CULTURA- Pagina 148

#fotoimperfetteGAM nel segno di Helmut Newton

Alla Gam di Torino un concorso fotografico online ispirato alla grande retrospettiva dedicata a Helmut Newton Un modo coinvolgente e di indubbio interesse per proseguire nell’omaggio al grande “enfant terrible” della Fotografia del secondo Novecento.

Questo vuole essere il concorso fotografico online dedicato alla mostra “Helmut Newton. Works”, inaugurata nel gennaio scorso nelle sale del Museo di via Magenta (prodotta da “Civita Mostre e Musei” con la collaborazione della “Helmut Newton Foundation” di Berlino e curata da Matthias Harder, direttore della Fondazione) ma purtroppo, in queste settimane e al pari di ogni altra attività espositiva, non visibile al pubblico a causa dell’ emergenza sanitaria piombata anche sul mondo culturale subalpino come una “tempesta” di inaudita violenza e dai risvolti a oggi ancora assai incerti e assai poco rassicuranti.


Il tema scelto per il contest riguarda un aspetto insolito e quasi inedito della produzione di Helmut Newton (Berlino, 1920 – Los Angeles, 2004), messo in luce durante la conferenza stampa di presentazione della mostra dal critico della Fotografia Denis Curti, e riproposto in un videoclip pubblicato sul canale YouTube della GAM: quello della foto imperfetta.
Il grande fotografo, “oriundo tedesco con passaporto australiano e residenza a Monte Carlo” (com’egli stesso si definiva), amava infatti, da geniale “ragazzaccio” qual era, sostenere: “Spesso cerco di fare delle ‘brutte foto’. Certo non posso fare a meno di lavorare meticolosamente, ma mi piace che le fotografie sembrino sbagliate… Preferisco i colori sparati, che fanno pensare a un errore nello sviluppo… Mi capita di tenere la macchina un po’ di traverso, quanto basta perché la foto non sia troppo perfetta”. E proprio nel video della GAM Denis Curti mostra, per l’occasione, alcuni scatti di moda realizzati da Newton in cui l’orizzonte non è precisamente orizzontale. “L’imperfezione- sostiene il critico – contribuisce a rendere più credibile la fotografia e a inserire lo scatto in una dimensione di realtà”.
Agli appassionati del lavoro di Newton, agli amanti della fotografia e a tutto il pubblico della GAM si chiede quindi di pubblicare su Instagram una “foto sbagliata”, magari realizzata proprio in questi giorni nella necessaria costrizione delle pareti domestiche, con l’hashtag #fotoimperfetteGAM
Attenzione, però. Perché “foto imperfetta- avvertono gli organizzatori – non significa foto brutta”. E precisano: “L’errore deve essere sempre funzionale al racconto, volto a donare maggiore forza e carattere. Un orizzonte storto può donare dinamicità a una scena, così come un mosso creativo può renderla più drammatica. La foto tecnicamente perfetta rappresenta sicuramente uno scatto oggettivamente valido, ma l’eccessiva attenzione alle regole può facilmente produrre una fotografia sterile, fredda e poco comunicativa. L’errore voluto, al contrario, può conferire all’immagine un’anima, rendendola viva: tuttavia dietro ogni ‘errore’ deve comunque esserci una scelta ragionata e una motivazione, tenendo sempre presente che anche una spiegazione plausibile, da sola, non è sufficiente a dare maggior valore al proprio scatto.

Le foto che arriveranno saranno subito pubblicate nelle “stories” di Instagram della GAM. Infine, non appena sarà possibile riaprire il Museo, saranno stampate grazie alla collaborazione di Nikon Italia, con l’idea  di realizzare un wall dedicato all’interno degli spazi del Dipartimento Educazione, che sarà inaugurato con una grande festa!
“E ovviamente – dicono alla GAM – non vediamo l’ora!”.

Per info: GAM- Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, via Magenta 31, Torino; tel. 011 o www.gamtorino.it

g. m.

I Lamberti, l’arte per gli ospedali

Quarantotto  opere di artisti prestigiosi, offerte per la nuova asta a sostegno degli ospedali del Verbano Cusio Ossola, fanno da “cornice” alla terza tranche dell’iniziativa benefica messa a punto in collaborazione dall’associazione I Lamberti di Omegna con Il Brunitoio di Ghiffa

La terza e ultima asta di beneficenza promossa per raccogliere fondi a sostegno dei presidi sanitari della provincia più a nord del Piemonte per fronteggiare l’epidemia da COVID-19 si annuncia molto interessante. Dopo le due prime aste, che hanno permesso di girare alla Fondazione Comunitaria del Vco un totale di 7.065 EURO, i risultati attesi per questa terza tranche sono ancora più promettenti.
Oltre all’adesione di artisti del calibro di UGO NESPOLO, GIANFRANCO ASVERI, OMAR GALLIANI, ANTONIO MIGNOZZI, FULVIO TOMASI, MAURIZIO GALIMBERTI e FULVIO CASTIGLIONI, da privati e gallerie sono, infatti, giunte opere di MIMMO ROTELLA, ENRICO BAY, UMBERTO MASTROIANNI, ALFREDO BUSÀ, CARLO CASANOVA, GIUSEPPE CARAMELLA, ANTONIO CALDERARA, CALLISTO GRITTI, ANTONIO DE VENEZIA, KOJIC TIJANA, SERGIO BIANCHERI e MAURO MAULINI. Come ha ricordato Roberto Ripamonti  de I Lamberti, animatore di questa nuova iniziativa a favore del territorio, “anche per le opere di questa terza asta la base d’offerta non corrisponde affatto alle reali quotazioni di mercato. Ringrazio ciascun artista che, cogliendo appieno lo spirito di questa iniziativa, ha accettato di partire con un’offerta economicamente inferiore, per dare così la possibilità a molti di acquisire opere d’arte importanti dando il loro contributo a questa importante causa».L’elenco completo degli artisti e delle opere è visualizzabile sul sito della Fondazione Comunitaria del Vco.
mtr

La stecca

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PAROLE ROSSE di Roberto Placido /  Naturalmente non è quella da biliardo, e nemmeno quella che lasciava chi aveva finito il servizio militare, altri tempi, ma quella che prende un’artista durante un’esecuzione. Dispiace che a prenderla, attraverso le sigle sindacali, siano i dipendenti e, sembra, principalmente i maestri, della più grande fabbrica di cultura della città di Torino e della regione Piemonte.

