CULTURA- Pagina 130

Il ruolo delle donne nei luoghi di decisione e gli stereotipi di genere

A Moncalieri due dialoghi e un convegno  

Due donne con un’importante carriera politica, le europarlamentari Gianna Gancia e Patrizia Toia, sono tra le protagoniste di “Donne di valore”, rassegna patrocinata dall’Assessorato alle Pari Opportunità di Moncalieri al suo esordio martedì 19 gennaio. Alle 18, sulla pagina facebook della Biblioteca Civica Arduino @bibliomonc, la giornalista Rosaria Ravasio intervista Gianna Gancia. Un dialogo a tutto campo sul ruolo delle donne nella politica e nei luoghi di decisione, così importante anche in momenti difficili come quello che ancora stiamo attraversando. Il progetto porta la firma dell’Assessorato alle Pari Opportunità dell’Associazione Il Rosa e il Grigio.
“Donne di valore prosegue lunedì 25 alle 17,30 con un convegno dedicato agli stereotipi di genere, come declinato in diverse forme della comunicazione: linguaggio, politica, pubblicità, cinema, cartoons – illustra soddisfatta l’assessore alle Pari Opportunità Laura Pompeo– Le relatrici saranno di alta competenza, e rifletteranno insieme su come gli stereotipi si manifestano esu quali possano essere le strategie per contrastarli. In continuità con l’ampia pagina dedicata nelle ultime settimane alla violenza di genere (6 eventi on line appena conclusi) l’assessorato alle Pari Opportunità propone nuovi spunti di riflessione, proseguendo un lavoro di sensibilizzazione su questi temi convintamente avviato fin dal mio primo mandato 5 anni fa”. I lavori verranno aperti dalla stessa Laura Pompeo, e proseguiranno con gli interventi tra le altre di Vera Gheno, Maria Bruna Pustetto, Giovanna Cosenza, Sofia Bignamini. La rassegna verrà chiusa dall’intervista all’europarlamentare Patrizia Toia, data e orario sono in corso di definizione.

Per info:
Ufficio Cultura e Biblioteca Civica Arduino 
Email: ufficio.cultura@comune.moncalieri.to.it
biblioteca@comune.moncalieri.to.it
www.comune.moncalieri.to.it/biblio
facebook e Instagram @BiblioMonc
Tel. 0116401289

Gli acchiappaluna

 

La luna ricama di luce l’acqua del Maggiore, dondolando al ritmo delle onde. I cinque amici, pur essendosi resi conto dell’assurdità della loro impresa, almeno un tentativo decidono di farlo

 

“…Tacum i tach… Mi, tacat i tach a Ti che ti tacat i tach? Tacatai ti i tò tach, ti che ti tacat i tach…”. (“Attaccami i tacchi… Io, attaccarti i tacchi a te che attacchi i tacchi? Attaccateli tu i tuoi tacchi, tu che attacchi i tacchi!”) Ogni mattina, quando Berto della Rosetta passa davanti alla bottega di Guido, il calzolaio, è sempre la stessa identica scena. Giunto in prossimità della porta del negozietto comincia a cantilenare a gran voce. Sa bene che all’amico quella filastrocca dà sui nervi ma lui lo fa apposta e continua fino a quando l’altro compare sull’uscio con una vecchia scarpa o una ciabatta e, imprecando, gliela tira. E’ così che si salutano. Bizzarro, vero? E non è niente. Dovreste vedere quando si trovano all’osteria o in qualche altro ritrovo. Si guardano in cagnesco come se dovessero litigare su ogni cosa, e poi si sfidano a proverbi e scioglilingua. Sì, proprio così: una gara incruenta ma ricca di colpi di scena. Volete un esempio? Stamattina, appena si sono visti è iniziato il solito duello. “Il calzolaio non giudichi oltre la scarpa”, ha sentenziato Berto, lasciando intendere all’altro che farebbe bene a fare il suo mestiere standosene zitto. “Sai qual è il colmo per un panettiere come te? Avere una madre che si chiama Rosetta”, ha risposto Guido, sganasciandosi dalle risate. L’altro, con una smorfia e una punta di perfidia, risponde: “Sai qual è il colmo per un calzolaio come te? Trovare un concorrente che ti faccia le scarpe. Ma non c’è pericolo: vedo che hai sempre le scarpe rotte”. Guido, scuro in volto, non lascia cadere la cosa e ribatte: “Dai, Berto, non esagerare, eh? Dagli un taglio. Non è pane per i tuoi denti e non provarti a rendere pan per focaccia, caro il mio mangiapane a tradimento. Vai a insaccare la nebbia invece che la farina, và… Sempre lì ad aprire la bocca e parlare a vanvera”.

Meno male che sono amici, altrimenti la disputa finirebbe male. Così, raggiunto l’apice della polemica, come d’incanto, si danno delle gran pacche sulle spalle e vanno, tenendosi a braccetto, fino all’Osteria per il primo brindisi della giornata. Insieme agli altri amici formano un bel gruppo, senza legami di parentela tra loro (“I parenti sono come scarpe. Più sono stretti e più fanno male”, dice Guido che di scarpe, com’è ovvio, se ne intende.)Sono tutti di Oltrefiume e, ovviamente, sono degli Zulù, portando con spavalderia il soprannome degli abitanti della frazione raccolta tra il Selvaspessa, la Tranquilla, la Viscanìa e il confine di Feriolo. Tutti pronti a far “baracca”, magari anche a litigare tra di loro ma disposti anche a farsi in quattro quando uno di loro è in difficoltà e necessita dell’impegno solidale degli altri. Sembrano quasi una confraternita, come ha detto un giorno Don Piero, scuotendo la testa. “ Come no! Siamo la confraternita degli Zulù. Un po’ matti, un po’ balordi ma di buon cuore”, ci tengono a precisare.  Per essere originali lo sono senz’altro. Forse anche un tantino troppo originali. Berto, Guido, Merico, Gianni e Luciano sono compagni di briscole e bisbocce, gran giocatori di carte ma soprattutto di bocce. Luciano è il “puntatore” del gruppo. Preciso come uno svizzero nell’accostare la boccia al pallino. Guido e Gianni, esperti nella “raffa”, bocciano al volo che è un piacere, mostrando dei tiri da veri cecchini.

