuccature vecchie, strati di mastice e cera debordanti, colature corrosive, sporcizia penetrata nelle imperfezioni della pietra, alla rimozione delle ridipinture localizzate ad imitazione del marmo in corrispondenza di rifacimenti e alla reintegrazione pittorica ed all’adeguamento cromatico di eventuali aloni residui. Un lavoro che offre nuovamente al pubblico un piccolo capolavoro, nella sua piena ricercatezza di elementi. Durante i lavori, è stata pure riscoperta e restaurata la piastra all’interno del camino: si può nuovamente rileggere il nome dei fabbricatori, sono i fratelli Colla, torinesi, la data è quella del 1884.

Elio Rabbione

ARTiglieria, il Con-temporary Art Center 

Il nuovo incubatore di progetti culturali per la valorizzazione dello spazio dismesso dell’ex Accademia Artiglieria di Torino

Si ispira a Les Grand Voisins di Parigi e a La Casa Encendida di Madrid il progetto “ARTiglieria – Con-temporary Art Center” nell’ex Accademia Artiglieria di Torino: un incubatore di arte e creatività emergente che aspira a diventare un punto di riferimento nazionale e internazionale, al pari di progetti analoghi riconosciuti nel mondo.

Dopo la sottoscrizione di una convenzione con la Città di Torino, lo spazio è stato dato in concessione fino al 31.12.2020 a PRS Srl Impresa Sociale ente no profit, da CDP Investimenti SGR, società del Gruppo Cassa depositi e prestiti. Si tratta di una delle prime esperienze in Italia di affidamento temporaneo di uno spazio pubblico per la riqualificazione del patrimonio immobiliare inutilizzato.

Nata nel 1679 come “Reale Accademia”, scuola di formazione per nobili e giovani gentiluomini alla vita di corte, l’Accademia Artiglieria fu in seguito trasformata in accademia militare e sede dell’esercito, sino ad essere abbandonata al degrado. Dopo l’apertura per la prima volta al pubblico in occasione di Paratissima lo scorso mese di novembre, l’ex Accademia Artiglieria è stata ribattezzata “ARTiglieria – Con-temporary Art Center” ed è pronta a condividere i propri spazi con la cittadinanza. L’obiettivo è incubare e rendere autonomi e sostenibili progetti culturali di realtà pubbliche e private che vorranno partecipare alla “chiamata alle armi” di PRS. Al piano terra del complesso saranno concentrate le attività ordinarie di PRS, mentre i piani superiori saranno utilizzati in occasione di appuntamenti ed eventi temporanei o per ospitare gli studi degli artisti “in residenza”, ovvero artisti stranieri e/o ospiti che necessitano di un laboratorio per realizzare o produrre la propria opera (non è però prevista attività ricettiva notturna all’interno del complesso). Lo spazio delle ex scuderie ospiterà mostre temporanee di arte e design. L’ex mensa ufficiali una zona lounge per presentazioni, incontri, reading e live performance.

Si prevedono attività laboratoriali per gli Istituti scolastici la mattina dal lunedì al venerdì e per le famiglie nei pomeriggi e nel weekend; attività formative come il corso N.I.C.E., alla settima edizione, destinato ai giovani curatori, ma anche incontri di formazione e workshop destinati ai professionisti, agli artisti e agli appassionati di arte e design. Il primo appuntamento è in programma nel mese di marzo: Paratissima Talents, il progetto espositivo curato dalla direzione artistica di Paratissima che raccoglie le migliori proposte presentate alla 15esima edizione della fiera internazionale degli artisti indipendenti e l’apertura dell’ArtShop, lo spazio dove vedere e acquistare a prezzi accessibili opere d’arte selezionate e realizzate in edizioni a tiratura limitata. A seguire, a maggio, Paratissima PhotoView, in concomitanza con Fo.To Fotografi a Torino.