E sì, con i suoi quasi quattrocento dipendenti, oltre trecento a tempo indeterminato, più di cinquanta a tempo determinato e diversi collaboratori, sono numeri da grande azienda. Azienda speciale, culturale, una vera e propria fabbrica di cultura non solo artistica e musicale ma anche di scenografie e di sartoria. Meritorio, come tante altre realtà italiane, il lavoro delle sarte del Regio nel produrre mascherine, il bene di prima necessità di questo sciagurato momento che stiamo vivendo. Dopo la lunga parentesi alla sovrintendenza del Teatro Regio di Torino di Valter Vergnano e la breve, negativa e chiacchierata, di William Graziosi, è arrivato l’ex direttore artistico del teatro An der Wien di Vienna, Sebastian Schwarz. Sicuramente nel bando di selezione non c’era la situazione dei conti del nostro teatro lirico, ne’ di quelli passati e nemmeno di quelli recenti. A complicare la situazione, come si usa dire “piove sul bagnato” il blocco del cartellone e delle attività determinato dal Corona Virus. Così Schwarz, nell’assenza del Presidente del Consiglio d’indirizzo della Fondazione Teatro Regio di Torino, per statuto è il Sindaco della città, -che ancora una volta si segnala nel defilarsi da qualsiasi situazione difficile o impegnativa-, ha incominciato a cercare le risorse per evitare il tracollo, in attesa che si arrivi a sapere, intendo ufficialmente, l’ammontare esatto dei conti del Teatro, quei due milioni e mezzo di euro necessari.

Gli interlocutori naturali ed obbligati le fondazioni bancarie, la vera cassaforte, i veri padroni, e qualcuno ne è anche convinto comportandosi in tal senso, non solo dell’esangue se non moribonda cultura torinese ma anche di molto altro. Difficile districarsi nel contratto delle fondazioni liriche, che a detta dei bene informati è tra i migliori, in senso di garanzie per i lavoratori, del mondo dello spettacolo, e legittimo proporre in alternativa ferie non godute un po’ meno comprensibile proporre la realizzazione di una rassegna estiva in queste condizioni. Mi hanno spiegato anche la differenza tra stipendio base e i vari aspetti accessori del salario legato a spettacoli e rappresentazioni e ad altri aspetti ma onestamente, me ne dispiace, faccio fatica a capirli ed a condividerli. Vuol dire non capire lo stato di salute dell’ente lirico, il discorso sulle responsabilità lungo ed annoso, il momento che stiamo attraversando. In un paese che prova a garantire altri lavoratori, le partite iva, con seicento euro al mese, quelli in “nero”, che non hanno garanzie, con cifre simili, i senza reddito con buoni acquisto e di cittadini ed associazioni che si inventano i “panieri sospesi” per i disperati e si potrebbe continuare. La sinistra, i lavoratori, hanno sempre avuto tra i propri valori la solidarietà, l’attenzione verso gli ultimi ed io, a meno che non mi convincano con argomenti forti, nel rifiuto da parte dei lavoratori del Regio della richiesta di cassa integrazione, in questo momento attesa, sperata da milioni di altri lavoratori precari e non garantiti, non ritrovo più quei valori.

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

Anita Nair  “Sapore amaro”  -Guanda-  euro 19,00

Anita Nair è l’autrice indiana del best seller “Cuccette per signora” (del 2001) ed ora ci incanta con questo romanzo a più voci femminili in cui intesse storie, sentimenti, paure, sconfitte e vessazioni subite da 4 protagoniste principali intorno alle quali ruotano altri personaggi memorabili. Geniale è il filo che collega le loro vite, perché la Nair fa parlare una scrittrice e scienziata 35enne morta suicida, Srilakshmi. Come si è uccisa lo scoprirete alla fine, ma l’importante è che dopo la cremazione il suo amante segreto trafuga una delle falangi sopravvissute al fuoco e la nasconde nello scomparto segreto di un mobile, condannando così la sua anima a restare sulla terra.

“Solo io sapevo che non sarei mai stata liberata. Irrecuperabile in vita. Irrecuperabile in morte. Trafugandomi e seppellendomi nel suo cuore e nel suo armadio, Markose aveva fatto si che rimanessi per sempre nel limbo”. Sono le parole con cui Srilakshmi riassume la sua tragedia.

50 anni dopo il mobile finisce per caso in un Resort, ed è proprio lì che va a nascondersi la piccola Megha di 6 anni per scappare dall’orco che le usa violenza. Il doppiofondo si apre e la falange -in cui è rimasta intrappolata l’anima che non trova pace- inizia a passare di mano in mano intersecando le vite di altre donne e le loro tragedie. Nel Resort c’è la giornalista di successo Urvashi con un matrimonio agli sgoccioli, in fuga dall’amante narcisista borderline che non accetta il rifiuto e diventa lo stalker che la perseguita in ogni modo. Poi c’è Najma, costretta a celare la mostruosità del suo viso, sfregiato con l’acido da uno spasimante respinto, davanti a spettatori che hanno finto di non vedere. Queste le traiettorie principali lungo le quali viaggia l’anima di Srilakshmi che, raccontandoci le loro vite, traccia il quadro sconsolante della condizione femminile in India. Le loro esistenze difficili che volgono in tragedie quanto più cercano di auto affermarsi ed emanciparsi da una società che le relega al fondo di tutto e sotto tutti.  Un libro che resta nel cuore.