Berto e Merico sono, come dire?  più “universali”: non eccellendo in nessuna specialità, si arrangiano un po’ con l’una e un po’ con l’altra. Insieme, però, nelle gare sui campi dei Circoli e delle bocciofile, dimostrano d’essere una squadra mica male. Si sono dati anche un nome: “Le bocce degli Zulù”. Che, volendo, può essere esteso all’altra loro caratteristica: l’essere dei testoni, avere delle “bocce” dure come il granito delle cave sul monte Camoscio. In questi giorni, finito di lavorare, si trovano a far due chiacchiere ai tavolini del Circolo. Si sta ancora bene, all’aperto, perché è un autunno strano. Sul calendario di Frate Indovino, affisso nella bacheca a fianco dell’entrata del consorzio agrario, la pagina d’ottobre, con le sue fasi lunari, sta per lasciar posto a quella di novembre, ma l’aria resta tiepida e la luce più viva del solito. Pare più stagione di mosto spumeggiante d’uva americana e di funghi più che di nebbie, primi freddi e caldarroste. Nessun dubbio che, presto o tardi, le cose andranno a posto, immergendo il lago e le colline in quell’opaca e lattiginosa aria triste che solo novembre sa dare al paesaggio. Ma, intanto, è un gran bella cosa potersi godere il clima mite di questa primavera fuori stagione. Così passano le ore, chiacchierando e “trincando”, con le bottiglie che diventano leggere e le teste pesanti. Merico, alzando un po’ la voce, ricorda quella volta che presero in giro stresiani e bavenesi, impegnandosi – in quanto Zulù- a tagliare il fieno del codino dell’Isola Pescatori con i “falcett di Stresa per dar da mangiare il raccolto ai “gòss” di Baveno, prendendo in giro gli uni e gli altri, utilizzando i soprannomi che gli abitanti dei due comuni si portano addosso da una vita. Ride, ricordando, Merico. E ridono anche gli altri, rammentando che quella volta dovettero affidarsi alla velocità delle loro gambe per scansare le botte che gli uni e gli altri avevano loro promesso in quantità non certo modica. Sono dei burloni ma anche, in fondo, dei creduloni.

E così, guardando la luna fare capolino in cielo, proprio dietro al cucuzzolo tondo della vetta, Gianni si alza di scatto, quasi avesse il fuoco sotto il sedere, gridando: “E se andassimo su con la scala del Gioacchino a prenderla e portarla giù, quella luna là? Avremmo luce gratis sempre e per tutti. Eh, che ne dite?Finiremmo su tutti i giornali”. L’idea è così balzana che più balzana non si può. Gli altri quattro guardano Gianni con stupore, come si guardano i matti quando straparlano, quando sono “fora da testa”. Ma, stupore nello stupore, tre di loro dicono all’unisono, a conferma del loro essere dei balordi che, per di più, hanno alzato il gomito più del solito: “Dai… che idea fantastica!”.  Solo Guido, scuotendo la testa, mormora “Ma va a Bagg a sunà l’organ, ciaparàtt d’un ciaparàtt!” (che, tradotto per chi non è un mezzo sangue lombardo-piemontese come noi, equivale a “vai a Baggio a suonare l’organo! Buono a nulla di un buono a nulla!”. Un modo per mandare a quel paese chi s’accusa di falsità poiché nella chiesa di Baggio, alla periferia milanese, l’organo per esserci c’è ma è dipinto sul muro dato che la chiesa non poteva permettersene uno vero.) Ma non perdiamoci in particolari. Fatto sta che alla Confraternita degli Zulù l’idea di un’impresa così strampalata piace. Ad essere sinceri, piace molto. Anche Guido, nonostante il suo scetticismo, non può tirarsi indietro. Guarda storto Gianni e, tradendo le origini meneghine, borbotta a mezza voce un “te ghè ciapà la vaca per i ball”, traducendolo per tutti in un “stai facendo un lavoro sbagliato, alla rovescia”. Ma ormai è tardi e la decisione è presa: si va su al Mottarone per acchiappare la luna. Occorrono, però, una scala bella lunga e delle corde . “Non possiamo andar su per boschi e sentieri con in spalla una scala”, dice Berto.

A maggior ragione se si tratta di una scala lunga. Dove si può trovare un attrezzo del genere?  L’idea viene a Merico: “ Cavolo, ce n’è una che fa al caso nostro, la scala a pioli del Gìmell, su in Scerèa”. Recuperate delle lunghe corde nel magazzino della Navigazione (“Si chiamano Pietro-torna-indietro, eh? Ci siamo capiti, balordoni? Devono tornare qui”, si raccomanda Duilio Ripari, vociando dal suo ufficio all’Imbarcadero), si parte. Con passo svelto, in breve, si guadagna il sentiero che sale dopo il ponticello sul Selvaspessa fin su, oltre la Fraccaroli. Da lì, tra boschi di castagni e faggi, a mezzacosta, si va a Loita e poi a Campino. Dietro la casa del prevosto s’incontrano il campo di patate e l’orto, dove don Gallia coltiva la verdura. Il sole sta tramontando e le ombre si allungano tra gli alberi. All’alpe Scerèa una volpe svicola via in mezzo al prato, disturbata mentre – con ogni probabilità – sta architettando l’assalto alle galline del Gìmell. In fondo la fulva predatrice ha avuto una gran botta di fortuna. Non può sapere che l’anziano alpigiano la sta aspettando con la sua doppietta, pronto a scaricarle addosso le cartucce caricate a pallettoni. “Bruta logia d’una vulp”, impreca l’Aurelio Gemelli, conosciuto da tutti come il Gìmell, agitando in aria il pugno. Si era appostato dietro al pollaio, pronto a far fuoco, e l’arrivo dei cinque Zulù gli ha rovinato la sorpresa. “Anche stavolta, quella bestiaccia, ha salvato la ghirba ma non è sempre festa. E voi, cocomeri, cosa fate qui all’alpe? Non potevate stare giù in paese a fare i fannulloni? Siete amici miei o amici della volpe?” Tocca a Gianni, titolare dell’idea, esaurite le scuse, spiegare il perché e il per come di quella visita.