Lo spazio dell’ex Accademia Artiglieria sarà gestito e presidiato da PRS – Paratissima Produzioni e Servizi Srl, l’impresa sociale nata nell’ottobre del 2017 con il compito di gestire e sviluppare le attività di Paratissima, subentrando nella gestione a YLDA Associazione Culturale no profit. La compagine societaria di PRS vede la partecipazione dei soci storici di Paratissima e di un pool di investitori torinesi che hanno creduto nell’ambizioso progetto di crescita e diffusione del marchio Paratissima sul territorio nazionale e internazionale. Fondamentale anche il percorso di accelerazione e il grant ricevuto da Socialfare, il centro torinese per l’innovazione sociale, nel novembre 2017, che hanno permesso al team di PRS di focalizzare l’attenzione sul percorso di crescita e sviluppo dei diversi ambiti di progetto dal 2018 al 2020.

L’operazione di concessione temporanea di un bene così prestigioso situato nel cuore della città a favore di una realtà radicata ed affermata sul territorio che opera a livello nazionale da 15 anni nel campo dell’arte contemporanea e creatività emergente, rappresenta un’opportunità di costruzione e sperimentazione di un modello gestionale che può essere scalato e replicato su tutto il territorio nazionale. PRS, attraverso la sua attività, funge sia da presidio per la conservazione del bene e sia da soggetto in grado di valorizzare il complesso nell’ottica di una futura destinazione d’uso definitiva.

Il silenzio dei Corti, l’eredità di Nino Chiovini

Il 14 e 15 febbraio scorsi Verbania ha ospitato “Il Silenzio dei Corti”, iniziativa ispirata alla memoria di Nino Chiovini promossa dalla municipalità verbanese e dal Parco Nazionale Val Grande con Casa della Resistenza, Anpi e Tararà Edizioni

Nino Chiovini (Biganzolo, 1923 – Verbania, maggio 1991) è stato un partigiano, scrittore e storico italiano, studioso della Resistenza e della cultura contadina di montagna delle valli tra il Verbano, l’Ossola e la Val Vigezzo. Dopo l’azione teatrale del Teatrino al Forno del Pane “Giorgio Budidan” ispirata al libro di Chiovini su Cleonice Tomassetti, unica donna tra i 42 martiri fucilati a Fondotoce nel giugno del ’44, a Villa Giulia si è svolto il convegno sulla figura di Chiovini e sulla prospettiva di un parco letterario a lui intitolato, imperniato sul binomio natura-cultura. Al convegno sono intervenuti Giovanni Antonio Cerutti, direttore dell’Istituo stroicod ella Resistenza di Novara e Vco (“Capire dove e come sbagliammo. La lunga riflessione del partigiano Chiovini sull’eredità della Resistenza”), i giornalisti e scrittori Erminio Ferrari (“I fogli della semina”), Giuseppe Mendicino (“I sentieri della libertà di Mario Rigoni Stern, Nuto Revelli e Nino Chiovini”), Marco Travaglini ( “Sostenibilità delle aree alpine, dalle intuizioni di Nino Chiovini alle esperienze odierne”) e, infine, il direttore del Parco nazionale della Val Grande Tullio Bagnati (“Il silenzio dei Corti e l’esercizio della memoria: nuovi profili della Val Grande”).

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Riportiamo qui una sintesi dell’intervento di Marco Travaglini, collaboratore della nostra testata