 

Martin Caparros  “Tutto per la patria”  -Einaudi-  euro  19,50

Il giornalista e scrittore argentino, nato a Buenos Aires nel 1957 -direttore di svariate riviste culturali, laureato in Storia a Parigi e vissuto anche a New York e Madrid- imbastisce un giallo ambientato nella capitale argentina degli anni 30. L’idea gliel’ha suggerita la lettura di Camilleri e le avventure del commissario Montalbano l’hanno conquistato al punto da spingerlo a cimentarsi nello stesso genere letterario. Ambienta il suo giallo nella Buenos Aires del 1933 quando, nonostante la crisi del 29, l’Argentina era una delle 10 nazioni più ricche al mondo: un crogiolo di culture importate soprattutto da italiani e spagnoli, cantieri aperti un po’ ovunque e il via al traffico nell’incredibile Avenida 9 de Julio. Caparros fa scendere in campo il suo protagonista, Andrés Rivarola, giovane perdigiorno che si arrangia come può per vivere e sogna di comporre un tango memorabile. Si ritrova nei panni di investigatore-reporter alle prese con un mondo che ha forti echi di fascismo (sono gli anni in cui Hitler prende il potere e l’Europa sta sbandando pericolosamente) e, tra corruzione e confusione politica, i militari in Sudamerica scavalcano tutto e tutti per arrivare al vertice. La vittima è Mercedes, giovane trovata morta con la gola tagliata e, stranamente, la notizia viene nascosta per giorni. Suicidio o omicidio? Il padre accusa gli anarchici durante il funerale trasformato in comizio. A intorpidire le acque si aggiungono poi fumose sale da ballo in cui la ribellione batte nei tacchi dei “tangueiros”, ambienti malfamati, sporchi maneggi politici, il mondo del calcio (con il campione Bernabé Ferreyra che ambisce compensi da star ma si rifiuta di rientrare nella squadra argentina). Al di là della trama, che scoprirete intricata, la grande protagonista del romanzo è soprattutto Buenos Aires. La sua gente, i suoi luoghi  mitici, come  il cimitero La Recoleta (una città nella città con mausolei che sono autentiche opere d’arte) e i primi anni del professionismo calcistico. Poi Caparros si diverte prendendo di mira i circoli intellettuali dell’epoca e ritrae un Borges acerbo (la grande fama internazionale deve ancora arrivare) che infastidisce con il suo atteggiamento tra il supponente e il ridicolo, tronfio, dai versi ancora scadenti e corteggiatore di donne senza successo. Insomma un tuffo in una Buenos Aires indimenticabile.

 

 

Claudio Magris  “Polene. Occhi del mare” –La nave di Teseo- euro 20,00

Vi fa solcare mari in tempesta, veleggiare verso l’ignoto e vi travolge nei flutti salati questo libro di Magris, tra saggio, racconto, e immagini bellissime. Protagoniste le polene, mitiche statue- sculture che imperavano sulle prue delle navi, dall’antichità fino a temi più moderni (difficile stabilire l’ultimo creatore di polene, comunque nel 1907 la Marina Americana decise di toglierle dalla prua delle sue navi).

Sguardi che scrutavano l’ignoto, alcune dalle sembianze di donne fatali e seducenti, sirene adescatrici rappresentate da ammalianti sorrisi e seni procaci; altre invece sfingiche, arcigne, più demoni che angeli, o dall’aspetto energico e rompiscatole come quello delle donne che attendevano i marinai a casa. La polena più antica di cui si ha memoria nel mito sarebbe stata la testa d’ariete che indicava la rotta alla nave degli Argonauti. Ma le più affascinanti sono soprattutto le effigi femminili, a volte donne bellissime dalle forme voluttuose ispirate a modelle in carne ed ossa ritratte dagli artigiani. “Il modello ideale”..scrive Magris “il prototipo della polena è neoclassico….nasce da un vortice di vento che, alla base, sembra increspare le onde e si prolunga nella veste fluttuante, linea ondulata di onda marina trattenuta prima di disperdersi nell’informe”. Magris rintraccia storie affascinanti e suggerisce le visite a musei carichi di storie di uomini e mare, dove le  polene riposano e si lasciano ammirare: come il Valhalla alle isole Scilley, i Musei Marittimi di Anversa e Barcellona, quello di Ringkøbing in Danimarca o il National Museum of the Royal Navy a Portsmouth.

Poi con il declino della navigazione a vela anche le  polene furono trascinate a fondo da una progressiva decadenza. Molte vennero smontate dalle navi, altre, vittime di tempeste e naufragi, furono restituite dal mare smangiucchiate dall’acqua, dai pesci e dal tempo nelle profondità più buie. E Magris è abilissimo nel ripercorrere e raccontarci le loro vite e il loro destino.

 

 

Notturno

La poesia / di Alessia Savoini

***
Luna aberrante
baiadera della notte
alla terra concedi ora la sua requie.
Sicaria del giorno,
non muore la tua catarsi
ad ogni novilunio.
Sugli starli di saggitario
la tua viscera siderale
trafigge le mie chimere.