Non è ben chiaro, a questo punto, cosa stia dicendo il Gìmellma dal colorito del volto, rosso come un peperone maturo, è meglio lasciar perdere. Comunque, il prestito della scala è concesso. Con una raccomandazione: “Attenti, balordi. La scala è vecchia e qualche piolo malfermo. Io l’usavo per salire sul tetto del fienile ma ora non mi fido più, alla mia età…”.  Raggiunto l’obiettivo, i cinque salutano e, torce elettriche alla mano perché è ormai buio, attraversano il prato. Berto davanti e Gianni dietro, portano la scala e, per poco, non calpestano un riccio che sta lì, vicino al vecchio melo selvatico. Intento a caricarsi una raggrinzita mela sulla schiena, dopo averla inforcata con i suoi aculei, viene evitato per un soffio dallo scarpone numero quarantasei di Berto. Pochi centimetri più in là e addio riccio. Gianni impreca: “Stai attento a dove metti i piedi, crapone!“. Berto bofonchia qualche parola di scusa e il riccio, ignaro del rischio corso, continua lentamente nel suo intento d’accumular provviste per l’inverno che non tarderà ad arrivare. Ritornati nel bosco, camminano in fila indiana sul sentiero che sale verso la Vidabbia, accompagnati dallo stridire acuto di una civetta. A notte inoltrata, giunti al margine del bosco di querce, restano lì, impalati e a bocca aperta, davanti allo spettacolo della luna che inonda di luce la vetta senz’alberi. E’ bellissima. Grande, lucente e tonda. Così bella da far male al cuore. Da ieri è tornata piena e, a sentir Berto, pare una gran bella pagnotta. “Sì, di quelle dorate, gonfie, che facciamo al venerdì nel forno di mia madre, della Rosetta”, aggiunge. “Ma no, dai”, lo interrompe Gianni. “Sembra piuttosto una polenta. Guarda bene. La vedi com’è gialla?”. “Ma la polenta non è tonda e questa è perfetta come un cerchione delle bici del Carlin, quello che ha aperto l’officina da ciclista sul lungolago”, sottolinea a sua volta Merico. Insomma, ognuno la vede a modo suo ma tutti restano incantati quando, giunti sulla sommità del cucuzzolo, si voltano verso il lago e, giù in fondo, tra una riva e l’altra, oltre alle luci dei paesi tremolanti come fiammelle, vedono i larghi riflessi sull’acqua. La luce lunare gioca con l’acqua e risalta le sagome scure delle imbarcazioni attraccate all’Isola Pescatori. Si vede anche la costa e, spostandosi in posizione più favorevole, Baveno e il suo lungolago.

Dal Molino di Ripa alla pianta storta, dall’imbarcadero alle sagome scure nei pressi del Marmo Vallestrona, più in là, verso Feriolo e Fondotoce. La luna ricama di luce l’acqua del Maggiore, dondolando al ritmo delle onde. I cinque amici, pur essendosi resi conto dell’assurdità della loro impresa, almeno un tentativo decidono di farlo. La scala a pioli viene issata in direzione dell’astro lucente. In tre – Berto, Merico e Guido – hanno il compito di tenerla ferma mentre Gianni sale su con la corda che gli ha passato Luciano. Dondolando pericolosamente, con la mano libera, Gianni lancia la corda che cade di sotto, in testa a Luciano che, imprecando, reclama più attenzione. Anche la seconda corda finisce nel vuoto con un sibilo, senza afferrare un bel nulla, frustando il malcapitato di turno che, stavolta, è Merico. La scala, già malferma, persa la presa di uno dei tre, cade con Gianni che lancia un urlo mentre finisce a terra. Il crinale erboso e i cespugli attorno attutiscono la caduta e Gianni se la cava con poco, cadendo di terga, lamentandosi. La luna resta là, in cielo. Irraggiungibile, per quanto appaia vicina, quasi a portata di mano. L’impresa è fallita. L’operazione “acchiappa la luna” si è rivelata ciò che era: una goliardata, un folle disegno al quale nessuno dei cinque credeva davvero. In fondo, la luna sta bene dove sta. E’ di tutti. E di tutti deve rimanere. Nessuno si potrebbe permettere il lusso di tenersela tutta per se. Per i cinque non è una sconfitta, come diranno poi all’osteria, tra i sorrisi maliziosi e le battute degli altri. “E’ stata una rinuncia”, dice serio Gianni, facendo capire che si è trattato, per scelta loro, di un gesto generoso, altruista. Lasciare la luna in cielo, libera, è stata una cosa che va bene così. E poi, non avrebbero saputo dove metterla. Così sono scesi allegri, cantando, a mani vuote. Solo che, giunti in vista delle prime case di Oltrefiume, si accorgono di aver lasciato la scala del Gìmell in vetta. Un rapido sguardo basta per decidere che sarà recuperata in un altro momento. Per quella volta lì, bastava e avanzava.

 

 

Museo del Cinema, bilancio di un anno

Il Museo Nazionale del Cinema alla Mole Antonelliana nel 2020 ha avuto 163.452 visitatori, il 75% in meno rispetto al 2019, anno in cui gli accessi erano stati poco meno di 675.000.

Gli spettatori al Cinema Massimo sono stati 37.333, con una riduzione del 61% rispetto all’anno precedente, quando più di 96.000 persone avevano varcato le porte della multisala.

Nel corso del 2020 sono state messe in atto molteplici campagne e iniziative online, organizzate in un programma sistematico di contenuti digitali che afferiscono a tutti i settori dell’ente e che ha visto la pubblicazione di almeno un contenuto al giorno sui social network istituzionali.

 

L’incremento annuale dei follower del Museo Nazionale del Cinema, su Facebook è stato del +8% su Instagram del +144% e del +41% su YouTube.

In relazione alla copertura dei contenuti, gli aumenti annuali si assestano su +62% per Facebook, +1.200% per Instagram e +41% per YouTube.

Grandissimo il successo dell’innovativo spettacolo di videomapping realizzato in occasione dei 20 anni del Museo Nazionale del Cinema alla Mole Antonelliana: i quattro lati della cupola hanno resto omaggio alla Torino cinematografica, al cinema italiano e alle grandi star internazionali, ottenendo quasi 800.000 visualizzazioni su Facebook e 1.440.000 visualizzazioni su Instagram.

Il Torino Film Festival, che nel 2020 per la prima volta è stato interamente online, ha avuto un aumento annuale di follower su Facebook del +15%, su Instagram del +34% e del +114% su YouTube.

Molto alta la copertura dei contenuti, che è stata del +490% su Facebook, del +340% su Instagram e del +99% su YouTube.