E’ praticamente impossibile inquadrare la personalità di Nino Chiovini in una sola definizione. Le sue passioni e l’impegno di narratore, storico, antropologo, appassionato di sociologia rappresentano un tutt’uno.E il collante di tutto, capace di generare un fermento emotivo, era la sua forte e determinata etica civile, la passione per la storia, l’abilità nello scrivere, la capacità di intuire e comprendere i fenomeni sociali, e – non certamente secondario –   un’ideale politico tendente al riscatto degli ultimi, degli umili. La traccia più evidente si trova nei suoi libri dove le fatiche contadine entrano nella narrazione delle storie, rendendo omaggio e offrendo risarcimento a un mondo ormai scomparso. Il ritmo dei cambiamenti ha fatto sprofondare luoghi e persone in un niente, in un oblio al quale la caparbia determinazione di ricercatori come Nino Chiovini hanno saputo opporre l’ostinata volontà della memoria, la forza della narrazione, il racconto del tempo vissuto. Gli stessi paesaggi montani, aspri e carichi di memorie e di senso, racchiudono come una cornice le esili vite dei protagonisti. Nei suoi libri sulla civiltà rurale montana – “Cronache di terra lepontina”, “A piedi nudi”, “Mal di Valgrande” e “Le ceneri della fatica”, uscito postumo -, così come nei volumi dedicati alla lotta partigiana – “I giorni della semina”, “Classe IIIa B. Cleonice Tomassetti. Vita e morte”e i due volumi pubblicati postumi “Fuori legge??” e “Piccola storia partigiana” – il suo impegno di ricerca emerge con grande forza e nitidezza. In questo importante lavoro culturale che ci ha lasciato in eredità il passato ritorna attraverso i volti e le parole di quelle persone, uomini e donne. Un mondo arcaico, retto da pratiche e valori ancestrali, per certi versi poco moderni, secondo i canoni odierni, ma quanto mai importanti, necessari, utili per l’oggi e il domani.

 

Nelle sue opere Nino rende giustizia agli abitanti del territorio, al lavoro duro, alla fatica che schianta, al rispetto del tempo, del ritmo delle stagioni e della terra, all’impegno spesso obbligato che genera sudore mischiato a un grumo di rabbie e speranze, di tradizioni e fame, di poche gioie e tanti, troppi dolori. Mi è venuta in mente un’intervista a Francesco Guccini dove, ricordando quel prozio emigrato oltreoceano al quale dedicò la canzone “Amerigo”, raccontava come – ritornato in Appennino – al saluto della gente rispondeva con un “Buongiorno e vita lesta, mangiar poco e lavorar da bestia”.Quello indagato e descritto da Chiovini è un mondo che ci insegna ad essere umili, a riconoscere che una parte importante della cultura accumulata da generazioni di montanari risiede in quei luoghi aspri, spesso percorsi su sentieri ripidi sotto il peso di una gerla. Posti dove le frontiere dei crinali sono stati più un punto d’incontro che una linea di demarcazione e separazione. Se c’è una eredità che Nino Chiovini ci ha lasciato credo si possa individuare nell’assillo di una riorganizzazione della cultura in grado di aiutare una sintesi su storia, radici, saperi. Si riconosce lì il messaggio di chi, pur tra speranze e illusioni, ha sempre pensato ad una società nuova e più giusta. Un messaggio che sottende la volontà di ricerca, di un approfondimento più che mai necessari per salvare noi e il paese in questo tempo segnato da superficialità, dalla riduzione e impoverimento del linguaggio. E’ la rivalutazione di quella parte del paese che non sta sotto i riflettori e che rappresenta buona parte della montagna più povera, dell’area prealpina, dell’entroterra appenninico e pedemontano, dei piccoli borghi abbandonati,ai margini del commercio, dell’industria, della cultura. Negli incontri con Nino Chiovini e nella lettura dei suoi libri avvertivo l’urgenza, il bisogno di testimoniare e in qualche modo risarcire la memoria degli ultimi, narrando la civiltà contadina, le radici e le origini. Un pensiero antico e al tempo stesso moderno che, in parallelo, ricordava le ricerche di Nuto Revelli o – più tardi – quelle di Marco Aime sui pendii ruvidi della Val Grana o tra i pastori transumanti di Roaschia, in Valle Gesso. La difesa e il riscatto quantomeno culturale del “mondo dei vinti” fa emergere un’attenzione, una forza nella denuncia dell’abbandono della montagna, dei coltivi, degli alpeggi, delle borgate che ha portato ad un depauperamento dell’ambiente, alla perdita di capacità, conoscenze, competenze. Quando l’antico edificio agromontano si sgretolò, iniziò l’abbandono della montagna. Raccontando il disboscamento della Val Grande con l’Ibai, la cura del bestiame, i lavori precari nel fondovalle nello “spartano” secondo dopoguerra, Chiovini raccolse ,tra confessioni e reticenze, la testimonianza del collorese Settimio Pella sul tema delle “disobbedienze” – il   bracconaggio, la pesca di frodo, il contrabbando con le bricolle –chiedendosi quale processo si dovesse fare a questi uomini che, al netto di queste “disobbedienze”, furono “corretti servitori di uno stato diretto da un ceto dirigente che tanto non meritava”. Siamo nel 1983 e così scrive Chiovini: “Gente che non evade il fiscoche non spreca, che non inquina, che produce fino alla fine dei suoi giorni, che non intrallazza con il potere, che non impoverisce l’azienda Italia; gente che, chiamata alle armi, mandata su ogni fronte, pagò i prezzi che conosciamo; gente che quando fu il momento ospitò i partigiani e fu dalla loro parte più che in altri luoghi, mentre anche i suoi giovani si facevano combattenti per la libertà; in cambio, dal nemico, ebbe devastazioni, spoliazioni, morte; dallo Stato nato dopo la Resistenza, che ancora oggi pretende e in parte ottiene il loro consenso politico, quasi nulla”. E si domandava ( e chiedeva) quale processo potesse essere fatto a queste persone e se non fosse il caso di conceder loro un’amnistia precisando però che non si trattava di “quella che periodicamente premia evasori, speculatori, trafugatori di pubblico denaro e via sottraendo… Un’amnistia culturale, di costume: quella che passando attraverso il territorio, possa giungere ai suoi antichi utenti”.