Valdo Fusi: “Fiori rossi” per un cattolico coerente e tollerante

Questo articolo esce  in memoria dei Martiri del Martinetto di cui ricorre oggi il ricordo e di cui Valdo Fusi ha raccontato la tragica e nobile storia  Il Sacrario del Martinetto è un luogo simbolo di una religione civile di grande importanza che si mescola con la testimonianza umana e religiosa dei Caduti sotto il piombo di sicari fascisti

Di Pier Franco Quaglieni

È impossibile cercare di “commemorare” Valdo Fusi, l’uomo che, come osservò Luigi Firpo, si sarebbe giocato la carriera per il gusto della battuta. In effetti, quella carriera se la giocò per una cosa molto più seria: l’amore per la verità e il coraggio di andare contro corrente. Sempre e ovunque. Si può al massimo “ricordare” Valdo, anche se è impossibile far rivivere le ore trascorse con lui, parlando, scherzando, passando dall’ironia più bonaria all’invettiva più feroce. Su tutt’altro versante e in modi molto diversi, io ricordo solo Longanesi, Flaiano, Maccari, ma in Fusi c’era una tensione morale, un rigore civile che rendono sbagliato ed improprio questo accostamento. Egli ci appare, nello stesso istante, lontano e vicino: lontano perché appartiene ormai a quella “Torino civile”, di cui si sono perdute le tracce; vicino perché è proprio a uomini come lui che bisognerebbe guardare per cercare di uscire dalla palude del conformismo.

Partigiano, membro del Comitato militare del Cln piemontese in rappresentanza della Dc, subì l’arresto e il processo che condusse nell’aprile 1944 gli uomini del gen. Perotti davanti al plotone d’esecuzione al Martinetto. Fusi fu assolto per insufficienza di prove e ritenne quella sorte come una missione: ricordare gli eroi del Martinetto. Nel dopoguerra fu deputato, consigliere comunale, presidente dell’EPT e dell’Ordine Mauriziano, ma lo stesso Fusi considerò tutto ciò una “parentesi” perché tornò a fare l’avvocato come prima della guerra, senza farsene un problema. Era un uomo inadatto alla politica intesa in modo settario e meno che mai per l’“affarismo”: si rivelò incapace persino di praticare la politica al fine di soddisfare pur legittime ambizioni. Pari a lui fu solo Silvio Geuna, anche lui partecipe e vittima della tragedia, dopo un fulmineo processo-farsa, in cui si offrì di sostituire il generale Perotti davanti al plotone di esecuzione, essendo il generale padre di tre figli e lui celibe.

Ci ha lasciato due libri, il già citato Fiori rossi al Martinetto e Torino un po’, uscito postumo, che, a parere di molti critici, ci possono far parlare anche di un Fusi scrittore. Sono testimonianze preziose, libri che vanno letti e che soprattutto si è portati naturaliter a rileggere, per il modo in cui sono stati scritti e per le cose importanti che contengono. Fiori rossi al Martinetto è, anche sotto il profilo letterario, un libro importante. Esso non è solo la testimonianza storica di ciò che capitò al Comitato militare del Cln piemontese nell’aprile 1944 a Torino e che ebbe il suo epilogo eroico al poligono del Martinetto. Valdo Fusi è stato uno scrittore autentico. Nel convegno voluto dal Centro “Pannunzio”, tenutosi nell’Aula Magna dell’Università di Torino il 24 novembre 1977 su Valdo Fusi scrittore in modo particolare Lorenzo Mondo e Riccardo Massano lo dimostrarono con totale evidenza. Lorenzo Mondo sostenne che Fiori rossi è uno di quei libri unici che si scrivono una sola volta nella vita. Evidenziò «la limpidezza della scrittura» che lo caratterizza. Secondo Mondo, Fusi ha in parte guardato a Le mie prigioni del Pellico, ma è andato anche molto oltre l’esempio della letteratura carceraria perché in quel libro si sente «il fiato di nomi grandi, di nomi alti […]». Riccardo Massano affermò: «[…] Fusi è uno scrittore nato, perché per lui lo scrivere è come respirare. Non che non avesse una straordinaria cultura che nelle pagine affiora ed è consegnata persino a quelle epigrafi straordinarie che costellano tutti i suoi libri […] e che non sono solo letture fuggevoli e frivole» […]; è uno «scrittore nato, ma non in senso stretto uno scrittore letterato o, almeno non uno scrittore letterario. Per lui questo nodo di vita e di scrittura diciamo pure di vita e d’arte, era qualcosa di così intenso, che per un certo momento la sua vitalità ha travolto la sua stessa possibilità di scrittura».

Ed ancora: «Fiori rossi al Martinetto sarebbe potuto essere un libro di memoria e invece è un libro di vita, un libro vivo».Un altro critico, Giorgio Calcagno, nel convegno promosso sempre dal Centro “Pannunzio” il 9 marzo 1985 sostenne: «Fiori rossi al Martinetto non è un’epopea; e nemmeno, a rigore, un libro di cronaca, sia pure di un episodio fra i più importanti della guerra partigiana. È una testimonianza personale per scorcio con il segno, e meglio l’unghiata, inequivocabile del suo autore. Fusi gioca tutto il proprio racconto su una duplice prospettiva incrociata quasi avvalendosi di un cannocchiale che capovolge in continuazione: per ingrandire gli altri, per rimpicciolire sé stesso. L’atteggiamento dominante è quello dell’understatement, il tenersi sotto tono, quasi sorridendo di sé per abbassare il tragico, spegnere la tentazione dell’epico». Si tratta di un libro esente dal “reducismo” che tanto danno ha provocato alla memoria storica della Resistenza, nel quale rivive lo spirito migliore che animò quegli uomini che decisero di riscattare l’infamia dell’8 settembre 1943, impegnandosi in prima persona nella guerra partigiana e patriottica. Lo scrittore Piero Chiara colse solo in modo parziale la figura di Fusi quando osservò: «Valdo era un irriducibile. Voleva, come tanti allora, un’Italia libera, cristiana, democratica, onesta e dignitosa […]. Fusi era di quelli che non tollerano l’indifferenza e si votano all’impegno». Infatti va anche precisato che Fusi non conobbe mai l’engagement di tanti intellettuali, perché rimase un uomo libero, totalmente svincolato da discipline che non fossero quelle dettate dalla sua coscienza morale. Uno scrittore che scriveva anche per il piacere di scrivere, di comunicare con gli altri con quello spirito che Luigi Firpo ha giustamente così sintetizzato: «un eterno giovane vivacissimo, ilare, segnato da un umorismo schietto, non di rado tagliente, al quale, in fondo, egli sacrificò anche il successo».