Numeri positivi anche per il Lovers Film Festival, che nel 2020 ha avuto, rispetto al 2019, un aumento dei follower del +8% su Facebook e del +5% su Instagram, e per CinemAmbiente, che si è assestato su un +9% per Facebook e +10% su Instagram.

Anche il Torino Film Lab si è svolto completamente online, ottenendo un +26% di follower su Facebook, mentre il profilo Instagram, aperto nell’ottobre 2019, ha superato ad oggi i 2.500 follower.

“È stato un anno complesso, ciononostante siamo riusciti a presentare la mostra cinemaddosso e a festeggiare il ventennale del Museo Nazionale del Cinema alla Mole Antonelliana – racconta Enzo Ghigo, presidente del Museo Nazionale del Cinema di Torino. Ringrazio i Soci Fondatori, il Comitato di Gestione e tutti i dipendenti del museo grazie ai quali abbiamo superato questo difficile momento. Sono sicuro che insieme potremo proseguire con fiducia nel percorso di cambiamento del museo”.

“I dati di fine anno dimostrano la resilienza del Museo nel gestire l’emergenza e la capacità di investire in nuovi progetti, sperimentando nuove modalità di fruizione – sottolinea Domenico De Gaetano, direttore del Museo Nazionale del Cinema di Torino. Film on line, percorsi didattici a distanza e il contest con Ciak sono solo alcune delle tante iniziative che hanno caratterizzato il 2020, insieme all’ambizioso progetto di videomapping, che ha avuto il merito di presentare in maniera innovativa le collezioni del Museo in tutta la città, diffondendole in tutto il mondo, grazie a un breve video realizzato col drone, ottenendo uno straordinario quanto imprevedibile successo”.

 

 

Le iniziative online del 2020

  • The Best Of MNC 2020 è stata realizzata in occasione del ventennale del Museo alla Mole; 120 post che, in una sorta di macchina del tempo, hanno permesso di ripercorrere i momenti più importanti, le attività e gli eventi che hanno fatto la storia dei vent’anni del Museo Nazionale del Cinema alla Mole Antonelliana.
  • The Best Of MNC – Collezioni ha creato l’occasione per mostrare le ricchissime collezioni del Museo: gallerie fotografiche, manifesti, oggetti, riviste, volumi e fondi e ancora frammenti e rarità visibili sul canale Vimeo della Cineteca.
  • BEST OF Kids and Family, con tante attività – proposte con cadenza settimanale – da fare a casa per tutta la famiglia, meraviglie del cinema da scoprire: cinema-tutorial, fumetti, costruzione di giochi ottici, i mestieri del cinema, idee, curiosità e sperimentazioni cinematografiche.
  • CIAK I FILM DELLA NOSTRA VITA, la grande iniziativa proposta dal mensile Ciak e del Museo Nazionale del Cinema, insieme a Film Commission Torino Piemonte e con la Media Partnership di Rai Movie e RaiPlay, rivolta a tutti gli appassionati di cinema e che si proponeva di scoprire le pellicole che ci hanno colpito ed emozionato, ripercorrendo la storia del cinema, dalle origini fino ai nostri giorni.
  • 28mm da (ri)scoprire. Scopri l’antenato dei VHS e dei DVD! Il Museo Nazionale del Cinema, La Cinémathèque de Toulouse e la Cinémathèque de Nouvelle Aquitaine hanno digitalizzato un fondo di pellicole destinate alla proiezione domestica negli anni Dieci! Una scatenata comica alla settimana, presentata con cadenza settimanale, per aggiungere un tocco di divertente leggerezza e vedere ciò che i nostri avi guardavano nel salotto familiare.
  • CINEMAMBIENTE A CASA TUA, una rassegna online di film a tematica green disponibili per tutti in streaming, con un nuovo film ogni tre giorni. Un’iniziativa promossa da Ministero dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare con Festival Cinemambiente e che ha totalizzato più di 80.000 visualizzazioni su Vimeo.
  • THE STORY OF FILM, un viaggio attraverso la storia del cinema in streaming sulla piattaforma MymoviesLive: per 8 settimane con un doppio appuntamento il martedì e il giovedì, proposto da BIM Distribuzione, in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema e la Cineteca di Bologna.
  • LOVERS Film Festival. Nei giorni originariamente destinati al suo svolgimento, dal 30 aprile al 4 maggio, il festival ha lanciato l’iniziativa Lovers on line #cimanteniamoinlinea, mettendo a disposizione 17 pellicole tra lungometraggi, cortometraggi e documentari, e che ha ottenuto più di 18.000 visualizzazioni su Vimeo.
  • CINEMADDOSSO. I costumi di Annamode da Cinecittà a Hollywood. La mostra viene resa disponibile al pubblico sul sito www.cinemaddosso.com dove viene raccontata con video, approfondimenti, curiosità e schede didattiche. Ogni giovedì, sia sul sito che sui Social del museo, vengono illustrate le diverse sezioni, in una sorta di catalogo multimediale e interattivo. Il canale Cinemaddosso su YouTube ha ottenuto oltre 3.500 visualizzazioni.
  • TFFDoc – La sezione del Torino Film Festival dedicata al documentario che ha reso disponibile online una programmazione con più titoli al giorno.
  • #TFLCouchPartyTorino film Lab ha domandato ai propri Alumni i link dei loro lavori disponibili gratuitamente in streaming, così da condividerli sui nostri canali per rafforzare l’importanza del senso di comunità in un momento difficile come quello del lockdown.

Centro Pannunzio: “Perché le chiese aperte e i centri di cultura chiusi?”

Non è più accettabile che  i luoghi di culto siano aperti al pubblico, con certe precauzioni, e restino chiusi invece altri templi dell’anima come i centri culturali, con le stesse precauzioni di sicurezza.