 

 Aggiungeva: “Forse il Settimio e la sua gente comprenderebbe il valore e il senso di quell’amnistia, di quel messaggio: giungerebbero, forse, alla conclusione che il rapporto stabilito da sempre con l’ambiente, non tollera più antiche devianze, remote e recenti contraddizioni. Quell’amnistia, poetico e politico ripianamento di colpe nei riguardi dell’ambiente, se sorretta dall’assenso delle giovani generazioni, dei ragazzi che oggi frequentano le sopravvissute scuole di quei villaggi – che dovrebbero fungere anche da sedi di rifondazione della cultura montana e da fonte della sua memoria – potrebbe diventare più efficace dei guardacaccia e dei finanzieri. Forse, un esperimento da ripetere in settori molto più importanti e decisivi del pianeta”. Una grande lezione morale. La stessa lezione che si trova nella conclusione di “A piedi nudi” quando scrive : “ Quello scomparso era un mondo imperfetto e crudele in cui tuttavia erano ravvisabili e riconosciuti vivi gli obiettivi, il senso della vita, il suo fine:l’obiettivo della sopravvivenza e quello della continuità della stirpe; il senso della vita sorretto dalla memoria della specie; il fine del bene operare che faceva perno sulla speranza. Quel mondo scomparso rappresentava la riconosciuta e accettata civiltà della fatica quotidiana, del lavoro realizzato da mani con le palme di cuoio; la civiltà dei sentieri e delle mulattiere selciate e lastricate, dei geometrici terrazzamenti e, in fondo, dell’ottimismo collettivo, simboleggiato dal rituale saluto di congedo – alégher, allegri – che si scambiavano i suoi abitanti”. Qui si coglie, nel saluto, l’importanza della lingua e del linguaggio. Un caro amico mi ha fatto rilevare come la lingua si fondi sul significante, sull’immagine acustica della parola che la distingue dal significato. La nostra cultura ha dato la preminenza assoluta al significato mentre nel dialetto è il significante che pesa e conta. Alégher non è traducibile con un “ciao”. Il significato è più o meno lo stesso ma il saluto è più denso e più ricco, parla e suona diversamente perché è la lingua il significante. La parola risuona diversamente e ha effetti differenti su di noi e questa è l’identità della lingua. Tutto ciò racchiude quell’insieme che è la storia delle ceneri della fatica, di quella civiltà alpina sulla quale calò, come scrisse, “ un sipario di fogliame”.