Nel 1970 il Teatro Stabile di Torino commissionò a Davide Lajolo, il mitico “Ulisse” della Resistenza, la riduzione teatrale di Fiori rossi al Martinetto. Lajolo intese ispirarsi al libro di Fusi troppo liberamente con un taglio politico e persino ideologico che Fusi non poteva condividere. Ha scritto Nuccio Messina, direttore del Teatro in quegli anni: «Il tentativo – forse ingenuo – di mettere d’accordo un democristiano storico e fervente come Valdo Fusi e un comunista rigoroso come Lajolo era fallito. […]. Erano tempi di divisioni profonde. Nel nostro caso i protagonisti erano Fusi e il suo libro: li avevamo scelti e ad essi dovevamo riferirci. E Fusi aveva ragione». Forse Messina enfatizza un po’ il “radicalismo” democristiano di Fusi che già alla fine degli Anni Sessanta era molto deluso dal suo partito, ma appare fuor di dubbio (e chi scrive può testimoniarlo) che Fusi avesse detto chiaramente che la Resistenza come lotta di classe era quanto di più estraneo ci potesse essere rispetto al suo libro in cui la pietas cristiana (e, quindi, il valore della fratellanza umana e del perdono) era l’elemento prevalente. Lajolo, a sua volta, operò in anni successivi una sorta di revisione critica delle proprie posizioni, ma resta il fatto che lo spettacolo teatrale non si poté realizzare perché Fusi, andando contro i suoi interessi materiali anche in questa occasione, mise il veto ad un’operazione che avrebbe sicuramente giovato ad un ulteriore successo del libro.

In particolare, sono da ricordare due tratti della sua personalità che mi sembrano importanti e che forse non sono mai stati abbastanza messi in luce. Fusi fu cattolico di fede indiscussa, ma certo fu anche il più laico e il meno clericale dei cattolici militanti. La civiltà a cui si richiamava era quella fondata sulla tolleranza e sul rispetto per le idee degli altri, come aveva appreso anche da Augusto Monti al Liceo “d’Azeglio” di Torino. Per altri versi, si differenziò anche rispetto a molti ex “dazeglini” perché nel 1968 sentì fortemente la sua distanza ideale e morale rispetto alla contestazione, vedendo in essa una sbornia ideologica intollerabile e un che di «belluino», come disse quando venne la prima volta al Centro “Pannunzio”. Egli aveva colto assai bene che il problema della tolleranza era da vedersi anche rispetto alle ideologie presuntuose e invadenti ed ebbe il coraggio di dissentire pubblicamente da Primo Levi che non aveva accettato di venire a un incontro promosso dal Centro “Pannunzio” nel 1972 perché altri invitati «non erano abbastanza di sinistra». Ed ebbe il coraggio di metterlo nero su bianco, pur non facendo nomi, per altro desumibili dal biglietto di invito. Nella esperienza tragica del processo davanti al Tribunale Speciale e nel corso della Resistenza, aveva imparato a conoscere e ad apprezzare uomini di diverso orientamento politico come il comunista Eusebio Giambone, i partigiani di G.L., delle Brigate Matteotti e delle formazioni autonome, con cui collaborò lealmente. Egli fu amico, ad esempio, di Enrico Martini Mauri e ci fu chi ritenne un suo errore aver mantenuto l’amicizia con una medaglia d’oro della Resistenza caduta in disgrazia per il suo anticonformismo. Andrebbe anche detto che negli anni dopo la fine della guerra civile finì di far prevalere – pur nel suo fermissimo antifascismo – il valore del perdono cristiano. Egli era un cattolico che leggeva “Il Mondo” di Pannunzio, tanto per citare un esempio.

Il senso dell’impegno cristiano, umano e politico di Fusi trova la sua sintesi in questa lettera che indirizzò a “La Stampa” nel 1955: «[…] Ignoravo un problema a cui non avevo pensato mai. Dove sono sepolti ceux d’en face, i combattenti di Salò? Il dottor Catalano mi ha risposto: non hanno sepoltura. Dovremmo essere noi resistenti a provvedervi. Se sul piano delle idee nessuna conciliazione sarà mai possibile, se noi rifiuteremo sempre l’equivalenza tra fascismo e antifascismo, nei rapporti tra uomo e uomo è necessaria la più illuminata apertura dell’animo, e magari l’indulgenza. Indulgenza del resto che ha trovato nelle leggi della Repubblica la sua consacrazione. Dobbiamo cancellare ogni traccia della guerra civile, sul piano umano. È dovere nostro concedere, e subito, quell’onorata sepoltura che a molti dei nostri amici negarono questi nostri nemici. Se non sarò il solo resistente a pensare così, verserò il mio contributo alle spese occorrenti. Altrimenti, provveda il Comune. Suppongo di avere le carte in regola per avanzare siffatta proposta e non dubito che i Geuna, i Passoni, i Coggiola, i Grosa, l’accetteranno». Nel trentennale della Liberazione nel 1975 si rifiutò di tenere commemorazioni, dicendomi: «Sai, non credo più in queste manifestazioni: stanno imbalsamando la Resistenza». Quando nel 1975 salii a Isola d’Asti per dargli, insieme a tanti altri, l’estremo saluto, Mario Bonfantini, che era vicino a me in macchina, disse – e successivamente lo scrisse – che quella collina astigiana era «un paese di dolce grazia fantasiosa che sottende un duro fondo eroico» ed aggiunse che tutto ciò gli faceva pensare all’intima personalità di Valdo, che solo noi, suoi amici, abbiamo avuto modo di conoscere ed apprezzare.