E’ una misura chiaramente incostituzionale  che nega palesemente il diritto dei cittadini di riunirsi. Ripetiamo, con cautela.
Vogliono riaprire le scuole senza le cautele necessarie, dimenticando che troppe scuole conoscono  poco   la parola autodisciplina anche per l’esuberanza dei giovani.
Non parliamo qui di  di orde di sciamannati, di ragazzini incontrollabili  che provocano movide. Noi parliamo di adulti ,responsabili e neppure festaioli che non accettano di vivere segregati in casa come  “bruti “.
Il Centro Pannunzio con i suoi 53 anni di vita, con la sua storia, con la sua attività, la sua serietà, non può essere relegato sui social, che pure usiamo e sono importanti.
Ha una vita associativa fatta di donne e di uomini  che va salvaguardata. È un bene individuale e collettivo che va tutelato nel rispetto delle precauzioni di settembre
che ci hanno anche imposto dei costi per la sicurezza usati pochissimo ma, a detta dei tecnici, efficaci.
Il Centro Pannunzio

Quando la poesia è senza paura

Il 5 novembre 2020 un gruppo di poeti si è riunito a Torino in piazza Carignano per un flashmob prima del ritorno dell’Italia in “zona rossa”.
I poeti, coordinati da Max Ponte e Valerio Vigliaturo, hanno manifestato l’importanza della poesia e dei poeti nella società come espressione artistica e della spiritualità laica, denunciando attraverso lo slogan “I poeti non sono superflui” le incongruenze normative che calpestano i diritti civili sanciti dall’art.4 della Costituzione in cui: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”, in antitesi alla dichiarazione del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che aveva dichiarato la necessità di evitare le attività superflue.
Da questa esperienza che unisce poesia e impegno civile è nato il gruppo pubblico su Facebook “Poeti senza paura” coinvolgendo decine di poeti piemontesi e non solo, ed è stato lanciato in questi giorni il concorso “Poesia senza paura“. La partecipazione è gratuita e c’è tempo fino al 10 gennaio 2021 per iscriversi. I poeti sono invitati a postare sul gruppo una poesia di massimo 20 righe con l’hastag #poesiasenzapaura. I temi sono il coraggio, la voglia di vivere e viaggiare, l’insostituibile presenza delle persone care. L’iniziativa, infatti, vuole denunciare le limitazioni arbitrarie della libertà personale e sottolineare la condizione di chi, in ospedale, muore senza vedere i propri cari. La premiazione si svolgerà in una struttura sanitaria, emergenza covid permettendo, in cui verranno premiate, lette e distribuite ai pazienti le poesie migliori.
I giudici saranno Max Ponte, Valerio Vigliaturo e Valentino Fossati, tutti e tre curiosamente ex-allievi del Liceo Scientifico “Augusto Monti” di Chieri. Ponte vive a Villanova d’Asti, Vigliaturo e Fossati a Chieri. Dopo l’Università si sono ritrovati uniti nella “militanza poetica” con all’attivo pubblicazioni ed eventi in Piemonte e in Italia.

Ritrovato lo storico concerto della Resistenza

E’ stato ritrovato nell’archivio del Circolo Arturo Toscanini, ora custodito da Arci Torino
SU SPOTIFY IL CONCERTO DELLA RESISTENZA ANDATO IN SCENA AL GOBETTI IL 14 OTTOBRE 1964
Tre grandi della musica, Giorgio Ferrari, Guido Ferraresi e Carlo Mosso, composero le opere musicali su testi poetici celebri

Una chicca venuta fuori da un archivio. Un pezzo di storia di Torino e della musica che ora sarà disponibile su Spotify. Il Comitato Arci Torino chiude simbolicamente un anno ricco di iniziative sociali e culturali pubblicando su Spotify il “Concerto per la Resistenza”, andato in scena al Teatro Gobetti di Torino il 14 ottobre 1964.
Il nastro del concerto, organizzato e commissionato dal Circolo Arturo Toscanini e dall’Arci di Torino e diretto da Mario Rossi, è stato scoperto a seguito del progetto di riordino e valorizzazione dell’archivio del Circolo Arturo Toscanini da parte dell’Istituto Fondazione Piemontese Antonio Gramsci, realizzato con il contributo della Regione Piemonte.

Il Circolo

Il Circolo Toscanini rappresenta una delle più grandi esperienze culturali della città di Torino nel dopoguerra. Fu fondatore dell’Arci stessa nel 1957 ed era composto da musicisti, amanti della musica, persone di cultura, ex partigiani, giornalisti, lavoratori e lavoratrici, tutti accomunati dalla matrice antifascista, alcuni protagonisti diretti della lotta di Liberazione e ispirati da sempre dai principi della Resistenza.

L’archivio del Circolo, divenuto di proprietà dell’Arci di Torino dopo la chiusura dell’associazione, è stato dichiarato di “interesse storico particolarmente importante” dalla Sovrintendenza archivistica e bibliografica della regione Piemonte e Valle d’Aosta. La Fondazione Istituto Piemontese Antonio Gramsci ha riportato alla luce tanti dei tesori che questo fondo nascondeva, tra i quali questo nastro che oggi, rimasterizzato e distribuito digitalmente, è alla portata delle orecchie di tutti.

 Quel concerto che entrò nella storia
In quel lontano 1964 il Circolo Toscanini invitava tre grandi della musica – Giorgio Ferrari, Guido Ferraresi e Carlo Mosso – a comporre opere musicali sulla Resistenza su testi poetici dei grandissimi della poesia: Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Corrado Govoni, Bini (nome da partigiano di Giovanni Serbandini), Alfonso Gatto, Tito Balestra. Questa registrazione è la prima esecuzione assoluta delle opere musicali di questi autori in quel lontano 14 ottobre 1964, esecuzione diretta da Mario Rossi.

 «Un regalo di un’Arci lontana che diventa un regalo dell’Arci di adesso, perché c’è un grande filo rosso che lega la nostra nascita alle avanguardie, alla musica emergente, all’antifascismo, alla cultura popolare. Un filo che attraversa tutta la nostra storia, dall’Associazione Toscanini, circolo da cui è nata l’Arci a Torino, all’esperienza del recentissimo festival Jazz Is Dead – dice Andrea Polacchi, presidente del Comitato Arci Torino – Siamo quindi felici di aver restituito alla città un pezzo dell’incredibile esperienza del Circolo Toscanini, il primo circolo musicale d’Italia e fondatore dell’Arci a Torino».

 «Con il riordino e la digitalizzazione delle carte del Circolo Arturo Toscanini, grazie alla collaborazione tra l’Istituto Gramsci di Torino e l’ARCI, restituiamo alla cittadinanza, agli studiosi e ai musicisti, una straordinaria esperienza di politica culturale al servizio delle classi meno abbienti. Oggi è ormai entrato a far parte del linguaggio comune il concetto di welfare associato alla cultura e sempre più si lavora a progetti che attraverso la cultura, favoriscano la partecipazione attiva dei cittadini, l’inclusione e l’abbattimento delle barriere sociali. Il Circolo Arturo Toscanini lo faceva già oltre sessant’anni fa» spiega Matteo D’Ambrosio, direttore della Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci.

