Si conclude a Torino, in un’antologica presentata a Palazzo Madama, il poliedrico “viaggio artistico” dell’artista borgognone
Dal 7 ottobre al 9 gennaio 2022
“Il Rinascimento europeo di Antoine de Lonhy”, atto secondo. Mentre prosegue, infatti, fino al prossimo 7 novembre, al “Museo Diocesano” di Susa la prima tappa piemontese della mostra dedicata a de Lonhy (e curata da Vittorio Natale), il testimone passa ora a Torino, dove nella “Sala Senato” di Palazzo Madama e sotto lo stesso titolo sono raccolte (fino al 9 gennaio del 2022) 35 opere dell’artista di Borgogna, arrivate da prestigiosi prestiti nazionali ed internazionali, pubblici e privati, alcune mai esposte al pubblico. Curata da Simone Baiocco e Simonetta Castronovo, anche la rassegna torinese (sponsorizzata da “Reale Mutua”) si inserisce nel progetto nato nell’ambito del “Réseau européen des musées d’art médiéval”, una rete di musei europei fondata nel 2011 da Élisabeth Taburet-Delahaye, già direttrice del “Musée de Cluny – Musée National du Moyen Âge” di Parigi, per promuovere iniziative espositive comuni, ricerche condivise, convegni e conferenze sul proprio patrimonio artistico. Obiettivo della mostra subalpina, quello di “ricomporre” la visione artistica estremamente poliedrica di Antoine de Lonhy – pittore, ma anche miniatore, maestro vetraio, scultore e autore di disegni per ricami – che ebbe un impatto straordinario per il rinnovamento del panorama figurativo di quello che è oggi il territorio piemontese, nella seconda metà del Quattrocento. Originario di Autun, in Borgogna, e formatosi alla scuola della pittura fiamminga, fra i vari Jan van Eych ed i Rogier van der Weyden, l’artista visse e lavorò in tre Paesi diversi, intrecciando il “fare” dell’originaria cultura nordica a quella mediterranea e savoiarda, divenendo “portatore – dicono i curatori della rassegna – di una concezione europea del Rinascimento, caratterizzato dalla capacità di sintesi di diversi linguaggi figurativi”.
Tenendosi sempre ben lontano dagli orpelli e dagli eccessi decorativi di quel “gotico internazionale” che allora andava per la maggiore. Artista eclettico, dalla carriera itinerante, lo si trova dapprima a Tolosa, in Francia meridionale, dove realizzò almeno un ciclo di affreschi e decorò diversi codici liturgici e statuti cittadini; in seguito é a Barcellona, in Catalogna, dove ancora sopravvive uno dei suoi capolavori, la grande vetrata per la “Chiesa di Santa Maria del Mar”; infine nel ducato di Savoia, dove si spense, probabilmente, prima della fine del secolo. Il trasferimento di Lonhy dalla Spagna ad Avigliana – dove è documentato dal 1462 – si deve a diversi fattori, “come la presenza in questo centro di un castello dei duchi di Savoia e la vicinanza con le prestigiose Abbazie di Novalesa e Ranverso, poste sulla Via Francigena, una delle principali arterie di comunicazione già dal Medioevo, da cui passavano cavalieri, ecclesiastici e mercanti di mezza Europa, e quindi un luogo promettente per un artista alla ricerca di nuovi incarichi”.
L’esposizione torinese inizia raccontando la “scoperta” di Antoine de Lonhy: come spesso avviene nel campo della storia dell’arte, la sua vera identità è stata messa in luce infatti solo in anni relativamente recenti, grazie a lavori di ricerca condotti in parallelo da vari studiosi. In precedenza de Lonhy era indicato con diversi nomi convenzionali: dal “Maestro delle Ore di Saluzzo”, da un manoscritto miniato oggi conservato alla “British Library” di Londra (presente in mostra), al “Maestro della Trinità di Torino”, da uno dei suoi principali dipinti custodito proprio a “Palazzo Madama”. Suggestivo l’itinerario artistico europeo documentato in mostra, ma ancor di più la sezione (la più estesa) rivolta agli anni della sua permanenza nel Ducato di Savoia. Il fascino dei dipinti raccolti in questa occasione aveva conquistato già in passato alcuni collezionisti privati, le cui storie sono sempre affascinanti, pur rimanendo nel “dietro le quinte”. Emblematico il caso del senatore Leone Fontana, che nell’Ottocento aveva acquistato la già citata “Trinità”, inserendola nella sua ricchissima raccolta di opere piemontesi, donata in seguito al Museo di Torino. Da segnalare anche la “Dormitio Virginis”, quattro tavole disperse fra Aversa, Parigi e Torino (in deposito presso Palazzo Madama) e la “Presentazione di Gesù al Tempio” del 1490. Forse la sua ultima opera.