È significativo che la Giunta di sinistra andata al governo della città di Torino con toni trionfalistici e obiettivi vistosamente egemonici, abbia deliberato, a pochi mesi dalla sua morte, di dedicargli una piazza torinese che è diventata il mostro orribile che è ora il piazzale. C’è stato chi ha affermato che il Sindaco Diego Novelli avesse dovuto affrontare l’opposizione da parte di esponenti del suo partito all’intitolazione per motivi che non fanno loro onore. Novelli tirò dritto per la sua strada e intitolò la piazza che poi divenne un parcheggio di auto, sia pure ombreggiato da molti alberi. Quando una Giunta successiva decise di costruire sotto la piazza un parcheggio sotterraneo, eliminò gli alberi e si affidò ad un concorso internazionale per ridisegnare la piazza sovrastante. Ne derivò quello che divenne un mostro. Fusi si sarebbe rivoltato nella tomba, se avesse potuto vedere quel piazzale incredibile, un vero pugno in un occhio, anzi una ferita inferta alla città a cui nessuno ha voluto in qualche misura porre rimedio, neppure il Comitato che si fregiò del nome di Fusi e quasi subito si arrese.

Il «solito Fusi»

Di fronte a Fusi non contano le distinzioni di parte, vale soltanto la stima per un uomo che non smise mai di desiderare un’altra Italia, diversa da quella in cui era vissuto, un’Italia più limpida sotto il profilo etico-politico e più libera rispetto ai pregiudizi, alle faziosità e alle asprezze del “secolo breve”.

A tanti anni di distanza forse posso lasciarmi andare a una confidenza. Molti di noi erano preoccupati per l’avvento di una Giunta di sinistra al Comune di Torino, frutto anche del modo dissennato – un vero e proprio cupio dissolvi – con cui la Dc gestì le amministrazioni dal 1970 al 1975. Dopo la fine del mandato affidato a Giovanni Porcellana nel 1970, ci furono risse interne alla Dc che portarono al paradosso del socialista Guido Secreto a capo di una Giunta monocolore democristiana. Dopo, arrivò un galantuomo come il sindaco Giovanni Picco che chiuse il quinquennio, cercando di recuperare il terreno perduto, ma dovendo affrontare infinite difficoltà. Si trattava di candidare nel 1975 un uomo limpido, capace, credibile, come si direbbe oggi. Un candidato sindaco quasi super partes, un grande torinese come fu Peyron. Io partecipai ad alcune riunioni “clandestine” a cui presero parte amici liberali, socialdemocratici, repubblicani e democristiani. Sono tutti morti, ma preferisco non farne i nomi, essendoci scambiata la parola d’onore che mai avremmo rivelato chi partecipava agli incontri. Rassicuro subito: non eravamo una loggia coperta o, come si diceva allora, un piccolo “superpartito”. Tutti pensammo a Valdo Fusi come Sindaco di Torino. Non trovammo il tempo neppure di parlarne con l’interessato. In una pausa del Consiglio comunale ne accennai al conte Edoardo Calleri di Sala, potentissimo e capacissimo leader della Dc, che mi disse: «Il solito Quaglieni che propone il solito Fusi. Voi sognate, non fate politica». Confesso dopo molti anni che quell’abbinamento tra Fusi e me, giovane assistente universitario, fu uno dei più bei complimenti che mi fecero e di cui vado orgoglioso. Come ci sarebbe bisogno anche oggi, di tanti «soliti Fusi»!

 

(Valdo Fusi: Pavia 1911 – Isola d’Asti 1975)

Il Coronavirus non ferma il Premio InediTO: designati i finalisti

Nonostante l’emergenza Coronavirus e le difficoltà del momento, il Premio InediTO – Colline di Torino, punto di riferimento in Italia tra quelli dedicati alle opere inedite, non si è fermato e ha concluso la fase di selezione delle 700 opere iscritte alla diciannovesima edizione

I membri del Comitato di Lettura  formato da Valentino Fossati (sezione Poesia), Anna Francesca Vallone (sezione Narrativa-Romanzo), Francesco Delle Donne (sezione Narrativa-Racconto), Alfredo Nicotra (sezione Saggistica), Simone Carella (sezione Testo Teatrale), Eleonora Galasso (sezione Testo Cinematografico) e Valerio Vigliaturo (sezione Testo Canzone), direttore anche del concorso, hanno designato i nomi dei 49 finalisti delle sette sezioni e dei 18 autori in gara per i premi speciali “InediTO Young” in collaborazione con Aurora Penne, nonché “Alexander Langer” e “Giovanni Arpino” in collaborazione con la Città di Torino (tra i quali spiccano i nomi di Andriano Angelini Sut, tra i quarantuno candidati al Premio Strega 2018Renato Gabriellidrammaturgo, sceneggiatore e docente di Scrittura teatrale alla Scuola “Paolo Grassi” di Milano, Stefano Valentini, sceneggiatore e regista, vincitore del London Indipendent Film Festival e del Roma Indipendent Film Festival) e il cui elenco completo è consultabile sul sito www.premioinedito.it

Un lavoro complesso e determinante quello dei giovani membri del Comitato che, aderendo alla campagna #ioleggoacasa, dopo un’attenta e scrupolosa lettura, in cui sono emersi tendenze, temi e stili diversi, hanno scelto le migliori opere giunte in occasione di questa edizione a centinaia (record assoluto del premio) da tutta Italia e dall’estero (Inghilterra, Francia, Germania, Spagna, Belgio, Svizzera, Croazia, Egitto, USA), a conferma sempre più dell’internazionalità del premio.