 «E’ un connubio artistico straordinario di parole e musica ed è una “commissione” incredibile da parte dell’Arci di allora che volle unire le avanguardie musicali a quelle letterarie per rivolgersi ad un pubblico popolare, ai soci di un circolo, ai lavoratori e alle lavoratrici a cui quella musica non era destinata perché costosa e riservata alle classi più abbienti. E’ un concerto che rievoca la Resistenza non solo nei suoi contenuti ma nella sua essenza stessa perché vuole essere resistenza nei confronti di un modello culturale dominante e ingiusto» dichiara Massimiliano Borella, componente della presidenza dell’Arci di Torino.

 L’intero fondo sarà consultabile sull’HUB 9centRo, la piattaforma archivistica del Polo del’ 900, di cui l’Istituto Gramsci è ente partner. https://archivi.polodel900.it/

Playlist su spotify  https://open.spotify.com/album/48t7DPVDZ18b3VLQ5gsC1Y?

Spazio web del progetto https://www.arcitorino.it/p/304/archivio-del-circolo-musicale-arturo-toscanini-valorizzazione-e-riordino.html

Track list CD

CONCERTO PER LA RESISTENZA – TORINO 1964

DIRETTO DA MARIO ROSSI


Carlo Mosso
Epigrafi per i Caduti della Resistenza
(testi di Giovanni Serbandini detto “Bini”, Simonide, Giuseppe Ungaretti)

01) Ares selvaggio / Per papà Cervi (Simonide / Bini)

02) Antica epigrafe greca / Per una staffetta      (Sconosciuto / Bini)
03) Ares selvaggio / Per un caduto della rivoluzione   (Simonide / G. Ungaretti)

Guido Ferraresi
La Resistenza
(testi di Alfonso Gatto, Tito Balestra, Corrado Govoni)
04) 25 Aprile                                (A. Gatto)
05) Miscia                          (T. Balestra)
06) Morte del partigiano         (C. Govoni)

Giorgio Ferrari
07) Cantata “Ai Fratelli Cervi, alla loro Italia”
(testo di Salvatore Quasimodo)

Giorgio Federico Ghedini
Concerto funebre in memoria di Duccio Galimberti

08)    I

09)     II

10)     III

11)     IV

Tra natività e adorazione. Un incontro con le opere di Palazzo Madama

Sabato 26 dicembre ore 11.00 – 18.00 – 21.00 | Domenica 27 dicembre ore 18.00 | Martedì 29 dicembre ore 21.00 | Sabato 2 gennaio ore 18.00 | Domenica 3 gennaio ore 18.00 | Martedì 5 gennaio ore 21.00

Tra natività e adorazione

Un incontro con le opere di Palazzo Madama selezionate per l’occasione permette di proporvi un itinerario natalizio, legato alla rappresentazione artistica della nascita e adorazione di Gesù.

Opere di vario genere, dipinti su tavola e tela, sculture in legno, saranno illustrate dalla guida, andando a scoprire parte di quel ricco patrimonio artistico delle collezioni del museo.

L’esclusivo archivio digitale consente ai partecipanti di soffermarsi sui dettagli delle opere, evidenziando gli elementi più preziosi e il virtuosismo degli artisti che hanno operato in epoche diverse.

Costo: 8.00 € – 7.00 € per i possessori di Abbonamento Musei Torino Piemonte

Il costo comprende la visita guidata a cura di una guida del museo e assistenza tecnica.

È possibile prenotare e acquistare la visita guidata on-line: prenotazione al 011.5211788, oppure scrivendo a info@arteintorino.com; a seguito della prenotazione saranno inviati dettagli ed estremi bancari per effettuare il pagamento via bonifico oppure sarà possibile effettuare l’acquisto on-line.

Le visite saranno attivate a raggiungimento di un numero minimo di partecipanti.

I “Suonatori da caccia” di Stupinigi e Venaria riconosciuti dall’Unesco

La candidatura partita nel 2014 dalla Palazzina di Caccia di Stupinigi

Alla Reggia di Venaria e alla Palazzina da Caccia di Stupinigi si festeggia. Ieri è arrivata, da Parigi, una notizia che si attendeva da tempo: il riconoscimento Unesco, tra i patrimoni immateriali, dell’arte musicale dei suonatori di corno da caccia. Stiamo parlando del corno naturale, «senza valvole o pistoni», in uso nella tradizione sabauda e francese. E’ frutto di una candidatura internazionale  tra Francia, Belgio, Italia e Lussemburgo, annunciata proprio in Piemonte, alla Palazzina di Caccia di Stupinigi, nel 2014.

Il dossier italiano ha come protagonista la comunità costituita dai suonatori dell’Equipaggio della Reggia Venaria, formazione musicale rivitalizzata nel 1996 dall’Accademia di Sant’Uberto-Onlus, associazione culturale che ha seguito l’iter della candidatura. La sede legale dell’Accademia è a Stupinigi, quella operativa-musicale alla Reggia di Venaria: due sedi che sottolineano il legame storico del suono del corno con il loisir reale. L’Accademia ha curato una ricerca molto approfondita su questo strumento amatissimo nelle corti europee. Sempre l’Accademia è stata la creatrice dell’Equipaggio che ha girato l’Italia, sconfinando anche in Francia, Portogallo e Slovenia, portando la voce dei corni del Piemonte. Parallelamente, la missione dell’Associazione si è concretizzata nell’organizzazione di una serie di iniziative.

Per presentare la candidatura, coordinata tecnicamente e scientificamente dal Servizio Unesco del Segretariato Generale del Mibact, l’Accademia, con il Ministero dei Beni Culturali, ha coinvolto Regione Piemonte, Reggia di Venaria, Palazzina di Stupinigi, Città di Venaria e Nichelino.  «Questo riconoscimento riguarda direttamente la nostra regione in quanto l’Italia è rappresentata dal Piemonte, dai suonatori dell’Equipaggio della Regia Venaria, gruppo musicale dell’Accademia di Sant’Uberto. La soddisfazione per il riconoscimento dell’arte si aggiunge ai  tanti riconoscimenti Unesco avuti dal Piemonte, architettonici, naturalistici, gastronomici, con la peculiarità di contribuire al loro avvaloramento ricostruendone dal vivo il paesaggio sonoro» sottolinea Vittoria Poggio, assessore alla cultura della Regione Piemonte.