Gianni Milani
“Il Rinascimento europeo di Antoine de Lonhy”
Palazzo Madama – Sala Senato, piazza Castello, Torino; tel.011/4433501 o www.palazzomadamatorino.it
Fino al 9 gennaio 2022
Orari: lun. merc. ven. sab. e dom. 10/18, giov. 13/21. Chiuso il martedì.
Nelle foto
– “Libro d’Ore secondo l’uso liturgico di Chalon-sur-Saone”, tempera ed oro su pergamena, 1446-’49 ca.
– “Trinità e angelo piangente”, dipinto su tavola trasportato su tela, 1465-’70 ca.
La sua non è mai “matita velenosa” all’eccesso, mai “corrosiva e blasfema” come quella di altri suoi colleghi. Le sue vignette coltivano sempre l’accortezza di non spingere, oltre i limiti, la marcia della satira. Non cercano ridanciani consensi, ma riflessioni a fior di pelle. Che allertano e fan sorridere senza agitare o incupire. A Gianni Chiostri, credo calzino alla perfezione le parole di un altro grande della satira, Giorgio Forattini, il primo ad essere quotidianamente pubblicato negli anni Ottanta, in prima pagina su un quotidiano a diffusione nazionale e che ricorda: “La satira è una grande dimostrazione, la più alta espressione, di libertà e democrazia”. In questa cornice etica e professionale vedo bene collocarsi i lavori di Chiostri, caratterizzati dalla sciolta maestria segnica del grande grafico e dall’innocente poesia dell’eterno fanciullo. A lui e ai disegni originali delle
sue vignette dedica, fino al 9 ottobre, un’interessante e ricca antologia, con presentazione di Francesco De Caria, il “Collegio San Giuseppe”, nella sala espositiva di via San Francesco da Paola 23, a Torino. Torinese, classe ’47, Gianni Chiostri “accompagna i lettori” de “La Stampa” da quasi quarant’anni (oggi nella pagina degli editoriali), ma collabora anche con altri importanti quotidiani nazionali, come “Avvenire”, “Il Giornale”, “Il Sole 24 Ore”, oltre che con periodici e case editrici varie e con la RAI (suoi i siparietti poetico-satirici di “Robinson & Venerdì” per Rai3). Portano la sua firma anche piacevoli libri disegnati, editi da “Ancora” fra cui “Ingannare il tempo” (2002), “Scherzi d’amore”(2003), “Perbacco!” (2004) e “L’altra metà del sorriso” (2005, realizzato quale omaggio alla donna). Vignette sempre senza parole. “Dentro non ci ho mai messo – racconta Chiostri in una recente intervista – né didascalie, né dialoghi. Però le vignette sono, a tutti gli effetti brevi storie complete, in cui gli elementi nascono sulla sinistra e si concludono sulla destra. Se venisse un aborigeno dell’Australia che non conosce una parola d’italiano, ma ha un minimo senso dell’umorismo, potrebbe godersele comunque senza problemi”. E aggiunge a ragione: “In questi tempi depressi e depressivi mi pare tanto”. Ricca, si diceva, e ben esaustiva nella proposizione delle varie tecniche – dalle prime matite, ai disegni su cartapaglia fino alle creazioni tridimensionali in cartoncino o fili metallici in cui ritagliare sagome umane – la selezione dei lavori esposti. A legare il tutto: la voglia di un sorriso. Di un vedere e di un rivedersi all’interno di un siparietto in cui tutti ci scopriamo un po’ attori perfetti, e ben rappresentati, della grande commedia o tragicommedia umana o delle bizzarrie e delle fissazioni e fisime del vivere quotidiano. Ecco allora, in mostra, l’automobile ( con tanto di bellicoso conducente) la cui sagoma ricorda una pistola puntata sullo sventurato automobilista-antagonista o il computer, una sorta di belva che si mangia il cervello dell’utente o la riflessione sulla volontà di “affermazione” a tutti i costi, “che ha ridotto – scrive De Caria – il cervello dell’individuo a camera oscura che semplicemente registra quanto l’occhio vede, che ha fatto dell’individuo un rivale o un nemico di sè stesso, talché egli giunge a duellare con la propria immagine allo specchio”. Ma, “come per gli artisti
autentici, l’umorismo di Chiostri è mosso essenzialmente da un concetto alto dell’esistenza e dell’Uomo, che solo certe situazioni fanno scadere in atteggiamenti goffi e risibili…Sta alla cultura autentica, e in particolare alla satira, smascherare gli inganni: e le penne e le matite del disegnatore umoristico diventano frecce”. Sorrisi. Ma anche momenti di malinconica e sospesa compartecipazione emotiva. Solitudini, amori negati. E la matita, allora, trasforma squarci di mondo in immagini di sottile, coinvolgente poesia.