Le opere finaliste saranno ora sottoposte alla valutazione della super Giuria presieduta dalla scrittrice Margherita Oggero e formata dai poeti Maurizio Cucchi e Maria Grazia Calandrone, gli scrittori Enrica Tesio, Raffaele Riba, Marco Lupo (Premio Campiello opera prima 2019) e Gaia Rayneri, i filosofi e saggisti Michela Marzano Leonardo Caffo, l’attore Tindaro Granata, Emiliano Bronzino (direttore artistico di AstiTeatro), gli sceneggiatori Lisa Nur Sultan (coautrice del film “Sulla mia pelle”), Fabio Natale, il critico musicale Dario Salvatori, e la cantautrice partenopea Teresa De Sio, nonché dai vincitori della passata edizione.

La premiazione del concorso sostenuto dalla Regione Piemonte,  dalla Fondazione CRT e dalla Camera di Commercio di Torino, e che coinvolge tra i partner il Premio Lunezia, il M.E.I. (Meeting delle Etichette Indipendenti) di Faenza, Film Commission Torino Piemonte, l’associazione Tedacà, la casa di produzione Indyca e il Festival delle Colline Torinesi, si svolgerà, compatibilmente con il ritorno graduale alla normalità, a fine maggio attraverso la consegna dei premi e un reading dedicato alle opere dei vincitori.

Il Piemonte di Salvator Gotta

Salvator Gotta, nato a Montalto Dora il 18 maggio 1887 e scomparso a Rapallo il 7 giugno 1980, è uno degli scrittori piemontesi più ‘prolifici’ quanto a produzione del secolo scorso

Monarchico e fascista (fu l’autore della versione finale del testo di ‘Giovinezza’) poco per volta è caduto nel dimenticatoio (anche per questa sua scelta di campo fatta all’epoca), a dispetto di una nutritissima serie di opere tra le quali va ricordato il celebre ‘Piccolo Alpino’.

E se fu canavesano di nascita, Montalto Dora gli ha dedicato una targa e nel paese dell’Eporediese c’è ancora chi lo ricorda bene, tuttavia ebbe anche un legame con il Monferrato. Suo nonno materno, Salvatore Pavese, infatti, era medico condotto a Valmacca e proprio il paese del Monferrato Casalese (e al contempo rivierasco lungo il fiume Po, come Casale Monferrato e Valenza) il 18 agosto del 1971 gli attribuì la cittadinanza onoraria, alla quale Gotta rispose con una bella lettera di ringraziamento indirizzata al sindaco. E, dopo la sua scomparsa, Valmacca gli ha intitolato una via. Erano luoghi quelli del Monferrato Casalese che Salvator Gotta conosceva bene, come dimostra una sua bella opera, ‘Addio Vecchio Piemonte !’, scritta nel 1970 per  tipi della Arnoldo Mondadori Editore. Il libro contiene dettagliate notizie storiche, biografiche, politiche ed ideologiche riguardanti il conte Clemente Solaro della Margherita, ministro di Carlo Alberto, re di Sardegna, prima dell’emanazione dello Statuto. Il racconto prende le mosse dalla visita di un capitano dell’esercito sabaudo al castello del marchese Rolando Della Valle a Pomaro Monferrato che annuncia alla signorina ‘la Tota’, Maria Giorcelli, che lo sovrintende, del prossimo convegno tra re Vittorio Emauele e l’imperatore Napoleone III di Francia, in quanto si era deciso che qui si tenessero i consigli di guerra tra gli alleati (siamo nel 1859 al tempo di quella che i libri di storia chiamano la seconda guerra di indipendenza) per un motivo logistico. Il re aveva posto il suo quartier generale a San Salvatore Monferrato e Napoleone la sua residenza ad Alessandria. E Maria Giorcelli, figlia del geometra Giorcelli, intendente del marchese Guasco di Bosio, era nipote di Paolo Onorato Vigliani, giureconsulto ed uomo politico molto stimato da Cavour. Maria, poi, era stata la istitutrice delle quattro figlie del conte Solaro della Margherita. Nel libro, che ha appunto come protagonista l’ex ministro del re sabaudo appunto sullo sfondo del Risorgimento italiano c’è il Piemonte, con i suoi luoghi, le sue tradizioni, gli ideali di un regno che da lì avrebbe preso il volo per diventare il Regno d’Italia, ma ci sono anche Pomaro ed il suo castello, San Salvatore Monferrato, Casale Monferrato, con descrizioni puntuali ed aderenti alla realtà, fatte da un autore che li conosceva bene e che amava il Piemonte, in particolare quel ‘Vecchio Piemonte’ al quale dice addio con una punta di nostalgia.

Massimo Iaretti

 

La Venaria Reale ha ospitato il Liberty: Mucha e Grasset

Oltre Torino: storie miti e leggende del torinese dimenticato

È l’uomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nell’arte.

L’espressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo l’uomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare.Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo. Non furono da meno gli autori delle Avanguardie del Novecento che, con i propri lavori “disperati”, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto “Secolo Breve”.
Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di “ricreare” la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i “ghirigori” del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa l’edera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di un’arte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che l’arte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso.