La pratica dello strumento ha una storia unica rispetto agli altri: nato e sviluppato tra  XVII e XVIII secolo per le cacce reali è stato simbolo del potere e della magnificenza delle corti d’età barocca, ma contemporaneamente opportunità per i musicisti, subito introdotto nella musica d’arte, in ambito militare e d’ intrattenimento.

«Nel corso di 25 anni di attività, l’ Accademia di Sant’Uberto ha ideato e realizzato iniziative diverse, concerti ed appuntamenti in Italia, dalla ripresa della festa di Sant’Uberto alla Reggia di Venaria, alle Chasses Royales a Stupinigi alla Musica en plein air. Ha operato anche all’estero, con convegni, mostre, studi e ricerche, pubblicazioni collegate al grande tema del loisir di corte – spiega il presidente dell’Accademia Pietro Passerin d’Entrèves –  Attualmente è in corso il progetto “Musica da Vedere”, una particolare visita guidata dove la narrazione dei cicli di dipinti venatori a Stupinigi e alla Venaria Reale è accompagnata dal vivo dal suono del corno da caccia che corrisponde ad ogni azione rappresentata».

 

Il presidente racconta, poi, questi anni di intense ricerche: «Abbiamo fatto un grande lavoro di studio sullo strumento nel corso della candidatura: ha condotto a risultati di un certo rilievo». Tra questi, il ritrovamento di un corno originale sabaudo settecentesco, sicuramente impiegato a Stupinigi, di cui sono state eseguite due copie, usate poi dall’Equipaggio in concerto. Parallelamente, gli studi hanno portato all’identificazione del ciclo pittorico di Jan Miel alla Venaria come “la più antica rappresentazione europea di corni da caccia circolari”. Non è stato tralasciato alcun aspetto: come vuole la tradizione europea, i suonatori di corno da caccia vestono una tenuta attuale, che ricorda l’antica, connotata da un particolare colore. I torinesi, a seguito di un’accurata ricerca, vestono il rosso e bleu du roi con galloni oro e argento come nei quadri di Vittorio Amedeo Cignaroli  della Palazzina di Stupinigi.

Il riconoscimento è un incentivo a promuovere la trasmissione e diffusione di quest’arte: mentre la formazione continuerà alla Reggia di Venaria, parallelamente si lavorerà a sviluppare il dialogo con altre  comunità di suonatori con pratiche assimilabili a quella del corno da caccia in uso in Piemonte e Francia (come il corno barocco o il Parforce della tradizione mitteleuropea).

La “Censa di Placido” che incantò e ispirò Beppe Fenoglio

Dalla Fondazione “Bottari Lattes” al Comune di San Benedetto Belbo, passaggio delle consegne. Monforte d’Alba (Cuneo)

Luogo “in cui è custodito il vero spirito della Langa fenogliana”, più volte citato nelle opere dello scrittore albese – e per questo dichiarato nel 2012, dalla Soprintendenza dei Beni Architettonici e Paesaggistici del Piemonte, edificio di particolare interesse storico e culturale – la “Censa di Placido”, la “Casa di Placido”, passa dalla Fondazione “Bottari Lattes” al Comune di San Benedetto Belbo in cui la costruzione ( acquisita con asta pubblica nel 2010 dalla Fondazione di Monforte d’Alba ) ha sede.

Un passo importante. La concessione al Comune permetterà infatti di poter accedere con più facilità ai finanziamenti pubblici necessari per il completamento del restauro – già avviato in questi anni dalla stessa Fondazione con risorse proprie e con contributi della Fondazione C.R.C. e del G.A.L. (Gruppo azione locale Langhe e Roero Leader), oltre che della “Cantina Terre del Barolo” e della casa editrice “Einaudi” – dell’edificio, risalente alla prima metà dell’Ottocento, in pietra di Langa, con il tetto in lose e i solai in legno. Costruita nella centrale contrada dei Casazzi, a San Benedetto, in quell’alta Valle Belbo particolarmente amata da Beppe Fenoglio che (fra Cravanzana e San Benedetto, passando per Feisoglio, Niella Belbo, Mombarcaro e Bossolasco) era solito trascorrere qui gran parte delle sue vacanze estive, la “casa di Placido” da sempre soprannominata la “Censa di Placido”, era la classica bottega di paese che all’epoca vendeva di tutto, dai generi di monopolio agli alimentari alle stoviglie fino alla merceria e alla ferramenta ed era anche adibita a bar e osteria, denominata “L’Osteria dei fiori”, con il forno per il pane sul retro.

Rimasta aperta fino al 1991 e lungamente frequentata da Fenoglio, la censa è scenario e sfondo di diversi episodi narrati nelle sue opere, centro ideale del microcosmo paesano che rappresenta nei suoi racconti di Langa: il luogo degli incontri, dei dialoghi e dei pettegolezzi, delle aspirazioni, delle tragedie di una piccola realtà chiusa che diventa esemplare della condizione stessa dell’uomo nel mondo. Oltre che nel romanzo “La malora” ( “Dovevamo sentirci piuttosto forti se, quando io ero sugli otto anni, i miei tirarono il colpo alla Censa di San Benedetto. La presero invece i Canonica, coi soldi che s’erano fatti imprestare da Norina della posta”), è presente nei racconti “Un giorno di fuoco”, “Superino”, “La novella dell’apprendista esattore” e “Il paese”, dove lo scrittore racconta le partite di pallone elastico che si giocavano nel cortile dell’osteria.