Residenze reali non più sabaude? Manca il senso della storia

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni / Il prof. Guido Curto è un  vip rampante torinese di grande successo, figlio dell’egittologo Silvio, che da vice preside di Giovanni Ramella al liceo d’Azeglio diventò direttore dell’Accademia Albertina, per poi approdare a palazzo Madama e infine alla Reggia di Venaria

Una carriera sfolgorante e sicuramente  molto meritata  per un  iniziale, modesto  professore liceale di storia dell’arte.

Adesso  il prof. Curto vuole cancellare dal circuito delle residenze sabaude l’aggettivo sabaude. La notizia mi fa un po’ trasalire e mi domando a che titolo il prof. Curto può decidere  -in una intervista di giornale- di annunciare la cancellazione  del nome dei Savoia dalle residenze che appartennero alla Dinastia millenaria che si fonde con i destini stessi  del Piemonte e dell’Italia. Spero che ci sia  stato un equivoco e che la cosa si chiarisca, andando oltre le polemiche già scatenate  su Facebook. Infatti apparirebbe  strano, se non persino ridicolo, che proprio nel bicentenario della nascita del primo Re d’Italia e Padre della Patria Vittorio Emanuele II, venisse ostracizzato  un nome che non può essere cancellato e non va cancellato per nessun motivo da quelle residenze che appartennero storicamente  ai Savoia. Non  e’  una questione di monarchia o repubblica, ovviamente, ma di   modesto buon senso o,meglio,di quello che Omodeo definiva  il “senso della storia”.

Aldo Viglione, presidente del Piemonte per antonomasia, che  volle per primo il recupero delle residenze sabaude, non si sarebbe mai sognato, in epoca di trionfante demagogia antisabauda, di cancellare quel nome che può piacere o non piacere, ma che risulta oggettivamente dalla realtà storica tramandata nei secoli. Vorrei chiedere al Presidente della Regione Cirio che si ritiene un erede di Viglione, di prendere  posizione e di dire la sua opinione in proposito.

Chi volesse cancellare il nome di Savoia  dalle residenze  reali  apparirebbe, pur  magari non volendolo,  quasi  l’erede dell’ oscuro sindaco di Ceresole Reale che desiderava eliminare la parola Reale dal nome del suo comune. O di chi tolse il nome Reale da Venaria o il nome Sabauda da Villafranca. Fu  piccola gente senza storia che non rispetto’ il passato perché troppo carica di faziosità vendicativa , dovuta a vecchi furori giacobini.Il prof. Curto non può certo  confondersi con quelli che vollero censurare la storia. Benedetto Croce, in visita a Torino dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, denunciò  in una lettera a Filippo Burzio, con  grande fermezza, il piccolo tentativo di scalpellare via  il nome dei Savoia dalla toponomastica torinese.
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Le motivazioni addotte da Curto appaiono abbastanza  pretestuose. Sostituire Piemonte alla parola Sabaude, per evitare errori di localizzazione da parte dei turisti, appare  privo di senso. Semmai, se proprio si voleva, si poteva aggiungere Piemonte, senza togliere  il riferimento ai Savoia. Le confusioni territoriali  che teme il professore non  sono giustificate, mentre appare invece molto  chiaro l’intento di cancellare, in modo del tutto ingiustificato,  l’identità storica delle dimore sabaude. Spero che il prof. Curto voglia considerare anche la voce di chi dissente  e che scrive, richiamandosi alle ragioni della storia, sicuramente  più importanti di quelle del turismo, pur di per se’ molto importanti.

 

Scrivere a quaglieni@gmail.com

(Foto Mario Alesina)