 

Torino Liberty

Il Liberty: la linea che invase l’Europa
Torino, capitale italiana del Liberty
Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio
Liberty misterioso: Villa Scott
Inseguendo il Liberty: consigli “di viaggio” per torinesi amanti del Liberty e curiosi turisti
Inseguendo il Liberty: altri consigli per chi va a spasso per la città
Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicità
La Venaria Reale ospita il Liberty: Mucha e Grasset
La linea che veglia su chi è stato: Il Liberty al Cimitero Monumentale
Quando il Liberty va in vacanza: Villa Grock

 

Articolo 8. La Venaria Reale ha ospitato  il Liberty: Mucha e Grasset

“Chi a ved Turin e nen la Venaria, a ved la mare e nen la fija”.
La reggia di Venaria ha ospitato  nella Sala dei Paggi la mostra “Art Nouveau. Il trionfo della bellezza”. La mostra è a cura di Katy Spurrel e Valerio Teraroli, in collaborazione con Arthemisia. L’esposizione vuole rendere omaggio allo spirito rivoluzionario dell’Art Nouveau, che scalza la tradizione e le regole accademiche e stravolge architettura, pittura, arredamento, scultura, musica e ogni altro aspetto della vita e dell’arte, traendo ispirazione dalla natura e proponendo un’immagine nuova della figura femminile. L’esposizione propone un percorso alla scoperta di questo movimento artistico e filosofico che si sviluppa tra la fine dell’Ottocento fino allo scoppiare del primo conflitto mondiale. Un corpus di 200 opere che testimoniano la straordinaria fioritura artistica che ha cambiato il gusto tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento.  Sono presenti in mostra manifesti, dipinti, mobili, ceramiche che illustrano come da una parte l’Art Nouveau rompa con il passato, rifiutando il realismo e il pensiero scientifico, e dall’altra come tale corrente sia andata alla ricerca di mondi onirici e visionari restituiti poi attraverso l’eleganza decorativa di linee dolci e sinuose. Tra gli autori in mostra ci sono due tra le più importanti personalità della corrente dell’Art Nouveau: Eugène Grasset e Alfons Mucha.

Eugène Grasset, nato a Losanna nel maggio 1845, dall’ebanista e scultore Joseph Grasset, frequenta inizialmente le scuole nella città natale. In seguito lavora presso la bottega del padre e prosegue gli studi di architettura al Politecnico di Zurigo. Dopo un periodo di viaggi che lo portano anche in Egitto, torna a Losanna, e si dedica alla scultura e alla pittura. Qualche anno dopo decide di trasferirsi a Parigi, dove affina la sua modalità artistica che unisce tecniche xilografiche e litografiche, preferendo una composizione più formale, colori sfumati, tenui e pallidi. Le sue opere aprono le porte a una moltitudine di artisti, tra i quali Alfons Mucha.

Figlio di un usciere del tribunale e della seconda moglie di quest’ultimo, Alfons Mucha nasce a Ivancice il 24 luglio del 1860. Fin da adolescente dimostra interesse e abilità nel disegno e nel 1879 entra nel laboratorio di pittura di Kautsky-Brioschi-Burghardt, che produce scenari teatrali e sipari. Nel 1882 incontra il suo primo mecenate, il conte Eduar Khuen-Belasi, che gli finanza gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Monaco di Baviera e un viaggio a Parigi, città in cui Mucha rimane per i successivi diciassette anni. Improvvisamente, nel 1889 il conte smette di sostenere gli studi del giovane, che si ritrova quindi a dover cercare in fretta un lavoro: inizia come illustratore e collabora con importanti riviste e case editrici francesi. Ottiene il suo primo vero successo nel 1894, quando si ritrova a disegnare un manifesto per Sara Bernhardt, in occasione dello spettacolo Gismonda di Victorien Sardou. È l’inizio di una fortunata e duratura collaborazione che lo decreta come uno degli autori più ricercati di arte applicata, manifesti pubblicitari e illustrazioni.

 

Nel 1897 Mucha inaugura la sua prima mostra personale, alla Galerie de la Bodinière di Parigi e negli anni successivi continua a collezionare successi, e incontra personalità che lo vogliono come collaboratore. La fortuna lo segue fino al giorno della morte, avvenuta a Praga nel 1939. In quello stesso anno la rivista parigina di grafica “Arts e Metiers” dedica un numero alla commemorazione dell’artista. Mucha ha il merito di aver costruito un universo iconico immortale, le donne che compaiono sulle sue locandine sono diventate icone dell’Art Nouveau, con i loro sorrisi delicati e la loro bellezza disarmante. Possiamo dunque dire che è stato proprio Mucha a trasformare la pubblicità in arte, un grandissimo artista grazie al quale ancora oggi guardiamo con nostalgia e ammirazione i manifesti di inizio Novecento.

Alessia Cagnotto

Cultura alla riscossa. La Reggia di Venaria e i teatri “a reti unificate” per ripartire

La Venaria Reale, il Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, il Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino, il Teatro Regio Torino, la Casa del Teatro Ragazzi e Giovani, il Teatro Concordia – Fondazione Via Maestra – Venaria Reale oggi sono chiusi al pubblico

Ma la loro programmazione di eventi e iniziative prosegue  per un pubblico che sempre più numeroso segue le diverse attività proposte in streaming, in attesa della loro riapertura. Nelle domeniche 3 e 10 maggio, a partire dalle 17, condivideranno le loro piattaforme social per proporre “a reti unificate” l’iniziativa Facciamo luce tutti insieme. Saranno proposte  in diretta streaming dalla Galleria Grande della Reggia di Venaria,  una serie di concerti, letture recitate e performance teatrali registrate su diversi temi. Un modo originale per rilanciare  progetti culturali comuni, con rimandi e scambi reciproci di suggestioni e di pubblico.