Ricco di antiche suggestioni è anche lo spazio antistante alla “Censa”, con la panca di pietra sovrastata dai due maestosi ippocastani, sotto i quali lo scrittore amava sedersi a contemplare il Passo della Bossola, in attesa del passaggio della corriera di Alba, “madama la corriera”, momento che scandiva la vita del paese. Momento fra i tanti, insieme alle voci, alle chiacchiere alle rivalità e agli aneddoti buttati lì con una risata da quel Placido Canonica, gestore della “Censa”, arguto affabulatore di racconti – più o meno veri – della Langa fenogliana e lui stesso diventato protagonista costante delle storie che sanbenedettesi di Fenoglio. Oggi quei muri, quella slabbrata bottega su cui il tempo ha infierito non poco necessitano di un attento e definitivo restauro, garantito dalla concessione in usufrutto gratuito al Comune di San Benedetto Belbo. Sotto il segno di una garantita sinergia fra la Fondazione “Bottari Lattes” e l’amministrazione pubblica, con lodevoli prospettive e obiettivi ambiziosi. “La nostra volontà – spiegano Caterina Bottari Lattes, Presidente della Fondazione, ed Emilio Porro, Sindaco di San Benedetto– è quella di restituire alla comunità la vecchia osteria di Placido Canonica quale luogo di incontro e di attività culturali, allestendo anche il museo interattivo. Il sogno che ci impegniamo a far diventare realtà è fare rivivere questo spazio, così simbolico e ricco di letteratura e storia, come luogo di incontro, di scambio, di socialità e di lettura, con incontri, seminari, esposizioni. Ma anche creare un punto di accoglienza turistica e di ristoro per gustare la cultura attraverso i sapori enogastronomici del territorio”.
g. m.

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Nelle foto
– La “Censa di Placido”, com’é oggi
– Beppe Fenoglio
– Caterina Bottari Lattes

“Colui il cui nome…”, ovvero la storia del barone Lamberto

Tradotto in moltissime lingue, con la sua intelligente leggerezza, resta uno degli omaggi più belli alla terra  dove lo scrittore nacque il 23 ottobre del 1920

 

“In mezzo alle montagne c’è il lago d’Orta. In mezzo al lago d’Orta, ma non proprio a metà, c’è l’isola di San Giulio. Sull’isola di San Giulio c’è la villa del barone Lamberto,un signore molto vecchio (ha novantatre anni),assai ricco (possiede ventiquattro banche in Italia, Svizzera, Hong Kong, Singapore, eccetera),sempre malato.

Le sue malattie sono ventiquattro.Solo il maggiordomo Anselmo se le ricorda tutte.Le tiene elencate in ordine alfabetico in un piccolo taccuino:asma, arteriosclerosi, artrite, artrosi,bronchite cronica, e così avanti fino alla zeta di zoppia. Accanto ad ogni malattia Anselmo ha annotato le medicine da prendere, a che ora del giorno e della notte,i cibi permessi e quelli vietati,le raccomandazioni dei dottori..“Stare attenti al sale, che fa aumentare la pressione”, “Limitare lo zucchero, che non va d’accordo con il diabete”,”evitare le emozioni, le scale, le correnti d’aria,la pioggia, il sole e la luna”. Così inizia C’era due volte il Barone Lamberto ovvero I misteri dell’isola di San Giulio”  , uno dei racconti più belli scritti per i ragazzi da Gianni Rodari , utilizzando la forma del romanzo breve. L’intera narrazione si dipana attorno al rocambolesco tentativo, messo in atto dal barone Lamberto, insieme al fido maggiordomo Anselmo, di evitare un ormai inevitabile trapasso a miglior vita. L’isola di San Giulio, il Lago d’Orta e i suoi dintorni diventano protagonisti, insieme al barone e ai vari personaggi, del racconto rodariano. Il vecchio e ricchissimo novantaquattrenne barone Lamberto vive in una villa sull’isola di San Giulio con il maggiordomo Anselmo e sei persone il cui impiego  consiste nel ripetere  sempre , a turno, lungo le ventiquattr’ore, il nome del barone in un microfono: Delfina, Armando, il signor Giacomini, la signora Zanzi, il signor Bergamini e la signora Merlo.

Queste sei persone, per ogni “Lamberto” pronunciato vengono profumatamente pagate poiché  questo è il segreto che tiene in vita il barone, e Lamberto ha iniziato a metterlo in pratica dopo aver sentito una profezia a riguardo (colui il cui nome è sempre pronunciato resta in vita) da un arabo durante un viaggio in Egitto. Così, mentre le voci dei sei si diffondono nel palazzo del barone attraverso un sistema di piccoli altoparlanti posizionati ovunque, il nobiluomo ringiovanisce ogni giorno sempre di più, nonostante le 24 malattie di cui soffre ( che il fido Anselmo  ha scritto in ordine alfabetico nel suo taccuino). Ma un giorno l’isola di San Giulio viene occupata da una banda di malfattori che  sequestrano il barone, chiedendo ai direttori delle ventiquattro banche che possiede forti somme di denaro in cambio della sua libertà.  La storia va letta e non raccontata: solo così si scopriranno i progetti del nipote del barone, Ottavio, e come finirà  l’intera vicenda. Le storie di Rodari offrono divertimento e una girandola di situazioni e personaggi esilaranti: un modo di comprendere questo nostro mondo. E, come ha fatto spesso, anche in questo caso lascia che il finale sia deciso dal lettore. L’idea del racconto venne spiegata  così dallo stesso autore : “…il  barone Lamberto è nato diversi anni fa, in un appunto a margine di un libro sulla religione dell’Antico Egitto”, In quel libro avevo trovato un versetto che mi aveva colpito: “L’uomo il cui nome è detto resta in vita”. Lì per lì sembrava solo una poetica immagine dei rapporti tra vivi e defunti: questi, in qualche modo, continuano a vivere fin che si parla di loro, fin che il loro nome e la loro memoria tornano nei discorsi dei loro cari. Io però ho preso il versetto alla lettera come si vedrà. Così è nato il libro. Di più non posso dire, altrimenti toglierei ogni sorpresa al racconto”. Gianni Rodari confessò di aver scritto questa storia “ dopo averla raccontata a voce decine e decine di volte ad altrettante scolaresche, delle elementari e delle medie, da un capo all’altro della penisola. Ogni volta ricevevo critiche, suggerimenti, proposte. Ogni volta arricchivo la storia di nuovi episodi, vi scoprivo nuovi significati…Dovendo preparare un’edizione per le scuole medie ho subito rinunciato ad aggiungere, pagina per pagina, note esplicative, chiarimenti di parole, informazioni sui luoghi e simili. Non mi sembravano indispensabili: per i luoghi, basterà dare un’occhiata alla carta geografica del Piemonte, per le parole, basterà un vocabolario, e il piacere di sfogliarlo”. Così venne alla luce “C’era due volte il Barone Lamberto” che , tradotto in moltissime lingue, con la sua intelligente leggerezza, resta uno degli omaggi più belli alla terra  dove lo scrittore nacque il 23 ottobre del 1920.

Marco Travaglini